"in Aspromonte" numero 5

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Direttore Antonella Italiano

inAspromonte

Gennaio 2014 numero 005

L’ANGOSCIA CHE DA’

UNA PIANURA INFINITA La provocazione

di Antonella Italiano

L

a pianura è per noi una concessione. È il regalo che ci facciamo dopo aver risalito i fianchi della montagna. Dopo aver attraversato torrenti, snobbato sentieri, assaggiato i frutti che il bosco regala ad ogni metro guadagnato. E dopo aver incontrato una sorgente, una grotta, un dirupo, una roccia. pag. 2-3

Per i vecchi montanari vivere in pianura, sia essa la nebbiosa Padania o i salati litorali, sarebbe come spegnersi giorno dopo giorno pag. 2-3 Approfondimento La “bella mia” tra amore e serenate

Ombre e luci Tripodi. L’aquila di Castel Ruggero di Cosimo Sframeli

La nostra storia Carbonai. Uomini del fuoco di Francesco Tassone pag. 17

Aspromonte greco Le erbe curative di Salvino Nucera pag. 8

Cinema e cultura La leggenda della montagna

di Giovanni Scarfò

pag. 22

pag. 5

di Tiziano Rossi

Aspromonte occidentale L’aurora della sera pag. 18

di Giuseppe Gangemi

U tamburinaru

pag. 14-15

API Un fiore per salvarle servizio di Angelo Canale e Giovanni Benelli pag. 19

Foto di Enzo Penna

La storia di Gianni Romeo e del suo tamburo, raccontata da un “bimbo” degli anni Sessanta

SCOPERTE ARCHEOLOGICHE Il monaco di Varraro

U tamburinaru di Mimmo Catanzariti

pag. pag. 77

servizio di Pino Macrì

pag. 11-12-13


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La copertina

inAspromonte Gennaio 2014

L’ANGOSCIA CHE DA’ UNA PIANURA INFINITA

segue dalla prima di Antonella Italiano Sempre la più alta. La più grigia. La più liscia. Dopo tutto questo, eccolo il nostro panorama, fatto di aquile, e alberi, e mari senza orizzonti. Ed eccola, final-

mente, la nostra pianura. La nostra distesa turchese da cui misuriamo la distanza dal mondo: centinaia di metri sopra il livello del mare. Il livello. Un livello. Sotto di esso altre vallate, altri fianchi, altri fiori colorati. E frutti, e lupi senza pelo e senza zampe, e aquile senza ali. Sopra di esso correnti sen-

z’acqua, e squali dagli artigli aguzzi, e un sole accecante al posto della notte eterna. È un livello la pianura. Una linea di demarcazione così netta da angosciare l'animo. Quasi che Dio si sia divertito a tirare di squadra per dividere il mondo, creando, dalla notte dei tempi, una montagna per gli uccelli, una monta-

gna per i pesci, e la pianura. Ma guai a fermarsi. Sarebbe come non essere mai vissuti. Guai a tornarci. Sarebbe come morire all’improvviso. Gli uomini, fin da bambini, imparano che essa è solo un'illusione. Per questo scelgono la loro montagna, sia essa sopra o sotto il piano stabilito. E iniziano la risalita. E attra-

A voi la nebb

paginestoriche

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Nelle foto gli articoli e le copertine più lette sul nostro web. Il misterioso Aspromonte apre le porte e si racconta

La montagna, un amore da dimenticare di Bruno Criaco

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a luce del sole faticava a penetrare sotto i larici e tra la polvere sollevata dalle capre nella loro corsa verso i pascoli. Paolo procedeva lentamente sul viottolo che portava alla casetta con due secchi colmi di latte, brontolava per il peso del suo carico, per l’ennesima alzataccia e per la polvere impregnata degli odori dell’ovile che gli s’incollava alla pelle. A scuoterlo dai suoi pensieri fu il gracchiare dei corvi che giocavano col vento. Detestava pure loro, e loro ogni mattina sembrava lo volessero sfidare, ricordandogli che quello era il loro regno. La Rocca dei corvi era una sorta di anfiteatro, a 1500 metri d’altezza, ed aveva come palcoscenico una delle vallate più selvagge dell’Aspromonte con all’orizzonte il mare e l’oriente. Paolo inciampò e qualche goccia di latte cadde al suolo. Imprecò ad alta voce e non si accorse, fino a che non ne sentì la voce, che il padre era dietro di lui: «Smettila di bestemmiare» «Pà ma queste bestiacce portano sfortuna» «Non guardi con gli occhi giusti.

Sono solo uccelli figlio mio». Accesero il fuoco e trasformarono il latte in formaggio e ricotta. Tra i due c’era tensione, Paolo voleva lasciare la montagna, la storia purtroppo si ripeteva e il padre sapeva di non poter fare niente. Finiti i lavori all’ovile, il padre portò da mangiare a Biscotto, il vecchio cane che ormai non seguiva più il gregge. Poi prese il binocolo e andò a controllare le capre. Si sedette su uno spuntone di roccia, sospeso su un precipizio di centinaia di metri, le guardò saltel-

stradedannate Paolo è sulla Rocca dei corvi con il padre, un esperto pastore, e confessa al vecchio quel suo difficile desiderio: andare via lare sulle rocce delle falesie sottostanti e dirigersi verso i laghetti dell’Aposcipo, il fiume che da millenni regalava le acque allo Jonio. E verso quel mare, adesso, stava puntando lo sguardo «Maledetto, tu a questa terra hai portato sempre e solo il pericolo. Il tuo piattume inganna». Paolo gli si avvicinò piano, soffriva di vertigini però voleva parlargli «Pà allora mi dai il permesso di partire, qua a me non piace» «Paolo tu non guardi con gli occhi giusti. Io sono solo un capraio. Amo troppo questi posti e non sono at-

tendibile se ti dico che le pianure che non finiscono mai mi annoiano. Che le nebbie impenetrabili che oscurano il sole mi deprimono. E non capisco come si possa vivere nelle città, con il loro caos, e le loro luci accecanti, che manco le stelle ti fanno vedere. E so bene che non mi crederai se ti dicessi che come in questo mare, che io ogni giorno maledico, in quella calma apparente, si nascondono insidie che non potresti scansare. No, io non ti fermerò. Purtroppo solo quando sarai lontano capirai cosa hai lasciato. Solo allora guarderai con gli occhi giusti».

Poi emise un fischio e Biscotto, ansimante, fu lì in un attimo a cercare l’immancabile carezza del capraio. «Si Biscotto lo so, tu non mi abbandonerai mai. E anche i corvi ci faranno compagnia. Noi li guardiamo con gli occhi giusti, è vero? E ora andiamo, l’ombra del nostro larice ci aspetta».


La copertina versano torrenti, snobbano sentieri, assaggiano i frutti che il bosco mostra ad ogni metro guadagnato. Bevono alle sorgenti, incontrano grotte e dirupi. Poi, finalmente, si siedono su una roccia. La più alta, la più grigia. Da dove è possibile misurare con una sola occhiata la strada percorsa. E guardano

da lì quell’immensa pianura turchese. Immobile. Irreale. Si illudono di sentirne la voce, ma è solo il rumore del vento tra gli alberi. Si illudono di sentirne l’odore, ma è solo la nebbia che avvolge la montagna all’imbrunire. Si illudono di essere soli, ma non si è mai soli tra i boschi. Ci stanno rocche, ovili, ripari. E lupi.

inAspromonte Gennaio 2014

Si è soli in pianura, piuttosto, tra la gente, anche se a migliaia. Si è soli in autostrada. Alla stazione. Si è soli al bar. In città. Si è soli al cinema o al centro commerciale. Si è soli in ospedale. Si è soli quando si sceglie, o si è costretti, di vivere in pianura. Soffocati dalla nebbia, quella vera, e dal mare, quando è a livello.

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Al Nord calma piatta di Gioacchino Criaco

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Nella foto grande la “Rocca dei corvi”, Africo Antica. Nella foto a pag. 2 la tipica “cardara” con le frittole di maiale. Nella foto a pag. 3 alcune trote pescate nei laghetti montani, Fiumara Aposcipo. Tutte le foto sono di Enzo Penna

er i figli dell’Aspromonte inconcepibile è il mondo senza il rombo di un mare in tempesta, senza la quiete passeggera di un mare fermo, orbo di un artifizio esplosivo di colori, privo del profumo delle zagare e dei gelsomini e senza in bocca il gusto amaro degli oleandri. Che vita è senza i pugni in faccia di un picco all’improvviso e manco un dosso dietro a cui ripararsi? È un universo di pianura, un disteso ed eterno mare calmo, regno di brina o di zanzare in ossequio al succedersi delle stagioni. Un mondo vivo, incredibilmente per chi è nato in riva all’equatore, uno scrigno di malinconiche gioie. E in fondo anche i padani hanno il loro mare e i loro monti, hanno un grande padre liquido che si chiama Po e muri bianchi di nebbia che si alzano di colpo a fermare l’orizzonte a ridurre lo

spazio e dar riparo all’uomo. Il mare e i monti sono suggestioni dell’anima per l’uomo di pianura, ma il bello è ovunque e per tutti e non è un privilegio per pochi. E una brughiera bianca e crocchiante ti può regalare un’alba fantastica quanto una mattinata marina o un’aurora montana. E anche in un piano che pare infinito l’anima si muove come se percorresse i saliscendi dei monti o i moti perpetui del mare. Perché tutti navighiamo in questo mondo, indipendentemente dalle rotte dei luoghi in cui viviamo. E a descrivere il succedersi di pioppi, campi e canali, a parlare di un silenzio d’ovatta, di fiumi, nebbia, neve, gelo e calore, serve la poesia. Lo spirito dentro un luccio del Ticino pesa quanto quello di un sarago dello Jonio, e un airone infreddolito vicino al Lambro ama la libertà quanto un’aquila in volo su Montalto. Un aspromontano nasce nello stesso modo di un padano e le loro anime tenderanno al meglio

mentre le loro pance lotteranno per il peggio. Monti e piani non fanno uomini migliori o peggiori, li crescono diversi, dipingono sensibilità differenti e ci possono essere scalatori e marinai di pianura ed esistono anche montanari e marinai che hanno visto il mare grande che si estende fra le Alpi, gli Appennini e l’Adriatico. E pure se per noi è difficile da credere, il piano può scuotere i pensieri quanto i monti, la bruma commuovere come il mare e la fantasia può sgorgare da un fiume calmo, irruenta quanto un impetuoso torrente montano. E l’anima per quanto diversa è sempre fedele a se stessa e la dolcezza infinita e malinconica di una pianura senza fine può dare tutti i colori a una vita apparentemente piatta. Così il sogno visita il sonno di un uomo che dorme, sia esso sotto un pioppo fra Pavia e Milano o all’ombra di un larice nella terra fra i due mari, sopra una terra che guarda il fuoco eterno di un vulcano.


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Ombre e luci

inAspromonte Gennaio 2014

Un libro per raccontarsi e raccontare la Storia

Africo

Sono un pensionato e a maggio compirò 68 anni, ex ferroviere nativo di Africo e da oltre 40 anni residente a Catanzaro Lido. Sono tra quelli che hanno sofferto l'esodo del paese vecchio (Africo e Casalnuovo) in seguito all'alluvione dell'ottobre ‘51. Lo scorso novembre ho finito di scrivere un libro dai forti accenti autobiografici che è stato pubblicato dalla Casa Editrice BookSprintEdizioni”. Così l’africese Maviglia (nella foto) ci scrive sulla mail. E il 18 gennaio il suo libro approda ad Africo, ospite del Centro Polifunzionale: «Il libro racconta le vicissitudini di un ragazzo dal giorno dell’abbandono del paese natio per causa di una frana. I difficili rapporti con il padre nell’età dell’adolescenza, per tre volte scampato a sicura morte per una serie di drammatiche circostanze, il non volere continuare gli studi lo hanno indotto a raccontarsi. I nomi dei personaggi sono dei miei fratelli».

presenta Leo Maviglia

Vincenzo, il bimbo e la strada “

Luca andò a sedersi sopra un basso muretto, costruito ai margini della Faceva carreggiata. caldo, si tolse il giubbotto e rimase in camicia. Era una giornata luminosa. Il sole abbagliava e l’aria sembrava immobile. Un’atm o s f e r a impensabile per una giornata di dicembre. Sarebbe potuto essere in un posto qualsiasi lungo le sponde del Mediterraneo. Davanti a lui si alzavano le piante di un agrumeto. Limoni, aranci, bergamotti coloravano quel pomeriggio quieto e profumato. A b bassò lo sguardo e incrociò due grandi o c c h i neri. Lo guar-

«Luca è come me, siamo nati in montagna, l’impressione non ci appartiene, ma sappiamo della solitudine, del ricordo. Per questo ci siamo scambiati i nomi, per alleggerirci, e alleggerire, il peso. Io gli ho dato un Francesco e lui mi ha passato un Nicola»

davano dalla foto attaccata a un piccolo monumento funebre. Appartenevano a un volto di bimbo che faceva capolino dietro un mazzo di margherite gialle. Lesse il nome. Provò a fantasticare su chi fosse stato. Allungò la vista e individuò almeno un altro paio di la-

sta storia, Luca, me l’ha raccontata in una delle sere, delle feste appena trascorse. Era scosso e io per farne paio gli ho detto di una sera dell’agosto passato. “Avevo presentato un libro, in uno dei paesini delle Serre vibonesi. S’era fatto notte ed

Accesi una sigaretta e insieme al fumo ingoiai il sapore della montagna, del silenzio, di una solitudine sconfinata. Fu allora che li vidi, i fari gli stavano addosso. Due occhi scuri che mi fissavano, dentro un volto sorridente stampato su una lapide sul ciglio della strada

pidi. Guardò con più attenzione lo stato della strada. Era stretta, mancava la linea di mezzeria, non c’erano indicazioni, il manto d’asfalto era difforme e ricoperto di buche. Poco più di una mulattiera. Intuì la causa di quella morte. Girò gli occhi intorno. Fece un fugace saluto con la mano al bambino che continuava a fissarlo. Agguantò la borsa e ritornò verso il paese”. Que-

ero ripartito in macchina, da solo, per rientrare a casa. Una calda e stellata sera d’estate, carica del profumo dei pini e delle felci. Al bivio scelsi a caso, la Limina, invece di Grotteria. Nel giro di pochi minuti, e di alcuni chilometri, il cielo si chiuse, l’estate scappò via, giunse l’inverno, col suo gelo e una nebbia fittissima, e neanche un’auto che mi venisse incontro o mi stesse alle spalle. Il vetro non ne volle sapere di spannarsi, e accostai per pulirlo. Ebbi una voglia improvvisa di scendere, spensi il motore e lasciai i fari ad abbattersi su un

muro di nebbia. Accesi una sigaretta e insieme al fumo ingoiai il sapore della montagna, del silenzio, di una solitudine sconfinata. Fu allora che li vidi, i fari gli stavano addosso. Due occhi scuri che mi fissavano, dentro un volto di bambino sorridente stampato su una lapide sul ciglio della strada. Lessi il nome, le date. E un’onda calda mi si riversò dentro. Niente paura, né fantasmi, nulla di surreale o ultraterreno accadde. Solo una grande, immensa tenerezza per quel ragazzo solo, fra quei monti muti. Una compassione, senza pietà, per chi, nonostante i tanti anni trascorsi, aveva continuato a portargli fiori, margherite che ora erano fresche, vive, segno di un incontro recente. Ero andato via con calma, spossato. L’estate e le stelle erano tornate in fretta e la nebbia era svanita in un inverno ancora impossibile da immaginare”. Quel volto però mi è rimasto in testa, e quel nome. Lo ricordo sempre, perché penso così di alleviare il dolore di chi ha perso e la solitudine di chi si è perduto. Luca è come me, siamo nati in montagna, l’impressione non ci appartiene, ma sappiamo della solitudine, del ricordo. Per questo ci siamo scambiati i nomi, per alleggerirci, e alleggerire, il peso. Io gli ho dato un Francesco e lui mi ha passato un Nicola.


Ombre e luci 6 FEBBRAIO 1985

A SAN LUCA GRIDA LA LUPARA

inAspromonte Gennaio 2014

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BRIGADIERE CARMINE TRIPODI!

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armine (nella foto a destra), 25 anni, di Castel Ruggero, piccola frazione di Torre Orsaia (Salerno), ucciso in un agguato mafioso, a colpi di lupara, a San Luca, il 6 febbraio del 1985, sulla strada provinciale, ad un anno della sua morte, venne decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. “Comandante di Stazione - dice la motivazione - già distintosi in precedenti operazioni di servizio contro agguerrite cosche mafiose, conduceva prolungate, complesse e rischiose indagini che portavano all’arresto di numerosi temibili associati ad organizzazioni criminose, responsabili di gravissimi delitti. Fatto segno a colpi di fucile da parte di almeno tre malviventi, sebbene mortalmente ferito, trovava la forza di reagire al proditorio agguato riuscendo a colpirne uno, dileguatosi poi con i complici. Esempio di elette virtù militari e di dedizione al servizio spinto fino al sacrificio della vita”.

L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dei Carabinieri È in tale contesto che gli uomini diventano simboli, personificando la voglia di riscatto della gente onesta, la reazione dello Stato per liberare l’ostaggio più importante: il popolo calabrese

di Cosimo Sframeli

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L’AQUILA

Nella foto il Brigadiere Tripodi con la fidanzata Luciana. Foto di Cosimo Sframeli

a lotta si faceva cruenta, quello che sembrava un semplice drappello di uomini, si era ben presto trasformato in una formidabile arma investigativa. I sequestrati cominciavano a collaborare alle indagini, assicurando alla giustizia spietati criminali e loro fiancheggiatori. Ma senza precedenti era la strategia di contrasto del pool antimafia, formatosi tra gli Inquirenti e la Squadra di Polizia Giudiziaria dei Carabinieri di Locri, che riuscì a staccarsi dalla logica del singolo crimine collocandolo nella struttura associativa, compiendo altresì un inedito investigativo, individuando e seguendo i flussi di denaro ricavati dai sequestri che, quando non si perdevano in conti esteri o in attività di riciclaggio, alimentavano il redditizio traffico di sostanze stupefacenti. La ‘ndrangheta, che intuisce la pericolosità e l’incisività della manovra repressiva, alzava la testa ed osservava i propri nemici. Erano pochi e ben visibili, talmente pochi che ognuno di essi rappresentava una fetta della sovranità dello Stato in terra di Calabria, una Istituzione. È in tale contesto che quegli uomini diventano simboli, personificando la ricerca di giustizia, la voglia di riscatto della gente onesta, la reazione dello Stato per la liberazione del più importante degli ostaggi: il popolo calabrese. Ma il simbolo non è solo punto di riferimento di coloro che in esso si identificano, diventa altresì bersaglio per coloro che osteggiano il significato che lo stesso rappresenta. Tanti sono i motivi che possono aver spinto la ‘ndrangheta ad uccidere il Brigadiere Carmine Tripodi, ma tutti confluiscono in un’unica causa: la ‘ndrangheta voleva arrestare il fiume investigativo ormai in piena e senza controllo. La ‘ndrangheta non uccide il Brigadiere Carmine Tripodi soltanto per tutti i suoi sforzi e successi che in pochi anni lo hanno visto protagonista nelle indagini per il sequestro di Giuliano Ravizza, dell’ingegnere Carlo De Feo e nella cattura di latitanti, la ‘ndrangheta uccide il Comandante della Stazione Carabinieri di San Luca, colpendo proprio l’Arma, perché - in quel paese dove tutto ha avuto origine - gli ‘ndranghetisti hanno da sempre riconosciuto nel Carabiniere il loro naturale antagonista. Uomo, Carabiniere e simbolo si fondono, non si può abbattere l’uno senza annientare il resto. Per questo è morto Carmine Tripodi.

DI CASTEL RUGGERO

La storia di Carmine Tripodi, il Brigadiere barbaramente ucciso lungo la strada che porta a San Luca. L’eroe mai dimenticato CARMINE TRIPODI, dal 1982 Comandante della Stazione dei Carabinieri di San Luca, in quegli anni scuri e violenti, fu impegnato ad arginare l’ondata dei sequestri di persona sui crinali dell’Aspromonte. Riuscì ad assicurare alla giustizia i rapitori dell’ingegnere napoletano Carlo De Feo, tenuto prigioniero per 395 giorni su quelle montagne. Quattro miliardi e quattrocento milioni di lire fu il riscatto pagato. De Feo, una volta libero, decise di collaborare alle indagini e, insieme al G.I. di Napoli Palmieri, ritornò a San Luca. Lì, Tripodi e i suoi Carabinieri, con l’aiuto dell’ex rapito, riuscirono a localizzare otto prigioni, tra le impervie alture ed anfratti dello Scapparrone e dello Zillastro, di Monte Castiglia, Pietra Longa, Pietra Kappa, monoliti che giganteggiano sull’Aspromonte orientale. Verso le 21.00 del 6 febbraio l’agguato, a San Luca, in una doppia curva. Carmine Tripodi cadde sotto il piombo dei killers stringendo nella mano destra la sua pistola d’ordinanza con la quale, in una disperata quanto inutile difesa, sparò ripetutamente contro i suoi assassini cinque colpi, colpendone uno. Venne trovato dai suoi Carabinieri, che scendevano verso la vallata del Buonamico, piegato sul sedile della propria autovettura, mentre impugnava ancora l’arma, col dito indice sul grilletto. L’esecuzione sommaria rappresentò una sfida allo Stato, all’Arma. Significò una frattura traumatica di quella “regola” non scritta, ma bene impressa nel cuore e nella mente di ognuno, che sanciva di “rispettare” i Carabinieri in quanto avrebbe portato male a tutti e disgrazie alle famiglie sparare su un rappresentante dell’Ordine.

L’OMICIDIO DEL BRIGADIERE fu organizzato e portato a termine da gruppi criminali della ‘ndrangheta per dare una dimostrazione del proprio “prestigio” nel momento in cui il valoroso sottufficiale aveva chiuso con le investigazioni sulle cosche locali ed era già stato trasferito a Santa Caterina sullo Jonio, dove lo aspettavano per lunedì 11 febbraio. Altresì, ci fu il tentativo di intimidire e debellare quel manipolo di investigatori impegnati a Locri, Magistrati e Carabinieri, che non si erano limitati a sognare un mondo migliore ma erano andati a cercarlo e sfidarlo. Luciana aveva 21 anni ed era fidanzata a Carmine. Rimase un giorno aggrappata alla bara del giovane Brigadiere che aveva conosciuto quattro anni prima a Bianco. Il primo ed un grande amore, le nozze fissate, i mobili acquistati, la casa pronta per essere vissuta a Santa Caterina sullo Jonio. Mancava soltanto il matrimonio che era stato fissato per il successivo mese di marzo. Al polso continua a portare l’orologio del fidanzato. Sul luogo dell’agguato, sempre Luciana, fece costruire una lapide con una fotografia. Aveva scritto lei le parole incise sulla lastra di marmo. I fiori non mancarono mai, a tutt’oggi, anche quelli di prato che crescono sulla vicina collina. I Carabinieri, che transitavano, sostavano per una preghiera e per ripulire la lapide. Erano gli stessi che per anni lo avevano seguito con entusiasmo, nel pericolo, volando più in alto delle aquile e mostrandosi più rapidi dei falchi, tra le montagne, nel cuore dell’Aspromonte, dove, insieme al loro Comandante, avevano sentito il respiro dell’Eterno.


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Aspromonte orientale

inAspromonte Gennaio 2014

IL RACCONTO

IL MARITO DELLA PIANA

di Antonio Perri

L

’orologio del campanile

testa dentro i vimini. Novembre era

della chiesa segnava le cin-

finito e si spargeva nel paese di Ca-

que, la sirena che chiamava

raffa l’odore dell’imminente festi-

gli operai al meritato riposo suonò

vità. Arrivata a casa Rita salutò la

per due impercettibili minuti. Rita

figlia Rachele, una ragazza di 35

tornava dal gallinaio dove aveva sfa-

anni. Il suo cruccio, perché era an-

mato le pennute, si era fermata da

cora nubile e, di lì a poco, sarebbe

donna Peppa che le aveva regalato

appassita come un fiore alla fine del

delle buone arance e le portava sulla

giorno. Di proposte la ragazza ne

San Luca, la storia di un diciottenne costretto a lasciare il suo paese

ACCUSATI DI ‘NDRANGHITA

Commissari e commissariamenti. Il dramma dei paesi reggini, bollati di nero dallo Stato di BRUNO SAVATORE

LUCISANO

?

Il decreto del Presidente della Repubblica (17 maggio 2013)

A

G

iovanni non vota più. Ci è rimasto male, Giovanni, quando gli hanno detto che a San Luca non si votava più. Per lui sarebbe stata la prima volta, 18 anni compiuti da due settimane ed il pensiero fisso al momento in cui, per la prima volta, si sarebbe chiuso in una cabina per partecipare pure lui, col suo contributo, al voto, alla democrazia, alla libertà di scelta. Non è possibile, il suo Comune, ad una settimana dal voto è stato chiuso per “ndranghita”. O almeno è stato chiuso al popolo, alla gente comune, alla gente onesta, alla libertà di pensiero.
Non importa se a San Luca ci sono intellettuali, scrittori, medici, avvocati, ingegneri, operai, gente onesta quanto chi ha preso questa decisione che poi, non sposta neanche di una virgola, quello che adesso è il paese, quello che è stato e quello che sarà. Arriveranno uno, due, tre commissari che gestiranno la cosa pubblica per diciotto

Non importa se a San Luca ci sono intellettuali, scrittori, medici, avvocati, ingegneri, operai, gente onesta... Arriveranno uno, due, tre commissari che gestiranno la cosa pubblica per 18 mesi, poi finalmente nuove elezioni. Eh si! Perchè nel frattempo a San Luca non ci sarà più ndranghita

mesi, poi finalmente nuove elezioni. Eh si! Perché nel frattempo a San Luca non ci sarà più ndranghita, si sarà dissolta, dopo lo splendido lavoro dei commissari i quali, per un breve periodo, non faranno altro che fare quello che un buon sindaco può fare.
Giovanni ha deciso di strappare quel certificato elettorale, perché se non è buono per votare per le comunali, non è neanche buono per altre elezioni, provinciali, regionali ecc.
Seduto sulla panchina della piazza e guardando il cielo ha pensato: «Ma nei paesi dove non è stato chiuso il comune per ndranghita, questo vuol dire che non c’è?». Beve una lacrima amara Giovanni, si alza dalla panchina e corre a casa per comunicare ai suoi che si trasferirà a Locri per motivi di studio e soprattutto per il fatto che, prendendo la residenza di quel paese finalmente, potrà votare. Si a Locri si vota, lì la ndranghita non c’è!

LA BARISTA DELLA STAZIONE

l chilometro trecento della vecchia mulattiera che collegava la ionica a Reggio all’altezza di Bovalino, famoso a quei tempi per la fiera che vi si svolgeva, c’era una stazione di servizio con una locanda annessa dove lavorava una delle più conosciute ragazze della Locride. Era Giulia Bontempo cui la madre Giovanna aveva lasciato la sua attività, che lei ora portava avanti col vecchio padre e il fratello. L’unico amore di Giulia si chiamava Roberto ed era morto nella seconda guerra mondiale, durante la ritirata di Russia. Da dieci anni a questa parte Giulia aveva rifiutato almeno una dozzina di offerte di matrimonio, «Che lo voglio un estraneo in casa?» diceva a chi gli faceva notare che avrebbe dovuto prender marito. E poi a lei bastava la corte degli avventori avvinazzati che frequentavano la sua locanda. Il fior fiore della gente che contava in quegli anni non mancava ad un fugace caffè fatto da lei,

o al suo bicchiere di buona birra tedesca. I più assidui avventori erano i giovani figli dei boss che dominavano la Locride. Tra i clienti c’era anche una parte che non consumava, ma si accontentava di sedersi a parlare sotto il porticato nelle lunghe sere d’estate, quando si ragionava di terra e bestiame. Tra questi un ragazzo timido che si alzava all’alba per fumare la prima sigaretta sotto il porticato, prima di andare a lavorare: era Giorgio il nuovo postino del paese. Giorgio prendeva sempre un cornetto e, mentre lei non se ne accorgeva, restava a guardare la figura sinuosa della barista muoversi dietro il bancone. Tra i boss in erba che frequentavano assiduamente la locanda c’erano Paolo e Mimmo, cugini inseparabili. Due dannati bevitori. Una sera Giorgio si presentò alla locanda «Oggi non ho lavorato, mi si è scassata la vespa, per questo stamattina non sono venuto. Giulia dammi un fernet!» disse, e si

apprestò a bere. Al tavolo c’erano i cugini e, vedendo il giovane postino, lo invitarono a bere con loro «Non sia mai che beviate da solo, venite». Il postino pensò «Che c’è di male per stavolta?». Subito dopo una macchina scura si fermò davanti al locale, entrarono due uomini con fucile e fazzoletto sulla bocca. Giulia capì subito e si precipitò sui due che la spinsero a terra. Partirono quattro raffiche di pallettoni contro il tavolo dei due cugini che stramazzarono all’unisono, e subito i sicari fuggirono con la macchina nera. Giulia singhiozzava, forse per Paolo e Mimmo. No. Quello che lei guardava era altro: la schiena piegata, la testa supina sul tavolo, Giorgio sembrava dormire. Mentre Giulia lo soccorreva lui gli sussurrò «Me ne vado guardandoti. Me ne vado contento». Da quel giorno un velo di tristezza colorò la barista. A.P.


Aspromonte orientale

inAspromonte Gennaio 2014

aveva ricevute diverse ma le aveva

paese. Rachele inorridiva a pensarci.

reggiata si addormentò e fece un

sempre rifiutate. «Figlia mia non ti

Il 10 dicembre capitò in paese un

sogno: un omino minuto in panta-

vuoi sistemare?» «Non c’è nessuno

mercante di stoffe di Gioia Tauro.

lone di fustagno bussò alla sua porta.

che mi voglia veramente» «E Gio-

Vide Rachele e, cinque giorni,

«Compare da dove venite?» «Vengo

vanni il macellaio?». Giovanni era

mandò i suoi fratelli a chiederle la

dalla Piana» «Ho una figlia zita alla

l’espressione della crudezza, sempre

mano. A Rachele piaceva, a Rita no:

Piana voi dite che è buon partito?»

sporco, non rispettava le sue bestie,

«Ora mia figlia va alla Piana, e qui

«È buono, è buono». D’improvviso

era animale come loro, peggio di

non c’è più pane, non c’è più olio,

si svegliò e andò a benedire la figlia.

loro. Ma era l’animale più ricco del

questi mi toglieranno tutto». Ama-

Così anche Rachele trovò marito.

ma Gianni u tamburinaru suona ancora. Suona, e si illude di trasmettere qualcosa alle nuove generazioni. Suona, e ripercorre le strade dei nostri paesi. Qua restare è un'avventura, o un atto di incoscienza, spesso una fatica e un dolore

di Mimmo Catanzariti

Di lui, profondo conoscitore brabbiti, 'bbrabbiti dei nostri 'bbrà... mi sembra di risentire il scrittori e quasi suono delle bacdell’umanità chette di legno, con le quali cugino del Sud, si Gianni Romeo, u Tamburinaru, percuoteva con sono i tamburo. ritmooccupati sostenuto il suo Per noi bambini che più importanti correvamo festanti appresso a lui, a Michele quotidiani u Giamba e a 'Ntoni u Miricriju che suonava la grancassa, appaitaliani

B

riva qualcosa di nuovo, strano, quasi magico. Quel suono che si sentiva già di prima mattina per le viuzze del paese, annunciava con ritmi diversi, a seconda del periodo dell'anno, l'arrivo delle festività. L'organico era sempre lo stesso, tranne in qualche occasione straordinaria che richiedeva anche la presenza di altri elementi provenienti dai paesi vicini. Questi si accodavano al terzetto paesano, guidato dal più esperto e anziano suonatore, nello specifico dal cugino Gianni, che guidava i "tamburinari" lungo il percorso tradizionale attraverso tutti i punti del paese. Per le comunità del versante jonico calabrese, l'uso di questo strumento scandiva i ritmi della vita e delle ricorrenze, festive e sociali, dei piccoli centri rurali. Le occasioni per le quali venivano chiamati a suonare erano di solito le novene (periodi di nove giorni antecedenti le feste religiose) alle quali seguivano le processioni caratteristiche che accompagnavano i Santi. Una delle festività dove i "tamburinari" si danno appuntamento si tiene ogni anno nell'ultima domenica d'agosto a Gioiosa Jonica, là si raccolgono oltre 50

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U tamburinaru «Gianni Romeo percuoteva con ritmo sostenuto il suo tamburo. Per noi bambini che correvamo festanti appresso a lui, a Michele u Giamba e a 'Ntoni u Miricriju, era qualcosa di nuovo, strano, quasi magico»

Nella foto un suonatore di tamburo. Festa di San Rocco, Gioiosa Jonica. La foto è di Domenico Logozzo

suonatori di tamburo che suo- presentano i personaggi di un re nano incessantemente lungo tutto turco e di una regina bianca. Il il tragitto. Accompagnano la sta- tamburo (dal persiano tambur) è tua di San Rocco, il Protettore del lo strumento che è più presente paese, circondati da una folla di nella maggior parte delle culture devoti che balpopolari del lano al ritmo mondo. La pelle forsennato dei Manifatture antiche usata era comunetamburi una ta- I centri dove si mente d'asino, rantella votiva. costruivano i tamburi, anche se per la Un rito tramancostruzione di dato da moltis- usati anche per scopi questo strumento simo tempo, militari, erano si utilizzavano una festa che cosentini: Pedace, anche altri mateinizia alle 9 del riali tradizionali: mattino e ter- Rogliano, Spezzano strisce di ottone, mina alle 8 di Sila e Sant'Ippolito pelli di capra o di sera. castrato, e tiranti di budello o di In alcune feste i "tamburinari" corda. Il corpo del tamburo è coaccompagnano anche il ballo dei struito solitamente in legno di "Giganti" Mata e Grifone, due noce e spesso è bordato di frange grandi pupazzi cavi di mitiche fi- e di nastri. gure di origine siciliana, che rap- Un'altra delle figure caratteristi-

che della tradizione, che si ac- figure della tradizione popolare compagnava con il cupo battito calabrese, ma Gianni u tamburidella grancassa o con il rullare naru suona ancora. Suona, e si ildel tamburo, era u bandiaturi. Un lude di trasmettere qualcosa alle rullo continuo annunciava al nuove generazioni. Suona, e ripaese le novità, percorre le strache potevano dine dei nostri riguardare sia Festa di San Rocco paesi. Qua restare una comunica- A Gioiosa jonica, ogni è sempre un'avzione delle au- anno, nell’ultima ventura, o un atto torità che di incoscienza, governavano il domenica di agosto si spesso una fatica paese, sia un danno appuntamento e un dolore, viavviso di ven- oltre 50 “tamburinari”, vendo i nostri dita commer- per festeggiare paesi senza il ciale; gli avvisi peso del passato, venivano decla- il Patrono del paese e senza aver bisomati ad alta voce, alternati ai gno ogni giorno di rimarcare l'apritmi del tamburo che servivano partenenza a questa terra, usando ad attirare l'attenzione della le parole di Vito Teti. Sono echi gente. di un tempo di cui si stanno lenOggi anche il "bandiaturi" è tamente perdendo i contorni di scomparso, assieme a molte altre popolo e di cultura.


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Aspromonte greco

inAspromonte Gennaio 2014

Ta chorta

di Salvino Nucera

LA PECORA FERITA

U

na pecora, ferita ad una zampa, andò a strofinare (sotto gli occhi del pastore) la parte interessata contro un cespuglio di parietaria o erba di vento (in grecanico còddhizza o sbiddhìda perché si incolla facilmente se viene toccata). A quel punto il pastore ne raccolse un mazzetto e glielo applicò sulla ferita già infetta. L'animale in poco tempo guarì. Tale erba viene quindi utilizzata per far guarire le ferite infette. Per tale patologia veniva usata anche un'altra erba, la Pulicària Viscosa (in grecanico clizsa) fatta macerare nell'urina. Le foglie di quest'erba in tempi di "magra" venivano anche essiccate e fumate e gli antichi usavano aromatizzare il vino con le foglie di questa pianta.

I

n passato, ma non è da escludere che succeda anche oggi, per curare molte patologie si faceva ricorso a rimedi naturali molto antichi tramandati dalla cultura e dalla tradizione popolare; maggiori depositari di tali tradizioni erano i contadini e i pastori che vivevano in continuo contatto con la natura. Ciò spesso consentiva di scoprire le proprietà curative delle erbe anche solo osservando il comportamento degli animali. Il Citiso (to lifràci) detto anche Avornello, Laburno o Maggiociondolo era utilizzato per curare ferite ed escoriazioni. Per curare infezioni o foruncoli infetti si ricorreva ad impacchi di pomodori selvatici (to mavrèddha) ben schiacciati che producevano un alcaloide (solano nero). Contro il raffreddore si respirava il fumo di una specie di menta selvatica molto profumata, chiamata puleggio (to fluscùni) fatto inalare anche agli asini che soffrivano di questa malattia.

P

er combattere la tosse, invece, si faceva ricorso ad un decotto fatto con carrube, orzo (crithàri), fichi secchi (ascàdia o còtsula), malva (to molòchi), pere secche (i coftèse), mallo di mandorle (flustro asce amìddalo), latte (togala) e miele (to meli), e se ne beveva un bicchiere. Se la tosse era persistente (to ràccato), si usava anche un infuso di fiori di borragine (to mùchluzso). La borragine era impiegata anche per le sue proprietà diuretiche e sudorifere, e spesso la si usava anche in cucina. Altra tisana per curare la tosse era ricavata dalla bollitura di malva, radici di finocchio (rizse asce màtharò), radici di zucca (cucùtzsa), orzo, e grano (sitàri). Il mal di gola si sconfiggeva con gargarismi a base di sale (to ala), aceto (to scidi) e una varietà di salvia (capitùria) fatta bollire nell'acqua.

C

ontro il mal di testa (ponocèfalo) si imbeveva un panno con aceto e lo si applicava sulla fronte. Se il malore in questione era la conseguenza di una digestione difficile si preparava un infuso a base di basilico. Per lo stesso problema si ricorreva anche a un decotto a base di semi di finocchio (sporomàtharo) e a foglie di alloro (danni). Per curare la polmonite necessitavano semi di lino pestati (linùsa), con cui si otteneva un impiastro ben caldo che si applicava con dei cataplasmi sulle spalle. Per far abbassare la pressione arteriosa troppo alta si ricorreva all'aglio ben pestato (to scordo) assieme ad un altro rimedio che consisteva in un infuso di foglie di alloro. Per il mal di denti si ricorreva a sciacqui a base di lattuga (to marùddhi) e origano (to rìgano), oppure si masticavano le foglie di lentisco (to scinàri) e di nepitella (i calàmithia) ed ancora polvere di foglie essiccate di salvia selvatica. I geloni invece si curavano con pediluvi di acqua bollente con ortiche (i sclithre).

P

er curare la stitichezza si faceva ricorso alla bryonia (i culuprèda) detta anche zucca marina, selvatica o matta. Con la gramigna (i argàmi) e la fumaria, che ha proprietà depurative, si curavano alcune malattie cutanee e le infezioni intestinali e dello stomaco. Per la cura del mal di pancia si faceva ricorso alla corteccia di quercia (dendrò o velanìdi) bollita nell'acqua, ad infusi a base di camomilla, di alloro, di parietaria o di nepitella. Per eliminare i vermi nei bambini, si usavano la menta (mitta), aglio e lupini bolliti. I disturbi renali si curavano con infusi di gramigna o alti infusi realizzati con fiori di fichi d'India (sica tu turcu). Per la cura delle ustioni si ricorreva a polvere di fave carbonizzate e macinate.

Il sapere degli anziani, nei rimedi per curarsi con la natura

ERBE CURATIVE

A

Le ricette dei contadini

d una puntura d'ape si era soliti applicare dell'aglio schiacciato. Per piccole fuoriuscite di sangue dalle ferite e per piccole escoriazioni, si adoperava l'infiorescenza di una pianta chiamata tifa o stagghia sangu, più comunemente chiamata Biodo di palude. Per eliminare i foruncoli si usavano pane bollito, limone o le foglie del sorbo (survàra). Per guarire i tessuti infiammati o per decongestionarli si usava un impiastro a base di foglie d'acanto (àcatho o glicoàcatho). Come rimedio ulteriore per tali patologie si utilizzavano anche le sanguisughe (addèddhe). Dalla feccia del vino si otteneva il cremore di tartaro usato come diuretico e lassativo. Per combattere alcune infiammazioni della pelle si usava pure l'asfodelo (to spuddèddhi). Per le distorsioni agli arti si preparava un impacco con farina (alèvri) e bianco d'uovo (aspro tu avgù), o bianco d'uovo e stoppa (to stuppì), che veniva applicato e fasciato sulla parte interessata.

F

rizioni di un infuso a base di ortiche servivano per rinforzare il cuoio capelluto. Le patologie epatiche si curavano con infusi di cicoria (to plevrò, i pricaddhìda, to pricomàruddho). Per curare i disturbi alle orecchie si introduceva nel condotto uditivo con un batuffolo, una purea di aglio crudo e cipollotta (crommìdi). Per conciliare il sonno dei bambini si ricorreva ai

semi di papavero (paparìna), che venivano introdotti nell'improvvisato biberon fatto di tela di lino. Infine per la cura dei reumatismi si usava un impiastro di ortiche (masculine) bollite. Le erbe e il loro utilizzo ci accompagnano sin dall'antichità; questo utilizzo molte volte è legato ai racconti popolari, infatti sappiamo dai nostri nonni che ogni erba corrisponde ad un rimedio salutistico, ma quanto c'è di vero e quanto è dato dalla mitologia? Negli ultimi anni curarsi con le erbe ha riacquistato grande importanza, anche perché l'uso prolungato dei farmaci prodotti in laboratorio, spesso porta a gravi effetti collaterali.

O

rmai le erboristerie e i reparti specializzati in prodotti a base di erbe e rimedi naturali sono sempre più presenti persino nei centri commerciali, oltre che nelle farmacie tradizionali. Bisogna però chiarire che anche in passato, ad ogni trattamento di malattie con l'impiego di erbe, si associava quando possibile anche la cura di un medico e di medicine di derivazione sintetica. Questo è necessario chiarirlo, perche le piante e le erbe non sempre da sole sono in grado di curare, ma sono una parte integrante di un trattamento naturale e più generico. Alla cura con le erbe è sempre bene affiancare un sano buon senso e sopratutto una buona prevenzione.


Aspromonte greco LE FRASI PIU’ BELLE DAL WEB

I

sogni

alimentano

la

vita.

inAspromonte Gennaio 2014

mondo che non disdegna la violenza

Quando si smette di sognare, si

come metodo. Qualora ci fosse spa-

affronta la realtà con il suo ca-

zio per questi sogni, bisognerebbe

rico di verità che spesso non pratica

dare un'occhiata più attenta alla re-

sconti. C'è un particolare che preoc-

altà che ci circonda. Taluni fareb-

cupa. E' il fascino dell'eroe negativo,

bero bene a scendere dalla cattedra

l'uomo che vive oltre la legalità, il

da cui si sono presunti l'esclusiva

prepotente, il ricco di moneta

della verità del bene e del male.

sporca, il rappresentante di un

9

Cosimo Sframeli

di Silvio Cacciatore*

1

7 eventi in 20 giorni, 13 associazioni e 8 comuni dell’Area Grecanica: questi i numeri del Festival “Lungo il Sentiero dell’Alica” giunto alla sua terza edizione e che dal 13 dicembre al 4 gennaio ha animato le città dell’Area Grecanica portando almeno 10 mila spettatori. Sono stati coinvolti gruppi locali: la Corale Polifonica “Don Ruggero Coin”, i Taranproject, i Kalavrìa, i Kardhja, i Nuovo Suono Battente, i Musicofilìa, i Taranta Nova Sound, i Mahler Slide Quartet, il duo “Favasuli-Platani”. E non solo. Mountain Bike lungo la “via dei castelli”, trekking guidato alla scoperta del territorio e del famoso “sentiero dell’Alica”, convegni e proiezioni video partecipate da centinaia di studenti delle Scuole Superiori. L’intento dell’Alica Festival è stato quello di offrire una lettura dei territori e delle culture confluite nei secoli nell’Area Grecanica, attraverso il recupero delle radici. Un’iniziativa culturale che si è posta come obiettivo la riscoperta del passato come possibile volano di crescita sociale ed economica, partendo dalla

VERSI E MUSICA

Nella foto sopra il maestro Peppe Platani (foto di Mario Varano), nella foto a sinistra il maestro Gianni Favasuli

NELLA CALABRIA GRECA

destagionalizzazione delle attività finalizzate alla promozione culturale ed al richiamo turistico. La Calabria può e deve essere attrattiva come il resto della nazione, perché ha tutte le carte in regola per essere meta, in tutti i dodici mesi dell’anno, di migliaia di turisti. E qui entra in gioco, molto importante, il ruolo delle Istituzioni e delle Associazioni, le quali devono creare occasioni, manifestazioni, attività volte al richiamo turistico non solo nei mesi estivi. Il 30 novembre sono stato personalmente a Milano all’inaugurazione della Fiera

dell’Artigianato, una delle esposizioni più importanti d’Europa. Tra i visitatori che mi passavano a fianco, cartina alla mano, sentivo nominare con entusiasmo la parola “Calabria” quasi come fosse un tormentone. Insomma, è tangibile di come ci sia una gran voglia di scoprire le bellezze della nostra regione. Creare “occasioni”, offerte che possano allettare il turista e portarlo nella Calabria greca per trascorrere le ferie. L’Alica Festival, ad esempio, assieme al collaudato Paleariza, possono aiutare – a mio modesto parere – a creare una

base per le condizioni necessarie a destagionalizzare l’offerta turistica. Questa edizione, la terza, è stata progettata “in rete”: una rete di comuni ed associazioni che hanno contribuito attivamente alla realizzazione dell’intero evento, riuscendo a garantire sia all’Ente Provinciale che all’Associazione promotrice una elevata razionalizzazione della spesa – indispensabile

in tempi di crisi così terribile – consentendo quindi al Festival di poter numericamente contare circa 20 giorni di eventi. Le Associazioni partner si sono fatte carico di contribuire all’organizzazione fornendo palcoscenico, corrente elettrica e pagamento spese SIAE. Il lavoro per la IV edizione è già iniziato: sarà un festival che andrà a scardinare diversi preconcetti, diventando qualcosa di inedito. *direttore artistico Alica Festival


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Ambienti e città

inAspromonte Gennaio 2014

A febbraio in libreria

IL FUTURO DELLE CITTA’ (di FEDERICO CURATOLA)

Dopo Sicurezza e territorio arriva un nuovo lavoro edito da Città del Sole

D

i fronte allo scenario che mostra un ambiente urbano in cui una crescente domanda di efficienza contrasta con l’inadeguatezza delle risorse, le amministrazioni pubbliche devono attuare dei sostanziali cambiamenti ai modelli classici di gestione. Il lavoro cerca di analizzare quanto e come la disciplina urbanistica stia cambiando, soprattutto con l’avvento del fenomeno delle “Smart Cities”. F. C.

Comunità intelligenti per Città intelligenti

SMART CITY?

Roccella “differenzia” A solo otto mesi dall'avvio (luglio 2011), la percentuale di raccolta differenziata è stata superiore al 70%. Sono 519 le tonnellate di organico raccolte, 145 tonnellate tra plastica e alluminio, 138 tonnellate di carta, 170 di vetro e 10 tonnellate di indumenti. In discarica sono finite solo 370 tonnellate di rifiuto non riciclabile. Negli stessi mesi del 2010 tutte le 1352 tonnellate raccolte sono finite in discarica. I vantaggi della scelta fatta sono evidenti: abbattimento della produzione di rifiuto da immettere in discarica.

LA SFIDA ECOLOGICA di Federico Curatola

L

a città è un bene comune. Bisogna partire da questo assunto per affrontare il delicatissimo tema della “partecipazione” e della “condivisione” come strumenti basilari per dare alla città un nuovo slancio, nuovi impulsi, nuove opportunità. Non importa la dimensione, l’importanza o il “rango” di una città quando si formulano idee e progetti che possono migliorare la vita dei suoi abitanti. Anzi, in città o cittadine di modeste o ridotte dimensioni, come la gran parte dei paesi aspromontani, è probabilmente più facile costruire una partecipazione efficace e farle diventare dei “laboratori” attivi per la sperimentazione di programmi innovativi di politiche urbane da esportare poi su scala vasta. L’opportunità per ripensare alla città contemporanea è fornita dall’utilizzo ormai capillarmente diffuso della tecnologia. Nell’affrontare il tema della “smart City”, si deve pensare che la piattaforma digitale aiuta la città fisica a compiere un salto di qualità, la aiuta ad evolversi, a diventare più attraente, più efficiente. E sarà tanto più evoluta, attraente ed efficiente, quanto più la piattaforma si integra con l’ambiente fisico. Vorreste che il Comune comunicasse con voi attraverso un tweet? Vorreste poter pagare le tasse da casa vostra senza fare estenuanti file agli sportelli? Vorreste essere informati istantaneamente di ciò che accade (guasti alla rete idrica, elettrica,

eventi culturali, orari del trasporto pubblico o della raccolta dei rifiuti, ecc…)? Vorreste poter segnalare un problema direttamente con un messaggino o con una foto? Se avete risposto no oppure pensate che sia utile ma non indispensabile, proverò a convincervi che è utile ed oggi anche indispensabile. Tutte le città, grandi e piccole, hanno la necessità di tagliare i costi di gestione per poter continuare ad offrire servizi ai cittadini mantenendo degli standard qualitativi accettabili. Nonostante ciò sono pochi i Comuni virtuosi che hanno già scelto politicamente la direzione da seguire e messo in atto politiche mirate al contenimento dei

Il “Decoro Urbano” È un sistema che consente al cittadino di interagire con il Comune, segnalando guasti e problemi in maniera istantanea. Molti hanno già aderito costi di gestione. Le spese che è possibile ridurre e razionalizzare sono quelle legate al consumo di energia, ai rifiuti, al ciclo dell’acqua, al consumo di carta. Facendo di necessità virtù, le città, grandi e piccole, devono cogliere l’opportunità di evolvere e sviluppare le loro infrastrutture per offrire ai cittadini un modo diverso di vivere la città, per essere città intelligenti, città a misura d’uomo - “Smart Cities” - in cui i cittadini sono posti nelle condizioni di contribuire attiva-

RIFIUTI URBANI

smaltirli in modo efficiente è d’obbligo per tutti i cittadini, un valido esempio è la città di Roccella (nella foto a sinistra). Sopra un progetto di Smart City (denaro.it)

ISTITUTO PROJECT FINANCING

Affidamento dei servizi a società che investono per trarre dei benefici ma che consentono ai Comuni di risparmiare e di liberarsi dall’incombenza degli interventi di manutenzione

mente al mantenimento e al miglioramento dell’ambiente in cui vivono. Facciamo qualche esempio. L’installazione di regolatori di flusso e la sostituzione delle lampade nella rete di pubblica illuminazione consente un risparmio di circa il 50% sulla bolletta elettrica che il Comune deve pagare (e che paghiamo noi, ovviamente). Si ma questo ha un costo, direte voi. Certamente ha un costo, ma oltre ad esservi delle specifiche misure del POR che

La città intelligente Risparmia energia e ricicla risorse, promuove modi di vita ecosostenibili, sposa la diffusione della cultura, offre lavoro, svago, turismo finanziano progetti di innovazione tecnologica esiste l’istituto del project financing. Lo stesso dicasi per il ciclo dell’acqua e per il sistema di raccolta dei rifiuti, su cui però, va detto, che solo una fortissima e capillare campagna di sensibilizzazione per la raccolta differenziata può aiutare ad abbassare i costi (economici e sociali) di questa importante voce di spesa. In questo senso, virtuoso è l’esempio del Comune di Roccella Jonica, dove da luglio del

2011 è iniziata la fase di raccolta differenziata porta a porta ed i cittadini «sono i protagonisti per la salvaguardia dell’ambiente». La progettualità dell'amministrazione ha portato 700 mila euro di finanziamento, che, stanziati dalla Regione Calabria, hanno consentito di avviare il nuovo sistema di raccolta. Niente più cassonetti e piazzole di raccolta per le vie di Roccella, ma raccolta "porta a porta" e differenziata. Ovviamente alla base di una “città intelligente” deve esserci una “comunità intelligente”, sensibile e capace di utilizzare le risorse a sua disposizione per contribuire a rendere migliore la vita nella città. Sarà possibile per comunità piccole e chiuse come le nostre affrontare e vincere questa sfida? Si, solo se tutti diverremo consapevoli che è l’unica strada possibile.


Scoperte archeologiche

inAspromonte Gennaio 2014

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San Teodoro di Varraro, il monaco aspromontano che salvò la vita agli abitanti della Locride

I PIRATI! I PIRATI! Nel 1594 i Turchi sbarcano sulla costa costringendo gli abitanti alla fuga sui monti. Poi la storia si mischia alla leggenda, per ritornare storia grazie ad una scoperta... di Pino Macrì

È

la mattina dell’8 settembre 1594: la rossa palla di fuoco ha iniziato da poco a far capolino dal placido e silente orizzonte della costa jonica reggina, e, subito, è chiara a tutti gli abitanti dei centri collinari disseminati su quella martoriata fascia costiera l’agghiacciante realtà: quelle decine di puntolini neri, ingrandendosi man mano che si avvicinano alla costa, non possono che essere imbarcazioni di pirati turchi! D’altronde, quel miserabile tratto di costa ormai dai remotissimi tempi magnogreci aveva smesso di avere interesse alcuno per chiunque, se non per la carne umana da macello utilizzabile nelle guerre (mai fatte a loro vantaggio), e, quindi, anche allora era del tutto indifeso. Agli abitanti di Ardore, Bianco, San Nicola, Montepaone ecc. non rimane che la fuga per sfuggire al sacco o al rapimento, con annessa riduzione in schiavitù. Se ne rendono ben conto, ovviamente, anche gli abitanti di Bovalino, che, senza perdere tempo, approntano l’unica difesa possibile: gli inviolabili contrafforti aspromontani. Inizia, come è facile immaginare, un fuggifuggi doloroso quanto frenetico. “Ognun per sé e Dio per tutti”, deve essere stato il più probabile dei proclami. A piccoli gruppi, in cui il collante era magari soltanto rappresentato dai più stretti vincoli di parentela, si dirigono per lo più verso i boschi inaccessibili della montagna, dove attendere in sicurezza di poter far ritorno agli averi (o a quel che ne sarebbe rimasto dopo il provabilissimo, anzi sicuro, sacco) abbandonati in fretta e furia. Alcune famiglie decidono di dare retta ad un carismatico monaco: si chiama Teodoro, ha dedicato la propria vita alla contemplazione ascetica, e conosce un monastero abbandonato in un luogo impervio e praticamente inaccessibile in cima al monte Varraro. segue a pag. 12 e 13

Nella figura una ricostruzione della pianta del monastero

GLI ABILI MARINAI NORDAFRICANI OCCHIALI’, SCIROCCO, CARACOSA: LA MORTE CHE VIENE DAL MARE opo l'anno Mille l'impero Turco allargò i suoi possedimenti giungendo a minacciare l'Europa cristiana. Nel 1453 cadde Costantinopoli, nel 1499 i Veneziani persero Lepanto, nel 1523 Solimano il grande (Suliman II) conquistò Rodi, nel 1526 l'Ungheria finì sotto il dominio ottomano. L'offensiva turca assunse l'aspetto di una manovra a tenaglia tesa a stritolare l'Europa: si pensi che l'impero della mezza luna arrivò sino a minacciare le porte di Vienna! Nel Mediterraneo i Turchi con azioni di disturbo di "pirati" fiaccavano il commercio delle nazioni nemiche. Molti paesi in prossimità delle coste furono devastati con la susseguente deportazione degli abitanti in schiavitù. I pirati musulmani erano marinai audacissimi, molti dei quali rinnegati dalla cristianità: Uluch Alì detto "Occhiali" - forse un ex frate (tale Galeani), Mehemet soraq detto "Scirocco" e il più temerario e famoso Khara Khodja conosciuto come "Caracosa".

D


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Scoperte archeologiche

inAspromonte

I PIRAT

Gennaio 2014

Vladan Radovic

Fin qui una leggenda, che ho personalmente ascoltata sin da bambino nelle lunghe serate invernali attorno al braciere. Poi, qualche settimana fa, l’amico Gianni Pascale mi mette a parte di una segnalazione ricevuta da un abitante di Careri: vi sono dei ruderi, lassù, scovati durante l’esecuzione di lavori di metanizzazione nei paraggi. Arrivarci non è per nulla facile: i sentieri spariscono, e il fuoristrada procede con la ridotta segue da pag. 11 di Pino Macrì

Il monte e in realtà una collina di appena 640 metri di altitudine massima, ma interamente ricoperto di querce da ghianda, che nascondono completamente alla vista l’antico asceterio. Qui riparano alla mala sorte, e qui Teodoro si stabilisce definitivamente, fino alla morte, che lo coglie “in odore di santità”. Fin qui una leggenda, che ho personalmente ascoltata sin da bambino nelle lunghe serate invernali attorno al braciere (il televisore era ancora di là da venire, a guastare il dolce sapore di quei fantastici racconti). Poi, qualche settimana fa, l’amico Gianni Pascale mi mette a parte di una segnalazione ricevuta da un abitante di Careri (nel frattempo, il monte Varraro, con il riordino amministrativo murattiano, rientra in parte in terri-

torio comunale di Careri, in parte di Benestare): vi sono dei ruderi, lassù, scovati durante l’esecuzione di lavori di metanizzazione nei paraggi. Arrivarci non è per nulla facile: ad un certo punto i sentieri spariscono ed il fuoristrada che ci trasporta deve procedere a lungo con la ridotta, per riuscire ad inerpicarsi. QUASI UN’ORA di viaggio per percorrere 4-5 km da Benestare, ma dopo un fittissimo bosco di querce ed una radura che ti apre il cuore per la sua bellezza incontaminata, entriamo nuovamente in un’area boscosa. Fermiamo il mezzo e proseguiamo a piedi per qualche centinaio di metri, e lì, dopo aver attraversato un muraglione, che chiaramente non è un’ “armacera” di recente fattura, arriviamo su un pianoro protetto su tre lati da profondi

dirupi, con numerose querce su ogni lato a nasconderne completamente la vista dall’esterno. Lì, vicino ai bordi Sud ed Est, emergono improvvisamente i tanto ricercati ruderi. L’altezza di più di un metro, e la compattezza di quei resti, non pongono alcun problema di lettura: si tratta con ogni evidenza di un edificio cultuale, triabsidato e trinavato. Solo l’angolo sud-ovest è ridotto a poco più di una traccia sul terreno, peraltro ancora leggibile. Tiriamo per prima fuori una bussola e, subito, una importante conferma: l’asse della navata centrale è perfettamente collocato sulla direttrice Est-Ovest, con l’abside perfettamente orientata ad Est. Eseguiamo quindi una localizzazione accurata con il GPS, e, poi, una prima ricognizione tutt’attorno al manufatto. Subito colpiscono due

elementi per così dire “fuori luogo”: all’interno della navata settentrionale vi è stata eretta una cisterna (i suoi muri perimetrali sono in maniera evidente distinti da quelli dell’edificio, e la sua profondità va ben oltre il piano di calpestio), con copertura a volta in parte crollata, e le pareti interne rivestite di intonaco impermeabile (qualcosa di simile, in riguardo all’intonaco,

è emerso durante i recenti lavori di restauro condotti al Castello di Bovalino Superiore); all’esterno della navata meridionale, invece, proprio all’angolo Sud-Est, due piccoli ambienti, al momento privi di un visibile varco di accesso, di fattura anch’essa diversa da quella dei resti murarii principali, e con i muri non ammorsati in essi, ma palesemente disgiunti. Fra il fronte delle ab-


Scoperte archeologiche

TI! I PIRATI!

inAspromonte Gennaio 2014

IL MONASTERO ABBANDONATO

Nella foto la pianta dell’edificio

Un particolare degli affreschi

Foto di Pino Macrì sidi ed il limite del precipizio sul lato Est, a poca distanza, una traccia muraria rettangolare allungata, forse un ambiente ad apparente destinazione abitativa. TUTTI QUESTI primi, sommari indizi, lascerebbero pensare ad una coerenza con almeno una parte della leggenda, quella riguardante il riutilizzo dell’antica struttura a fini abitativi: sull’esistenza del monaco Teodoro, infatti, niente più della leggenda sopra narrata esiste di documentato. Anzi, dal pochissimo che sull’argomento è stato sinora reperito e pubblicato, le direzioni più probabili da perseguire per identificare almeno con buona

approssimazione l’edificio sono da ricercare nella citazione di una Chiesa di S. Teodoro del 1427 (D’Agostino, 2004: il che, tra l’altro indicherebbe la preesistenza dell’intitolazione al Santo in questione già in epoca ben antecedente a quella della leggenda) o nell’ipotesi che possa trattarsi di S. Maria de’ Randalibus (Minuto, 1977, laddove lo stesso Autore sembra concordare col fatto che Randalibus potrebbe essere una sorta di corruzione di Glandaribus, cioè, approssimativamente, luogo di querce da ghianda). Conferme ben più decisive non potranno che venire al termine degli studi di Soprintendenza ed archeologi.

A NOI, COMUNQUE, rimane la consapevolezza di avere ancora una volta confermato che la nostra terra è un po’ come il Kuwait: lì, dovunque buchi trovi petrolio, qui, testimonianze di antichi fermenti culturali che fecero dire al Lascaris nella lettera indirizzata ad Alfonso II per magnificare le qualità della terra da cui quegli aveva ereditato il titolo di Duca: “[…] se io volessi spiegare di quante di queste cose la Calabria abbondi, mi sarebbe necessario scriverne un volume fin troppo grande. […] e così, con l'esempio di tanti saggi che la Calabria generò, io possa spingere te, giovane di grandissime speranze, alle vette delle virtù e al desiderio di cose eccelse”.

Vista esterna delle mura

Un particolare dell’interno

13


14 PALMI

Aspromonte occidentale

inAspromonte

IL BALLO DI MATA E GRIFONE

Gennaio 2014

L

a Varia (foto del 1938,

“mbuttaturi” e sopra vi prendono

pag. 17), il corteo degli

posto i figuranti che rappresen-

spinati,

processioni

tano la Madonna, Dio gli Angeli

della Madonna sono alcune tra

e gli Apostoli. Rappresenta

le più importanti tradizioni che si

“l’universo” e simboleggia l’as-

tramandano da secoli nella città

sunzione

le

della

Madonna

in

di Palmi. La Varia è un carro

Cielo. Gli Spinati, nella festa di

sacro, grandissimo, alto quasi

San Rocco, sfilano a torso nudo

20 metri. È trasportato dai

con la “spalas”, una cappa di

“ L’Aurora Aprile 852, Aspromonte settentrionale

della sera «L’annuncio di cani e gatti in fuga dalla marina, che già hanno risalito il fiume Metauros, è la conferma che, di notte, sono sbarcati i Saraceni» di Giuseppe Gangemi

A

lle spalle di Silvestro, nella gola che divide due cime dell’Aspromonte, compare una nube grigia. La sente perché diminuisce la luce nella valle. Scendendo dal passo, la nube si liquefa in pioggia e assume tonalità più chiare, fino al bianco in basso, dove diventa nebbia. Le gocce di pioggia, strette le une alle altre, adombrano i pendii più lontani. Silvestro zappa nella valle, incurante della imminente pioggia. Raddoppia la forza con cui affonda la pala nel terreno. Apre zolle più grandi. Avanza più veloce, per stancarsi prima e prima guardarsi intorno. Si raddrizza e si volge verso la montagna. Scuote la testa, perplesso. Poggia a terra la zappa sulla punta del manico e gratta il fango dalla pala con un cuneo che ha attaccato alla cintola. Pulisce il cuneo, lo rimette a posto, solleva in alto la zappa e la affonda nel terreno. Una, due, tre volte. Un colpo di vento spinge nella valle la nube e la pioggia. Le gocce arrivano, sgradite, sulla schiena sudata di Silvestro piegato a spezzare la terra. Non rallenta il ritmo. Sa che la nube si è sfogata sul pendio della montagna, che passerà oltre e che la pioggia durerà poco. Quando le gocce si diradano, si rimette dritto. Posa a terra la zappa, si toglie dalla testa il quadrato di pezza stretto con un nodo a ciascun angolo, lo strizza della pioggia e lo mette in tasca. Volge gli occhi verso la montagna. Dietro una delle cime il sole è scomparso da poco. Il cielo intorno al monte è ancora azzurro e la luce rischiara la parte alta della valle «È ora di andare!». Si mette a raccogliere le proprie cose. Da dietro la cima, si alza, inattesa, “l’aurora della sera”. Rossa nella parte adiacente alla cima, come il riverbero di un grande incendio, gialla nel

mezzo, come un sole pallido, verde all’esterno, come un tenue acquarello. Intorno, il celeste del cielo e il profondo blu del monte. «Due spettacoli rari in una sola volta!» scuote ancora la testa. «Domani succederà qualcosa di notevole». Una pausa e aggiunge: «Prima una nuvola che piange e poi il fuoco. Brutti segni!». Rabbuiato dal pensiero, carica la zappa sulla spalla. Camminando, cerca di pensare ad altro. UN TRISTE PRESAGIO È buio quando arriva a casa. Appoggia la zappa allo stipite della porta. Si avvicina al pozzo per lavarsi. Qui trova un catino pieno d’acqua posato da tempo sul bordo. È l’attenzione della moglie affinché non si lavi con l’acqua troppo fredda appena tirata su dal pozzo. Si lava dal catino e butta l’acqua sporca. Torna verso casa e si siede sulla sedia che la moglie, Consolata, gli ha preparato vicino all’uscio. Si toglie le scarpe e calza un paio di zoccoli di legno. Prende in mano una scarpa e la pulisce dalla terra con una pietra scheggiata. Ripete l’opera con la seconda. I suoi gesti sono calmi e lenti. Poggia le scarpe sull’uscio da dove, lesta, le prende la moglie. Appoggia la testa al muro della casa e pensa a quanto c’è ancora da fare. Finché Consolata non grida: «È pronto!». Raramente si chiamano per nome. Sono soli in casa e

Si alza inattesa l’aurora della sera. Rossa nella parte adiacente alla cima, come il riverbero di un grande incendio, gialla nel mezzo, come un sole pallido, verde all’esterno, come un tenue acquarello

Silvestro si precipita alla porta. Rimane stupito e allarmato alla vista di tante stelle che cadono solcando veloci il cielo davanti casa. E si convince che qualcosa di terribile succederà domani

senza figli. Non c’è bisogno di nominarsi a vicenda. Ogni frase è sempre detta per l’altro, o per nessuno. Silvestro afferra la sedia e la trascina dentro. Si siede a tavola, lontano dalla porta e rivolto verso i fuochi, dove ancora armeggia la moglie. Consumata la magra cena, rimane seduto a sorseggiare del vino. Consolata raccoglie i rimasugli dei piatti e delle pentole, li mette in un catino insieme alle bucce e a quant’altro di commestibile sia stato scartato durante la giornata. Si avvia verso il maiale nello stabbio vicino casa. Apre la porta e le esce un urlo a metà tra lo stupito e lo spaventato «Sta cadendo il cielo!». Silvestro si precipita alla porta. Rimane stupito e allarmato alla vista di tante stelle che cadono solcando veloci il cielo davanti casa. E si convince che qualcosa di terribile succederà domani. Racconta a Consolata cosa ha visto dall’orto, verso l’imbrunire. Ascoltandolo, la moglie si fa più volte il segno della croce. Rimangono a guardare il cielo, finché il fenomeno non si attenua. Intimoriti, si ritirano in casa. Chiudono la porta. Silvestro controlla la chiusura degli


Aspromonte occidentale spine, per ricordare il supplizio

inAspromonte Gennaio 2014

15

ceneri. I Giganti che in Sicilia e

di Cristo. La sfilata dei Giganti

Calabria sono simbolo di libertà,

(nella foto a sinistra), Mata e Gri-

di liberazione dall’oppressione

fone, è un’altra tradizione folclo-

Saracena, per la cittadina cala-

ristica che accompagna tutte le

brese hanno un valore partico-

feste della cittadina, compresa

lare, in quanto il conte Ruggero

quella del Carnevale che qui

I, a Palmi, radunò l'armata nor-

viene festeggiata la domenica

manna prima partire alla conqui-

successiva al mercoledì delle

sta di Messina e della Sicilia.

Nella foto grande un galeone (gamershell.com), l’immagine in basso a pag. 14 è “paysan retournant du travail”, l’immagine in basso a pag. 15 è una rappresentazione di guerrieri saraceni

ALì

IL RINNEGATO

E

Qualche tempo dopo, al quinto tentativo, il capo saraceno Abstaele, con uno stratagemma, conquista la città di Cosenza. In altre città della Calabria si verificano razzie, stupri, rapimenti e saccheggi

mina. Arrivato allo stabbio, vede colonne di fumo salire dalle Planitiae Sancti Martini.

scuri della finestra. Consolata, come al solito, va per prima nell’altra stanza. Ma non si corica subito dalla parte del marito per scaldargli il letto. Silvestro, a sua volta, non si ferma a sorseggiare il suo vino. Segue subito la moglie. Trova consolata inginocchiata ai lati del letto, che prega. Si inginocchia e si unisce a lei nella preghiera. Pregano a lungo. Poi, insieme si mettono sotto le coperte e si guardano l’un l’altro senza toccarsi. Lentamente, la stanchezza li sommerge e si addormentano. Si alzano alle prime luci dell’alba e vanno subito all’uscio della porta. Tutto sembra normale e la paura della sera prima comincia ad esser dimenticata. Consolata cucina la colazione e fa mangiare il marito, mentre lei prepara il pranzo da portare in campagna. Silvestro prende la zappa e si incam-

«MAMMA, LI CANI!» «MAMMA, LI CANI!» Si ferma, posa la zappa e dà una voce alla moglie. Insieme guardano il fumo, senza parlare. Uno sguardo tra loro e Silvestro scende verso il pianoro dove si trovano le poche case di un villaggio. Qui trova tutti in agitazione e in attesa. Le donne vicino all’uscio di casa, stranamente inoperose. I bambini piccoli attaccati alle loro sottane. I grandi a giocare con bastoni di legna come se fossero spade. Gli adulti in capannelli a parlottare e guardare lontano. Commentano gli strani segni della sera prima, parlano dei giovani che sono andati, a cavallo, verso la valle delle Saline, che immette nelle Planitiae, di altri andati verso Seminara e verso Bagnara, a cercare notizie. Nell’attesa, Silvestro ritorna dalla moglie. Per due volte fa la spola tra la casa e il villaggio. La seconda volta ha modo di assistere all’arrivo, al galoppo, di Minico, il figlio di Massaro Lorenzo. Questi grida da lontano due sole parole che tutti hanno già capito prima ancora di sentire: «Li cani! Li cani!». Gli uomini rilanciano le due parole alle donne che sono più in alto. Bambini e donne si disperano, gridando: «Mamma, li cani!» «Mamma, li cani!». L’annuncio di cani e gatti in fuga dalla marina, che già hanno risalito il fiume Metauros e ormai percorrono il fondovalle che porta al loro villaggio, è la conferma che, di notte, sono sbarcati i Saraceni. Silvestro si affretta a tornare dalla moglie. Le comunica

ra calabrese Giovan Dionigi Galeni, Ulug Alì, ovvero “Alì il Rinnegato”. Il suo nome fu poi storpiato nell'italiano Occhialì o Uccialì. Voleva diventare monaco, quando fu catturato dal corsaro algerino “Barbarossa”, e secondo Cervantes, che lo racconta nel suo celebre romanzo, fu costretto a rinnegare il Cristianesimo solo per poter uccidere un turco che lo aveva offeso. Fu ammiraglio della flotta turca e ne comandò l’ala sinistra a Lepanto,dove riuscì a salvare una trentina di navi. Conquistò e portò ad Istanbul lo stendardo dei cavalieri di Malta. Prese in moglie la figlia di un altro “rinnegato” calabrese e divenne uno dei corsari più temuti del Mediterraneo, la leggenda vuole che prima di morire abbia costruito in terra musulmana un villaggio chiamato “nuova Calabria”. le ultime novità. Silenziosa Consolata comincia a radunare le poche cose che potrà portare. Tira fuori dal letto la grande coperta di ginestra, aggiunge un pesante scialle per sé e il tabarro del marito. In due ceste, da agganciare al basto dell’asina, raccoglie le cibarie, le pentole e qualche utensile. Silvestro prende una scure, ne controlla il filo. Controlla le riserve di cibo e le nasconde fuori casa, in luoghi preparati da sempre. Prende una corda e la poggia in cima al recinto dello stabbio. Servirà per imbrigliare il maiale, legarlo al basto dell’asina e trascinarlo per i sentieri di montagna. Nell’attesa, si mettono a fare altro, per lasciare passare il tempo, in attesa delle notizie che verranno. Procopio, con la zappa sulla spalla, passa oltre la vigna del dominus Atanasio. Getta una voce e Silvestro lo raggiunge. Sa già che questi gli dirà che non c’è pericolo per il villaggio. «I Saraceni sono arrivati dal mare. Hanno assalito Taureanum» «Quante navi?» «Pare che siano solo tre» «Si sa di altre navi altrove?» «No! A Seminara e Bagnara, tutto è tranquillo» «Non sarà questa la volta che tenteranno di conquistare tutte le Planitiae e assediare la montagna» «Comunque centinaia di giovani stanno accorrendo, a piedi e a cavallo, dal monte e dal piano. Vigileranno tutti i passi e riferiranno». Procopio riprende il cammino e Silvestro torna verso casa, non del tutto convinto. Racconta a Consolata la quale, rassicurata per loro, comincia a preoccuparsi per i Taureani: «Povera gente! Chissà quanti sono morti! E quanti saranno strappati alle loro famiglie!». Si fa il segno della croce e comincia a pregare per i morti e per i vivi. Silvestro guarda il sole alto nel cielo e decide di tornare all’orto. Rapido, rimette tutto a posto. Prende la zappa e si incammina. Mentre va biascica tra sé e sé: «Troppi sono stati i segni. Qualcosa di tragico deve ancora venire». *** Qualche tempo dopo, al quinto tentativo, il capo saraceno Abstaele, con uno stratagemma, conquista la città di Cosenza. In altre località della Calabria, si verificano razzie, stupri, rapimenti e saccheggi.


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La nostra storia

inAspromonte Gennaio 2014

Servizio tratto dal sito lagrandegioiosa.it, a cura di Tiziano Rossi (info e foto)

I colori delle donne

I

l costume della maddamma aveva otto colori diversi: l'azzurro per il giorno delle nozze e la domenica di Pasqua; il viola per la Quaresima; il nero in caso di lutto; l'indaco e il marrone per i vestiti giornalieri e da lavoro; il cannella, il rosa e il verde per le grandi occasioni.

Nubili o sposate?

Ceti e “collaretti”

mbustinu delle ragazze era chiuso; per le sposate era aperto e allacciato con sei mandate di nastro di seta azzurrino detto zafareja, che, passando nel hjaccatu della saja, allacciava il corpetto e tratteneva (oltre a dar forma) il petto della maddamma.

o scollo era ornato dal collarettu in pizzo realizzato all’uncinetto. 'U frabbalà era un collarettu di pizzo molto largo e ornava il corpetto delle donne nubili più facoltose. 'U pizziju consisteva in un merletto misero, lavorato all'uncinetto e usato da donne meno agiate.

U

COSTUME

e

L

TRADIZIONE

LE DONNE DI UNA VOLTA IL RACCONTO

G

uardai il cielo quella mattina, fu come fare un salto e scappare. Lassù era tutto d'argento, le nuvole, le montagne, gli uccelli infreddoliti e leggeri. Da trent'anni quel cielo era sempre uguale, da quando col dito disegnavo sulle finestre fiori di cinque petali e una foglia e bimbe dai capelli lunghi. Sentii l'odore di casa, quello che mi mancava fino alle lacrime quando imbruniva ed ero ancora dai nonni. E che mi soffocava fino a farmi sfuriare, nelle lunghe giornate d'inverno. «Potete entrare», e la voce del medico mi riportò in sala d'attesa. Entrai, e fui investita dall'argento di carrelli e lettini. Per non guardare oltre focalizzai l'attenzione sulle luci che correvano lungo i tubi d'acciaio. Mi parse più bello quel mondo riflesso, distorto dalle curve delle traverse. Là i colori si mischiavano, e con loro le facce, le storie, persino le rughe. Era un mondo senza tempo, finalmente. La signora stava composta, seduta al centro del letto, con su le gambe una coperta color cammello. «Papà» ti dissi «non ti ricorda nessuno?». Tu la guardasti. Sono sicura che ti parse un angelo, con quel suo volto fiero e il sorriso cordiale, e le mani conserte sul grembo e le sue trecce d'argento. Da quanti anni quelle trecce erano sempre uguali? Da quando eri bambino, certo, e cor-

Radici e appartenenza, vivere senza mai tradirle

TRECCE D’ARGENTO

revi scalzo per le vie del borgo, e l'argento l'avevi visto solo tra i capelli di tua madre, divisi in due lunghe ciocche poi intrecciate, e raccolte sulla nuca con spilloni e retine. O sui capelli delle zie, dove la treccia era unica e si appuntava sulla testa quasi fosse una corona. E ti sarà parso strano che le donne di quei tempi vendessero le loro lunghe trecce per qualche centesimo, chi acquistava i capelli? che importanza potevano avere? Lo capisti solo quando iniziasti a perderne. Ma accadde molto, molto tempo Nella foto Barbara Lucifero, di Monasterace S. (Foto di Bruno Criaco) dopo. «Signora mi ricorda mia nonna». L'angelo sorrise. «Però è un po' disordinata, dovrebbe rifare di Tiziano Rossi quelle trecce», dissi per giustificare la mia insistenza nel fisncor oggi alcune anziane tessuta e tinta in loco. Quella di uso sarla. Quando tornai, la sera donne del paese indossano quotidiano era di color piombo, dopo, le trecce erano nascoste da parte dell'antico costume quella per le grandi occasioni era viun colorato fazzoletto, portato gioiosano e lo portano come una se- vacemente colorata e quella di lusso come le donne calabresi di un conda pelle, né mai oserebbero sosti- o da cerimonie funebri era nera. In tempo. Ed ogni giorno il fazzotuirlo con l'abbigliamento moderno tali occasioni, per fare le visite di cui siamo abituati. La donna che ve- lutto, sul costume, la maddamma, letto era diverso, perché fosse stiva il costume tradizionale era chia- aggiungeva 'a faldetta: quasi un'altra sempre fresco e pulito. L'argento mata maddamma, con un saja che, partendo dalla vita, da diesi intuiva, ora, dalle rughe sul francesismo che risale all'epoca na- tro le spalle si rivoltava sul capo. viso. poleonica. Il costume, chiuso lungo Per mezzo di una balza, chiamata Quando fu il momento di andare la schiena da una serie di crocchetti mbasta, il costume scendeva dalla l'angelo resto lì al centro del a maschio e femmina, veniva indos- vita alla caviglia formando centinaia letto, con la sua coperta color sato sopra una lunga camicia di lino, di pieghe. Le balze, in numero di una cammello, e il suo fare dignitoso. seta o cotone e mutandoni di tela al a tre, erano larghe circa 5 centimetri E il cielo tornò azzurro, e il ginocchio. Alla camicia si sovrappo- ed erano ricavate dallo stesso tessuto tempo si staccò dalla traverse neva 'a suttana, sottoveste in tessuto della saja; cucite all'altezza del poldi cotone scuro stampato a fiorellini paccio, avevano il compito di adord'acciaio per tornare libero di chiari. Infine, 'a saja o sopravveste nare il costume e renderlo più ricco. scorrere. Per riportarci a casa. in tessuto di seta che veniva filata, All'attaccatura delle spalle un ornaAntonella Italiano

LA DONNA A GIOIOSA JONICA

A

UN POSTO PER

I SOLDI

La saja non aveva tasche. Era questo il motivo per cui, la maddamma, conservava 'u muccatureju (fazzoletto per il naso) dentro la manica dell'ascella destra. I soldi venivano, invece, conservarti nella scollatura d'u mbustinu, un corpetto molto scollato in broccato di velluto operato di colore generalmente abbinato a quello d'u faddali (grembiule). mento in seta nera, fittamente pieghettato, detto 'rricciata, distingueva nettamente la donna sposata dalla nubile o dalla vedova che non lo portava. I rricciati (per confezionare le quali occorrevano due metri e mezzo di nastro nero), venivano attaccate alle maniche con degli spilli da sarto. Al mbustinu (il corpetto) era attaccata una lunga e ampia gonna a pieghe (chichi), per la cui confezione necessitavano ben sette teli della lunghezza di 60 cm. I manichi erano attaccate alla saja per mezzo di comuni spilli. I mostri, altro non erano che polsini di velluto operato. Completava l'abbigliamento 'u muccaturi: foulard di cotone o seta nera operata, con frangia o senza, fatto a triangolo e fermato ai capelli per mezzo di una spilla d'oro o d'argento, veniva annodato sotto la gola. A seconda delle circostanze in cui doveva essere indossato, 'u muccaturi poteva essere sostituito dal crambà (pregiatissimo pizzo di alta fattura francese, indossato soltanto nelle grandi occasioni) o dal filandenti (rettangolo di tela d'uovo che, piegato in tre sulla testa e rimboccato garbatamente, scivolava lungo le spalle). L'acconciatura dei capelli della maddamma era pure di origine francese. Nelle maritate troviamo una scriminatura centrale suddivisa in quattro trecce legate sulla nuca a cestello per mezzo di appositi lacci. Nelle nubili, invece, una scriminatura nel mezzo della testa che divideva i capelli in due, che finivano con una lunghissima treccia raccolta a cestello sulla nuca. La pettinatura richiedeva intere mattinate e, non di rado, anche l'intervento di una seconda donna.


La nostra storia

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Carbonai, i diabolici esseri dalla faccia sporca di fumo

Uomini

GENTE MALEDETTA

del fuoco

“Il fumo incomincia a uscire bianco e lento da tutte le fessure della legna ammontata; poi il fuoco cresce come un male che divora un organismo e il fumo esce a fiotti” S.S. di Francesco Tassone

T

ingiutu è il volto del carbonaio, il grande chef della cottura del legno, perché di cottura si tratta. Il lavoro è continuo, solo poche ore di riposo, perché il minimo errore renderebbe vano ogni sforzo impiegato. Basta inoltrarsi nelle montagne di Serra San Bruno per percepire l’odore della legna che arde, e fare ancora qualche passo per ritrovarsi di fronte ad una sorta di vulcano fumante. All’inizio il fumo è bianco e denso, quando

ormai il carbone è cotto diventa azzurro e rarefatto. Una enorme catasta di legna, più di 600 quintali, con un diametro di circa venti metri e un’altezza che raggiunge i quattro-cinque. Modellata ad arte da chi svolge il mestiere di carbonaio, un’arte manuale che si tramanda da generazioni e che ancora oggi, a Serra San Bruno, rimane in essere. Il tutto ha inizio con la preparazione dello spiazzo (“scarazzu” in gergo). Poi si costruisce il camino con i tronchi più grossi e man mano si procede a sistemare la legna tutta intorno a mo’ di cupola

lasciando aperto un cratere centrale, per alimentare il fuoco dall'alto. Fuoco che lentamente carbonizza il legno senza ridurlo in cenere. Infine la carbonaia viene ricoperta di fogliame e terra ed è pronta per essere accesa. Dei fori realizzati con pali appuntiti costituiscono le bocche per il tiraggio, (fumaluari). Da qui inzia il lento processo di combustione e cottura del legno che dura anche una ventina giorni. E quando ormai la fumata è azzurra la carbonaia è pronta per essere spenta. Il prodotto viene insaccato e destinato alla vendita.

Tutte le foto sono di Bruno Zangari e Emanuele Rizzo

NEI BOSCHI COI TINGIUTI

“Chi abbatte gli alberi e chi dietro li stronca. Quando c'è abbastanza legna si prepara lo spiazzo per la carbonaia. E poi su a trasportare la legna, il lavoro più massacrante...”

“E così la carbonaia sorge, lenta e compatta, prende una forma di cono, come un vulcano. Ché l'uomo, anche nelle sue più piccole opere, non guarda che alla natura, non ripete che la natura...”

Ai primi del secolo, i boschi arrivavano fino alle falde dei paesi in collina. Oggi, dove prima c'erano grandi boschi di elci e querce, si semina il grano, o vi hanno piantato la vigna e gli olivi. I boschi, come giganti in fuga, sono molto lontani dai paesi: nel cuore dell'Aspromonte, a cinquesei ore di strade impraticabili. Boschi secolari, con secolari querce ed elci. Ma il tragico di questa terra è che, una volta tagliati i boschi, non si pensa di continuare l'allevamento delle piante. Per cui succede che, dopo il taglio, rimane la terra nuda, che sarà lavata dalle acque, spazzata dai venti, arronventata dal sole: terra bruciata che rende tragico un paesaggio che potrebbe essere incantevole col mare davanti da qualsiasi posto ci si trovi. Terra del vento, terra bruciata. E a bruciarla, secondo l'opinione popolare, sono i carbonai, questi uomini del fuoco, questi maledetti che dietro di loro lasciano sempre piazza pulita, che sempre sono nudi e affamati, come nuda lasciano la terra; che sempre sono sporchi e poveri: senza casa, senza un pezzetto di terra sempre in cerca di pane, di un bicchiere di vino, sempre con le viscere arse e la gola secca; sempre pronti a saltare in una vigna e a rubarvi dell'uva; a strappare delle lattughe, dei frutti. Come se il fuoco, quello stesso fuoco con cui consumano i boschi, arda dentro le loro budella e dia un eterno bisogno di dissetarsi. Questo è il carbonaio, un uomo che distrugge, che dietro di sé lascia un senso di morte e una terra senza padrone. È perfino tenuto a distanza dagli altri, anche dai braccianti che vivono meglio dei carbonai. Non hanno quell'eterna sete di sempre qualcosa: di fichi, di vino, di pane. Saverio Strati

“E i giorni passano e la noia li tormenta e il desiderio di vedere i figli, i vecchi genitori, la fidanzata li prende. Di vedere visi umani, visi puliti e non neri come i loro che sembrano quelli dei diavoli...”


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Approfondimento

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?

Le domande

Servizio di Tiziano Rossi

I

Amore e serenate

l giovane innamorato si presentava, di notte, con un amico "fidato", sotto il balcone della sospirata per dedicarle una serenata; questa doveva servire come proposta formale di fidanzamento - per la famiglia della ragazza - e da dichiarazione d'amore per la stessa. Se la famiglia della ragazza non era consenziente alla proposta di fidanzamento, per il giovane spasimante erano dolori. La serenata si chiudeva, infatti, con insulti e secchi d'acqua che la mamma della fanciulla versava, indispettita, dalla finestra. Se, invece, la famiglia accettava di buon grado la serenata, allora tutto diventava più facile: la porta di casa si apriva, il ragazzo entrava, prendeva accordi coi genitori della sospirata e, il giorno dopo, entrava in scena 'u mizzòtaru: colui che provvedeva a mediare e portare avanti le trattative tra le due famiglie (condizioni, abitazione, data di matrimonio, dote, pranzo matrimoniale, ecc.). Da quel momento in poi il fidanzamento produceva un sacco di diritti e doveri per cui difficilmente poteva essere sciolto. Tornando alla serenata, le esperienze del passato ci insegnano che non erano rari i casi in cui, il "menestrello", cantando per conto dell'amico, rimaneva lui stesso innamorato della ragazza. Figuriamoci le dicerie! In tal caso, trattandosi di "dolori di cuore" e di famiglia, molto gravi, era il giovane tradito a prendere l'iniziativa: indispettito si presentava sotto il balcone dell'amata e, in preda ai morsi della "rabbia", dava di piglio ad alcuni versi di "sdegno". A questo punto, se la ragazza non s'affacciava, quanto meno per smentire le dicerie del paese e dare un cenno di conforto al giovane, voleva significare che anche lei si era innamorata del "menestrello". Ma, la serenata di "sdegno" o di rottura era un caso limite; quasi nella totalità delle volte il fidanzamento veniva accettato e, dopo alcun giorni, il ragazzo portava i propri genitori presso la famiglia dei suoceri per chiedere la mano della figlia e la ragazza veniva "singata" (segnata): davanti a

più scottanti

Gli uomini dove vedevano (e sceglievano) le loro amate?

Cantandu, veni la

BELLA MIA

«È di stà strada ca vorrìa passari, tricentu voti l’ura si putissi. Pe mmu ti cunti li me peni amari. Ahi jatu cori meu, poveru amuri! Pensu a li modi toi, a quantu si duci…»

Nella foto in alto le donne di Africo Antica (Foto Petrelli 1948). Nella foto sopra un mandolino lombardo

parenti e amici, il fidanzato metteva ufficialmente l'anellino al dito della fanciulla e da quel momento le due famiglie erano legate da vincoli indissolubili di parentela. Davanti al mizzòtaru i consuoceri (sumpèssari), concordavano la vita economica - se così si può dire - della futura coppia. Trattandosi di una cosa familiare davvero seria, l'inadempienza da parte di una delle due famiglie, causava lo scioglimento definitivo del fidanzamento (era proprio questo il motivo per cui spesso si ricorreva al notaio).

Q

La fase di corteggiamaneto, generalmente avveniva nelle zone in cui vi erano delle fontane, dove le ragazze si recavano continuamente a riempire la brocca dell'acqua (cortara). Da questo andirivieni della ragazza (dalla casa alla fontana e viceversa), tra sospiri, sguardi e ammiccamenti, tra i due nasceva l'amore.

Quali erano le regole del fidanzamento?

Il fidanzamento sottoponeva i due innamorati a delle regole molto severe: 1) i fidanzati non potevano uscire da soli; 2) non potevano sedersi accanto; 3) lui poteva andare a casa della fidanzata massimo due tre volte alla settimana; 4) il fidanzamento non doveva durare molto a lungo (i cosi longhi si fannu serpi, dicevano i familiari della ragazza); 5) i fidanzati (zziti) potevano scambiarsi dei regali, ma, in caso di rottura del rapporto, venivano restituiti dal primo all'ultimo, specie se si trattava di regali in oro; 6) e altre condizioni che dipendevano dal grado di emancipazione delle due famiglie.

La “santa benedizione” e il matrimonio

uindici giorni prima del matrimonio, genitori e parenti del fidanzato compravano la fede per la sposa; viceversa, genitori e parenti della fidanzata compravano la fede dello sposo. È giunto il giorno del tanto atteso "sì". La sposa, dopo avere indossato l'abito (comprato sua insaputa dai familiari), si recava al cospetto del padre e, inginocchiandosi per terra, gli baciava la mano per ricevere la "Santa benedizione". Il padre (o, in sua assenza, il figlio più grande), presa la sposa sotto braccio, l'accompagnava in chiesa, creando un un nutrito corteo di parenti, amici e invitati. Al termine del rito religioso, all'uscita della chiesa, sugli sposi venivano lanciate manciate di riso, confetti, grano, monetine, quale augurio di ricchezza. I bambini facevano ressa sul piazzale

della chiesa per raccogliere i confetti che piovevano a chili sul selciato. Il pranzo nuziale avveniva casa della sposa, all'aperto, all'ombra dei nostri uliveti secolari; il menu, in line di massima, era a base di pasta d'a zzita (maccheroni), carne di capra, polpette, frutta, ecc. Talune volte (le famiglie che se lo potevano permettere) ammazzavano un vitello. Ad allietare il pranzo non potevano mancare l'organetto e il tamburello che procuravano allegria fino al tardo pomeriggio. In alcuni casi le famiglie optavano per un ricevimento a base di dolci e liquore. Prima del commiato, gli sposi, con un vassoio argentato, per mezzo di un cucchiaio grande, distribuivano agli invitati 5 confetti (cugghjandri) in una sorta di carta oleata raccolta a mo' di fazzoletto, su cui era scritto "Sposi". tr


Tra i boschi d’Aspromonte

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A P I un fiore per salvarle

La “sindrome dello spopolamento degli alveari” rischia di mettere in crisi la produzione mondiale di alimenti. La coltivazione di fiori selvatici in strisce può aiutare le api a sopravvivere. Tra questi i “cipollacci” aspromontani di Angelo Canale* e Giovanni Benelli*

U

FIG.1 Muscari comosum (L.) Miller (Liliaceae-Hyacinthaceae) (da Hallier, 1881)

FIG.2 Infiorescenza di Cephalaria transsylvanica (L.) Schrader (Dipsacaceae)

n terzo della produzione mondiale di alimenti dipende dall’impollinazione operata dagli insetti, in particolare dalle api domestiche allevate dagli apicoltori. Tuttavia, la biodiversità e le popolazioni degli insetti impollinatori sono in forte declino. In particolare, il calo che è stato registrato nelle popolazioni delle api mellifere a livello planetario, meglio noto come “sindrome dello spopolamento degli alveari”, rappresenta una grave minaccia per la coltivazione delle specie vegetali destinate all’alimentazione umana, come anche per la produzione di miele. IL DECLINO delle api sembra essere dovuto a molteplici cause, ancora non del tutto chiarite: dai fattori epidemiologici che riguardano la loro salute, al degrado e alla frammentazione degli habitat da esse utilizzati, agli effetti deleteri dei fitofarmaci impiegati in agricoltura intensiva, alla rarefazione delle fioriture spontanee. Una stima del 2008 per l’Europa ha calcolato perdite di colonie di api pari al 20% per molti paesi, tra cui Italia (30-40% nel Nord, 10-30% nel Sud), Turchia (fino al 40%), Olanda (26%), Germania (30% nel Sud), Polonia (20-

30%), Croazia (25%), Grecia (fino al 25%), Svizzera (1030%), Danimarca (25%), Slovenia (20-27%), Repubblica Ceca (20%) e Romania (>20%). Per contrastare nel breve periodo il declino degli impollinatori, sono stati proposti diversi strumenti. In particolare, è stato dimostrato come le comunità degli insetti impollinatori possano essere implementate aumentando la presenza di bordure spontanee, siepi polifite e zone di set-aside, soprattutto negli agro-ecosistemi. L’INTRODUZIONE di strisce coltivate di fiori selvatici (wildflower strips) supporta anch’essa il sostentamento delle comunità di pronubi, incluse le api, i bombi e numerose specie di lepidotteri. Con riferimento alle api mellifere, ad esempio, una recente ricerca ha evidenziato il loro interesse verso il Muscari comosum (L.) Miller (Liliaceae Hyacinthaceae) (Figura 1), essenza spontanea rinvenibile nei prati e nelle aree coltivate in Europa centrale e meridionale, Africa settentrionale e centrale e Asia sud-occidentale, diffusamente presente anche in diversi contesti vegetazionali del territorio calabrese, incluse le aree pedecollinari del territorio aspromontano. TALE PIANTA è da lungo tempo comunemente utilizzata a scopo alimentare nell'area medi-

terranea. Egizi, Greci e numerosi altri popoli del Mediterraneo ne hanno consumato i bulbi. Nel centro e sud Italia - in particolare in Puglia, Basilicata e Calabria settentrionale - i bulbi di M. comosum sono comunemente noti come "lampascioni" o "cipollacci" e apprezzati per il loro sapore tipico amaro, molto simile a quello dell'aglio e della cipolla.

In Calabria, la raccolta di M. comosum è molto diffusa, anche se oggi la specie è coltivata in tutta l’Italia meridionale LE API SONO interessate, in particolare, al polline di M. comosum, molto ricco di lipidi e altamente energetico. La fioritura precoce della specie (inizio marzo) è in grado di soddisfare l’elevato fabbisogno in polline delle famiglie di api alla ripresa dell’attività primaverile, in un periodo critico in cui le scorte polliniche invernali dell’alveare sono ridotte e le fioriture sono scarse. Un adeguato apporto proteico alla ripresa della attività della famiglia si ripercuote positivamente sulla salubrità della stessa, sulla capacità di resistenza

alle avversità e sulla produttività. Un’altra specie vegetale diffusamente presente in Calabria, la Cephalaria transsylvanica (L.) Schrader (Figura 2), è nota per essere visitata dalle api mellifere alla fine dell’estate. Tale pianta cresce spontaneamente in tutta l’Europa centrale e meridionale, fiorisce a fine estate-inizio autunno. Essa è inserita tra la flora di interesse apistico in Italia, tuttavia è considerata di scarsa importanza apistica poiché poco spontaneamente diffusa. LA POSSIBILITA’ di coltivare C. transsylvanica in strisce, da insediare a ridosso degli apiari o ai margini dei campi coltivati – preferibilmente in associazione a specie simili caratterizzate da maggiore potenziale mellifero come il Dipsacus fullonum L. potrebbe invece rappresentare un’ottima strategia per fornire polline e nettare alle api, ma anche ad altri pronubi selvatici, nella fase critica di rarefazione delle fioriture spontanee che caratterizza la fine dell’estate e l’inizio dell'autunno. Questo garantirebbe limitrofe ed abbondanti quantità di polline e nettare alle api, utili ad irrobustire le loro famiglie per un più agevole superamento della stagione invernale ed una rapida conseguente ripresa dell’attività primaverile. *Ricercatori (Università di Pisa)


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Tra i boschi d’Aspromonte

inAspromonte Gennaio 2014

Unità di misura, il linguaggio dei nostri antenati prima del Sistema metrico decimale

IL TOMOLO “BANDITO”

L’olio veniva poi suddiviso: tre parti al padrone e uno alla cinanara (la donna che raccoglieva le olive)

Sui campi u tumanu, a menzalora, u quartu, u stuppegliu. Al frantoio cannata e cafiso. L’atavica guerra per il pane tra latifondisti e contadini di Rocco Mollace

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Nella foto sopra il tomolo (foto gioiadelcolle.info). Nella foto a destra la targa di ragguaglio delle antiche misure col sistema metrico decimale (foto di Salvatore Caraffa)

ei paesi aspromontani venivano adottati dei sistemi particolari per misurare terreno, olio e grano. Qualche anziano li ricorda ancora: erano sempre a favore dei proprietari terrieri. Dei sistemi che ormai hanno lasciato il posto a quelli internazionali. Quando per necessità ci si recava dal latifondista per chiedere un appezzamento di terreno in cui seminare il grano, era solito domandare “na tumanata di terra” (che corrispondeva a 3333,3 mq, cioè 1/3 di ettaro). Di solito il latifondista aveva già affittato il terreno e concedeva na menzalora (1666,65 mq). Poteva fare di peggio: offrirne nu quartu (833,325 mq) oppure na stuppegliata. Una quantità di terreno su cui era possibile seminare uno “stuppello” di grano, pari a mq 416,6625.

M

Montagne

Sull’aia, a raccolto ultimato, la resa del seminato veniva divisa con il proprietario del terreno. Il primo tumanu i ranu spettava al proprietario (corrispondeva ad un recipiente che conteneva esattamente 50,5 litri di grano). All’affittua-

rio, se l’annata era favorevole, toccava a menzalora, cioè ½ tomolo (corrispondente a 25,25 litri), oppure u quartu, cioè ¼ di tomolo (corrispondente a 12,625 litri). Spesso al contadino spettava solo nu stuppegliu i ranu, cioè 1/8 di

tomolo (corrispondente a 6,3125 litri). U stimaturi, persona di fiducia del proprietario terriero, si recava nei campi nel periodo di maturazione degli ulivi e sentenziava ad occhio la quantità di olive presenti. L’olio poi prodotto veniva suddiviso: tre parti al padrone e una alla cinanara (la donna che raccoglieva le olive); la misura adottata era a cannata. Per misurare la produzione totale di olio nel frantoio veniva usato il cafiso (dall’arabo Qafiz o Cafiz) che è una misura tradizionale di volume, ancora usata dagli arabi, equivalente a 16-17 litri. Ai tempi di Federico I di Aragona tutti i liquidi si misuravano in peso. Per mezzo dell’acqua distillata era stabilito il rapporto tra palmo cubico e il peso. Dal 31 dicembre 2009 l’utilizzo del tomolo, come le altre misure non comprese nel sistema internazionale, è stato vietato.

U PANAREGLIU

Le Serre

«I commercianti giravano con le ceste per le vie dei paesi. Così i montanari barattavano patate e fagioli con olive e olio delle genti della marina» di Francesco Tassone

F

ra i tanti articoli dell’antica tradizione dell’artigianato calabrese, le ceste, che in dialetto sono chiamate panari, sporte, sporteja a seconda della forma e dimensione, rappresentano un fiore all’occhiello. Venivano usate come contenitori per la raccolta di frutti e ortaggi, di funghi o castagne, ma anche per presentare doni. Con sporte e sporteja si era soliti portare il rancio agli uomini che zappavano la terra o che provvedevano alla mietitura nel mese di giugno. Erano le donne a preoccuparsi per il recapito delle squisitezze e lo facevano appoggiando il cesto sulla testa e mantenendolo in equilibrio sino a destinazione. Il tutto era ammortizzato da una coroncina di felci o di ginestra oppure da un torcione di stoffa anche se non era sporadico l’uso del grembiule o del fazzoletto copricapo. I commercianti, abitualmente, esponevano la merce

Nella foto una vista panoramica della fiumara Amendolia. Chorìo di Roghudi (Foto di Mimmo Catanzariti)

nelle ceste durante i mercati, oppure, una volta bardati asini o muli, giravano per le vie dei paesi esercitando una vendita a domicilio. Anzi più che di vendita si trattava di vero e proprio baratto. Così i montanari scambiavano patate e fagioli con olive e olio delle genti della marina. I panari di vimini venivano intrecciati con stecche di canna e rami di salice in forme circolari e con il manico ad arco. L’intrecciatore di vimini è un mestiere che sta scomparendo, sono rari ormai i maestri intrecciatori cestai. Tuttavia è possibile vedere i vecchi maestri all’opera nei paesini delle Serre Calabre. È uno spettacolo di rara bellezza: i movimenti armonici di mani esperte, accarezzando i rami, danno forma ad un intreccio che presto si trasforma in cesta, cestino, panaro, cannistra, fiscina. Ed è affascinate imbattersi in una via del centro

storico di Soriano Calabro, nell’entroterra delle Serre vibonesi e vedere all’opera, oltre che il cestaio, l’impagliatore di sedie, il vasaio, l’ombrellaio. Mestieri che ci lasciano l’amaro in bocca e che le imitazioni della Cina non riusciranno mai ad addolcire. Quei mestieri sui quali sono stati costruite storie e aneddoti. Ve ne propongo uno, giusto per una risata. Un venditore bandiva il suo aceto forte «Acitu forti! Acitu forti signò!». Un altro cercava di vendere i propri ombrelli «Para acqua signori! Para acqua signori!». Un terzo proponeva cinture «U currijaru di Surianu!». La gente udiva acitu forti, acitu forti, signò. Para acqua signori, para acqua signori. U currijaru e Surianuuuuuu. Che tradotto in italiano vorrebbe dire: aceto forte, aceto forte, signori, sembra acqua signori sembra acqua signori. L’hanno mandato via da Soriano Calabro.


Tra i boschi d’Aspromonte

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La volpe e il lupo: un amore impossibile

L

e possibilità di riproduzione all’interno dell’enorme famiglia di cani, lupi, volpi e sciacalli sono molto complesse. Questa famiglia, i Canidae, si è evoluta per milioni di anni divergendo in specie diverse. Un gruppo, detto Canis, comprende i lupi, tutte le specie di cani domestici, i dingo e i coyote. Queste specie si staccarono dalle altre tre o quattro milioni di anni fa (dopo che i nostri antenati si allontanarono dagli scimpanzè, ma molto prima dell’Homo sapiens). Hanno tutti 78 cromosomi, il che permette loro di incrociarsi. Altre specie, tra cui la volpe, cominciarono a divergere molto prima (10 milioni di anni fa), e hanno meno cromosomi. Non possono per questo generare prole fertile.

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loSapeviChe

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Il frutto aspromontano che fece gola ai Romani

SORBUS DOMESTICA

Dal colore bruno e la polpa morbida e dolciastra, la sorba fu indispensabile per i montanari e molto amata nell’antichità. Dal legno di sorbo, invece, nacquero le nostre zampogne

I fichi d’India pungono per impedire che vengano mangiati. Precisamente per evitare che venga rubata l’acqua accumulata nelle pale carnose del cactus su cui crescono. Le spine sono foglie modificate circondate da setole irritanti dette glochidi. Il frutto è molto dolce. Le superfici destinate alla coltivazione vanno dai 150 ai 750 metri slm.

laDomanda

di Leo Criaco

I

l sorbo (sorbus domestica) è una pianta spontanea e appartiene alla famiglia delle rosacee (fanno parte di questa famiglia il ciliegio, il lampone, la fragola, la rosa, il rovo ecc.). Cresce in tutte le regioni del bacino mediterraneo, dalla fascia collinare (200-300 metri) fino a 900 metri di altitudine. Vive ai margini e dentro i boschi, nei cespugliti e nelle siepi. È una pianta molto rustica, resiste molto bene alla siccità e vegeta su quasi tutti i tipi di terreno purchè molto soleggiati. Il sorbo (nomi locali: surbara, survara) è un albero alto 15-20 metri, molto longevo (alcuni esemplari raggiungono i 500 anni di vita) e a lenta crescita (va in produzione dopo 15 anni di vita). Ha foglie lunghe circa 22 cm costituite da 6-9 coppie di foglioline a margine seghettato più quella terminale. I fiori riuniti in infiorescenze a grappolo sono di colore bianco. I FRUTTI, LE SORBE, hanno la forma di una piccola pera (2-3 cm di diametro) dapprima verde poi giallastra e a maturazione giallo-rossiccia. In Aspromonte ad altitudini medio-alte (8001950 metri) vegeta molto bene un’altra specie di sorbo: il sorbo degli uccellatori (sorbus aucuparia). Ha caratteristiche botaniche simili al sorbo comune: la pianta è di taglia più piccola (10-15 metri d’altezza), i frutti sono leggermente più piccoli e a maturazione acquistano un colore rosso vivo. Nel secolo scorso, quando le campagne erano ancora popo-

Perché le api da miele muoiono dopo che ci hanno punto? Le api operaie hanno pungiglioni dentellati per pungere insetti e altri api. Quando pungono i mammiferi, dalla pelle più spessa, il pungiglione rimane impigliato. Cercando di liberarsi, l’ape si strappa l’addome. Le api regine hanno pungiglioni lisci e possono pungere più volte. Nella foto alberi di sorbo, nel particolare in alto i frutti di sorbo nel tipico grappolo (Foto di Leo Criaco)

late, il sorbo domestico era molto diffuso e ogni famiglia contadina possedeva diverse piante. Per alcuni nuclei familiari le sorbe insieme ad altri frutti erano una fonte indispensabile di sostentamento. I contadini raccoglievano le sorbe, normalmente, nel mese di ottobre quando iniziavano a cadere a terra. La raccolta veniva fatta a mano, con molta cura (come si fa con le ciliegie). Alla raccolta le sorbe sono ancora acerbe e diventano commestibili solo dopo 15-20 giorni. I NOSTRI ANTENATI usavano far maturare i frutti disponendoli, in uno o due strati, dentro le caratteristiche “ferrazze” (ceste, costruite artigianalmente, di forma rettangolare).

Per accellerare la maturazione dei frutti si disponeva nel fondo delle ferrazze uno strato di circa 5 cm di paglia. Le sorbe una volta mature assumono un colore marrone bruno e la polpa diviene morbida e dolciastra, e possono essere consumate così, o trasformate in marmellata (nell’Aspromonte la preparavano senza cottura in quanto le sorbe sono ricche di sorbitolo che è un ottimo conservante naturale) o essiccate. Diversi contadini del versante orientale dell’Aspromonte usavano appendere al soffitto o in posti riparati dal sole e dalla pioggia i grappoli di sorbe riunite a mazzetti. Questo tipo di conservazione consentiva di prolungare la disponibilità di poter consumare questi frutti quasi freschi.

IN ERBORISTERIA i frutti, sotto forma di succo o decotto vengono utilizzati come astringenti intestinali (in questo caso si usano sorbe non molto mature) e come antinfiammatori. Gli antichi romani erano ghiotti del decotto di questo frutto, però invece dell’acqua nella preparazione usavano il “caicino”, il famoso vino dell’impero, prodotto proprio nei nostri territori. L’albero di sorbo fornisce un legno pregiato utilizzato in lavori di tornitura (ad esempio per la costruzione di zampogne). Negli ultimi decenni il numero di piante di sorbo è diminuito drasticamente a causa dei numerosi incendi. Nelle campagne di Ferruzzano (Aspromonte orientale) vegetano ancora oggi un centinaio di piante.

laCuriosità

L’orizzonte non è una proprietà statica della Terra, come l’equatore o il polo nord. È un fenomeno del tutto locale che dipende dalla forma del terreno circostante, dalle condizioni atmosferiche e dall’altezza del punto di osservazione. Alla base di un dirupo o su una spiaggia nebbiosa l’orizzonte è a pochi metri (nella foto un quadro di Fabio Greco).


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Cinema e cultura

inAspromonte Gennaio 2014

Gerace, ambito set cinematografico da un secolo a questa parte

La leggenda della montagna

Storie calabresi che hanno incuriosito il mondo e indispettito la censura di Giovanni Scarfò

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a Calabria, fino agli anni ‘80, non era richiesta come set cinematografico alla stregua della Sicilia. Dopo lo è stata un po’ di più, ma Gerace è, fino a prova contraria, il paese che può vantare i primi set cinematografici per film di finzione risalenti al periodo del muto, con l’ambientazione di due film: Le vita del brigante Musolino e Carmela la sartina di Montesanto, prodotti dalla “Dora Film”, fondata nel 1905 da Elvira Notari, pioniera del cinema napoletano. A dire il vero, la prima rappre-

«

il cinema della Dora Film è strettamente legato al contesto locale del Meridione

«

il film su Peppe Musolino fu realizzato solo per richiesta del mercato estero sentazione della Calabria sul grande schermo è avvenuta con i sette documentari sui terremoti del 1905 e del 1908, realizzati dall’operatore Roberto Omega che in quel periodo si trovava in Calabria - e da altre case di produzione, e proiettati nelle principali città europee e americane. NATURALMENTE i diretti estimatori di questo genere cinematografico sono principalmente gli spettatori più che i critici, i quali non risparmiano al cinema della “Dora Film” accanite ed ironiche stroncature, perché non è da considerarsi conveniente «il riprodurre in cinematografia la

La foto di Giuseppe Musolino, il “brigante” di Santo Stefano parte più volgare e più abietta dei costumi e dei sentimenti di una città». Gli spettatori che decretano il successo commerciale della casa produttrice napoletana sono gli stessi che aspettano con ansia di poter leggere la puntata del romanzo d'appendice pubblicato sul giornale, piuttosto che le

M

ultime novità del governo. Ed è proprio da uno di questi romanzi che viene tratto, nel 1916, il film che costituisce uno dei più grossi successi commerciali della casa cinematografica napoletana: Carmela, la sartina di Montesanto”, un dramma ambientato fra Napoli e la Calabria.

Carmela, la sartina di Montesanto

atilde ama Carlo che però ama la bellissima sorella Carmela che a sua volta, però, gli preferisce il giovane conte Luigi Partanna, con castello a Gerace, in Calabria, al quale darà anche un figlio. Ma Luigi, a sua volta, mentre la tradisce con una ballerina, chiede la mano della calabrese Elena, figlia del marchese De Molina, conosciuta durante un suo soggiorno a Gerace. Ma, mentre fervono i preparativi delle nozze, il conte viene arrestato per l'assassinio dello zio e di Carmela, uccisa perché in possesso di una lettera compromettente riguardante il primo omicidio. Conclusosi il processo contro Luigi, Matilde sposerà Carlo, e «don Procopio vivrà anch'egli felice acconto agli sposi...».

DA QUESTO FILM la Calabria «esce» bene, per merito dei due personaggi «buoni» del film, che sono, appunto, due calabresi: il tipografo Carlo Rondoni e suo zio Don Procopio, un tipo allegro ed autentico, che vive da trent’anni a Napoli senza aver scalfito la propria identità; svolgendo un lavoro, secondo violino alla «Fenice», che lo rende originale, tenuto conto dei “mestieri” cinematografici prevalenti assegnati ai calabresi: banditi o briganti, con relative variazioni sul tema. Mentre la “Dora Film” si avvia a realizzare altri film di successo, grazie al sostegno del pubblico popolare, altre case di produzione sono invece costrette a chiudere i battenti a causa della Prima guerra mondiale. Il settore comunque tira, grazie a film come Carmela e ai film di propaganda, diretta e indiretta, a favore dell'intervento italiano. Le case cinematografiche ritengono opportuno aprire delle filiali estere, anche per soddisfare la fame nostalgica degli emigrati che chiedono di rivedere «scorci» e «storie» del paese d'origine. E SARA’ PROPRIO la filiale americana della “Dora Film”, con sede a New York, a chiedere la collaborazione della casa madre per la coproduzione del film La vita del brigante Musolino, le cui gesta sono oramai un mito in tutto il mondo. «La detta film - specificano i coproduttori americani - dovrà avere una lunghezza di non meno 2500m senza titoli: scene di vendetta ed arresto da prendersi sui luoghi propri in Calabria dove successe il fatto, vestiti alla calabrese di quei tempi […] Dietro Vs. risposta ci regoleremo se dovete farla Voi oppure altri […] Il film avrà inizio con la fuga del brigante dal carcere di Gerace». Negli “appunti di regia” la Notari scrive: «Il film, per ottenere il visto dell’ufficio di censura del Ministero dell’Interno, fu presen-

tato con il titolo La leggenda della montagna. Il quotidiano Il Progresso Italo-Americano pubblicizzò l’anteprima del film tra la comunità italiana (“Film di grande interesse, dove rifulge l’amore e l’onore”), che fu presentato con grande successo a Washington il 20 agosto 1931 abbinato al documentario Primo Carnera». È UNA PROIEZIONE poco gradita al Ministero dell’Interno Italiano, messo sull’avviso dall’Ambasciata d’Italia a Washington con la seguente informativa: «La vita del brigante Musolino è una filma italiana a carattere sensazionale e tenden-

«

Dopo la grande guerra, inizia l’esodo di massa, che coinvolge molti uomini di cinema

«

osterie infime, catapecchie, morra, immancabili spaghetti: questa l’Italia sullo schermo zioso. Data l’origine italiana della filma in parola che è assai vecchia, non dovrebbe essere difficile individuare la fonte della inopportuna riesumazione che danneggia il prestigio italiano forse anche tra le masse incolte, sulla quale non è da escludersi che il titolo possa ingenerare dei grossolani equivoci, quello del Regime». È una preoccupazione ovviamente condivisa dal Ministero «anche perché - scrive in risposta – se un americano avesse visto questo spettacolo: osterie infime, catapecchie, la morra, gli immancabili spaghetti, sarebbe tornato a casa con un ben misera impressione dell’Italia».


Cinema e cultura

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UN ALTRO MALEDITTISSIMO CAPOLAVORO

Luna Nova «Il Lucisano sa anche far ridere, e di questi tempi è cosa ardua» P. Crupi di Carmine Verduci

È

uscito il 27 di Dicembre il sesto libro di poesie dialettali di Bruno Salvatore Lucisano, dal titolo “Luna Nova”, edito da Calabria Letteraria Editrice, gruppo Rubbettino. Questa nuova raccolta, molto intensa e di pregevole scrittura, contiene 53 poesie che ripercorrono un passaggio della vita del poeta attraverso le sue visioni, che spesso affondano nella realtà quotidiana. Poesie espresse con parole intense e profonde, che musicano la lettura seguendo metriche che nascono dal cuore, in cui lo scrittore diventa spesso il narratore della vita del popolo oltre che di se stesso. L’autore insegue le orme degli avi, che vivevano di quell’essenzialità nel modo di agire e pensare fatta di amore per le semplici cose. In questa pubblicazione si scopre un autore diverso, molto più intimo, e una scrittura piacevole, che scivola piano e denuncia i mali della società moderna, protesa al contrario verso le banalità e contornata da sciocchi idiomi di cui oggi molti si cibano per vendere illusioni. Rabbia, stupore, sgomento e un pizzico di ironia, questo è Luna Nova. Un’opera ricca di versi capaci di lasciare senza fiato, capaci di commuovere, come quelli per Pasquino Crupi (grande militante meridionalista nonché uno dei massimi critici letterari del nostro tempo) a cui l’autore ha dedicato la pubblicazione. Lascia esta-

i nf

siati l’intensità della poesia “Per Alessia”, una dedica ad una ragazza scomparsa qualche anno fa, che amava Brancaleone, il paese dove trascorreva le sue vacanze, e che l’autore ha avuto modo di incontrare prima del suo viaggio ultraterreno. Poesie come “A Macelleria” esprime ironiche visioni di una società buffa, maldestra ma al contempo schietta, evidenziano un gusto gioviale nel modo di raccontare scene di vita quotidiana. E poi ancora “Brancaleuni”, “Na mamma”, e la stessa "Luna Nova" (poesia che da titolo al libro), e poi ancora "Fimmina" e tante altre.

DIRETTORE RESPONSABILE Antonella Italiano antonella@inaspromonte.it

DIRETTORE EDITORIALE Bruno Criaco inaspromonte@gmail.com

EDITORIALISTA Gioacchino Criaco

gioacchino@inaspromonte.it

Redazione Via Garibaldi 83, Bovalino 89034 (RC) Tel. 096466485 – Cell. 3497551442 sul web: www.inaspromonte.it info@inaspromonte.it

Un poeta, Bruno Lucisano, che ha già ricevuto importantissimi riconoscimenti tra cui: “Il Festival dei Dialetti”, il prestigioso “Premio Calabria Basilicata” ed è stato finalista a Roma nel premio G. Belli, con la poesia “Quandu finisci”, che è anche il tema trattato dalla pubblicazione di "Canni i lupara" con la quale ha vinto il premio “Nosside”, poesia che è stata poi tradotta in ben cinque lingue e pubblicata nel precedente libro "Jjanda mara”. Un autore dalle enormi doti poetiche, capace di comunicare la vita quotidiana, attraverso le parole che diventano cuore, anima e vita. Bruno Lucisano colpisce e lo fa nell’intimo del lettore.

Nella foto a sinistra un’abitazione di Brancaleone Superiore. Nella foto sotto il poeta Bruno Salvatore Lucisano durante la presentazione dell’opera a Palizzi (Foto di Carmine Verduci)

Hanno scritto in questo numero Antonio Iulis, Cosimo Sframeli, Federico Curatola, Giovanni Scarfò, Carmine Verduci, Tiziano Rossi Per l’Aspromonte orientale Bruno Salvatore Lucisano, Antonio Perri, Mimmo Catanzariti Per l’Aspromonte greco Salvino Nucera, Silvio Cacciatore Per l’Aspromonte occidentale Giuseppe Gangemi Per le biodiversità Rocco Mollace, Leo Criaco, Francesco Tassone, Angelo Canale, Giovanni Benelli

o

La copertina del libro è stata curata dalla giovane artista Giovanna Ferraro di Palizzi, e riproduce i ruderi di “Torre Mozza” al chiarore della luna nuova, ruderi di un’antica torre di guardia che si trovano nel territorio di Palizzi stesso. La prefazione è del professore Amato, docente universitario di Storia Moderna e fondatore del “Nosside”. Il libro si può richiedere direttamente all'autore all'indirizzo mail bslucisano@virgilio.it

Per lo speciale “scoperte archeologiche” Servizio e foto di Pino Macrì Fotografi Domenico Logozzo, Mario Varano, Enzo Penna, Tiziano Rossi, Bruno Zangari, Emanuele Rizzo, Salvatore Caraffa, Carmine Verduci, Leo Moio, Pasquale Criaco, Natale Nucera, Paolo Scordo, Francesco Depretis, Francesco Criaco Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 13/01/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.


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www.inaspromonte.it

In montagna si è piÚ vicini al Cielo...

Nella foto Ferraina visto dal pianoro di Calivia (Aspromonte orientale). Foto di Bruno Criaco

ogni giorno siamo on line su www.inaspromonte.it


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