VARIANTI
Andrea Colasio
VENTO DEL NORDEST Storia e storie del Partito Democratico
ILPOLIGRAFO
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Andrea Colasio
VENTO DEL NORDEST Storia e storie del Partito democratico
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© Copyright marzo 13 Il Poligrafo casa editrice srl Padova piazza Eremitani - via Cassan, tel. - fax e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978---815-0
INDICE
9
Prefazione
I. La “morte” della DC veneta e l’Ulivo
17
La cosa bianca: il Partito popolare veneto
64 I Comitati Prodi e il Partito dell’Ulivo 81 L’Ulivo a Nord-Est 85 I militanti dell’Ulivo: un profilo sociologico 90 Gli eletti dell’Ulivo nel 1996
II. Il partito federale dei veneti
99 Il Movimento dei sindaci del Nord-Est 123 Il Movimento del Nordest e il Partito catalano 156 I Democratici: epifania di un Asinello 165
Gli iscritti: le gambe dell’Asinello
169 I militanti dell’Asinello: un profilo sociologico 186
La lista “Cacciari-Insieme per il Veneto”
III. Le metamorfosi dell’identità: PCI/PDS/DS
199 Il “partito nuovo” in Veneto: l’URSS e il partito bolscevico 233
La “svolta” di Occhetto: dall’implosione dell’URSS all’Ulivo
263
Dal Forum della Sinistra alla genesi dei DS
275 I militanti: i delegati ai Congressi provinciali (1981-1997) 280 Identità di genere e generazioni politiche 289
Capitale culturale e informazione: dall’Unità al quotidiano locale
293
«I Padri rossi traditori»: partito e universo cattolico
308 I percorsi di socializzazione politica: tra FGCI e Movimenti collettivi 317 Il Paese ideale: l’URSS e il comunismo
326 Famiglie operaie e mobilità sociale 335
L’identità difficile: le ragioni della militanza, tra organizzazione e società locale
344 Tra identità organizzativa e Ulivo 348
Dalla «classe» alla «comunità locale»: le identità territoriali
355
Da “Uniti nell’Ulivo” allo scioglimento dei DS
IV. La margherita: tra roma e nordest
379
Le elezioni del 13 maggio 2001: la “scoperta” della Margherita
388 Tra Margherita e Ulivo: un’identità ambivalente 404
La costruzione della Margherita veneta
408
Dal partito-non partito al partito del leader
418 Il “gruppo Artemide”: il fallimento dell’assemblea parlamentare dell’Ulivo 425
La Margherita: una duplice natura identitaria
432 Tra Partito federale del Veneto e “Uniti nell’Ulivo” 440 I militanti della Margherita in Veneto 442
Sesso, età e formazione scolastica
443
Le famiglie d’origine
445
Un partito di cattolici impegnati
448 I percorsi professionali: la centralità del pubblico impiego 449 I percorsi della militanza: tra partiti, movimenti e società 453
Le ragioni della militanza: tra Margherita e Ulivo
455 Il pantheon della tradizione: da De Gasperi a Berlinguer 458
L’informazione politica: i TG di Mediaset non si guardano
459 Il Paese modello e l’identità territoriale: tra Italia ed Europa 462 Modelli di federalismo e priorità dell’agenda politica 464 Resistenza e Fascismo: la memoria divisa 467 Tra identità organizzativa e Ulivo 486 Il ritorno del partito di correnti 492
Epilogo: la deflagrazione della Margherita
V. il partito democratico: tra centro e periferie
501
Una fase genetica controversa
508 Il convegno di Orvieto: ancora le primarie 523 Tra premiership e leadership: Prodi, l’hapax legomenon 535 Le nuove dinamiche organizzative: dall’iscritto all’elettore alle primarie
542 I militanti: tra antiche appartenenze e neo-costituenti 544
Un partito dei centri urbani, dei laureati e delle donne
546
La famiglia d’origine: scolarizzazione e socializzazione politica
548
L’universo religioso: il politeismo dei valori
551 I percorsi di militanza e il pantheon della tradizione 555
La retribuzione del militantismo: un’identità plurale
558 Famiglie politiche e forma-partito: dal partito di iscritti al partito degli “elettori” 563
Con il “cuore” a sinistra e la “ragione” al centro
567 Tra città ed Europa: le appartenenze plurime ed il federalismo 571
Le elezioni del 2008: la colonizzazione delle periferie
574
Le elezioni europee del 2009: un territorio senza leader
577 Tra primarie nazionali e leader regionale 583
Le elezioni regionali del 2010: la débâcle
599
Le primarie competitive: da Pisapia a Renzi, il rottamatore
610
La grande utopia: il Partito democratico del Nord
PREFAZIONE
Come noto, il PD è nato dalla convergenza di una molteplicità di soggetti politici e il parto è stato molto lungo, difficile e contrastato. Nel volume ho tentato di ricostruire i vari percorsi che, a partire dalla nascita – nel 1995 – dell’Ulivo, hanno scandito le tappe di questo lungo itinerario. Le dimensioni analitiche attorno alle quali ho realizzato l’impianto del lavoro sono state prevalentemente due: da un lato ho focalizzato il nodo dei rapporti centro-periferia, dall’altro quello della costruzione di una cultura politica e di un’organizzazione “democratica”. Naturalmente, gli interrogativi posti mi hanno obbligato a confrontarmi con una prospettiva storica, la sola che fosse in grado di fornire un quadro esauriente dei “materiali” simbolici e organizzativi con i quali si è potuta attuare la costruzione della nuova formazione politica. Il PD nasceva infatti, anche, dalla “fusione” di culture politiche diverse, veicolate da modelli che, in parte, affondavano le loro radici nei due vecchi “partiti di massa”: la DC e il PCI. Non è casuale che parte della militanza e dei gruppi dirigenti del nuovo partito fosse stata “socializzata” alla politica all’interno di quella vicenda. Ho ripercorso così le tappe più significative di quella grande trasformazione che, con il crollo del Muro di Berlino e con la crisi della DC generata da Tangentopoli, ha portato i due vecchi partiti a mutare radicalmente la loro identità e i loro profili organizzativi. Accanto a questa vicenda ho ricostruito però anche l’altra storia parallela, quella dell’Ulivo e delle formazioni politiche che si sono generate dalla sua crisi: emblematica e fondamentale la vicenda dell’Asinello e poi quella della Margherita. Nello svilupparsi della narrazione lo scenario nazionale e quello “locale” si intrecciano strettamente. Quanto accadeva in Veneto non era però una mera declinazione territoriale di un processo di mutamento scandito dal centro. Nel gioco centro-periferia, la realtà del Nord-Est ha svolto un ruolo di primo piano, condizionando significativamente le stesse strategie degli attori centrali. In quest’ottica, ho ripercorso la vicenda del Movimento dei sindaci, del Movimento del Nordest, di “Insieme per il Veneto”, in definitiva dei vari tentativi di creare il “mitico” Partito federale dei veneti. Un tentativo che ha attraversato la storia degli ultimi vent’anni e i cui esiti sono più segnati da ombre che da luci.
prefazione
Nel mettere assieme i materiali che mi hanno permesso di costruire l’edificio mi sono tornate utili molte mie vecchie ricerche, in gran parte inedite, i cui dati ho rielaborato in funzione del nuovo interesse analitico. A partire dai miei lavori di trent’anni fa sul PCI veneto, proseguiti poi nel corso degli anni Novanta con l’analisi dei suoi eredi: PDS e DS. Nei miei vecchi questionari, somministrati per anni a dirigenti e militanti, ho trovato infatti materiali utilissimi per comprendere gli aspetti legati agli incentivi simbolici alla militanza e al loro mutamento, se non alla loro dissoluzione. Il primo, quasi archeologico, questionario, lo “tirai” – nel 1981 – personalmente a ciclostile “automatico”, per poi procedere alla “graffettatura” che realizzai tutta manualmente. L’assenso per la realizzazione lo avevo “estorto” all’allora segretario regionale del PCI veneto, Iginio Ariemma. Il caso volle che Ariemma, futuro coordinatore del Programma dell’Ulivo nel 2001, avesse reminiscenze sociologiche e diede il via all’operazione. E qui devo ringraziare Flavio Zanonato, oggi sindaco di Padova, allora giovane dirigente del partito, che convinse i vari responsabili organizzativi a distribuire il questionario. Nel 1986, poiché i dati del primo questionario cominciavano ad “invecchiare”, decisi, nell’occasione del XVII Congresso nazionale del PCI, di somministrarne un secondo. In buona parte identico al primo, ma con delle piccole varianti e alcune necessarie correzioni. Come “contropartita” negoziai con Bepi Scaboro, allora responsabile organizzativo del PCI veneto, la realizzazione per il Congresso regionale di due volumetti, l’uno sulla storia organizzativa, l’altro sul profilo sociologico dei militanti. Non ci guadagnavo una lira, ma facevo procedere la ricerca. Il terzo questionario fu realizzato nel 1990, sempre grazie a Scaboro e a Maurizio Cecconi; accanto alla ripetizione di tutta una serie di domande, identiche a quelle dei due sondaggi precedenti, ne vennero inserite, su indicazione di Ilvo Diamanti, alcune legate alla dimensione territoriale. Considerato poi che si trattava del Congresso della “svolta”, introdussi alcune domande sul “comunismo” e sul valore che i militanti vi attribuivano. Quando nel 1997, con la “Cosa 2”, cominciò a delinearsi un’ulteriore fase di “transizione”, realizzai, grazie alla collaborazione di due dirigenti del PDS, Gianni Gallo e Mauro Bortoli, un quarto questionario. Nel 1999, quando sorsero i Democratici di Parisi, colsi l’occasione del loro primo ed unico Congresso regionale per somministrare ai delegati, d’intesa con l’allora “commissario” del partito, Antonio La Forgia, lo stesso questionario, ovviamente riadattato alle esigenze del caso. Nel 2004, poi, in occasione del terzo Congresso regionale della Margherita, ottenuto l’assenso del coordinatore regionale, Diego Bottacin, distribuii il questionario in modo capillare nei sette congressi provinciali. Nel 2007, grazie alla collaborazione dell’allora segretario del partito in Veneto, Paolo Giaretta, predisposi un questionario per i delegati al primo Congresso regionale del PD. Nel 2008, a distanza di ventisette anni dal primo questionario, mentre analizzavo i profili sociologici dei militanti del Partito democratico in Veneto, mi accorsi
prefazione
che le vicende del nuovo partito avevano moltissimi legami con le precedenti coorti di militanti e che in quei vecchi questionari si nascondeva un patrimonio informativo incredibile. Decisi così di integrare l’analisi sociologica della militanza con la ricostruzione storica delle varie formazioni politiche che poi sarebbero arrivate al PD. Il Partito democratico di cui analizzavo il profilo identitario si presentava così come un grande lago, all’interno del quale i diversi affluenti erano a loro volta il risultato di una lunga storia, fatta di divisioni e di aggregazioni fra diversi soggetti politici. Ne è emersa un’analisi che poggia su un arco diacronico lungo e che aiuta a leggere gli aspetti di mutamento e di continuità che hanno presieduto alla genesi del PD veneto e nazionale. Per quanto riguarda le altri fonti, ho utilizzato i materiali che ho reperito in tanti anni di scavo in vari archivi. Le mie ricerche più antiche mi hanno portato a lavorare in tutti gli archivi provinciali e in quello regionale del PCI veneto, ora, almeno in parte, ricollocati all’interno dell’Archivio del Centro Studi Ettore Luccini. Molti materiali utilizzati nella ricostruzione della fase genetica del PCI, sono stati reperiti nell’Archivio centrale del partito, collocato presso l’Istituto “Gramsci” di Roma. Nel 2000, poi, casualmente, mentre cercavo nella sede dell’Asinello di Bologna i questionari che avevo predisposto per il Congresso regionale dell’Emilia-Romagna, purtroppo perduti, mi imbattei nella documentazione prodotta dai Comitati per Prodi. Materiale inedito di cui mi sono avvalso per la parte relativa alla genesi dell’Ulivo. Nel 2008, in una stanza degli uffici di Piazza De Gasperi, a Padova, un tempo sede della DC veneta, trovai tutto l’incartamento relativo alla vicenda del Partito popolare veneto. Si trattava di altro materiale inedito, utilissimo per ricostruire la vicenda del Partito federale veneto. Per la vicenda del Movimento del Nordest, dell’Asinello, di “Insieme per il Veneto” e della Margherita, mi sono avvalso di materiali in parte editi, in parte recuperati grazie alla collaborazione di dirigenti e militanti dei vari movimenti. Le persone da ringraziare sono moltissime: ho già provveduto a farlo per quanto concerne i dirigenti che mi hanno permesso di somministrare i vari questionari. Un pensiero va ancora rivolto a Gianni Pellicani, l’esponente politico scomparso qualche anno fa, che mi autorizzò – nel 1984 – ad entrare in tutti gli archivi del PCI veneto. Per le elaborazioni dei questionari non posso non ringraziare Giampiero Della Zuanna. Quando seguì il primo questionario, nel 1981, era un giovane obiettore di coscienza che lavorava al CED di Scienze politiche di Padova, ed elaborammo gli ultimi nel momento in cui era diventato il preside della Facoltà di Statistica dell’Ateneo patavino. Molti suoi giovani collaboratori mi hanno aiutato nelle fasi successive della ricerca, realizzando il data entry e le elaborazioni statistiche: Elisa Fiasco, Lucia Zambon e Giulia Marini. Un ringraziamento particolare va a Marzia Vitti che curò il data entry del questionario del PCI nel 1986 ma che, soprattutto, mise a mia disposizione i dati,
prefazione
inediti, di una sua ricerca sui militanti dei direttivi delle sezioni del PCI padovano realizzata nel 1979. Il primo piano di codifica dei questionari lo realizzai, nel 1981, con Lorenzo Bernardi, cui va la mia gratitudine. Un ringraziamento ancora ai miei vecchi compagni di ricerca a Parigi: Bruno Groppo, Marc Lazar, che tradusse i miei primi lavori, ma soprattutto Stéphane Courtois, cui devo molto in termini teorici. Un doveroso ringraziamento devo, poi, a Matteo Villa, che ha curato la realizzazione dei questionari della Margherita, nel 2004, e del PD, nel 2007. Da ultimo un grazie a tutte le migliaia di militanti che con pazienza e comprensione hanno compilato negli anni i miei questionari. Ne voglio ricordare uno in particolare, Domenico Banchieri di Belluno. Nel 1981, nel restituire il questionario, vi aggiunse diverse annotazioni a penna e precisò: «Avrei capito di più la richiesta di una breve autobiografia». Cosa che fece utilizzando le parti libere del questionario. Banchieri era nato nel 1920 ed era rientrato in Italia da Parigi, nel 1941, per proseguire l’attività antifascista nell’Esercito. Fu partigiano e venne decorato con la croce al merito di guerra. Mi scriveva: «Ho compilato il questionario. Non capisco però come e a cosa potranno servire molte delle voci ivi contenute». Si trattava di strumenti della ricerca empirica, lontani dall’universo di riferimento della sua generazione politica. Ma era non meno interessante la sua considerazione finale: «Il pericolo che comporta un questionario così schematico è che chi deve poi fare le considerazioni sulle risposte faccia il “processo alle intenzioni” del delegato iscritto». Insomma, il questionario, per Banchieri, evocava il rito comunista dell’autobiografia politica, con tutte le sue profonde e a volte drammatiche implicazioni. A distanza di oltre trent’anni, mi fa piacere ricordare questi aspetti della ricerca e “rassicurare” tutti coloro che hanno compilato i questionari sul loro, mi auguro, buon uso. Un doveroso ringraziamento va a Mario Isnenghi che, ancora agli inizi degli anni Ottanta, lesse e volle pubblicare su riviste da lui dirette i miei primi lavori di ricerca. Così come ad Angelo Ventura, a Francesco Selmin e al compianto Paolo Sambin che mi sollecitarono, nonostante tutto, a continuare su alcuni miei percorsi di ricerca. Alcuni frammenti di questo lavoro sono desunti dalla tesi di dottorato che avrei dovuto discutere, nel lontano 1988, con Georges Lavau, mio direttore di ricerca all’Istituto di Studi Politici di Parigi. Il lavoro, anche a causa della sua morte, restò incompiuto. Ho fatto, tuttavia, tesoro delle molte discussioni avute nel suo studio: un doveroso atto di omaggio a un vero maestro. In qualità di “osservatore partecipante” ho attraversato alcune fasi della vicenda che ho ricostruito, ma ho cercato di ridurre al minimo e tenere sotto controllo le eventuali distorsioni prospettiche che da questo potevano conseguire. Tra i tanti militanti, dirigenti di partito e studiosi che ho intervistato o delle cui competenze mi sono avvalso voglio ringraziarne alcuni: Renzo Camporese, Fabio Camporese, Egidio Muffato, Antonio e Diana Callegari, Paolo e Licia Massa, Valerio Pegoraro, Mauro Rigon, Giampietro Bordignon, Gigi Soffiato, Renato
prefazione
Boesso, Marina Bastianello, Franco Busetto, Giovanni Tonella, Stefano Allievi, Franca Bimbi. Un doveroso ringraziamento va anche a quelli che non potranno vedere come ho utilizzato i loro racconti: Bruno De Toni, Paolo Pannocchia, Giovanni Nalesso, Cesare Milani, Emilio Rosini, Italo Pari, Wilson Duse, Ada e Lorenzo Foco, Leone Turra e “Baeta”, Alessandro Baro, operaio alla Modin di Ponte di Brenta licenziato perché, vivendo nel “mito”, issò la sua bandiera rossa sulla ciminiera della sua fabbrica. Un ultimo ricordo va a Dino Fiorot, preside della Facoltà di Scienze politiche negli anni Ottanta, morto recentemente. Fu lui ad affidarmi, poco più che ventenne, i primi corsi universitari e a permettermi di ottenere le diverse borse di studio con cui, da giovane ricercatore, viaggiai in Europa affinando la mia formazione.
vento del nordest
Elenco delle abbreviazioni ALFCID ALFCM ALFCMNE ALFCMS ALFCMV ALFCCP ALFCPD ALFCU ALFCPCIV ALFCPPV APCI
Archivio Ettore Luccini, Fondo Colasio, Cartella “I Democratici” Archivio Ettore Luccini, Fondo Colasio, Cartella Margherita Archivio Ettore Luccini, Fondo Colasio, Cartella Movimento Nordest Archivio Ettore Luccini, Fondo Colasio, Cartella Movimento dei sindaci Archivio Ettore Luccini, Fondo Colasio, Cartella Margherita Veneto Archivio Ettore Luccini, Fondo Colasio, Cartella Comitati Prodi Archivio Ettore Luccini, Fondo Colasio, Cartella Partito democratico Archivio Ettore Luccini, Fondo Colasio, Cartella Ulivo Archivio Ettore Luccini, Fondo Colasio, Cartella PCI Veneto Archivio Ettore Luccini, Fondo Colasio, Cartella Partito popolare veneto Archivio del Partito Comunista, Fondazione Istituto Gramsci
I LA “MORTE” DELLA DC VENETA E L’ULIVO
La cosa bianca: il Partito popolare veneto Tra il 10 e l’11 luglio 1993 si teneva ad Abano, presso l’Hotel Alexander, il Congresso costituente del Partito popolare veneto. Alla presidenza del Congresso, a voler sottolineare, anche simbolicamente, le scelte organizzative e culturali che l’Assemblea si accingeva a ratificare, veniva chiamata una leader storica, l’ex partigiana Tina Anselmi. Nella Relazione introduttiva di Rosy Bindi, con grande chiarezza, venivano rimarcati gli elementi strategici che avrebbero dovuto connotare la nuova forma-partito che lì era in gestazione. L’incipit non lasciava dubbi rispetto al destino della Balena Bianca, il vecchio partito democristiano veneto che tanta parte aveva avuto – non solo su scala locale – nella storia italiana, con i vari Rumor, Gui, Bisaglia, per poi implodere con Cremonese e Bernini sotto le macerie di Tangentopoli. La Costituente è per una nuova formazione politica e non per rinnovare la DC; siamo qui, democristiani, esponenti del mondo cattolico, rappresentanti della cultura, della produzione, del volontariato, del mondo del lavoro, per stringere un nuovo patto politico che garantisca al Paese la presenza di una grande forza politica, democratica e popolare. [...] Non siamo qui insomma – ribadiva Rosy Bindi – a fare la Rifondazione Democristiana ma a costituire una nuova formazione politica.
Erano trascorsi solo quindici mesi dalle elezioni «critiche» dell’aprile 1992. Quelle che sarebbero state, per il partito dello scudo crociato, le ultime elezioni della sua storia. Il risultato di quelle elezioni aveva registrato come un sismografo i profondi movimenti tellurici che avevano scosso le fondamenta della società veneta. In quella tornata elettorale la DC veneta raccolse 1.018.522 voti, pari al 31,5% Cfr. la relazione di R. BINDI in Atti del Congresso di Abano. Assemblea Costituente Veneta, 10-11 luglio 1993. Per una nuova formazione politica democratica e popolare, p. 8, Archivio E. Luccini, Fondo Colasio, Cartella Partito popolare veneto (d’ora in poi ALFCPPV). Sul concetto di elezioni critiche si rinvia a V.O. KEY, Theory of Critical Elections, «Journal of Politics», 1958, pp. 3-18.
capitolo primo
dei suffragi. Un vero e proprio tracollo: cinque anni prima, alle politiche del 1987 i voti raccolti erano stati 1.358.833, pari al 43,5%. In un breve arco temporale il partito aveva perso 340.311 voti, pari a dodici punti percentuali. Si trattava del 25% del suo elettorato: ogni quattro elettori, in definitiva, uno non aveva confermato il suo voto alla DC locale. La DC veneta perdeva così il suo primato nazionale che aveva portato politologi e opinionisti politici ad assumerla come l’ideal-tipo della “zona bianca”. Rispetto alla media nazionale la DC veneta aveva infatti sempre conseguito dei risultati superiori almeno del 10%, con uno scarto massimo del 14% nel 1946 e uno minimo del 9% nel 1987. Il differenziale, ora, si riduceva drasticamente ed era inferiore a due soli punti percentuali. Il primato passava così a diverse regioni del Sud, il cui trend positivo denotava il processo di meridionalizzazione del partito in corso. Il voto in uscita non si orientava certo verso l’antagonista storico della DC veneta: il PDS veneto, erede del vecchio PCI, conseguiva infatti un risultato del tutto residuale, pari al 9,9%, che determinava, a sinistra, il primato del PSI, con il 10,6%. Ma la morte del vecchio PCI con la sua contrastata e difficile transizione alla “Cosa”, un processo da poco concluso con la genesi del PDS, non era certo un elemento marginale che si muoveva sullo sfondo. Il crollo dei regimi dell’Est e l’implosione dell’URSS avevano infatti mutato radicalmente le condizioni di gioco, lo scenario competitivo all’interno del sistema politico. A ragione si era sottolineato che la configurazione della DC veneta quale partito dominante nello scenario locale non era solo il portato della storia, ovvero della «riemergenza», dopo il secondo periodo post-bellico, della sub-cultura cattolica e del suo universo associativo, ma che tale supremazia locale poggiava su un vero e proprio processo di «fondazione», la cui logica d’azione era data dalla mobilitazione del mondo cattolico contro la «minaccia» comunista. La contrapposizione elettorale, in particolare nel contesto territoriale veneto, aveva assunto infatti la forma di un vero e proprio scontro tra sistemi di valori contrapposti, antagonisti, irriducibili. La formula «Con Cristo o contro Cristo» si venne infatti a declinare in Veneto con particolare pregnanza e motivò la determinazione operativa dei Comitati civici, dell’Azione cattolica, delle parrocchie, dei militanti del partito che sollecitavano a «votare per la croce di Cristo». Cfr. D.A. WERTMAN, L’ultimo anno di vita della Democrazia cristiana, in C. MERSHON, G. PASQUINO (a cura di), Politica in Italia, Il Mulino, Bologna 1994, p. 124. Sulla meridionalizzazione del partito si sofferma anche A. GIOVAGNOLI, Il Partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 230, che rileva come nelle elezioni amministrative del 1985 «si ebbe una diminuzione dei consensi nel Veneto, regione bianca e tradizionale serbatoio di voti per la DC mentre il consenso democristiano crebbe sensibilmente in regioni come l’Abruzzo e il Molise». Cfr. I. DIAMANTI, G. RICCAMBONI, La parabola del voto bianco, Neri Pozza, Vicenza 1992, pp. 12-13. Cfr. M. ISNENGHI, Alle origini del 18 aprile. Miti, riti, mass media, in M. ISNENGHI, S. LANARO (a cura di), La Democrazia cristiana dal fascismo al 18 aprile, Marsilio, Venezia 1978, pp. 277-344; E. NOVELLI, Le elezioni del quarantotto, Donzelli, Roma 2008.
la “morte” della dc veneta e l’ulivo
Il grande successo della DC era del resto lo specchio della sua stretta osmosi e integrazione con ampie aree territoriali, caratterizzate da una struttura sociale e urbana ben specifica; ovvero le aree centrali del Veneto, connotate dalla piccola proprietà contadina e contrassegnate da processi di urbanizzazione diffusa, in definitiva quella campagna dove in seguito si sarebbe diffusa maggiormente la piccola impresa industriale che avrebbe concorso a delineare lo scenario veneto della «campagna urbanizzata». Se alle elezioni per la Costituente del 1946 la DC veneta aveva ottenuto il 49,6% dei voti, nelle fatidiche elezioni del 1948 i suffragi ottenuti crescevano infatti al 60,5%, con uno scarto rispetto al dato medio nazionale di ben dodici punti percentuali. Già nelle elezioni del 1919 il Veneto si era caratterizzato come uno dei principali serbatoi elettorali del Partito popolare di Don Sturzo, ma ora la mobilitazione aveva assunto caratteri inediti. La fase della «fondazione» della DC veneta sarebbe stata contraddistinta da una stretta osmosi con le gerarchie cattoliche: emblematico il profilo della classe politica, così come i criteri sottesi alla sua selezione. Sin dalle prime tornate elettorali si sarebbe infatti assistito a un processo di compenetrazione tra la vecchia classe politica popolare e i nuovi eletti espressione del variegato mondo associativo cattolico. Nella fase della fondazione i vecchi popolari rappresentavano il 58% dell’intero corpo degli eletti, ma a essi si affiancava già un nucleo significativo di parlamentari, il 40%, appartenenti all’Azione Cattolica, alla Fuci, al Movimento laureati: L’intervento della gerarchia ecclesiastica veneta e delle associazioni cattoliche, nella vasta offerta di personale politico, come nella selezione e nel sostegno dei candidati, era stato elettoralmente decisivo, poiché aveva permesso ad un partito nuovo, carente di propri quadri e inizialmente pressoché privo di strutture, di arruolare un personale politico omogeneo e affidabile, e di radicarsi capillarmente nel territorio attraverso i canali privilegiati delle parrocchie, dei patronati, delle associazioni e delle scuole cattoliche.
A ragione si è parlato della DC veneta come del partito dell’identità cattolica. Emblematico il caso di Mariano Rumor, eletto, sin dalla Costituente, dalle ACLI vicentine: «il primo deputato aclista» di una lunga serie. Ma già a partire dalla fine degli anni Sessanta all’interno della società veneta si era assistito a dei molecolari processi di trasformazione che avevano incrinato
Cfr. G. BECCATTINI, Dal settore industriale al distretto industriale. Alcune considerazioni sull’unità di indagine dell’economia industriale, «Rivista di economia e politica industriale», 1, 1979; A. BAGNASCO, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino, Bologna 1977. Cfr. G. DE ROSA, Il Partito popolare italiano, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 28. Cfr. M. FIORAVANZO, Élites e generazioni politiche, Franco Angeli, Milano 2003, p. 98. Cfr. P. ALLUM, Al cuore della Democrazia cristiana: il caso veneto, «Inchiesta», ottobre-dicembre, 1985. Cfr. M. SPAGNOLO, I giorni e le opere. Storia delle Acli vicentine 1945-1972, Stocchiero Editrice, Vicenza 1984.
capitolo primo
quel consolidato equilibrio tra individui, istituzioni sociali e politica, sulla cui «armonia» si era fondata la subcultura cattolica. Il processo di secolarizzazione aveva, infatti, mutato la complessa trama delle relazioni tra Chiesa e società veneta, attraversando, al suo interno, con il Concilio Vaticano II, la medesima struttura ecclesiastica, che si era pluralizzata. Il «fattore religioso» che un tempo tanto aveva plasmato la filigrana bianca della DC veneta, vedeva progressivamente ridursi la sua rilevanza quale elemento regolatore del sistema di scambio tra società, politica e istituzioni locali. La Chiesa perdeva quel ruolo strategico che, per tutta una lunga fase, l’aveva caratterizzata quale vettore fondamentale nella produzione simbolica di un preciso sistema di credenze e valori, di cui era la fonte indiscussa. Così come veniva meno il suo ruolo nell’organizzazione della società locale, cui forniva servizi, opportunità di aggregazione, nonché rappresentanza nei confronti dello Stato. Il decrescere del peso regolativo della Chiesa accompagnava il mutamento nella fisionomia organizzativa e nelle funzioni della DC veneta, che trasformava il suo profilo da partito dell’identità cattolica a partito di mediazione di interessi. È già nel corso degli anni Settanta che in Veneto diventava centrale nel partito la figura dell’imprenditore politico, di cui Bisaglia e il doroteismo furono la massima espressione. La DC veneta si venne sempre più a configurare come il partito degli amministratori, dei manager che svolgevano una precisa funzione di rappresentanza del territorio e del sistema-Veneto nei confronti del centro, dello Stato. Si veniva così a erodere il fondamento religioso della delega politica; scemava la legittimazione diffusa, che aveva poggiato sulla difesa e sulla rappresentanza del mondo cattolico e cresceva invece la domanda di interventi specifici, settoriali. Nei vari ambiti delle politiche pubbliche la domanda politica mutava e assumeva una connotazione più puntuale e specifica.
Cfr. C. TRIGILIA, Le subculture politiche territoriali, Feltrinelli, Milano 1981. Cfr. I. DIAMANTI, La filigrana bianca della continuità. Senso comune, consenso politico, appartenenza religiosa nel Veneto degli anni ’50, «Venetica», 6, 1986, pp. 55-81; per una lettura dell’incidenza del fattore religioso rispetto ai comportamenti di voto nell’area bianca, cfr. anche P. SEGATTI, Religiosità e territorio nel voto alla Democrazia cristiana dal 1948 al 1992, «Polis», 1, 1999, pp. 45-65. Cfr. C. TRIGILIA, Le subculture politiche territoriali, Feltrinelli, Milano 1981; ID., Grandi partiti e piccole imprese, Il Mulino, Bologna 1986. Cfr. G. PANSA, Bisaglia. Una carriera democristiana, SugarCo, Milano 1975; si vedano anche M. CACIAGLI, Il resistibile declino della Democrazia cristiana, in G. PASQUINO (a cura di), Il sistema politico italiano, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 101-127; F. CAZZOLA (a cura di), Anatomia del potere DC. Enti pubblici e “centralità democristiana”, De Donato, Bari 1979; R. ORFEI, L’occupazione del potere. I democristiani 1945-1975, Longanesi, Milano 1976. Cfr. A. BAGNASCO, C. TRIGILIA (a cura di), Società e politica nelle aree di piccola impresa. Il caso Bassano, Arsenale, Venezia 1984; A. COLASIO, Mondo cattolico, nuovo associazionismo e governo locale, in A. ARCULEO, C. BACCETTI, A. COLASIO, Governo locale, associazionismo e politica culturale, a cura di M. CACIAGLI, Liviana, Padova 1986.
la “morte” della dc veneta e l’ulivo
Un processo che secondo Pizzorno aveva agevolato però un sistema di potere caratterizzato dalla dispersione della domanda politica e aveva agevolato «la diffusione del sottogoverno e l’occupazione della società, o colonizzazione dell’economia». Un contesto che aveva favorito «una maggiore capacità del partito di procurare vantaggi ai singoli rappresentati», ma ne aveva precluso la capacità progettuale e di «aggregazione della domanda». Una situazione che il sociologo delineava, con una felice formula, nei termini di «soluzione arcipelago», le cui molte isole altro non erano che il portato della frammentazione correntizia all’interno della DC. Una lettura critica, singolarmente quanto emblematicamente, condivisa all’epoca da Beniamino Andreatta, che in un volume sul rapporto tra politica e economia, edito agli inizi degli anni Settanta, nel delineare il ruolo dei partiti rispetto al potere di nomina negli organismi di direzione delle imprese, rimarcava la mancanza di quelle capacità di orientamento e coordinamento strategico che legittimavano tale potere di nomina: «senza queste giustificazioni – precisava – la funzione direttiva della politica si trasforma in una mera occupazione da parte di rentiers politici della società civile». Ne conseguiva un forte mutamento di scenario. La frattura “religiosa”, fra Stato e Chiesa era stata, infatti, per tutta una lunga fase, la più rilevante ed era stata in grado di inglobare le altre linee di frattura: da quella tra centro e periferia a quella tra città e campagna, relegando ai margini quella di “classe” tra capitale e lavoro. Ora, nel mutato contesto, le «fratture tradizionali» non si dimostravano più efficaci nell’inglobare le vecchie e le nuove domande politiche che attraversavano la società locale. La frammentazione e la dispersione della domanda politica si traducevano in consenso a soggetti monotematici, i verdi, e soprattutto nel voto alla Lega e alle altre formazioni autonomiste. Venuta meno la “minaccia” rappresentata dal mondo comunista, la linea di frattura territoriale tra centro e periferia veniva ad assumere una centralità crescente e potrà configurarsi con un suo fondamento specifico e autonomo, connotando in termini conflittuali e antagonisti il rapporto con lo Stato e le istituzioni, nel mentre si assisteva al crollo della legittimazione dei partiti tradizionali. Segnali di scollamento tra il partito e la società locale erano già stati percepiti da dirigenti locali che avevano focalizzato con lucidità alcuni dei processi degenerativi del tesseramento. Emblematica la lettura dei processi in corso del sindaco di Padova, Settimo Gottardo, che nel dicembre 1990 dichiarava: «La DC padovana ha perso 30.000 voti, ma le tessere sono aumentate di 7.000. Più iscritti dovrebbe voler dire più dibattito. Non è vero!». Per Gottardo la degenerazione del sistema del tesseramento era evidenziata dal fatto che «gli ultimi Congressi» fossero «stati fatti Cfr. A. PIZZORNO, Il sistema politico italiano, «Politica del Diritto», 2, 1971, pp. 197-210. Cfr. B. ANDREATTA, Politica ed economia dal primo al secondo centro-sinistra, Il Mulino, Bologna 1973. Sui Verdi, si veda M. DIANI, Isole nell’arcipelago, Il Mulino, Bologna 1988. Sulla Lega il rinvio d’obbligo è a I. DIAMANTI, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma 1993.
capitolo primo
a tavolino, con pochi partecipanti e poco confronto». Altro aspetto degenerativo era quello dei professionisti della politica: Sono sempre più – continuava – le persone che fanno politica a tempo pieno, per mestiere, spesso senza vocazione, spesso solo per fare un lavoro, ché un altro non ne hanno o non sanno fare. E mai come oggi è stato profondo il distacco tra i partiti e la gente. È colata a picco – concludeva – la professionalità e l’etica da cui non si può prescindere, è aumentato il professionismo dei mestieranti. Sì le tessere, il mercato delle tessere, sintomo grave di una malattia degenerativa. Così crescono i costi della politica, i contatti con le lobbies non sono più incidenti di percorso ma diventano organici.
Le elezioni del 1992 avrebbero poi assegnato al Veneto – non alla Lombardia – il primato del voto regionale alle formazioni autonomiste: queste, divise in più liste, avevano conseguito infatti il 25,5% dei voti. Si assisteva ad un vero e proprio processo di destrutturazione e rimodulazione dello spazio politico, fino ad allora organizzato sul continuum destra-sinistra, e l’antica specificità della «zona bianca» passava il testimone a quella che si sarebbe venuta a configurare come una nuova «specificità», ovvero il radicamento e la centralità politica del fenomeno leghista e autonomista. La strisciante delegittimazione nei confronti della classe politica, di cui in Veneto gli esiti del referendum sulla preferenza unica erano stati un’altra spia significativa, troverà compiuta declinazione con l’esplodere della Tangentopoli veneta che falcidierà la dirigenza democristiana. Era questo il mutato contesto con cui, aprendo il Congresso, si sarebbe dovuta confrontare Rosy Bindi, eletta segretaria della DC veneta il 3 ottobre 1992 al posto dell’inquisito Bernini; una nomina esterna, assunta come extrema ratio, conseguente agli arresti e agli avvisi di garanzia che avevano azzerato il gruppo dirigente del partito veneto. Il Congresso fu attraversato infatti dal tentativo di recuperare l’antica età dell’oro: il rapporto con il mondo cattolico si venne a configurare così come lo strumento attraverso cui – ipotizzava Rosy Bindi – il nuovo partito si sarebbe rigenerato, conferendogli un nuovo fondamento di legittimazione. E non era certo casuale che la composizione stessa dell’Assemblea si presentasse in termini deci Per le citazioni nel testo, cfr. A. COMELLO, Professionisti della solidarietà, «Il Mattino di Padova», 9 dicembre 1990. Nel dicembre 1990, a Palazzo Moroni, sede del Comune, Gottardo aveva presentato assieme a Segni il Manifesto dei cattolici predisposto dai Popolari per la Riforma; cfr. C. BACCARIN, Il Manifesto dei cattolici, «Il Mattino di Padova», 2 dicembre 1990. Sul punto, cfr. I. DIAMANTI, G. RICCAMBONI, La parabola del voto bianco, Neri Pozza, Vicenza 1992. Il Veneto conseguì il primato della partecipazione al voto e i «sì» si attestarono in regione sul 68%. L’aspetto di particolare interesse era dato poi dal fatto che il voto fosse trasversale e che le tradizionali subculture sembravano aver perso di efficacia, consentendo un rimescolamento degli elettorati di appartenenza; cfr. I. DIAMANTI, G. RICCAMBONI, La parabola del voto bianco, cit., p. 164. Sul significato attribuito al referendum del 1991 si veda anche P. MCARTHY, Il referendum del 9 giugno, in S. HELLMANS, G. PASQUINO (a cura di), Politica in Italia, Il Mulino, Bologna 1992, p. 39; si veda anche G. PASQUINO (a cura di), Votare un solo candidato. Le conseguenze della preferenza unica, Il Mulino, Bologna 1993.
la “morte” della dc veneta e l’ulivo
samente più coerenti con un nuovo assetto fondativo, che non con un processo di tradizionale mutamento organizzativo. Dei 300 delegati, infatti, 150 erano esterni, mentre gli altri 150 erano stati designati dai dirigenti delle sette province venete, dai gruppi parlamentari e regionali. Tra questi ultimi e la neo-segretaria si erano venute delineando situazioni di forte attrito, proprio sui criteri della rappresentanza dell’Assemblea; diversamente i sette segretari provinciali erano espressione del nuovo corso bindiano. I parlamentari – quelli non inquisiti – tentarono in fase di assemblea dei distinguo, ma il loro destino e quello del vecchio partito erano segnati. La nuova militanza, funzionale alla selezione di un diverso ceto politico, avrebbe dovuto provenire proprio da quei mondi cattolici rappresentati in Assemblea dai 150 delegati, designati dalle varie realtà degli universi associativi di riferimento. Era certo che il vecchio gruppo dirigente della DC veneta si era dissolto e, come emblematicamente scriveva l’editorialista de «L’Azione», il settimanale della Diocesi di Vittorio Veneto: «È la rivoluzione. La DC veneta non c’è più». Con il Congresso di Abano il partito veneto si sarebbe venuto ad inserire così con forza nel dibattito politico nazionale che vedeva la DC di Mino Martinazzoli confrontarsi con una forte domanda di radicale mutamento organizzativo e culturale che proveniva dai mondi esterni vicini al partito e da una parte della sua stessa classe politica. Una domanda cui facevano da contraltare resistenze e vincoli da parte di molti attori politici il cui peso e la cui legittimazione poggiavano sul modello, fino ad allora vincente, del partito organizzato per correnti segmentali e verticalizzate. Che il modello di partito per correnti fosse un elemento di freno alla capacità di innovare, sia in termini di progettualità, sia in termini di selezione di una nuova classe politica, era del resto un tema su cui il gruppo dirigente della DC si era confrontato ben prima del prepotente comparire sulla scena politica della questione morale. Che vi fossero stati già diversi sintomi di scollamento tra partito e società e che la meridionalizzazione del partito fosse un serio problema, era un dato acquisito. Nel Veneto, poi, la trasformazione della DC da partito di identità cattolica a partito di intermediazione di interessi aveva creato dei vuoti nel rapporto con il territorio e la sua rappresentazione identitaria, così come i risultati ottenuti dalla Liga Veneta prima e dalla Lega Nord poi avevano evidenziato nettamente. Il problema della riforma della propria organizzazione era stato già oggetto del convegno di Assago che, nel 1991, aveva segnato un passaggio importante nella riflessione sulla forma-partito: sull’idea di partito aperto. Non è casuale che in quella sede si iniziasse a parlare del metodo delle primarie come strumento di rigenerazione di un rapporto di scambio tra partito e società. La stessa Rosy Bindi, del resto, era tra gli otto fondatori di Carta ’93: un movimento di cattolici, in parte provenienti da mondi associativi, in parte interni alla stessa DC, il cui obiettivo era
Cfr. l’editoriale a firma B.C., È affondata la vecchia DC. Salpa dal Veneto il Partito popolare, «L’Azione», 18 luglio 1993.
III Le Metamorfosi DELL’identità: pci/pds/ds
Il “partito nuovo” in Veneto: l’URSS e il partito bolscevico Il 12 novembre del 1989, nel corso di una manifestazione partigiana, organizzata presso la Bolognina, una sezione situata in un quartiere della Bologna “rossa”, la città-simbolo della presenza del PCI, il segretario del partito, Achille Occhetto, annunciava l’intenzione di avviare la costituzione «di una nuova formazione politica» e di voler pertanto procedere con l’avvio di una fase costituente: «Un processo alla cui fine vi sia – precisava – una cosa nuova e un nome nuovo». Una scelta di luogo e tempo fortemente carica di significati simbolici: la trasformazione del PCI si consumava così con un preciso rito politico. La cerimonia riattualizzava infatti il mito della Resistenza che si teneva ogni anno, l’11 novembre, anniversario della Battaglia di Porta Lame. Ma la presenza di Occhetto, nel rito a Bologna, quel giorno, avrebbe avuto un significato ben diverso e superiore rispetto a quello di produrre solidarietà attraverso il mito: Egli si è servito del rito per creare il quadro simbolico giusto per annunciare la svolta proposta, la rinuncia all’identità comunista del partito. E per farlo, ha usato due simboli importanti, l’Unione Sovietica e la Resistenza, dicendo ai vecchi partigiani che lui stava facendo la stessa cosa che aveva fatto di recente Gorbacjev, quando aveva parlato con
Cfr. A. COLASIO, Crisi e trasformazione di un sistema organizzativo, «Il Progetto», 61/62, 1991, pp. 9-16; P. IGNAZI, Dal PCI al PDS, Il Mulino, Bologna 1992. Cfr. A. OCCHETTO, Un indimenticabile ’89, Feltrinelli, Milano 1990, p. 121. All’unico giornalista presente quel giorno a Bologna che gli chiese se proponeva di cambiare «anche il nome», Occhetto rispose: «Voglio dire che dobbiamo discutere liberamente di tutto», cfr. A. OCCHETTO, Il sentimento e la ragione, Rizzoli, Milano 1994, p. 64. La plausibilità del cambio del nome era stata sostenuta da Occhetto anche in un discorso tenuto a Padova, nel giugno del 1989, in occasione del V anniversario della morte di Berlinguer: «Il nostro – affermò – è un nome che può essere messo oggi al servizio di una nuova e più avanzata esperienza politica e organizzativa della sinistra. In questa prospettiva può anche mutare»; cfr. I. ARIEMMA, La casa brucia, Marsilio, Venezia 2000, p. 41. È sempre Ariemma a ricordare come nella versione fornita alla stampa l’ultima frase fosse stata sottolineata. Nel luglio del 1989, nella rivista del partito, «Rinascita», sarebbe uscito un articolo di M. SALVATI e S. VECA dal titolo emblematico: Se non ora quando?, dove veniva proposto il cambio del nome in Partito democratico della sinistra.
capitolo terzo i reduci delle Seconda guerra mondiale, chiedendo loro di dimostrare lo stesso coraggio dimostrato durante la Resistenza, il coraggio di abbandonare le vecchie strade e di muoversi al passo con i tempi.
Erano trascorsi solo tre giorni da quello che, sul piano simbolico, poteva essere considerato un vero e proprio «disastro ambientale»: con il crollo del Muro di Berlino e sotto le sue macerie finiva infatti un’epoca. Il Muro, collocato nel cuore della vecchia Europa, compendiava ed era metafora degli assetti geo-politici della guerra fredda: Yalta, il discorso di Churcill a Fulton, il pieno dispiegarsi della strategia sovietica nei confronti dei Paesi satelliti, l’enunciazione della «dottrina Truman», con la correlata strategia del contenimento di Kennan, la costituzione del Cominform e del Patto Atlantico, la strutturazione dei blocchi, l’equilibrio del terrore con la – a lungo ventilata – minaccia di una Terza Guerra mondiale. Dentro quella grande storia e schiacciata ai suoi margini, si era venuta a dispiegare la vicenda politica italiana del dopoguerra: nel nuovo assetto degli equilibri internazionali l’Italia, collocata nel campo “occidentale”, aveva visto il Partito comunista giocare un ruolo di notevole rilievo nella fase resistenziale e poi nella transizione alla Repubblica, con la scrittura delle nuove regole costituzionali. Sin dalla “svolta” di Salerno, con cui Togliatti rinviava al «dopo Liberazione» la questione istituzionale e con la costituzione dei primi governi di unità nazionale, appariva chiaro che lo scenario italiano si sarebbe venuto a configurare come una scacchiera sulla quale i diversi giocatori avrebbero messo in essere tutte le loro strategie e, a seconda delle condizioni del campo di gioco, mosso tutte le loro diverse pedine. In quel contesto, lo strumento con cui il PCI iniziò a delineare il suo ruolo fu il “partito nuovo” enucleato, in vari interventi da Togliatti, sin dal 1944, come partito «nazionale», di «governo» nonché «di massa e popolare»: Tra le posizioni assunte dal nostro partito in questo nuovo periodo della nostra vita nazionale, l’affermazione di voler essere un “partito nuovo” è quella che finora ha ricevuto Cfr. D.I. KERTZER, Il rito politico e la trasformazione del PCI, «Polis», 2, 1998, pp. 286. Il concetto di “disastro ambientale” è utilizzato dalla Mulé, che lo desume da Lanzara, per spiegare una strategia di mutamento organizzativo dei partiti politici in risposta ad uno stato di “crisi”, che si declina in termini di sostituzione e non di articolazione o successione dei fini, cfr. R. MULÉ, Dentro i DS, Il Mulino, Bologna 2007; G.F. LANZARA, Capacità negativa, Il Mulino, Bologna 1993. Cfr. G. MAMMARELLA, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti 1900-2003, Laterza, Bari-Roma 2003, pp. 138-152; A. GUERRA, Gli anni del Cominform, Mazzotta editore, Milano 1977; E. DI NOLFO, Sistema internazionale e sistema politico italiano: interazione e compatibilità, in L. GRAZIANO, S. TARROW, La crisi italiana, Einaudi, Torino 1979, vol. I, pp. 79-112; ID., I vincoli internazionali di una democrazia incompiuta, in A. GIOVAGNOLI (a cura di), Interpretazioni della Repubblica, Il Mulino, Bologna 1998; G. GOZZINI, R. MARTINELLI, Storia del partito comunista italiano, Einaudi, Torino 1998, pp. 137-151; S. PONS, Il fattore internazionale nella leadership di Togliatti (1944-1964), «Ricerche di storia politica», 3, 2002, pp. 403-415; E.A. ROSSI, V. ZASLAVSKY, Togliatti e Stalin, Il Mulino, Bologna 1997. Cfr. sul punto R. GUALTIERI, Il PCI, la DC e il “vincolo esterno”. Una proposta di periodizzazione, in R. GUALTIERI (a cura di), Il PCI nell’Italia repubblicana 1943-1991, Carocci, Roma 2001, pp. 47-99.
le metamorfosi dell’identit: pc/pds/ds nelle discussioni e nelle polemiche, il minor rilievo. Essa è invece quella che ha un significato più profondo e avrà, nello sviluppo della nostra attività politica, le manifestazioni e le conseguenze più ampie.
In questo modo, in un editoriale apparso nel dicembre del 1944 sulla rivista ideologica del partito, «La Rinascita», il leader comunista aveva sottolineato il significato squisitamente politico che la nuova morfologia organizzativa del partito era venuta a rivestire. Un mutamento del modello organizzativo che aveva segnato una soluzione di continuità rispetto alla sua matrice leninista. Una scelta simmetrica rispetto alla “svolta” di Salerno e alle conseguenze politiche nonché al ruolo che Togliatti – almeno all’interno di quella fase – prefigurava per il suo partito nel nuovo contesto post-bellico. Ecco perché, sin dai suoi primi interventi, il segretario comunista dovette rivolgersi ai quadri del partito, precisando come ci si trovasse di fronte ad una situazione del tutto inedita e che, quindi, il «problema» non si poneva più nei termini di «fare ciò che era stato fatto in Russia». In sede storiografica il dibattito sulla natura del “partito nuovo” voluto da Togliatti nel 1944 è ancora aperto: quello che, secondo una parte della storiografia, viene considerato il principale contributo teorico e pratico del leader comunista, da altri viene derubricato a variante tattica delle esigenze di politica internazionale e di potenza dell’Unione Sovietica. Lo storico russo Michail Narinsky, volendo rimarcare la subordinazione alle esigenze di politica estera sovietica dell’operato
Cfr. P. TOGLIATTI, Il Partito nuovo, «La Rinascita», I, 4, ottobre-novembre 1944; ID., I compiti del partito nella situazione attuale, in ID., Il partito, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 71-110; si tratta del noto discorso pronunciato a Firenze il 3 ottobre 1944 e pubblicato in opuscolo a Roma, ed. Unità, nel 1945. Cfr. P. TOGLIATTI, La politica di unità nazionale dei comunisti, in L. GRUPPI (a cura di), Opere V, 1944-1955, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 15. Per il dibattito sul diverso significato attribuito in sede storiografica al “partito nuovo”, inteso come opzione strategica, lo strumento della “via nazionale al socialismo”, o variante tattica del partito bolscevico e quindi strumento delle esigenze di politica internazionale dell’URSS, si vedano: E. RAGIONIERI, Il partito comunista, in L. VALIANI, G. BIANCHI, E. RAGIONIERI, Azionisti, cattolici e comunisti nella Resistenza, Franco Angeli, Milano 1974; P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino 1975; D. SASSOON, Togliatti e la via italiana al socialismo, Einaudi, Torino 1980; R. MARTINELLI, Storia del Partito comunista italiano. Il “partito nuovo” dalla Liberazione al 18 aprile, Einaudi, Torino 1995; una storiografia che Pons ritiene abbia «proiettato sulle origini della Repubblica un’idea di autonomia affermata dal PCI soltanto più tardi e mai compiutamente realizzata», cfr. S. PONS, L’URSS e il Pci nel sistema internazionale della guerra fredda, in R. GUALTIERI (a cura di), Il PCI nell’Italia repubblicana 1943-1991, cit., pp. 3-46; una chiave di lettura contenuta a suo tempo anche nel saggio La costruzione del “partito nuovo” e la difesa della “democrazia progressiva” 1944-1956, in G. VACCA, Saggio su Togliatti e la tradizione comunista, De Donato, Bari 1974, pp. 293-351. Decisamente molto spostato sulla dimensione del PCI come partito eterodiretto da Mosca l’approccio di altri autori: S. BERTELLI, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI 1936-1948, Rizzoli, Milano 1980; V. ZASLAVSKY, Lo stalinismo e la sinistra italiana, Mondadori, Milano 2004. Per una ripartizioni degli studi storici a seconda della diversa prospettiva interpretativa cfr. M. LAZAR, La strategia del PCF e del PCI dal 1944 al 1947: acquisizioni della ricerca e problemi irrisolti, in E. AGA-ROSSI, G. QUAGLIARIELLO (a cura di), L’altra faccia della luna. I rapporti tra PCI, PCF e Unione sovietica, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 79-100.
capitolo terzo
del PCI, è tornato, incidentalmente, sulla partenza di Togliatti da Mosca, soffermandosi sul suo colloquio con Stalin in merito alla questione italiana. Colloquio che avvenne in una data in cui, secondo l’agiografia comunista, il leader italiano avrebbe già dovuto essere in viaggio da diversi giorni per tornare in patria. Si tratta di un punto controverso: è noto come Togliatti, per rimarcare il carattere endogeno della “svolta di Salerno” e, di converso, per accentuare il carattere autonomo dell’elaborazione di una «via italiana al socialismo», nel presentare le varie versioni del suo viaggio di ritorno, tendesse ad anticipare la data della sua partenza da Mosca. Anche relativamente al riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’URSS Togliatti era reticente e dichiarava di non esserne stato a conoscenza. In realtà, come precisa lo studioso russo, la delineazione della strategia togliattiana venne concordata ex ante con lo stesso Stalin e si inscriveva a pieno titolo all’interno delle esigenze di politica estera dell’URSS: Durante l’incontro con Togliatti, prima del ritorno di quest’ultimo in Italia, nella notte tra il 3 ed il 4 marzo 1944, Stalin dichiarò: “L’esistenza di due campi (Badoglio e il re i partiti antifascisti) indebolisce il popolo italiano. La qual cosa va a favore degli inglesi che vorrebbero un’Italia debole nel Mediterraneo. Se la lotta fra questi due campi dovesse continuare, ciò porterebbe alla rovina del popolo italiano i cui interessi impongono che
Nella sua biografia autorizzata Togliatti fa scrivere di aver ricevuto l’assenso a ritornare in Italia il 16 febbraio del 1944 e che «circa 10 giorni dopo partì da Mosca, solo, per far ritorno in patria», cfr. M. e M. FERRARA, Conversando con Togliatti. Note biografiche, Edizioni di cultura sociale, Roma 1953, p. 311. Un’ipotesi avallata da Paolo Spriano, che utilizza come fonte la biografia di Togliatti redatta dai Ferrara, i quali ribadiscono che dopo l’assenso degli alleati al suo rientro, pervenuto in data 16 febbraio, il leader comunista partì «pochi giorni dopo». Una ricostruzione poco in sintonia con quanto dimostrano le fonti sovietiche, cfr. P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, cit., p. 283. Dubbi sulle tre diverse versioni del suo ritorno in Italia aveva espresso Bertelli che ricostruisce il quadro della vicenda, cfr. S. BERTELLI, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI 1936-1948, cit., pp. 195-220; nella sua biografia di Togliatti, Aldo Agosti precisa come, dopo che Vysinkij diede le disposizioni favorevoli alla partenza di Togliatti, «trascorreranno tuttavia ancora più di due settimane», il che è sicuramente più preciso. Rispetto poi sia al riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’URSS, sia alla “svolta” di Salerno Agosti sostiene: «È una linea politica che è stata pensata sì a Mosca e in funzione di una concreta analisi della situazione internazionale, ma che si precisa e si arricchisce a contatto diretto con la realtà italiana, ed è capace di articolarsi secondo scansioni autonome e di produrre i propri originali strumenti», cfr. A. AGOSTI, Togliatti. Un uomo di frontiera, Utet, Torino 1991, pp. 276-280. Rispetto alla ricostruzione di tutta la vicenda, sia del riconoscimento sovietico del governo Badoglio, sia dei tempi della partenza di Togliatti, Antonio Gambino parla di «evidenti falsità del leader comunista». Secondo Gambino, Togliatti era comunque partito da Mosca il 18 febbraio; è sempre Gambino a ricordare come «la comunicazione riservata sovietica al governo italiano della disponibilità dell’URSS a stabilire relazioni diplomatiche è del 4 marzo», ovvero il giorno in cui secondo lo storico russo Narinsky si tenne l’incontro tra Stalin e Togliatti, che, evidentemente, era ancora a Mosca, cfr. A. GAMBINO, Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al potere DC, vol. I, Laterza, Bari 1978, pp. 42-50. Stupisce che lo storico francese Lazar parli di idea «tradizionalmente accettata, secondo la quale Ercoli aveva lasciato Mosca verso la metà del mese di febbraio», confondendo la data in cui a Togliatti venne dato il via libera per il rientro con quella della partenza», cfr. M. LAZAR, La strategia del PCF e del PCI dal 1944 al 1947: acquisizioni della ricerca e problemi irrisolti, in L’altra faccia della luna. I rapporti tra PCI, PCF e Unione Sovietica, cit., pp. 79-100.
le metamorfosi dell’identit: pc/pds/ds l’Italia sia forte e che abbia un forte esercito”. Così – conclude lo studioso – per Stalin, in primo piano vi erano i suoi calcoli geo-politici. Per questo motivo la questione della lotta per la democrazia e il socialismo in Italia avevano per lui un significato secondario. Essendo interessato all’esistenza di una Italia forte, Stalin era pronto ad orientare i comunisti italiani verso la collaborazione con il re ed il governo Badoglio.
Coerentemente con tale logica il 14 marzo del 1944 l’URSS, primo tra i Paesi delle Nazioni Unite, dichiarò di avere stabilito relazioni dirette con il governo Badoglio. Nel Memorandum del 18 marzo che il governo sovietico aveva fatto pervenire alle ambasciate di Stati Uniti e Gran Bretagna, l’URSS proponeva ai governi dei Paesi alleati di «compiere i passi necessari per realizzare un’unione di tutte le forze democratiche ed antifasciste dell’Italia libera, sulla base di un corrispondente miglioramento della formazione del governo Badoglio». Una posizione ripresa a fine marzo da Togliatti nel suo intervento a Napoli, nel quale delineò la “svolta” di Salerno, che sancì la mutata strategia del partito in Italia. Un giudizio più sfumato è quello di Pons, che ritiene unilaterali sia l’immagine di un PCI autonomo e svincolato da Mosca, sia quella di un PCI e degli altri partiti comunisti occidentali come integralmente eterodiretti «in ogni loro azione», con la conseguente equiparazione «del movimento comunista ad una gigantesca organizzazione di spionaggio e di mobilitazione delle masse, piuttosto che ad un movimento politico fortemente centralizzato, operante secondo i criteri e anche secondo i limiti di una gerarchia internazionale, soprattutto laddove esso non raggiunse la forma di un partito-Stato». Quale che sia il giudizio rispetto al “partito nuovo” togliattiano, quello che qui rileva sottolineare è come l’ultimo segretario del PCI, Occhetto, con l’annuncio della “svolta”, mettesse in atto una strategia di radicale «sostituzioni dei fini»,
Cfr. M. NARINSKY, La politica estera sovietica verso l’Europa occidentale (1941-1945), in E. AGA-ROSSI, G. QUAGLIARELLO (a cura di), L’altra faccia della luna, cit., p. 37. È emblematico come nella sua biografia
Togliatti, relativamente alla “svolta di Salerno” e al rinvio della “questione istituzionale”, riportasse di fatto i termini della vicenda così come erano stati affrontati nel colloquio con Stalin: «Questo rinvio a tempo indeterminato anche dei primi passi dell’Italia verso una rinascita come nazione autonoma era probabilmente nel piano degli Alleati anglo-americani, certamente in quello degli inglesi. [...] Ciò che più poi faceva piacere agli alleati anglosassoni era che tra gli italiani si esasperasse il dibattito istituzionale, in modo tale che fosse impedito l’accordo, anzi fosse impedito anche solo la presa di posizione sui problemi concreti della partecipazione dell’Italia alla guerra, della ricostruzione di un esercito nazionale, dei diritti del nostro paese come “cobelligerante”», cfr. M. e M. FERRARA, Conversando con Togliatti, cit., pp. 316-317. Cfr. M. NARINSKY, La politica estera sovietica verso l’Europa occidentale (1941-1945), cit., pp. 38-39; sul Memorandum sovietico si era già soffermato a lungo, nel delineare la “svolta di Salerno”, Paolo Spriano, che riportava un giudizio di Leo Valiani secondo il quale era da supporre che «di queste idee sovietiche Togliatti fosse al corrente prima della sua partenza: è anzi possibile che abbia contribuito alla loro maturazione», cfr. P. SPRIANO, Storia del partito comunista italiano. La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, cit., p. 293. Cfr. S. PONS, Togliatti, il PCI e il Cominform, in E. AGA-ROSSI, G. QUAGLIARELLO (a cura di), L’altra faccia della luna, cit., p. 267. Sul concetto di “sostituzione dei fini”, cfr. A. PANEBIANCO, Modelli di partito, cit., pp. 464-470.
v il partito democratico: tra centro e periferie
Una fase genetica controversa Senza un disegno chiaro. Senza scadenze chiare. Oggi d’altronde il problema è governare. E resistere. Il più a lungo possibile. Poi verrà il momento del Partito Democratico. Oppure dell’Ulivo. Il nome non conta. Il tempo non conta.
In questo modo, in un suo editoriale del 21 maggio 2006, Ilvo Diamanti avrebbe ben rappresentato l’incertezza che avvolgeva ancora il destino del PD. L’impressione era che il progetto di costruzione del nuovo partito si fosse arrestato e che i gruppi dirigenti di DS e Margherita stessero sottovalutando il “fattore tempo”. Erano trascorsi poco più di quaranta giorni dalle elezioni politiche dell’aprile 2006, che avevano visto la vittoria del centro-sinistra guidato da Prodi. Una vittoria che tuttavia si era dimostrata una “quasi sconfitta”. Le elezioni del 2006 avrebbero inoltre riproposto la centralità della “questione settentrionale”. Il centro-destra recuperava soprattutto al Nord, dove conquistava il 53% dei voti validi e, in particolare, in Lombardia e Veneto, dove sfiorava il 57%. Fra gli elettori del Nord pesava ancora «l’antica diffidenza verso la sinistra». Proprio a Vicenza, all’Assemblea annuale di Confindustria, Berlusconi avrebbe evocato le «tradizionali paure della società locale nei confronti della “sinistra nemica dell’impresa”». Il recupero del centro-destra era stato notevole e il centrosinistra poteva contare al Senato su una maggioranza di pochi senatori. Il governo vedeva così il proprio destino legato alla presenza in aula di alcuni anziani senatori a vita. Scenario che diversi senatori della Margherita avevano del resto prefigurato, quando Marini, coronando il suo sogno di accedere alle più alte cariche dello Stato, aveva posto la sua candidatura a presidente del Senato. Cfr. I. DIAMANTI, Partito democratico, domani è già tardi, «la Repubblica», 21 maggio 2006. Cfr. I. DIAMANTI, S. VASSALLO, Un Paese diviso. Anzi in molti pezzi. Le elezioni politiche del 9-10 aprile, in J.L. BRIQUET, A. MASTROPAOLO (a cura di), Politica in Italia, Il Mulino, Bologna 2007, p. 82. Ivi, p. 94. Come ricorda Giaretta, ci fu un incontro tra alcuni senatori ex Popolari della Margherita, nel corso del quale venne sollevato il problema e discussa la possibilità di assegnare la presidenza del senato
capitolo quinto
In realtà il percorso verso il PD era iniziato con la costituzione dei gruppi unici e, lo si è visto, con la designazione di Dario Franceschini e di Anna Finocchiaro a presidenti dei gruppi di Camera e Senato: gruppi costituiti da 218 deputati e da 101 senatori. Il 14 luglio 2006 veniva approvato lo Statuto del gruppo parlamentare dell’Ulivo. Alla Camera, nel seggio predisposto per le elezioni, si espressero a favore dello Statuto 191 deputati, pari all’87,6% degli aventi diritto; situazione non dissimile si registrava al Senato. Lo Statuto del gruppo sarebbe stato il primo atto concreto verso la costituzione del Partito unico dell’Ulivo. Accanto alla figura del presidente erano previsti due vice, che si volevano «espressione dell’articolazione interna del gruppo» (art. 6), mentre l’articolo 1 fondava il «pluralismo interno» sul «riconoscimento di soggetti collettivi, a partire dalle componenti dei partiti e dei soggetti che hanno dato vita alle liste de l’Ulivo». Recependo il vecchio articolato predisposto dal gruppo dell’Ulivo, lo Statuto prevedeva che l’Assemblea potesse deliberare «a maggioranza dei due terzi», fatta salva la potestà, attribuita al comitato di presidenza, di decidere le materie su cui si sarebbe, invece, deliberato a maggioranza (art. 4). Le tappe di avvicinamento al PD si muovevano, tuttavia, per il sociologo vicentino, all’interno di un contesto e di un percorso che riconduceva alle vecchie logiche e identità di partito: Nell’elezione delle principali cariche istituzionali, alla Camera e al Senato, come alla presidenza della Repubblica, hanno prevalso logiche partigiane. Talora di fazione. Nella Margherita e nei DS. Mai sentito parlare tanto di ex-democristiani ed ex-comunisti come in questa occasione.
Lo stesso Prodi, la cui «legittimazione» dipendeva «dall’affermarsi del progetto unitario», sembrava «rassegnato a fare l’Ulivo a Roma». Il PD, insomma, era percepito come un «progetto più difficile e più lontano». Tutto ciò, a dispetto di quelle che si registravano essere le non poche ragioni per procedere sul terreno dell’unificazione politica. In primis, il fatto che questa si era dimostrata politicamente vincente. La lista dell’Ulivo aveva infatti conseguito alla Camera il 3% in più rispetto al Senato, dove Margherita e DS si erano presentati con le liste separate. In ben 85 province l’Ulivo si connotava poi come il primo partito, mentre Forza
all’UDC, il che avrebbe permesso non solo di non perdere un voto per la maggioranza ma anche di poter contare, in prospettiva, su una qualche forma di sostegno esterno; testimonianza all’autore di Paolo Giaretta, 9 ottobre 2012. Cfr. lo Statuto del gruppo parlamentare l’Ulivo, ALFCPD. Per i dati sulle votazioni interne, cfr. la lettera di D. Franceschini a tutti i deputati dell’Ulivo del 20 luglio 2006, ALFCPD. La bozza dello Statuto era stata fatta pervenire ai deputati il 16 giugno 2006 con un Preambolo dove si ribadiva la precisa volontà di «dare vita a un nuovo soggetto politico democratico e riformista», cfr. gli allegati alla lettera di M. Sereni e G. Bressa, Roma, 16 giugno 2006, ALFCPD. Ibid.
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Italia manteneva il suo primato solo in 23 province. Un dato riscontrabile anche al Nord, dove l’Ulivo era il primo partito in 23 province contro le 12 di Forza Italia. Il progetto di costruzione del PD, secondo Diamanti, avrebbe poi dovuto partire dalle periferie, dai sindaci, dai governi locali, rafforzando il legame tra partito e società, tra partito e territorio. In realtà era proprio nei governi locali che la logica unitiva dell’Ulivo trovava spesso resistenze e ostilità: era avvenuto a Milano, dove la costituzione del gruppo unico dell’Ulivo si era infranta per un veto della Margherita, a Genova dove il gruppo dell’Ulivo si era scontrato con il rifiuto della sinistra DS, che configurava il PD come «figlio della cultura americana». Anche a Roma, in Campidoglio, ci si confrontava con le resistenze rispetto al processo unitario espresse da rappresentanti della lista civica di Veltroni, contrari a confluire con Margherita e DS in un gruppo unico. O ancora, in Sicilia, dove i rappresentanti dei due partiti non volevano attribuire a Rita Borsellino il ruolo di capogruppo unitario all’interno del Consiglio regionale. Tensioni che salivano dalle periferie e che arrivavano ai vertici. Diverse erano anche le strategie dei segretari di DS e Margherita. Fassino insisteva perché si procedesse speditamente con l’unificazione politica, anche in virtù del fatto che, essendo restato fuori dal governo, l’arena del partito si configurava per lui come un terreno utile per ritagliarsi un ruolo di guida. Al contrario, Rutelli, nel corso dell’Assemblea federale della Margherita del 10 giugno, aveva invitato a non trasformare l’obiettivo della costruzione del PD «in una corsa contro il tempo», tanto più che, a suo avviso, non si intravedevano ancora le condizioni per garantire «un vero pluralismo culturale». Non vi era poi solo l’incertezza sui tempi. In discussione era anche il nome. Sin dal 2005, quando Rutelli, dopo le primarie, aveva iniziato a delineare il processo di costruzione di un nuovo partito unitario, definendolo “democratico”: D’Alema avrebbe precisato che, in realtà, riteneva più adeguato chiamarlo “partito riformista”. Il Partito democratico evocava infatti l’esperienza americana, mentre il dirigente diessino sosteneva fosse più congruente con la storia del suo partito l’ancoramento a solide radici continentali, alla storia del socialismo europeo. Un dibattito che si sarebbe protratto a lungo e che aveva visto, tra gli altri, la presi Ibid. Cfr. M. SMARGIASSI, Partito democratico, stop and go, «la Repubblica», 10 giugno 2006. Cfr. U. ROSSO, Partito democratico, sì ma senza fretta, «la Repubblica», 11 giugno 2006. Nel corso di un’assemblea dei segretari di sezione, tenutasi a Roma al Palazzo dei Congressi, D’Alema avrebbe però attenuato la sua posizione in merito alla identità socialista del futuro partito e, di converso, rispetto alla sua collocazione internazionale; cfr. M.T. MELI, Svolta del presidente dei DS: il socialismo non basta più, «Corriere della Sera», 21 gennaio 2007. Preoccupazione che sarebbe stata poi condivisa anche da Pasquino: «Sarebbe preoccupante se non ci fosse più in Italia un partito socialista. Veltroni si sta organizzando per ereditare nel 2011 quello che spero sarà il Partito del Socialismo Democratico»; cfr. l’intervista a G. Pasquino di M. GUERZONI, «Corriere della Sera», 17 gennaio 2007.
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dente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, esprimere, ancora nel luglio 2006, durante un’assemblea di dirigenti e amministratori locali, la sua preferenza per le vecchie e consolidate formule: «Non è detto che si debba cambiare nome. L’Ulivo mi sembra un simbolo che ha dimostrato vitalità e potenzialità». Contrarietà al nome che sarebbe stata espressa anche da Luciano Violante, per il quale il nome Partito democratico era «un’espressione tiepida e indistinta», mentre avrebbe avuto «più significato politico la parola Ulivo, che ha dalla sua anche una lunga tradizione». Ma da diverse realtà periferiche non mancavano le sollecitazioni a procedere lungo il percorso che si era iniziato. A Roma, il 10 luglio, l’associazione “Ulivo per Roma” aveva organizzato un incontro con i firmatari di un documento dove si chiedeva di mettere in moto il processo di costruzione del nuovo partito. Processi analoghi si registravano in Emilia Romagna dove, il 20 luglio, si teneva una grande assemblea, organizzata dai gruppi dirigenti locali dei DS, della Margherita e dei Repubblicani europei, aperta al confronto con i gruppi e le associazioni che sollecitavano l’avvio del processo costituente. Un sondaggio realizzato da Demos-Eurisko, nel luglio 2006, fotografava l’esistenza di questa situazione di grande incertezza anche a livello di corpo elettorale. La costruzione del PD era approvata dal 66,4% degli elettori di centrosinistra. Sui tempi e sul come lo si sarebbe dovuto costruire le opinioni erano divergenti. Solo per il 30,7% il PD si configurava come un vero partito, che avrebbe dovuto, pertanto, assorbire e andare oltre i vecchi partiti. Diversamente, per il 25,1%, il PD si sarebbe dovuto caratterizzare come una federazione di partiti, i quali avrebbero dovuto proseguire la propria attività con i loro simboli e con la loro specifica organizzazione. Se per il 17,8% si doveva procedere speditamente, al contrario, il 44,0% invitava a «procedere senza troppa fretta» e «nei tempi necessari». Ma il dato più significativo era rappresentato dalla centralità che le primarie erano venute a rivestire: il 65,6% degli elettori favorevoli alla costituzione del PD riteneva, infatti, che bisognasse costruirlo «attraverso delle elezioni aperte con le primarie». Solo il 12,3% riteneva che il processo costituente avrebbe dovuto essere appannaggio dei gruppi dirigenti. Il 13,5% pensava, infine, che il ruolo centrale all’interno della fase costituente doveva essere riservato agli iscritti ai due partiti, tramite «procedimenti interni». Nel Consiglio nazionale dei DS del luglio 2006, nel dichiarare aperto il cantiere del PD, Fassino cercava di rassicurare la sinistra del suo partito: «Non sarà un OGM, una mutazione genetica, ma una scelta coerente». Il PD non sarebbe nato così «per assecondare una deriva moderata o centrista, ma per affermare una politica pro Cfr P. GR., Fassino: il Partito democratico, progetto che ora può decollare, «la Repubblica», 10 luglio 2006. Cfr. l’intervista a L. Violante di G. PADOVANI, Violante: meglio Ulivo. Il Partito democratico ricorda troppo la DC, «La Stampa», 17 ottobre 2006. Ibid. Cfr. F. BORDIGNON, Partito democratico in frenata, lo vuole il 66%, ma senza fretta, «la Repubblica», 16 luglio 2006.
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gressista e riformista». Se per D’Alema la «costruzione del PD» veniva interpretata come «una grande e non breve battaglia per l’egemonia», nel campo della Margherita erano alcuni esponenti dell’ex PPI a esprimere ancora dubbi e preoccupazioni. Per Castagnetti, se non si voleva correre il rischio di una rottura con i «cattolici democratici», si sarebbero dovuti ancora sciogliere diversi nodi, mentre, per Rosy Bindi, doveva essere chiaro che «la cultura dei cattolici» non era «residuale». Le preoccupazioni e i timori che attraversavano aree significative della Margherita vennero poi amplificate da un’intervista di Fassino che, nel tentativo di delineare le ragioni, a suo parere, ineludibili, che imponevano la convergenza del futuro PD all’interno del Partito Socialista Europeo, avrebbe dichiarato al «Riformista»: Se Fini, che non è un democristiano, non ha problemi ad andare nel Ppe, non si capisce perché i riformisti della Margherita, con tutta la diversità della loro storia, debbano averne per entrare nel partito dei socialisti europei. Noi non vogliamo imporlo a nessuno, ma quello del PSE è l’approdo naturale di tutto il Partito democratico.
Dichiarazioni che il gruppo dirigente della Margherita ritenne politicamente inaccettabili – specie per il parallelo con la vicenda di Fini e AN – e fuori luogo al punto che Rutelli richiese a Prodi la convocazione d’urgenza di un vertice a tre per chiarirne il senso. Per Rosy Bindi quello che non poteva essere condivisibile era il metodo: Così come in Italia hanno fatto la “Cosa 1”, la “Cosa 2” e la “Cosa 3” procedendo per annessioni successive sul tronco principale del loro partito, pensano che si possano innestare sul tronco del PSE nuove esperienze e nuovi apporti. Noi invece pensiamo in maniera totalmente diversa e chiediamo di dare vita a un soggetto nuovo che nasca più per contaminazioni che per annessioni.
Lo stesso Parisi avrebbe espresso la sua contrarietà al percorso di convergenza così delineato all’interno del PSE: «Il vino nuovo del Partito democratico – dichiarava infatti – ha bisogno di otri nuove, in Italia come in Europa». Le questioni “eticamente sensibili”, poste da vari esponenti del mondo cattolico e la collocazione internazionale del nuovo partito si ergevano così come macigni sulla strada, già in salita, del nuovo partito. Per questo Prodi, sin dal mese di giugno, aveva sollecitato con una lettera la costituzione di una prima “cabina di regia”, che avrebbe dovuto cominciare a studiare una road map adeguata alle asprezze del percorso. Cabina di regia che si definì il 24 luglio dopo una riunione a Cfr. G. CASADIO, DS e Dl, partenza in salita per il partito democratico, «la Repubblica», 18 luglio 2006. Ibid. Cfr. G. DE MARCHIS, Ulivo, l’ira di Rutelli contro Fassino, «la Repubblica», 21 luglio 2006; M.T. MELI, Partito democratico nel PSE, Rutelli attacca Fassino e chiede un vertice, «Corriere della Sera», 21 luglio 2006. Cfr. l’intervista a Rosy Bindi di S. BUZZANCA, Piero, l’arretrato sei tu proponi solo un’annessione, «la Repubblica», 21 luglio 2006. Cfr. G. DE MARCHIS, Ulivo, l’ira di Rutelli contro Fassino, «la Repubblica», 21 luglio 2006.
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piazza Santi Apostoli, cui avrebbe preso parte il ristretto gruppo dirigente dei due partiti, allargato ai tre coordinatori dell’Ulivo, Migliavacca, Soro e Barbi. Una riunione dettata prevalentemente dall’agenda dei lavori parlamentari: il futuro PD rischiava infatti di incagliarsi, prima ancora di prendere il largo, sulle sabbie del voto parlamentare sulla missione italiana in Afghanistan, sulla quale il governo avrebbe posto la fiducia. Lasciati sullo sfondo, per lo più irrisolti, i molti nodi che rendevano complicato il processo di unificazione politica, il lavoro in “sala macchine” per mettere in moto la nave del PD continuava a procedere con fatica. Nell’autunno 2006 la situazione avrebbe iniziato a schiarirsi. Da un lato con il convegno di Chianciano (29 settembre – 1° ottobre), organizzato, come si è visto, dagli ex Popolari, dall’altro con quello di Orvieto, del 6-7 ottobre, voluto da Prodi. Il convegno di Chianciano avrebbe rivendicato, rispetto al processo costituente del PD, la centralità delle vecchie culture politiche: di quella cattolico-democratica nello specifico. È questa la ragione che, a pochi giorni dal convegno di Orvieto, indusse Parisi, l’esponente ulivista, a configurare uno scenario dai contorni piuttosto negativi: Temevo che si arrivasse ad Orvieto condizionati dalle discussioni interne ai partiti, dalle resistenze, comprensibili e prevedibili, delle strutture e delle gerarchie. Purtroppo – continuava – devo constatare che il quadro è ancora più fosco.
Quello che per il leader ulivista non era coerente rispetto al progetto del nuovo partito era proprio il fatto che i rappresentanti delle vecchie culture politiche volessero presentarsi all’appuntamento costituente con tutta la loro storia, con i loro simboli, tradizioni, organizzazioni. Come se il PD dovesse sorgere dall’assemblaggio di quelle storie che appartenevano al passato, mentre – sosteneva – era necessario percorrere nuovi sentieri: Ho ricevuto a casa mia l’invito a partecipare al convegno organizzato nei giorni scorsi dagli ex Popolari a Chianciano. Una busta con l’intestazione “Direzione Nazionale del PPI”. Ho pensato ad un errore, magari al riciclo di vecchio materiale. Ma l’andamento di quel dibattito ha confermato che la riesumazione sulla carta di quell’organismo non è stato un lapsus. Con questa iniziativa gli amici Popolari hanno di fatto messo tra parentesi cinque anni di storia della Margherita, sancendone in pratica il fallimento.
Alla riunione presero parte Prodi, Fassino, Rutelli, D’Alema, Franceschini, Finocchiaro, Fioroni, Parisi e Sereni. Cfr. l’intervista a A. Parisi di L. CONTU, Subito il manifesto fondativo o il nuovo Ulivo non nasce, «la Repubblica», 3 ottobre 2006. Ibid. Diversamente da quanto riteneva e ricordava Parisi, l’invito non conteneva nessun riferimento alla “Direzione nazionale del PPI”. La busta era intestata all’Associazione “I Popolari” con sede in Via del Gesù 55, Roma, e all’interno veniva riprodotto, con variazioni grafiche, il vecchio gonfalone dei Popolari. Della vicenda costitutiva di tale associazione ci si è occupati nel IV capitolo. Cfr. la copia del documento, ALFCM.
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Era, a dir poco, emblematico il fatto che all’interno dei DS autorevoli dirigenti, come Pierluigi Bersani, fornissero una ben diversa chiave di lettura di quello stesso convegno. Per il ministro dello Sviluppo economico si era trattato infatti di un momento «importante» di riflessione, poiché veniva rimarcata la necessità di «non annacquare» le diverse ispirazioni delle forze politiche che avrebbero dovuto dare vita al PD. Ben diversamente, per Parisi, il problema era costituito dal fatto che se si fosse partiti «dall’appartenenza e non dalla politica» non si sarebbe arrivati da «nessuna parte». Queste rigidità – continuava Parisi – sono incomprensibili: è come se una coppia subordinasse la decisione di sposarsi alla scelta dell’abitazione. Ma noi non ci accontentiamo di un matrimonio di interesse. Se non c’è amore il progetto è destinato a fallire.
E il progetto non si sarebbe dovuto limitare ai gruppi dirigenti, in rappresentanza delle vecchie identità politiche, ma aprirsi «a chi appartiene ad altre forze politiche e anche a chi non si riconosce in alcuno di questi soggetti». Diversamente il rischio sarebbe stato quello di mettere assieme «una semplice somma di partiti in cui ciascuno porta le bandiere del passato, senza guardare al futuro». Per Franco Monaco, cattolico e ulivista, il convegno di Chianciano aveva prefigurato uno scenario che attribuiva «agli ex Popolari la maggioranza e la leadership nella Margherita, ma insieme in prospettiva, li condannava a sicura subalternità nel futuro partito democratico». Erano espressioni come quelle utilizzate da Castagnetti – «chiederemo spazio» – che, per Monaco, erano la spia indiziaria di «una disposizione di spirito difensivistica e dunque, per definizione, subalterna». Nel tentativo di individuare un primo percorso condiviso, Prodi avrebbe convocato, il 3 ottobre 2008, a Piazza Santi Apostoli, il direttivo dell’Ulivo e dettato le sue precise condizioni rispetto ai tempi e ai modi con cui procedere. Per prima cosa andava nominato un Comitato di saggi per redigere il manifesto del Partito democratico. Quanto a DS e Margherita, i due partiti avrebbero dovuto tenere nel primo semestre del 2007 i loro congressi, per sanzionare la convergenza nel nuovo partito, di cui si assumeva il terminus a quo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. La riunione si sarebbe tenuta dopo una giornata di tensioni all’interno dei due gruppi dirigenti. In una saletta del Senato, con Marini, si era riunito l’Ufficio di presidenza della Margherita e il confronto era stato molto duro. Oggetto del contendere restava la strategia degli ex Popolari considerata, sia da Rutelli sia da Parisi, inadeguata rispetto alla futura sfida per la leadership del PD: Cfr. M.T. MELI, Prodi incalza DS e Margherita. Partito democratico avanti. Fate i congressi a inizio 2007, «Corriere della Sera», 4 ottobre 2006. Cfr. l’intervista a A. Parisi di L. CONTU, Subito il manifesto fondativo o il nuovo Ulivo non nasce, «la Repubblica», 3 ottobre 2006. Ibid. Cfr. F. MONACO, Il paradosso di Chianciano, «Europa», 3 ottobre 2006.
e 23,00 ISBN 978-88-7115-815-0