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Direttore Antonella Italiano
inAspromonte
Maggio 2014 numero 009
LA BANDIERA DI MIO Nella foto (archivio Enzo Stranieri) manifestazione del cinquantenario della strage di Casignana del 1922. Oltre a Pasquino Crupi presenti anche Giacomo Mancini e Antonio Guarasci (Presidente della Regione Calabria)
PADRE
Il 21 settembre 1922 a Casignana (RC), nell’ambito delle lotte contadine per la conquista delle terre, avvenne un eccidio dove persero la vita tre persone. Tra queste il vice-sindaco Pasquale Micchia, che teneva tra le mani una bandiera socialista. Qualche settimana fa è stato esaudito l’ultimo desiderio del figlio Antonio: essere seppellito con la vecchia bandiera del padre
Cinema e cultura
La nostra storia
Tra i boschi
Qualcuno dice che sia ancora là
La testimonianza
pag. 11
La risposta
IL POPOLO ASPROMONTANO
O
pag. 22
di Cosimo Sframeli
pag. 2 - 3
di Antonella Italiano
di Giovanni Scarfò
L’Arma e le confessioni di un killer
di DOMENICO STRANIERI
Bovalino Superiore Il crudele conte Quaranta servizio e foto di Pino Macrì
pag. 20 - 21
Un montagna vestita di ginestra. Le specie, gli usi servizio e foto di Leo Criaco
pag. 12 - 13
ggi è necessario chiarire. Questo mi rende felice: vuol dire che ci siamo ancora, e che siamo tanti. Il caro Francesco Talia mi ha scritto una lettera, pubblicata a pagina 24 di questo numero, sottolineando che esaltare siti abbandonati come Africo o Casalinuovo vuol dire dimenticare le grandi sofferenze in cui ha vissuto la sua povera gente. Sempre in questo numero, l’ingegnere Macrì, nel suo affascinante pezzo su un conte bovalinese marca un aspetto convergente:
pag. 2-3
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IL POPOLO ASPROMONTANO segue dalla prima di Antonella Italiano
ilRitratto
Copertina
inAspromonte
“
Sicché, specie nelle lunghe serate invernali, era ancora il braciere a fungere da polo d’aggregazione per la famiglia. Talvolta, attorno a quello che è ormai quasi un’icona, un simbolo di tempi che (si spera) non torneranno più”. E proprio qualche giorno fa passeggiando tra i ruderi di Campusa, l’amico Arturo di Gerace ricorda la “grande povertà che vessava i montanari”. Io stessa non nego queste verità quando scrivo, nello scorso
di BRUNO CRIACO
numero di marzo “Ora è tutto spoglio dal peccato che anche gli uomini più buoni si trascinano dietro. Come i rovi, quando pietosamente ricoprono paesi in principio poveri e pieni di sofferenza. Ma, una volta tolti, mostrano realtà senza più macchie. Ripulite. Straordinarie”. Quindi rispondo a Francesco facendo due precisazioni. La prima: il riferimento frequente che questo giornale fa ad alcune località piuttosto che altre non vuole essere una
censura, ma una nostra debolezza. Stiamo ancora crescendo, e abbiamo bisogno di aiuto per completare l’opera. Lo preciso per tutti gli aspromontani che leggono, che ci seguono puntualmente, e che magari hanno voglia di inviarci foto o articoli provenienti da ogni parte della montagna. Soprattutto là dove non riusciamo ad arrivare. Questo risolverebbe, dunque, il primo problema. La seconda precisazione riguarda la povertà dei nostri antenati. Una po-
vertà certo non legata all’Aspromonte. Si era poveri ovunque, al mare come in montagna. Era questione di tempi, non di luoghi. Ad Africo antica, infatti, sono ancora visibili case sfarzose a tre piani, con balconi decorati e porticati scolpiti. Risalenti di certo ai tempi in cui i boschi regalavano olio di oliva, uva, castagne, vino; e i lecci e le querce facevano abbondare il carbone, e c’erano ghiande per i suini, e allevamenti di baco da seta, e pascoli che
Sangue s Servizio e foto di DOMENICO STRANIERI
Il bosco degli spiriti, Aspromonte orientale. Foto di Bruno Criaco
ANTONIO ZEMA IL SENZATERRA L a porta di castagno della chiesa di San Rocco si aprì scricchiolando. Era ancora notte. Uscirono più di cinquanta persone, il parroco era alla loro testa. Dalle viuzze che portavano al calvario si unì altra gente e in prossimità delle croci spuntò fuori un’ombra. «Padre ci aspettano all’acqua fredda» «Muoviamoci allora che ci prende il giorno sennò». I due uomini si misero in marcia, e si staccarono dal gruppo poco prima della meta stabilita. Avanzarono in mezzo ai faggi con circospezione, la sorgente dell’acqua fredda era a poche centinaia di metri. Il cardinale li accolse calorosamente, li mise al corrente della situazione, non gli nascose che la missione che li aspettava era durissima, ma sapeva già che nessuno di loro si sarebbe sottratto. Dovevano fermare i “senza Dio”: e li fermarono. Il cardinale era Fabrizio Ruffo, e gli uomini che lo seguivano erano il suo esercito: i “senzaterra”. Degli oltre ventimila uomini che arruolò in Calabria, qualche migliaio proveniva dal cuore dell’Aspromonte. Uno di essi era “l’ombra” del calvario, Antonio Zema, di Africo. A Napoli combattè come una
furia ed i Francesi se lo “segnarono”. Dicono che quando tornò al paese, la sua bisaccia era piena d’oro, e in tanti nei tempi si sono calati nelle caverne della Rocca della morte, dove la legenda vuole che lui l’avesse nascosta. Nel 1806, pochi anni dopo i fatti di Napoli, Napoleone mandò un battaglione di volteggiatori per fare vendetta. Attaccarono Africo. Uccisero donne bambini e anziani. Incendiarono le case. Zema sfuggì all’assalto, organizzò l’offensiva ed attaccò i Francesi nel bosco del Carruso. Era ancora notte. Fu un massacro per i Francesi, e quel bosco diventò il “bosco degli spiriti”. La vendetta di Napoleone non riuscì in pieno, ma i suoi uomini erano stati spietati anche con chi non si poteva difendere, e stavolta fu Zema a segnarseli. Formò una banda e si diresse a Monteleone, dove si unì ai soldati borbonici e ai briganti delle Serre che combattevano i Francesi. Per anni la sua banda fu il terrore dei Napoleonici, ma nell’autunno del 1810 fu ucciso in un’imboscata e la sua testa per spregio fu mandata ad Africo e depositata davanti alla porta della chiesa di San Rocco. Da qualche traditore. Di notte.
Addio ad Antonio Micchia, figlio del vice-sindaco ucciso nella strage di Casignana. Tutta la vita segnata da una vecchia bandiera socialista!
La stradella delle Croci, dove avvenne la strage di Casignana. Foto di Domenico Stranieri
Copertina alimentavano produzione di latte, formaggio, carne. Fu solo negli ultimi secoli che queste ricchezze si persero, inghiottite da terremoti, guerre, alluvioni. Emigrazione. Prendere coscienza di tanta grandezza non serve solo per rispondere a Francesco, ma sarebbe soluzione ai nostri problemi. La storia degli africesi, così come quella di tutte le genti evacuate dalla montagna, è ancora tra i ruderi, dunque, nei paesi cancellati dai buro-
inAspromonte Maggio 2014
crati. Non certo sulla costa. Mi scuso per la perseveranza con chi ci scrive il contrario. Ma proprio a questi chiedo cosa guardino oggi gli africesi di “Africo nuovo”, cosa mostrino ai loro figli. Le baracche di lamiera assegnate ai nonni nel Cinquanta forse, proprio le stesse che trasformarono uomini d’acciaio in monumenti da bar? O i ruderi magnogreci di Locri Epizephiri, dove si finge di trovare la storia pur sapendo che ne è solo una piccola parte, il
resto meglio lasciarlo sotterrato? O la stupenda scogliera “africese” che è, è stata, e sempre sarà del comune di Bianco? E quale scuola? quale chiesa? quale piazza? Ed anche a questo rispondo: l’immagine più commovente che hanno gli africesi di Africo nuovo è, è stata, e sempre sarà la testa rocciosa di Giove. Il tempio di terra e alberi che segna il confine tra la montagna bassa e quella alta. Purtroppo ognuno fugge dalla storia a
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cui è stato costretto. Ma il nostro intento non è farlo desistere, tirando fantasmi per il lenzuolo, bensì risvegliare l’orgoglio montanaro. Aiutare la nascita di gente nuova: gli aspromontani. Un popolo unico, compatto. Un popolo che abiti l’Aspromonte, con dedizione antica e cultura moderna. Che si discosti dagli orrori del passato per finezza di pensiero, ma che conservi piedi duri e mani callose. Perché ognuno sia libero di vivere la storia che si è scelto.
sulle bandiere I
l 23 aprile a Casignana si sono svolte delle onoranze funebri apparentemente normali, se si esclude il toccante ricordo, dopo il rito religioso, pronunciato dal sindacalista Giuseppe Aprile. Non vi era, difatti, un’eccezionale presenza di persone e per molti giovani era morto solo un anziano maestro che aveva insegnato quasi una vita presso le locali scuole elementari. Eppure vi sono memorie e simboli che diversificano questo singolare insegnante che si muoveva senza alcuna fretta, per le vie del paese, a bordo della sua Fiat Seicento azzurra. Sopra la sua bara erano posti dei garofani rossi avvolti da una vecchia bandiera, anch’essa rossa, dove era facilmente riconoscibile il simbolo del Partito Socialista. L’uomo in questione era Antonio Micchia, figlio di Pasquale Micchia (vice-sindaco di Casignana negli anni ’20), che, come scrisse Gaetano Cingari, ha vissuto “nel culto dell’ideale del padre” (tanto che anch’egli sarà chiamato sempre Pasqualino, in suo onore).
MA PER CAPIRE MEGLIO di chi stiamo parlando bisogna tornare indietro nel tempo, esattamente al 4 ottobre 1922. In questa data, difatti, a Casignana era giunto Bottai (fascista di primo piano che parteciperà alla Marcia su Roma, sarà Deputato e Ministro dell’Educazione Nazionale nonché Fondatore della rivista Critica Fascista e condirettore del quindicinale Primato). Ufficialmente era a Casignana per inaugurare la sede del Fascio ma in realtà egli era preoccupato per quello che era successo in paese quattordici giorni prima. Ma cosa era accaduto il 21 settembre del 1922? Quel giorno Pasquale Micchia, il padre di Antonio (che all’epoca dei fatti aveva meno di quattro mesi, poiché era nato il 28 maggio del 1922), guidava per la stradella delle Croci, insieme al sindaco Giuseppe Ceravolo, un gruppo di braccianti diretti verso la foresta Callistro. DOPO IL PRIMO CONFLITTO mondiale, difatti, anche in Calabria (che contava 20.000 soldati caduti al fronte) si poneva il problema della “terra ai contadini”, la cui manodopera veniva sistematicamente sfruttata dagli agrari. Era il proseguimento di una complessa questione sociale che Pasquale Villari aveva evidenziato nelle sue Lettere Meridionali fin dal 1875. Osservando oggi molte campagne abbandonate non è facile concepire come le stesse terre, in passato, rappresentassero il sogno e la speranza di una vita migliore per tanti lavoratori che, dopo la Grande guerra, in un clima da “scisma”, erano
pronti a lottare per esse. Già nell’ottobre del 1919, difatti, il Prefetto di Reggio Calabria, Igino Coffari, segnalava che nel Circondario di Gerace, fomentato dal Partito Socialista, si era organizzato un movimento di contadini che avevano occupato alcune terre nei comuni di Caraffa, Sant’Agata del Bianco, Ferruzzano e Bruzzano. Anche perché il 2 settembre del 1919 il Governo Nitti, con il decreto Visocchi, tendeva a favorire gli ex combattenti tramite l’assegnazione di terre incolte ad “associazioni agrarie od enti, legalmente costituiti”. A Casignana, quindi, nacque la Cooperativa “Garibaldi”, presieduta da Giuseppe Naim, che avanzò subito richiesta di assegnazione della foresta Callistro (feudo della famiglia Carafa di Roccella). Con decreto e successiva integrazione ad esso, il prefetto di Reggio, Alfredo Ferrara, concesse l’autorizzazione per l’occupazione quadriennale del terreno. Sembrava aprirsi uno spiraglio di libertà, la possibilità di conseguire progressi economici ed avviare delle leggi sociali.
NEGLI ANNI, DIFATTI, Pasquale Micchia aveva annotato in un “libro bianco” (di cui pare esistano ancora tre copie) le dolorose condizioni dei lavoratori di Casignana, sempre subordinati, come in tutti i paesi, allo strapotere di questa o quella famiglia. Tuttavia il 10 settembre, il Prefetto, accogliendo un’istanza presentata dai Carafa e rifacendosi al decreto Falcioni (che imponeva notevoli limitazioni e la creazione di una commissione provinciale per l’esame delle domande di occupazione), firmava un’ordinanza di scioglimento della Cooperativa di Casignana. Il 21 settembre il provvedimento, che includeva anche un’immediata esecuzione, veniva notificato dal Vice-Commissario Edmondo Rossi scortato da venti carabinieri. Tutto tornava come prima. I rappresentanti dei Carafa potevano riprendersi la foresta Callistro e i contadini non disponevano più di nessun mezzo per sottrarsi al loro destino di miseria. Ecco perché il sindaco ed il vice-sindaco di Casignana, quel 21 settembre 1922, guidavano (al posto di Giuseppe Naim, recatosi a Reggio per parlare con il Prefetto) i braccianti della Cooperativa “Garibaldi” diretti verso la foresta Callistro, determinati a ribellarsi contro un provvedimento che consideravano oppressivo e ingiusto. Per questi motivi, e forse anche per altri, nella stradella delle Croci, avvenne la cosiddetta “strage di Casignana”. Secondo Ferdinando Cordova (rivista Historica, 1965) il
primo colpo fu quello del “guardiano di casa Roccella, Di Giorgio Bruno, l’unico che portasse il fucile”, il quale “prese di mira e ferì gravemente il sindaco dott. Ceravolo Francesco”. Subito dopo, i carabinieri esplosero 101 colpi, ma ad essi vanno aggiunti quelli sparati dagli avversari della Cooperativa, fra cui numerosi i fascisti”. Nell’aggressione persero la vita Pasquale Micchia, Girolamo Panetta e Rosario Micò. Oltre al sindaco Ceravolo (che rimarrà claudicante per tutta la vita) rimasero feriti Rocco Mollace, Natalino Russo, Rocco Umbrello, Giulio Scappatura e Rosario Domenico Di Gori. Più di ottanta persone, invece, riportarono conseguenze meno gravi. SECONDO GAETANO CINGARI: «La propaganda socialista si faceva più capillare e più efficace, e a Casignana e in tutte le terre di quel comprensorio ionico giovani intellettuali e professionisti abbracciavano l’ideale socialista e la battaglia dei contadini». Ecco perché Giuseppe Bottai, dopo l’eccidio, si recò personalmente a Casignana. Era preoccupato per la nascita di una nuova classe dirigente in grado di liberare i contadini dal predominio dei proprietari terrieri e, dunque, di ottenere un ampio consenso. Quando il gerarca fascista lasciò Casignana per andare alla stazione ferroviaria di Bianco qualcuno, nascosto dietro le rocce, esplose due colpi di rivoltella, uno dei quali ferì all’avambraccio sinistro un giovane fascista. Quasi immediatamente molti pensarono ad un finto attentato, ma l’episodio venne usato come pretesto per danneggiare la casa di Giuseppe Naim, presidente della Cooperativa Garibaldi. PASQUALE MICCHIA ERA già morto da due settimane. Aveva 30 anni mentre percorreva il passo delle Croci (“e non si sarebbe più allontanato dal suo popolo“ scrisse Mario La Cava nel libro I fatti di Casignana, Einauidi 1974). Poco tempo dopo anche qualche suo compagno aderì al Fascismo. Il figlio Antonio, invece, rimase Socialista per tutta la vita e ogni primo maggio soleva fissare la sua bandiera, appartenuta al padre, sul balcone della propria abitazione. Ma con la sua scomparsa nessuna vecchia bandiera troverà più spazio nel cielo di Casignana, di quelle che rievocano ideali e passioni e per le quali un tempo si poteva pure morire. Tanto simili a Le belle bandiere descritte da Pasolini in una poesia: “a sventolare una sull’altra, in una folla di tela povera, rosseggiante, [...] nella tenerezza eroica d’un’ immortale stagione”.
UNA VITA PER UN IDEALE
Con Nenni
Antonio Micchia (il primo a destra) con Pietro Nenni a Roma nel 1968 (Archivio L. Mesiano)
A Roma
(Da sinistra) I casignanesi A.Micchia, Rosario D. Di Gori e il figlio Domenico a Roma per il Congresso del partito
A Casignana
Sede del partito socialista di Casignana. Micchia con gli ex combattenti della Garibaldi Di Gori e Giovinazzo
Al cinquantenario
La bandiera in mano al prof. Crupi è quella che ha accompagnato le lotte dei contadini di Caraffa del B. nel 1919
L’ultima volontà
Con Micchia èstata seppellita anche la vecchia bandiera socialista appartenuta al padre (Foto di Giuseppe Naim)
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ritratti
Ombre e luci
BARBERA E MISERIA
Anni Sessanta. La visita a San Luca del presidente Saragat, vista dagli sfollati di Africo Antica
«Dovrebbe vivere con i pastori sull’Aspromonte; sgobbare dalla mattina alla sera come si sgobba nelle case spogliate, private dalle braccia più forti dall’emigrazione; dovrebbe penare come chi deve fare i salti mortali per mandare avanti una famiglia...» di GIANNI FAVASULI
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runo Pizzinga arrivò in piazza di corsa. Trafelato. Andò a sedersi sulla panchina dove Giovanni Princi e Vincenzo Raschellà, abilissimi, accaniti giocatori di dama, circondati da un nugolo di persone, avevano da poco concluso, pari e patta, un’avvincente partita e poi, dopo avere ripreso fiato, informò gli astanti che il telegiornale aveva dato la notizia che il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, sarebbe venuto in Calabria e si sarebbe recato a visitare anche il paese di Corrado Alvaro. «Amici, - commentò - scommettiamo che questa è l’occasione buona che permetterà allo Stato di rendersi conto in prima persona delle nostre precarie condizioni di miseria e di abbandono, delle...» «Bruno, Barbera, non viene a visitare il nostro paese! Al limite, si renderà conto delle condizioni in cui versa San Luca!» lo interruppe Vincenzo. «HAI RAGIONE! I problemi di San Luca, però, sono anche i nostri. Saragat, visitando quel paese, secondo me, si renderà conto in un sol colpo di tutti i mali che affliggono questa nostra povera ed infelice terra!» gli replicò Bruno che, nel frattempo, aveva preso a confezionarsi, con cura, una sigaretta di trinciato. «Mah! Nutro seri dubbi. Un popolo non risolverà mai i suoi problemi e le sue attese con le passerelle, con le sfilate di un presidente della Repubblica... avvinazzato! Poi, caro mio, devi renderti conto che i sanluchesi, per fare una gran bella figura, porteranno Barbera in giro per il paese facendogli vedere non le zone malfamate, ma le case più belle. La miseria è una gran brutta bestia. Chi ce l’ha, chissà poi per quale oscuro motivo, nelle occasioni importanti, nelle occasioni che contano, invece di farla
vedere nella sua crudezza, senza nessuna vergogna, la tiene nascosta, legata ben stretta alla catena. Volesse capire veramente i nostri problemi e le nostre difficoltà, Barbera, dovrebbe rimanere in Calabria almeno un anno. DOVREBBE VIVERE con i pastori sull’Aspromonte; sgobbare dalla mattina alla sera come si sgobba nelle case spogliate, private dalle braccia più forti dall’emigrazione; dovrebbe penare come chi, senza un lavoro stabile o con quattro soldi di pensione, deve fare i salti mortali per mandare avanti una famiglia con tante voraci bocche da sfamare. Solo così la sua visita sarebbe utile, credibile; solo così la sua venuta assumerebbe un significato profondo; solo così lo Stato si renderebbe conto delle nostri reali condizioni d’indigenza! Lui, invece, in Calabria stringerà le mani dei prefetti, dei vescovi e dei notabili; presenzierà a qualche inutile, barboso dibattito sulle cause del nostro sottosviluppo e poi, in tutte le abbuffate, in tutti i banchetti organizzati in suo onore, pasteggerà col vino che gli è valso il soprannome. Dopodiché, con il naso paonazzo, scoprirà qualche targa, qualche pezzo di marmo alla memoria di Corrado Alvaro e, senza lasciare nessuna significativa traccia del suo passaggio, ripartirà per Roma. MA LA CALABRIA, quella vera, quella con la fronte sudata e con le mani sporche di terra, quella della disoccupazione e della miseria, quella che rimarrà dietro le quinte, dietro gli imponenti schieramenti delle forze dell'ordine, resterà per lui un qualcosa di sempre più misterioso e indecifrabile!». Gli ribatté Vincenzo dalla cortina del fumo della sigaretta che già appestava l’aria. A quel punto, Giovanni Princi, che aveva seguito il di-
scorso dei due amici grattandosi, energicamente, ad intervalli più o meno uguali, una gamba che gli procurava un forte, insopportabile prurito, fece anche lui la sua brava considerazione. «Amici - disse - quando io gioco a dama, cerco sempre d’intuire i trucchi, i diversivi che Vincenzo Raschellà escogita per farmi cadere nei suoi trabocchetti! Amici, quando io gioco alla morra, affinché non mi sfugga neanche il più piccolo, il più impercettibile movimento, osservo sempre con molta attenzione il roteante pugno dell’avversario che ho di fronte. BARBERA, INVECE, quando verrà dalle nostre parti, state certi che la mia preoccupazione non l’avrà. State certi che le callose mani di noi insignificanti pedine lui non le degnerà manco d’uno sguardo. State certi che non si lambiccherà il cervello, non si romperà la testa per cercare di capire i problemi, le mosse di noi poveri cristi. Se ne fotterà altamente. Brinderà alla nostra miseria con un buon bicchiere di barbera e buona notte al secchio!». Queste efficacissime, estemporanee, superbe riflessioni, furono accolte dai presenti con applausi entusiastici e prolungati. Un tripudio. Tutti, infatti, compreso Rocco Musolino, che dicevano fosse duro d’orecchi e di comprendonio, vollero congratularsi, complimentarsi con lui. Dopodiché Giovanni Princi, assurto ormai agli onori della piazza, dell’agorà, come un antico oratore greco, visibilmente commosso, tiratesi su ‘a gambéra dei pantaloni fin sopra il ginocchio, per l’ennesima volta, riprese a grattarsi energicamente la gamba, fino a farla sanguinare. Come questa maledettissima ed amatissima terra nostra!
Ombre e luci
ritratti
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L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri
Operazione Aspromonte
Dalla fibbia, alla mafia, alla conquista del potere ufficiale e finanziario. La Calabria degli anni Cinquanta nelle riflessioni di Corrado Alvaro: «I calabresi sono, con tutta la loro scontrosità, gente di umore, e scoprono facilmente l’ironia delle cose, specie nelle faccende ufficiali» di COSIMO SFRAMELI
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il “boss dei due mondi”, c.d. “un el 1955, quando in propersonaggio di tutto rispetto”. vincia di Reggio scende ‘NDRANGHETA, UN MALE É Macrì ad assegnare i guardiani il questore Marzano, in DALLE RADICI PROFONDE. ai “signori” possidenti e questi sostituzione, inaspettata e imcorrispondono i compensi per provvisa, del questore Sciabica, DIFFICILE ESTIRPARLE essere certi di non subire danni per opera di repressione contro «LA CALABRIA FA PARTE DI la ‘ndrangheta, Corrado Alvaro UNA GEOGRAFIA ROMANTICA. alle loro proprietà. Non viene meno, in quel peprende la parola per conto e a EPPURE NON VI É REGIONE riodo, la funzione della ‘ndrannome del brigante Antonello gheta come soggetto politico, sia (Gente in Aspromonte) che, per PIÚ MISTERIOSA E PIÚ direttamente impegnata nell’amincontrare la Giustizia, ha do- INESPLORATA DI QUESTA». vuto farsi ribelle in nome del PAROLE DI CORRADO ALVARO ministrazione pubblica sia interprivilegiata proprio diritto offeso, e scrive CHE AGGIUNGEVA: «VOI NON locutrice nell’assegnazione di lavori e sersul Corriere della Sera il racvizi. conto-saggio L’Onorata So- AVETE CAPITO UN FATTO: É strumento per risolvere le lotte cietà. Si rituffa indietro e dice le CHE IL CALABRESE VUOLE per il potere che imperversano in ragioni morali, sociali e culturali ESSERE PARLATO. BISOGNA della fibbia. Traversa mezzo se- PARLARGLI COME A UN UOMO diversi partiti politici. Antonio Macrì, nella Calabria sfregiata colo di storia calabrese e, riguardandola dal presente al passato, CHE HA SENTIMENTI, DOVERI, dall’abbandono, è persona di poche parole ed ha la capacità di coglie la lenta trasformazione BISOGNI AFFETTI: INSOMMA, intuire l'importanza della contidella fibbia, il suo mutarsi in COME A UN UOMO» guità con il potere politico e la mafia e, di conseguenza, la connecessità di stringere un patto con gli americani. quista del “potere ufficiale e finanziario”, i lunghi anni di Un boss che si muove alla testa di un’organizzazione poindisturbata azione, l’indurimento dell’impunità, l’effitentissima che, negli anni Cinquanta, è riuscita a ramifimero rigore della legge, il comportamento della classe dicarsi in Canada, negli Stati Uniti ed in Australia, rigente. Coglie le ragioni antropologiche in forza delle costituendosi in altrettanti sottogruppi, o “camere di conquali un giovane chiede di far parte dell’Onorata Società. trollo” (con funzioni di tribunale della mafia e di coordiAfferma: «Questo vorrei notare nella psicologia della namento delle attività criminali). “Ciò avvenne”, mafia, la rivalsa di una certa condizione, il fascino d’un informava un rapporto dei Carabinieri, “per una precisa potere segreto che si ride di ogni altro potere, e che prevolontà dei boss calabresi e quelli di Cosa Nostra, Frank tende di esercitare una leggendaria giustizia secondo il Costello ed Albert Anastasia, che intendevano prevenire codice d’una brigantesca cavalleria». Ed ancora: «E da possibili contrasti tra l’organizzazione siculo-americana qualche decennio ho sempre ritrovato in certi paesi, dove e quella calabrese”. Tempi destinati a cambiare. più dove meno, l’impressione di qualcosa di occulto che è nell’aria, quel parlare sommesso e per accenni, quella Il business della droga cautela, quel voltarsi indietro, quell’atmosfera furtiva per cui anche nelle mura domestiche si parla bisbigliando di I nuovi boss, quelli con le scarpe lucide, all’intermediacerte persone e certi fatti. E l’improvviso silenzio di un zione parassitaria, hanno preferito il business della droga. paese, certi giorni; le strade deserte, le finestre chiuse». Hanno cominciato ad abbattere a colpi di lupara e di mitra i vertici della vecchia ‘ndrangheta. All’età di 71 anni, AnL’Onorata Società tonio Macrì viene ucciso nel suo regno da due sicari. “Era un mafioso che prendeva, ma che sapeva anche La società contadina, mutandosi, non ha mutato la civiltà dare”, commentava il giornalista Luigi Malafarina in uno contadina. Ed incrollabili si sono mantenuti i valori della dei suoi libri sulla mafia calabrese, ricordando il boss di civiltà contadina che massimizza il culto della famiglia, Siderno. Un’esecuzione, forse, decisa oltreoceano ma del’onore, il sangue, la fierezza, la disistima totale dei postinata a cancellare regole e a violare giuramenti, a spazteri, la vendetta privata dei torti come equivalente di un zare uomini che hanno pazientemente costruito in alto ideale di giustizia deluso. Calabria “uno Stato dentro lo Stato”. La classe dirigente prende atto nel corso dell’aspro dibatL’8 settembre 1955, il Prefetto di Reggio Calabria, in un tito parlamentare, il 5 e 6 ottobre dello stesso anno, delsuo rapporto, rappresenta le pressioni che le ‘ndrine opel’esistenza della malavita, e sminuisce, sdrammatizza, rano sulle Amministrazioni comunali, nei paesi “sopratrimane in superficie, si autoassolve. E conclude: «Non è tutto prossimi alla fascia aspromontana”, un semplice problema di polizia, né si tratta di mettere condizionandone l’azione amministrativa “attraverso le sotto accusa e in stato di assedio una intera provincia. La acquiescenti tolleranze di amministratori e l’arrendevonorma per un’azione seria, potrebbe dettarla l’esame di lezza supina degli esponenti delle categorie sociali più come si è comportata la classe dirigente da cinquant’anni. elevate, in affitti, appalti, concessioni di servizi, riscosQuesto non è tutto, ma può essere molto utile». sioni di diritti d’uso civico e via dicendo, dai quali ritragCorrado Alvaro elabora una tesi sull’Onorata Società, gono, sotto forme di percentuali, illeciti profitti”. dopo cinquant’anni da Gente in Aspromonte, e dedica alla Scrive Alvaro: «Con uno spiegamento d’inviati speciali, Calabria una attenta analisi politica. Ripercorre gli anni la stampa italiana si è buttata sull'‘Operazione Asprodel travagliato e la continuità della ‘ndrangheta, anche monte’ secondo il termine cinematografico adottato per durante la guerra. Infatti, il Crimine, subito dopo lo l’occasione. In verità vi si gira un filmetto mediocre che sbarco degli Alleati, in ogni modo, viene bilanciato dal non vale tanta pubblicità. Una normale operazione di ponuovo e rinnovato peso politico. Scrive Arlacchi: “Tra il lizia, poiché i nomi degli affiliati li conoscono persino i 1943 e il 1945 i mafiosi furono nominati, dal Governo ragazzi della provincia di Reggio Calabria, sarebbe bamilitare alleato, sindaci di buona parte dei comuni della stata a ripulire l’ambiente, a evitare le reviviscenze e a Sicilia Occidentale e della provincia di Reggio Calabria”. scongiurare le dicerie dei reggini”. Una pagina di storia In questo scenario irrompe la famiglia di Antonio Macrì, che, seppur dimenticata, è rinnovata nella quotidianità. da tutti ritenuto il capo della ‘ndrangheta di Siderno, detto
CHI É L’AUTORE
Cosimo Sframeli si è laureato presso l’Università degli Studi di Siena, è luogotenete dell’Arma dei Carabinieri, comandante della Stazione di Reggio Calabria Principale. Nella Locride, negli anni ‘80, ha fatto parte del pool composto da Magistrati e Carabinieri partecipando alle più importanti indagini volte al contrasto della ‘ndrangheta. Ha retto vari Comandi Stazione della fascia ionica reggina tra cui Bovalino, San Lorenzo e Bova Marina. Cavaliere e Ufficiale al merito della Repubblica italiana, è stato insignito della Medaglia d’oro mauriziana al merito dal Presidente della Repubblica. Decorato altresì di Medaglia d’oro al merito di lungo comando. Con Francesca Parisi è autore di Un carabiniere nella lotta alla ‘ndrangheta (2011) libro vincitore di una sezione dell’XI Premio letterario nazionale “Corrado Alvaro” 2012. E, per il quale, il Presidente della Repubblica, on. Giorgio Napolitano, ha elargito la Medaglia di rappresentanza.
A ‘NDRANGHETA Evoluzione e forme di contrasto il nuovo libro di Cosimo Sframeli e Francesca Parisi, Ed. Falzea (2014)
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Aspromonte orientale
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IL RACCONTO
IL MAGGIO DI GIUSTINO
di Antonio Perri
iustino Bocci era un pastore solitario che viveva sulle alture dell’Aspromonte, la sua casa si trovava sullo sterrato che andava verso la sommità del massiccio montano, dopo Canolo. In paese si diceva che fosse una specie di animale senza senno col quale era meglio non avere a che fare, ma in realtà era uomo deluso dalla vita che aveva fatto
i conti con un padre violento e una madre che era morta di crepacuore per le angherie del marito. Era un buon contadino ma ultimamente le cose non andavano bene: la siccità di quella primavera del 1932 lo stava affamando. La sua poca terra non stava dando frutto almeno da un anno e lui cercava ogni mattina una nuvola in quel cielo montano, una goccia d’acqua che po-
Elezioni comunali. Le strategie dei politicanti, gli eserciti “fantasma”, il disagio dei cittadini onesti
QUI, A BRANCACONIGLIO L’antico borgo di Brancaleone Superiore. Foto di Carmine Verduci
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«Nel nostro piccolo comune, sia come numero di votanti, poco più di duemila, sia come numero di cervelli (poco più di due e non residenti), c’è molto spazio alla fantasia e poco spazio alla ragione» di BRUNO S. LUCISANO
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Da qualsiasi parte si guarda, la politica è interesse. Non solo economico
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on mi ricordo chi diceva che da qualsiasi parte si guarda, la politica è interesse. Che non è solo interesse economico ma può essere megalomania, spocchia, presunzione, grandezza, trasferimenti, ore di permesso dal lavoro e via di questo passo. Per ultimo, quello che dev’essere per primo, l’arte di governare e avvicinarsi alla gente e tentare di risolverne i problemi. Nel nostro piccolo comune, Brancaconiglio, sia come numero di votanti, poco più di duemila, sia come numero di cervelli (poco più di due e non residenti), c’è molto spazio alla fantasia e poco spazio alla ragione. Qui, in questo strano paese, sono buoni i figli di uno e sono brutti i figli dell’altro. Qui, in questo strambo paese, la stessa persona è buona con una lista e pessima con l’altra. Qui, in questo curioso paese, giudichiamo male persone che fanno da anni il loro lavoro e, pur essendo persone libere, vengono trattate alla stregua di pregiudicati. Qui, in questo vile paese, ci
In questo vile paese ci sono dei loschi figuri che trattano di giorno con alcuni e di notte con altri. E irreversibili montati
sono dei loschi figuri che trattano di giorno con alcuni e di notte con altri. E poi ci sono i montati irreversibili, i grandi strateghi, politologi di alto lignaggio che, per dispetto si giocano in un attimo la dignità, la credibilità, e qui mi fermo. E menomale che non siamo in alcuni Stati che non nomino, perché lì, chi sta in due partiti contemporaneamente subisce la pena di morte. E qui mi rifermo sennò non si conterebbero gli impiccati! E poi ci sono i generali, con lettera minuscola e senza esercito, che spostano i loro uomini (fantasma), da una parte all’altra in
cambio non si sa bene di quale promessa o di quale prebenda laica. Bene, adesso vinca il migliore, anzi il meno peggio, sperando che per questo paese ci siano delle iniziative che possano andare incontro ai bisogni della popolazione che, altro non chiede, di poter stare in un paese normale. Nelle liste ci sono dei bravi professionisti, delle persone serie, delle brave persone, delle persone. C’è tantissima gente onesta, davvero e senza ironia, e questa è la cosa buona se non l’unica. Ci sono due fratelli in liste diverse, poliziotti, carabinieri, ex finanzieri, l’esercito, avvocati, commercialisti, ecc. Ecco, siccome ci sono molti rappresentanti delle forze dell’ordine nelle tre liste e siccome nei seggi va comunque garantito l’ordine, invito le Autorità competenti per par condicio, per stavolta e solo per stavolta, a nominare elementi della criminalità organizzata per mantenere l’ordine nei seggi, per ben figurare con l’Europa e mostrare la
E poi ci sono i generali, con lettera minuscola, che spostano i loro uomini in cambio di qualche promessa
nostra vera faccia, quella che gli europei conoscono bene! Fermo restando il rispetto per tutti, con mal sopportazione dei peli sulla lingua e del mal di pancia, difenderò sempre questo paese dagli attacchi immorali e personalistici che non hanno nulla a che fare con la democrazia. E poi, siccome a votare ci andremo tutti, bravi, furbi, intelligenti, delinquenti ecc. alla fine in Consiglio, saremo tutti ben rappresentati! Con due Plasil, distintamente saluto, prego e scrivo, per questo paese al quale, nonostante tutto, voglio bene.
Aspromonte orientale tesse bagnare le piante di ortaggi e nespole che aveva piantato. Nella sua povera baita, svolgeva la sua vita. Un giorno, che il vento soffiava, era maggio, mentre lui stava davanti al braciere di acciaio. La porta incominciò a sbattere violentemente, come se la baita dovesse crollare. «È la montagna che non ti vuole più» pensò. Uscito sulla porta vide un santino della Madonna di Polsi
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Chi ha origini aspromontane dovrebbe avere una conoscenza maggiore del proprio passato, non per appuntarselo al petto come una medaglia ma per farne uno strumento di crescita, per trasmetterlo a chi verrà. L’Aspromonte non fu sempre nero
che, chissà come, qualcuno là vicino aveva perso «questo è un segno». Così, preso da nuove speranze, fece un piccolo altarino di legno e, tra due mozziconi di candela, pose la Madonna e incominciò a pregare, come la madre gli aveva insegnato da piccolo. Passò otto giorni a pregare finché, il 31 maggio, il cielo all’improvviso si oscurò, scatenando un temporale estivo dopo mesi e
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mesi di aridità. Preso dagli spiriti Giustino cominciò a ballare e ad agitarsi, gridando lodi alla Santa Vergine. Un mese dopo le vecchiette, nella chiesa di Canolo, videro arrivare una figura scura e barbosa che portava due sacchi grezzi che posò davanti alla statua della Madonna. Da lì fuoriuscirono fragole, zucchine e ogni ben di Dio. Era Giustino che ringraziava, di cuore.
Il monte lucente
di GIOACCHINO CRIACO
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ent’anni sono un soffio in confronto ai secoli, eppure è bastata la parentesi temporale di un ventennio per portare l’Aspromonte nel nero di una cronaca che dal 70 al 90 lo ha visto come luogo di crimini orrendi. E sarà perché quel tempo è ancora vicino a noi, che nell’immaginario collettivo il massiccio calabrese è diventato un luogo del male. Che di esso non esiste una conoscenza alternativa alle descrizioni giornalistiche. I tratti letterari di Alvaro, Strati e tanti altri scrittori aspromontani sono purtroppo appannaggio di pochi, i resoconti dei molti viaggiatori che lo hanno visitato, da quelli di Lear, Douglas o Craven del settecento o dell’ottocento a quelli del novecento di Orsi o Zanotti Bianco, ai più recenti di Paolo Rumiz, hanno comunque un pubblico ristretto. I più dell’Aspromonte hanno una visione nera, fra questi una visione distorta ce l’hanno persino i calabresi. Anzi, sono soprattutto i calabresi a non conoscere la loro montagna, e i reggini a parte qualche gita fuori porta di Aspromonte non ne sanno nulla. E non che ci sia una storia luminosa, come tale da conoscere assolutamente. Ma una storia comunque essa sia l’Aspromonte ce l’ha, a volte corroborata da dati incontrovertibili e altre annacquata da elementi di sola leggenda. E quel che è certo è che chi ha origini aspromontane dovrebbe avere una conoscenza maggiore del proprio passato, non per appuntarselo al petto come una medaglia ma per farne uno strumento di crescita, per trasmetterlo a chi verrà, e l’Aspromonte non è stato sempre nero, anzi il bianco sta già dentro il suo nome se per tradurlo correttamente se ne usa la
«E solo gli sciocchi, gli ignoranti o le persone in malafede possono pensare che Montalto sia solo una piccola cronaca di malandrini» Nella foto la chiesa di San Leo, Africo antica. Foto di Bruno Criaco
radice greca al posto di quella la- scritto il falso, alla storia dà aiuto tina, scoprendo così che aspros la leggenda che colloca a Sansignifica bianco o lucente e non t’Alessio d’Aspromonte la cuaspro. Luminoso come la cima di pola di san Silvestro, e sempre Montalto che fino agli anni cin- nel nostro monte esiste una fonte, quanta restava imbiancata di una detta di san Silvestro, che regala neve che allora miracoli agli asseera perenne. Misticismo e boschi tati. Guarisce adUna montagna dirittura i matti di papi e santi, Una montagna di papi l’acqua di Mardi pazienti mo- e santi, di pazienti cello in cui san naci basiliani, monaci basiliani, di Leo di Africo imdi fonti miracomergeva gli oslose, di ninfe e fonti miracolose, di sessi e si racconta streghe. Leg- ninfe e streghe. Una che l’Asprogendo a esem- fede strana, che monte, tutto, lo ha pio i reali di addiconserva altari pagani attraversato Francia di Anrittura san Nicola, drea da Barberino si scopre che vescovo di Myra, e prova ne in Aspromonte trovò rifugio Papa sono tutte le chiese e le contrade Silvestro in fuga da quel persecu- dedicate a quel santo lungo la tore di cristiani che fu l’impera- dorsale aspromontana tempestata tore Costantino, e anche se di monoliti giganteschi che qualcuno dice che il Barberino ha vanno da Roghudi fino alle pro-
paggini del monte a Stilo. E i mo- dell’Aspromonte. nasteri che i basiliani edificarono E se ci andate, su nel monte lucorrono da Bova a Serra San cente, attenti ai cani che hanno Bruno lungo una via mistica e un vello bianco di pecora e un militare fulcro di una resistenza cuore scuro di demoni e per estrema e mai vinta per la so- mezzo di una voce dolce e melopravvivenza diosa sono in della fede. Una Tra il bianco e il nero grado di portarvi fede strana, a perire nelle tutta particolare E se ci andate attenti fosse di Khora. che sotto la Ver- ai cani che hanno un É un viaggio di gine di Polsi vello bianco di pecora chilometri e secela una fata e un cuore scuro di coli quello che si pagana e acpuò fare in canto alle Ma- demoni. Essi, con Aspromonte: dal donne porta in l’inganno, uccidono mare al cielo e processione Era nelle fosse di Khora dalla terra alle e Persefone per stelle, nella via la domenica delle palme. delle costellazioni che va da Un’adorazione tutta nostra che Africo a Ghorio. E solo gli sciocha innalzato chiese e dato santi a chi, gli ignoranti o le persone in Dio ma ha conservato altari pa- malafede possono pensare che gani nel fitto dei lecci e nutre Ne- Montalto sia solo una piccola reidi e Orestiadi nel ventre greco cronaca di malandrini.
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Catu Chorìu
SECONDA PARTE
di Salvino Nucera
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artiva da casa in sella ad una giumenta, armato di schioppo garibaldino. Dentro una bisaccia del cibo e del vino, un’ascia qualora avesse dovuto accendere il fuoco, una pistola dell’epoca e attraversava l’Aspromonte: da Càvaddho (Monte Cavallo) a Nardello, a Matarazzelli, a Gurnelli, percorrendo una mulattiera con qualche tratto di lastricato ancora visibile. Raggiungeva il versante tirrenico e, superando Gambarie d’Aspromonte, proseguiva per la via che conduceva a Delianuova fino a Scido, in casa della sorella. Una visita “parentale” con il fine segreto della ricerca di “un’anima gemella”, cosa non difficile per un giovane aitante dai modi gentili e misurati quale lui era. Riuscì presto ad entrare nelle grazie di una giovane e graziosa fanciulla a Nicotera, e in quell’occasione si giunse anche a qualcosa di ufficiale consentito dalla tradizione, non molto diversa in verità da quella della sua zona d’origine. Meno rigida, forse, visto che riuscì a farsi accompagnare a casa di lei solo dal cognato, come garante della serietà delle sue intenzioni.
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una domenica furono invitati a pranzo e trattati con tutti i crismi dell’ospitalità. Fu preparata della pasta fresca, casereccia, condita, gli dissero, con sugo di ghiri. Una prelibatezza! Divorarono con gusto il primo piatto e, ai secondi, arrivarono i “ghiri”. Alla loro vista don Sarvo ebbe un sussulto di profonda nausea, che non riuscì a nascondere. Da esperto cacciatore, si accorse immediatamente che non si trattava di ghiri bensì di grossi topi campagnoli; ne fu talmente sconcertato e stravolto che, subito, chiese educatamente scusa ai suoi ospiti e si allontanò dal desco col pretesto di sentirsi poco bene. Si precipitò fuori dall’abitazione come una saetta, e non consentì, di proposito, ai padroni di casa nessun tipo di aiuto, né di porre alcuna domanda. Subito, dietro di lui si catapultò il suo accompagnatore-garante al quale, con rassicurante premura spiegò il motivo del gesto. Quegli lo informò di come correva voce che in quel paese usassero i topi in cucina. Ciò non lo consolò. Tutt’altro. Ebbe un moto di stizza per non esserne stato informato. Dimenticò presto l’episodio increscioso dei topi, senza il quale avrebbe potuto cambiare il suo destino.
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ualche tempo dopo, durante uno dei suoi periodici viaggi nella Piana, giunto in prossimità dell’abitato di Sant’Eufemia d’Aspromonte si imbattè in un venditore ambulante di biancheria (drapparu) che girava per i paesi dell’intera provincia a vendere i capi della sua modesta mercanzia. Era stato più volte nel paese di don Sarvo, a Ghorìo di Roghudi, piccolo centro dove nessun estraneo passava inosservato. Il drapparo lo aveva subito riconosciuto salutandolo e chiamandolo per nome e ciò lo inorgoglì non poco. L’ambulante, stanco perché reduce da chissà quale lungo viaggio, gli propose un affare. Se gli avesse trasportato le sue mercanzie sulla giumenta, fino a Nicotera, una volta giuntivi gli avrebbe presentato una sua comare giovane e graziosa. Evidentemente la sua fama di dongiovanni era nota anche al drappista. Don Sarvo acconsentì di slancio, e allungò il suo viaggio fino a Nicotera per “incassare” la promessa fattagli dal compagno di viaggio. Giunti a Nicotera, il farabutto lo condusse in un’abitazione, che agli occhi di don Sarvo era a dir poco più che modesta, ma lui non esternò rimostranze. Il drapparo bussò alla porta ed andò a riceverli una donna di mezza età, di gradevole aspetto e di abbigliamento dimesso, ma dignitoso.
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Aspromonte greco
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Essendo esperto cacciatore, si accorse subito che non si trattava di ghiri, bensì di nauseanti topi
La storia (a puntate) di Salvatore, un giovanotto ribelle
SARVU SCIALÁTA
U RRE D’A CHJANA
Da Ghorìo di Roghudi a Scido, dagli incontri galanti al matrimonio
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on Sarvo subito pensò: «Sarà questa la comare giovane e graziosa?», non si sbagliò di molto. La donna li fece accomodare e l’ambulante iniziò a tessere le lodi del suo occasionale compagno di viaggio, partito da molto lontano. Poi la padrona di casa andò a chiamare la figlia e, in quel lasso di tempo, l’ambulante si alzò, prese le sue bagattelle dicendo di doverle portare nella sua casa, situata nelle vicinanze, e promise di ritornare al più presto. Dopo un po’ fecero il loro ingresso la donna che li aveva ricevuti e quella che doveva essere sua figlia: la “comare giovane e graziosa”, decantata dall’ambulante. Indubbiamente era giovane e fisicamente non era da buttare, tuttavia il giovane ospite notò all’istante che era claudicante (forse i danni di una poliomelite infantile) e, quando si avvicinò, si accorse, senza margine di errore, che la donna aveva un occhio di vetro. Fece finta di nulla. Incominciò a conversare con le donne, trattenendo a stento una rabbia cieca, furibondo nei riguardi del drapparo volpino il quale ben si guardò dal far ritorno nell’abitazione delle “comari”. Trascorso qualche minuto l’ospite non resistette più e disse alle donne che doveva subito andare a cercare il “compare”, al quale aveva scordato di dare dei soldi.
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scì furioso alla ricerca di colui che astutamente lo aveva beffato. Se lo avesse trovato, quasi certamente, lo avrebbe strozzato. Chissà dov’era scappato per nascondersi prevedendo la reazione scontata da parte dell’uomo venuto da lontano. Ne te-
mette talmente tanto la punizione che non si recò mai più nel paese di don Sarvo a vendere le sue misere mercanzie. Si avvicinava, purtroppo, la fatidica ora di concretizzare l’impegno d’onore assunto da don Agostino: convolare a nozze con sua cugina in primo grado. L’insofferenza per la brutale coercizione costrinse l’esuberante don Sarvo a giocarsi l’ultima, disperata, carta possibile. Scelse di mettere incinta una giovane ragazza, figlia di uno dei coloni delle proprietà di famiglia. Nacque così un bimbo (un nnìpio) al quale, senza alcun mistero o riservatezza, ma con studiata ostentazione, impose un bizzarro nome di fantasia: Rosaniti Camillo.
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l cognome Rosaniti fu scelto dal nome della località in cui era venuto al mondo, e Camillo forse in onore del conte di Cavour; oppure del cammello (infatti Camìddhu era l’appellativo con cui veniva indicato da adulto, oltre che con un altro nome ufficiale che era quello di Domenico). Ma tutto ciò non impedì che si celebrasse il suo matrimonio con la cugina Bettina, tenutosi regolarmente come da volontà paterna stabilito. Don Sarvu continuò, anche da sposato, i suoi viaggi verso la Piana: Sant’Eufemia, Scido, Delianova. È possibile, persino, che fossero più frequenti anche perché, data la natura coatta del suo matrimonio, forse si era trovato un’amante. Armato di un moderno fucile Franchi e con l’inseparabile giumenta attraversava l’Aspromonte, quando le condizioni climatiche lo consentivano, ed andava a far visita alla famiglia della sorella e, forse, all’amante... (continua)
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CAMPIONI “ALTROVE”
Bova Juniors, i calciatori nostrani che hanno risalito le classifiche in Lombardia
Una squadra che, al nord, riunisce tutti i calabresi dell’Area grecanica. Odierni emigranti, sui treni con valigia e borsone di FRANCESCO VIOLI
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ssere campioni altrove assume un significato di rilievo se, oltre al merito, la vittoria è dipinta con i colori della famiglia, della riconoscenza, dei valori veri. Lo sanno bene i calciatori della Bova Juniors, società sportiva composta
Nella foto sopra l’allenatore della Bova Juniors, Pierpaolo Vadalà, nella foto a destra la squadra al completo. Foto di Francesco Violi
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Bova come il Boca Juniors
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el 1905 cinque giovani, figli di emigrati dall’Italia, misero in piedi una squadra di calcio amatoriale che prese il nome del loro quartiere di Buenos Aires. Boca era un sobborgo della capitale argentina popolato soprattutto da genovesi. Sono passati più di cento anni dalla prima partita nel circuito amatoriale giocata, e vinta, dalla squadra degli italiani d’Argentina dai colori giallo blu, e oggi il Boca è una delle squadre più blasonate del mondo. Ad oltre un secolo da quello storico avvenimento, la storia si ripete anche se in luoghi e dimensioni differenti.
Essere campioni « altrove assume un significato di rilievo se, oltre al merito, la vittoria è dipinta con i colori della famiglia
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Sostenitori e tifosi, oltre alle nostre famiglie, sono il dodicesimo uomo in campo. Ci trasmettono l’energia per vincere
da giovani dell’Area grecanica che vivono da diversi anni in Lombardia, precisamente a Milano, e che hanno concluso da vincenti il campionato di calcio a sette del CSI Categoria Open C. VINCERE in un ambiente distante migliaia di chilometri assume, quindi, una valenza sociale ed antropologica importante divenendo motivo di orgoglio, di affermazione, di stimolo per coloro i quali vivono ancora il disagio del distacco dalla amata terra, dai propri affetti, dalle proprie famiglie. Chiediamo all’allenatore e deus ex machina della Bova Juniors, Pierpaolo Vadalà, come è nata e come si è sviluppata l’idea di creare questa società: «L’idea nasce dalla volontà di
riunire in Lombardia ragazzi provenienti da Bova Marina che, per esigenze lavorative e di studio si sono trasferiti al Nord. Il trait d’union che ci ha unito sin da subito è stato il calcio, per cui non è stato difficile incontrarsi e proporsi in un campionato ufficiale. Ma il dato che più mi piace sottolineare è che attorno alla squadra si è creata una vera e propria famiglia. Sostenitori e tifosi, oltre ai nostri affetti, sono il dodicesimo uomo in campo, ci trasmettono l’energia e la forza che ci aiuta a superare ostacoli e, naturalmente a vincere».
corre ricordare altre persone che si sono adoperate per questo obiettivo: Vincenzo Minniti (attuale dirigente sportivo), Andrea Criseo, Lillo Violi, Pinuccio Minniti, Massimo Alampi e Roberto Rodà (attuale presidente).
INFATTI di vittoria dobbiamo parlare. Alla Bova Juniors va il giusto e meritato riconoscimento di campione del torneo con conseguente promozione alla categoria superiore. Con le vittorie si è realizzato un sogno, ossia quello di vincere e convincere in una terra lontana dalla Calabria. Ma, lungo questo percorso brillante, ci sono state problematiche inerenti la disputa del campionato? «I problemi attuali sono purtroppo quelli legati alla crisi economica. Infatti, la società per poter andare avanti, considerata la mancanza di sponsor, ha chiesto un auto-finanziamento ai componenti della rosa, i quali, entusiasti, hanno risposto positivamente riuscendo a mantenere vivo questo bellissimo progetto».
ATTUALMENTE la rosa dei giocatori è composta da Niko Tripodi, Andrea Ruscello, Rosario Branca, Giuseppe Iofrida, Gian Paolo Spinella, Cristian Stelitano, Luigi D’Aniello, Edo Qepuri, Santo Clemenzi, Dario Minniti, Vito Gandolfo, Giuseppe Marazzita, Marco Marforio, Oronzo Angelillo, Orlando Latella, Andrea Borzi, oltre che a Roberto Rodà e Pierpaolo Vadalà il quale illustra i progetti per il futuro della Bova Juniors, «I nostri progetti per il futuro sono quelli di continuare su questa strada fatta di vittorie, dentro e fuori dal campo. É bello vincere in campo ma è ancora più bello vincere fuori. Vedere persone di tutte le fasce di età che si ritrovano, magari anche dopo tantissimi anni, e si rallegrano attorno a questo meraviglioso sogno ed a questa meravigliosa famiglia, lascia dentro di noi delle piacevolissime emozioni». La straordinarietà di questa iniziativa consiste, quindi, nel coinvolgere tutti i calabresi dell’Area grecanica che vivono in terra lombarda.
PARTECIPARE ad un campionato di calcio non è facile, dunque. Ma l’importante è credere fino in fondo all’idea che si intende sviluppare. E soprattutto coinvolgere numerosi attori mediante i quali si può realizzare il proponimento. A tal proposito, se pur breve la storia calcistica della società, oc-
A GIUGNO l’associazione culturale Bovesi di Roma e il gruppo I love Bova Marina si riuniranno attorno alla Bova Juniors per festeggiare i Bovesi che vivono altrove. Un momento di festa dove ritrovarsi nel nome della Bovesia sarà un motivo per esportare i valori, le tradizioni e l’immagine positiva della Calabria greca.
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Aspromonte occidentale
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Skylletion, le predizioni di Giovanni Rachites denominato Elia il giovane
ASCENDANT AD MONTES Il monte Sant’Elia, nei pressi di Palmi (RC)
Un giovane monaco, proveniente dal monte Aulinas, annuncia ai cittadini di Risa (gli antichi reggini) l’imminente invasione saracena, invitandoli a rifugiarsi, e difendersi, nei castelli dell’Aspromonte di GIUSEPPE GANGEMI*
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Il vostro linguaggio sia “Si, si, no, no”. Ciò che si dice in più viene dal maligno
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I guerrieri saraceni si riverseranno per le vie, saccheggiando case e chiese
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Università di Padova Docente di Scienza dell’Amministrazione E-mail
giuseppe.gangemi@unipd.it
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Il vostro linguaggio sia: “Si, si, no, no”. Ciò che si dice, in più, vien dal maligno» (Vangeli, Matteo, 3, 37). Elia il Giovane, monaco di santa vita recita a memoria questo breve passo della Sacra Bibbia. Nella sua città di adozione, Risa, per ben due volte, nell’888 e nel 901, ha predetto ai concittadini che, continuando a vivere come vivevano, sarebbero stati assediati e uccisi dai Saraceni. La prima volta ha rivolto agli abitanti di Risa accorate e sofferte parole: «Ho avuto una visione e Dio mi è testimone che è veritiera. Ho visto la vostra città attaccata dai Saraceni e conquistata con facilità. Ho visto la calamità che si abbatterà sui cristiani. I guerrieri saraceni si riverseranno per le vie, con le scimitarre sguainate, trafiggendo tutti coloro che incontreranno e saccheggiando le case e le chiese. Nel giro di due giorni, tutto sarà compiuto. Non rimarrà alcun cristiano vivo nella città. Pochi riusciranno a fuggire, molti saranno caricati sulle navi e portati in Sicilia o in Africa, per essere venduti come schiavi. I più giaceranno a migliaia in pozze di sangue sulla soglia delle loro case, vicino alle chiese dove hanno cercato salvezza o dentro i luoghi sacri dove si sono illusi di poter trovare scampo». Impressionati dalle sue pa-
role, gli abitanti di Risa hanno promesso, ma poi non hanno mostrato, con azioni e scelte coerenti, di mantenere l’impegno di fede assunto. E allora Elia, monaco di santa vita, è uscito dalla città, ha scosso la polvere dai suoi calzari e si è diretto al suo monastero, sul monte Aulinas. Come da lui predetto, Risa venne assediata, conquistata e i suoi abitanti massacrati.
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Risa fu assediata, conquistata e i suoi abitanti massacrati. Elia lo annunciò per ben due volte, nell’888 e nel 901 La seconda volta, 23 anni dopo, Elia si trova ancora a Risa ad ammonire e minacciare. Più sbrigativo, però: «Se non cambierete vita, sarete assediati dai Saraceni e la vostra città verrà di nuovo distrutta! Molti di voi saranno uccisi, altri venduti come schiavi. Pentitevi e organizzatevi per la difesa di voi e della vostra fede!». Anche questa volta, deluso dai suoi concittadini di adozione, egli lascia la città di Risa e si dirige in Aspromonte. Qui trova la popolazione che ha seguito l’invito dell’ascendant ad montes e si appresta a difendersi dentro
ben muniti castelli. Questi, finanziati per il materiale con le tasse dell’Imperatore, vengono costruiti con il lavoro dei cittadini. Si dirige al castello di Santa Cristina dove trova i cittadini che si stanno preparando all’imminente offensiva saracena. E li elogia. L’anno dopo, come da lui predetto, Risa viene di nuovo assediata e saccheggiata. Dopo questo secondo disastro, rivediamo Elia il Giovane nelle colline intorno a Skylletion, che predica e spiega ai monaci che lo ascoltano rapiti il perché del doppio saccheggio di Risa, della conquista di Cosenza e della resistenza vittoriosa della gente delle montagne. «I cittadini delle colte città di Risa e di Cosenza sono combattuti da parole prestigiose e contraddittorie - le parole della Santa Bibbia dei filosofi greci, dei giuristi, degli storici e degli oratori romani - e non sanno che cosa trattenere e che cosa eliminare». Le parole sono, per loro, disgiunte o sono solo leggermente unite all’azione ed essi si sentono bloccati senza azione. «Voi monaci di Skylletion, dove ancora forte è il ricordo del grande Cassiodoro, dovete leggere tutte le vostre fonti e non rinunciare a niente dei vostri studi. Ma, poi, dovete andare al nucleo dell’azione che conta per un Cristiano».
La trasformazione della natura, l’organizzazione della produzione agricola, la riproduzione degli esseri umani, sono tutti progetti in sé importanti ed essenziali. Ma sono nulla senza il progetto della costruzione delle anime intorno all’azione. E questo ultimo progetto, ha una sola e semplice regola: «Il vostro linguaggio sia: “Si, si, no, no”».
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Al castello di Santa Cristina, trova i cittadini che si stanno preparando all’imminente offensiva. E li elogia Il linguaggio dei cittadini di Risa è stato, per due volte, un inganno. E la città è stata distrutta. Questo inganno ha risparmiato le popolazioni che si sono rifugiate in montagna e la loro lotta sarà vittoriosa. «“Si, si, no, no”. Ciò che si dice, in più, vien dal maligno». Il giorno dopo, il monaco di santa vita salpa verso la capitale, da dove è stato chiamato dall’Imperatore. Non arriverà mai a Costantinopoli. A Tessalonica, prossimo alla meta, Elia muore. Il suo corpo viene riportato nel monastero del monte Aulinas, a picco sul mare, e sepolto in vista della sua natia Sicilia.
La testimonianza
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Nella foto una scena del film Killer Elite, con Robert De Niro
CONFESSIONI DI UN KILLER
Nella Calabria della Criminalità organizzata vissero uomini piuttosto normali, che per lavoro scelsero di uccidere. Le logiche, le emozioni, le paranoie che uno di questi raccontò all’Arma di COSIMO SFRAMELI
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Rocco ricorda come un incubo la prima volta in cui gli chiesero di uccidere un uomo
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Affrontare una giornata da killer è un’eccitazione che pochi sperimentano Mi sentivo una « spia: ti fai amico un tizio e dopo un po’ lo uccidi. Ma era lavoro Estrassi tutti i « proiettili tranne uno, girai il tamburo e iniziai a premere il grilletto
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a prima volta, anche per un criminale, è dura. Col tempo diventerà un killer senz’anima, ma il battesimo di sangue, quello non se lo scorderà più. Rocco, cresciuto nel perimetro violento di una Calabria in balia della criminalità organizzata, ricorda come un incubo la prima volta in cui la famiglia di Sebastiano, il suo mito, gli chiese di uccidere un uomo: «Si chiamava Andrea; la sua unica colpa era di essere vicino all’Onorevole, uno dei politici più in vista della Calabria». Un uomo indifeso che non sospettava minimamente quel che gli sarebbe accaduto: sembrava facile, fu terribile. «Iniziai a sparare, ma ero teso. Con i primi due colpi lo ferii ad un fianco e ad un braccio». Lui, con un piede già nella fossa, provò a salvarsi: «Lasciami vivere: ho moglie, bambini, non faccio del male». Passarono pochi secondi. «Tre, quattro, cinque, cento, impossibile dirlo. Lui che continuava ad implorarmi, a guardarmi. Lo finii con tre colpi alla testa. E poi rimasi a fissarlo stupefatto». QUALCHE MINUTO dopo, Rocco, vomitò l’anima: «Ah, la coscienza. Che problema, eh Rocco?», gli sussurrò Leo, un altro picciotto. Sì, la coscienza poteva essere un problema, ma solo all’inizio: «Guarda che anche i migliori la prima volta vomitano», gli spiegò l’amico,
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più esperto. È proprio così, racconta il killer, arrestato nei primi anni ‘90. Col tempo uccidere diventò una professione, la sua, proprio una specialità: Rocco, tra la Lombardia e la Calabria, ha ammazzato 100 persone, una più una meno, e alla lunga ha smarrito la contabilità esatta di questo cimitero, arrivando a confondere nomi e numeri.
Uccidere un uomo «Lui con un piede già nella fossa provò a salvarsi. Continuò ad implorarmi, a guardarmi. Lo finii con tre colpi alla testa. E rimasi a fissarlo» Una storia che affiora in tutta la sua crudezza. Ci riporta a ritroso nel tempo, a cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. E ci descrive la vita paranoica di un killer: in Calabria in quel periodo si moriva per un nonnulla e spesso la “famiglia” affidava l’incarico a lui. «Come sempre, prima di un omicidio o di una rapina, mi sentivo un rigorista ad una finale dei mondiali. Affrontare una giornata da killer è un’eccitazione che pochi sperimentano. In tutta onestà, io amavo quella sensazione. Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano
così piccole, e non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite». Rocco uccide piccoli criminali, che hanno compiuto qualche sgarro, e certi personaggi famosi. UN GIORNO gli affidano il compito di far cadere in trappola Giacomo, un “tragediatore”. Per tre settimane Rocco si guadagna la fiducia della futura vittima: gli prospetta la possibilità di “trafficare” insieme. Giacomo abbassa la guardia e, dopo una cena, finisce nella rete: «Mi sentivo una spia: ti fai amico un tizio e dopo un po’ lo uccidi. Era lavoro». Lavoro che passava attraverso la tortura: «Prendemmo sotto le ascelle Giacomo e lo portammo in un’altra stanza, dove c’erano le armi, lo legammo alla sedia, cominciammo a interrogarlo per farci dire dove fosse finita una grossa partita di droga, pagata e mai giunta a destinazione». «Tradire gli amici, che cosa ti sei messo in testa? Estrassi dal revolver tutti i proiettili tranne uno, girai il tamburo e iniziai a premere il grilletto con la canna puntata alla sua testa. C’era un silenzio glaciale. Mentre ero piazzato davanti a lui e continuavo con la mia bella “roulette russa”, la prima a cedere fu la sua vescica. Prima gli colorò i pantaloni, poi il pavimento». Giacomo implora Rocco: «Darei qualsiasi cosa per farmi perdonare. Non uccidermi, ti prego». Il killer che la prima volta aveva esitato e vo-
mitato l’anima, si commuove. Ma alla maniera dei criminali: «Strano a dirsi, mi impietosì, e lasciai agli altri il compito di strangolarlo. Quando lo ammazzarono mi trovavo nella stanza accanto. IL CADAVERE venne avvolto in una coperta e bruciato in campagna. L’auto di Giacomo venne poi guidata fino a Cosenza e con-
Manifatture antiche «Per stimolare i maiali, i cadaveri furono tagliati all’altezza del ventre, e i suini arrivarono, sotto lo sguardo attento dei presenti» segnata ad un rottamaio per essere “tagliata”». Questa era la Calabria degli ultimi anni ’80 e dei primi anni ‘90. Con una media, di tre omicidi al giorno. E una ferocia che non ammette confronti: «Turi e Sergio furono uccisi perché non si fidavano più di loro. Dopo essere stati strangolati furono gettati dentro un porcile. Per stimolare i maiali, i cadaveri furono tagliati all’altezza del ventre, e sul sangue i suini si avventarono, sotto lo sguardo compiaciuto dei presenti». Era così che si moriva in Calabria, dalle nostre parti.
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Tra i boschi d’Aspromonte
inAspromonte Maggio 2014
Biodiversità in Aspromonte. La pianta alleata degli ulivi
INULA VISCOSA «Questa specie vegetale garantisce lo svernamento di un insetto parassita delle larve della temibile mosca delle olive, vero flagello della olivicoltura calabrese» di ANGELO CANALE*
FOTO 1. Inula viscosa
FOTO 2. Galla prodotta dal dittero Myopites stilata sulla pianta Inula viscosa, all’interno della quale sverna il parassitoide Eupelmus urozonus.
L'
enula bacicci o inula vischiosa o inula (foto 1) è una pianta a portamento cespuglioso appartenente alla famiglia delle Asteraceae. Generalmente sempreverde, è specie piuttosto comune nelle regioni mediterranee e molto diffusa nel territorio aspromontano, essendo in grado di colonizzare anche i terreni poveri, siccitosi e pietrosi che caratterizzano, in particolare, le aree pedemontane dell’Aspromonte orientale. In ambito agricolo e pastorale la specie è considerata infestante ed invasiva, in virtù della sua estrema rusticità e capacità di adattamento, della forte attitudine al ricaccio dopo lo sfalcio, della vischiosità delle sue foglie che la rendono poco gradita al bestiame. TUTTAVIA, è importante ribadire come questa specie vegetale giochi un ruolo importante nel mantenimento degli equilibri naturali dell’oliveto, garantendo lo svernamento di un insetto parassita delle larve della temibile mosca delle olive, vero flagello della olivicoltura calabrese in grado di compromettere la qualità organolettica degli oli extravergini di oliva producibili nel territorio calabrese. Infatti, all’interno delle galle prodotte sui fiori dell’inula dal dittero Myopites stilata (foto 2) sverna il piccolo imenottero Eupelmus urozonus (foto 3), le cui femmine nel periodo estivo deporranno le proprie uova sul corpo delle larve della mosca delle olive: le larve di Eupelmus che nasceranno da tali uova svolgeranno poi la propria azione utile, alimentandosi delle larve della mosca delle olive e contribuendo, in tal modo, al controllo naturale delle sue popolazioni. NELL’OTTICA più generale del mantenimento della biodiversità degli ambienti naturali e coltivati, è importante quindi favorire la presenza di associazioni vegetazionali polifite (siepi, arbusti, cespugli) a ridosso delle aree coltivate, per creare le condizioni favorevoli allo svernamento di altri importanti insetti utili al mantenimento degli equilibri naturali.
* FOTO 3. Eupelmus urozonus (5 mm)
Università di Pisa Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali E-mail acanale@agr.unipi.it
Tra i boschi d’Aspromonte
inAspromonte Maggio 2014
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Nella foto in grande a sinistra la gnura Ntonia al suo telaio. Nelle foto in basso le pezzare da lei realizzate. Nelle foto in alto e a destra i filati e gli strumenti utilizzati per la lavorazione. Foto di Leo Criaco
VESTITA DI GINESTRA
La montagna, ogni primavera, si addobba e si profuma di ginestra. E il suo popolo, un tempo, sceglieva gli esemplari più forti per iniziarne la lunga lavorazione. Coperte, corde, vertule e abiti di vario genere: uomo e natura vivevano in simbiosi perfetta
T
di LEO CRIACO
ra aprile e giugno i fiori della ginestra colorano di un giallo dorato le pendici delle nostre montagne e impregnano l’aria circostante di un profumo intenso e piacevole. La ginestra (nome locale: jinestrara) è una pianta tessile, diffusa principalmente nelle regioni meridionali della nostra penisola. Mentre tutte le altre piante tessili (lino, canapa, juta, cotone), da tempi lontani, vengono coltivate, la ginestra cresce spontanea dalla fascia collinare a quella montana (dai 200 ai 1500 metri s.l.m.). IN NATURA ESISTONO numerose specie di ginestra, le più diffuse in Aspromonte sono: la g. ghiandolosa calabrese, la g. dei carbonai, e la g. di spagna. Quest’ultima specie, fino a pochi decenni, fa veniva utilizzata dalle popolazioni aspromontane per estrarre una fibra che una volta filata e tessuta diventava: coperte, biancheria, e abiti e gli antichi romani confezionavano le vele delle navi con tessuti di lino e di ginestra. La ginestra di spagna o ginestra odorosa (Spartium junceum) è un arbusto alto 1-2 metri (in alcune località del nostro massiccio montano, si trovano esemplari alti fino a 5-6 metri), provvisto di foglie piccolissime (1-3cm) che durante la fioritura sono soggette alla cascola. I fiori, disposti a grappolo, all’estre-
Ginestra dei Carbonai. Foto di Leo Criaco
mità dei ramoscelli, sono di colore giallo-oro e molto profumati, i frutti (baccelli) assomigliano a dei piccoli piselli. È una pianta molto rustica, cresce bene nei terreni profondi ed aridi fino a 900 metri di altitudine, sulle pendici ghiaiose, negli ambienti scoscesi e sui pianori. IL PROCEDIMENTO PER ESTRARRE la fibra tessile da questa preziosa pianta era lungo e faticoso, e iniziava nel mese di luglio (quando i baccelli erano già formati) con il taglio e la cimatura dei teneri rami e con la formazione di piccoli fasci lunghi circa un metro con diametro di 15-30 cm: la ginestra era così pronta per una breve ebollizione (come recipiente si utilizzava la cardara) al termine della quale i fasci venivano immersi, per 7-8 giorni, nelle acque correnti delle fiumare per la macerazione. Questo procedimento aveva lo scopo di separare le fibre dalla corteccia e dai tessuti interni con il disfacimento delle sostanze cementanti (pectine). A macerazione conclusa si slegavano i fasci, e i rami uno ad uno venivano strofinati con la sabbia per togliere la corteccia. Si proseguiva con una energica e ripetuta sciacquatura e “pestatura” dei rami. Questa ultima operazione veniva effettuata con un bastone simile ad una mazza da
Citiso Trifloro. Foto di Leo Criaco
baseball, ed aveva lo scopo di separare le fibre dai tessuti interni. La fibra così ottenuta veniva lavata, asciugata e trasportata nelle abitazioni. NEI MESI AUTUNNALI ed invernali, quando pioggia e freddo non consentivano il lavoro nei campi, le donne pettinavano, “cardavano” e filavano le fibre con l’ausilio di appositi “pettini”, del fuso e della rocca, alla fine si otteneva un filato di diversa grossezza. Con il filo più sottile venivano realizzati tessuti per lenzuola, camice e biancheria intima. I filati grossi, al telaio, diventavano tessuti per coperte, corde e bertule (la bisaccia aspromontana). Per colorare i tessuti, i filati venivano trattati con prodotti naturali; il colore ruggine si otteneva dalla radice dell’erica, il giallo dal mallo delle noci, il blu dalle foglie del clasto (pianta erbacea), il colore scuro dalla parte interna della corteccia della quercia, ecc. Dai rami oltre alla fibra tessile, si ricavavano degli ottimi legacci e scope. Dalla ginestra dei carbonai si estrae la sparteina (alcaloide), usata in medicina nella terapia delle aritmie cardiache e come induttore del parto. In questi ultimi anni a causa degli incendi, il numero delle ginestre è diminuito drasticamente con gravi danni alla stabilità del suolo.
Ginestra di Spagna. Foto di Leo Criaco
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Tra i boschi d’Aspromonte
inAspromonte Maggio 2014
M
Montagne
Le Serre
Nella foto l’ingresso della ferriera di Ferdinandea
Il castello di Parsifal Ferdinandea. La ferriera, succursale di Mongiana, che fu a lungo creduta residenza di Ferdinando II
Nel corso degli anni la proprietà passò più volte di mano in mano, tanto che delle attività produttive sopravvissero soltanto l’attuale fonte della Mangiatorella e l’industria boschiva di MIRKO TASSONE
L
a Calabria racchiude nella parte più nascosta del suo seno luoghi, eventi, fatti che, pur avendone tratteggiato il destino, sembrano essersi definitivamente smarriti nel lento divenire del tempo. Una regione fatta di storie senza storia, di racconti senza narratori, di romanzi senza romanzieri. Ciascuno conserva qualche episodio tramandato più della memoria orale che dal rigore scientifico degli amanti di Clio. E così a sopravvivere sono storie antiche, di cui si è perso ogni pur minimo riferimento storico. I GRECI, gli arabi, i bizantini, i normanni, se non fosse per qualche toponimo, è come se non ci fosseri mai stati. I luoghi della memoria giacciono negletti, abbandonati, come se avessero la colpa di far ricordare un passato più incerto, ma meno aleatorio, del vuoto e grigio presente. In un contesto in cui alla memoria collettiva si è spesso sostituita l’immagine folcloristica da sagra paesana è sempre più difficile elaborare un processo storico condiviso in grado da fungere da volano turistico. Mentre altrove si scrivono storie, si rielabora il passato e si valorizzano territori, in Calabria, al contrario, si lascia agonizzare lentamente quel che di buono è scampato alla furia dei terremoti, all’impeto delle alluvioni, alle scorrerie di vecchi e nuovi predoni. NELLA PARTE più alta di monte Pecoraro, da dove è possibile scorgere le increspature dello Jonio e le arsure della vallata dello Stilaro, sorge ancora
393/9045353 0964/992014
quel che rimane di Ferdinandea. Un nome evocativo dal quale traspare inequivocabile l’origine borbonica. Correva l’anno 1833 quando veniva inaugurato quello che molti, per troppo tempo, erroneamente riterranno il casino di caccia di re Ferdinando II. Al contrario l’imponente realizzazione, edificata nel cuore della montagna tra superpi abeti e faggi secolari, costituiva il nucleo secondario di una ferriera, succursale degli stabilimenti siderurgici di Mongiana. Nel corso della sue breve esistenza produttiva, Ferdinandea seguì inevitabilmente la stessa sorte toccata a Mongiana costretta a chiudere subito dopo l’unità d’Italia. IL 27 AGOSTO 1860 un contingente garibaldino circondava e requisiva gli stabilimenti siderurgici. Un evento che segnerà il “de profundis” per uno dei primati produttivi del sud Italia. I nuovi padroni, ben presto, si dimostrarono assai meno caritatevoli di quelli appena scalzati. Estinte le attività proto-industriali, Ferdinandea conoscerà il suo definitivo canto del cigno. Nel 1874 l’immensa tenuta diventava proprietà del garibaldino Achille Fazzari, che l’acquistava all’asta insieme agli stabilimenti di Mongiana ed a diversi beni accessori. Nel corso degli anni “don Achille” fece di Ferdinandea la sua ricca e lussuosa dimora, nella quale, tra gli altri, soggiorneranno il fondatore del Il mattino di Napoli, Edoardo Scarfoglio e la di lui moglie, Matilde Serao. E proprio la scrittrice partenopea nel settembre del 1886, su Il Corriere di Roma, accostava Ferdi-
nandea al leggendario “castello incantato di Parsifal”. NEL CORSO dei loro soggiorni i visitatori potevano apprezzare la munificenza ed il mecenatismo del loro anfitrione. Fazzari aveva fatto della sua dimora una sorta di eterogeneo e caotico museo. Oltre alla “cura” del patrimonio artistico a Ferdinandea il Fazzari, intanto divenuto deputato, aveva riavviato, dopo averla rammodernata, la vecchia segheria borbonica che, nel 1892, era stata dotata di una dinamo elettrica necessaria a movimentarne le attrezzature. E proprio nei boschi di Ferdinandea sorgerà nel 1910, ad opera di Cino Canzio compagno della figlia di Fazzari, Elsa, la prima azienda idroelettrica della zona. Nel corso degli anni la proprietà passerà più volte di mano in mano, tanto che delle attività produttive non sopravviverà che l’attuale fonte della Mangiatorella e l’industria boschiva, peraltro privata dal valore aggiunto costituito dalla lavorazione del legname. Per il resto, un lento declino testimoniato dagli immensi capannoni abbandonati ed ormai cadenti, dagli alloggi per gli operi e dal nucleo centrale sul quale incombe inesorabile la scure del tempo. I TANTI VISITATORI, che ancora oggi si avventurano sui luoghi, fulcro di un percorso organico di archeologia industriale, subiscono la stretta al cuore di chi vede lentamente svanire un patrimonio. Nella nostra regione si stenta a comprendere che lo sviluppo turistico passa dal recupero della storia.
A barritta di previti di FRANCESCO TASSONE
L
a morchella è da molti considerata la regina dei funghi. Questa primizia di primavera è molto ricercata, ed apprezzata, per le sue attitudini gastronomiche. C’è chi la preferisce con due uova strapazzate e chi, invece, ama ricette più elaborate. In cucina si può accostare alla selvaggina insieme alle erbette selvatiche, ma si può anche utilizzare come farcitura di primi e secondi piatti o con le classiche tagliatelle. A Brognaturo, piccolo paese delle serre calabre, la morchella viene chiamata “sponza”, mentre la morchella rotunda viene detta “barritta di previti”. Più comunemente è conosciuta con il suo nome volgare di Spugnola. Le specie sono diverse: morchella conica, morchella deliciosa, morchella rotunda, morchella tridentina, morchella elata, morchella vulgaris e morchella esculenta. Rinvenibile nelle più diverse essenze boschive, la si può trovare anche nella terra nuda, in quella scogliosa e in mezzo alle pietre. In quest’ultimo caso è bene prestare attenzione, poiché nelle prossimità si potrebbero anni-
dare le vipere. Il carpoforo è costituito dal cappello o mitra, fusa completamente con il gambo o stipite, che è di consistenza cartilaginea. Il colore della parte apicale può essere castano, brunastro, fuliggine oppure olivastro, con alveoli allungati, angolosi e contornati da costolature nerastroe. Internamente è cavo, tendente al giallognolo. Da non confondere però con il fungo mortale gyromitra esculenta il cui aspetto è invece cerebriforme. Tutte le specie morchella sono commestibili solo dopo la bollitura, per via di una tossina termo labile (cioè che si disattiva con il calore) in esse contenuta e meglio nota come acido elvellico, ritenuto, per molto tempo, il principale responsabile delle intossicazioni di natura emolitica. Anche se alcuni studi dell’Università di Morburgo, in Germania, hanno accertato che la causa principale delle intossicazioni non è l’acido elvellico, ma una tossina aldeidica contenente azoto, conosciuta come “gyromitrina”, dalla cui idrolisi endogena si produce la “monometil-idrazina”.
Tra i boschi d’Aspromonte
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inAspromonte
escursioni
Maggio 2014
In cammino con l’associazione... Gente In Aspromonte 25 maggio
Tempo: ore 5.30 Dislivello: 580 slm 531 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Giffone Comuni int.: Galatro, Giffone
U
Galatro
14 giugno
Tempo: ore 5.30 Dislivello: 1220 slm 825 Difficoltà: E.E. Escursionisti Esperti Località: Serro Salice (San Luca) Comuni int.: San Luca
Serro Salice
L
na bella camminata che si articolerà in alcune cona natura mutevole ci accompagnerà per tutto il pertrade, poco sopra l’abitato di Giffone, tra secolari corso. Il paesaggio muta con i boschi che variano piante di faggio e abete, fino a raggiungere l’altiper la composizione di essenze diverse, mentre le piano della Cubasina, che ci permetterà di percorrere i sen- fiumare mutano aspetto pure esse per via di rocce di ditieri del passato gravitante attorno al monastero bizantino versa composizione. Le sorgenti ricordano leggende londi S. Elia della Cubasina. tane, mentre il sentiero conduce ad una profonda vallata.
30 maggio - 2 giugno
Rossano Fuori sede
A
15 giugno
Tempo: ore 6.30 Dislivello: 825 slm 835 Difficoltà: E.E. Escursionisti Esperti Località: Polsi Comuni int.: Sal Luca
Polsi
O
gni pietra ci parla di storia, ma Pietra Castello, con la sua fortezza bizantina circondata da triplice cinta di mura, ci dice di più; mentre dall’alto dei suoi spalti si ammirano i resti di Potamia, fondata dagli scampati all’invasione dei Saraceni dell’emiro Hassan, nell’anno 952, e sede di raffinati laboratori orafi.
Il santuario di Polsi
Polsi
Associazione escursionistica Gente in Aspromonte via Fontanella, 2 89030 Careri (RC) Tel. 348 8134091
lla scoperta dei tesori artistici, storici e naturalistici di Rossano. Una delle più belle città del litorale ionico cosentino, definita “perla bizantina della Calabria”. Rossano offre, nel suo centro storico, tesori, palazzi e cortili senza pari; oltre a splendidi e variegati scenari naturalistici, con maestose querce e castagni secolari tra i più grandi d’Italia. Una vita a contatto con boschi e ruscelli, all’oasi dei Giganti del Cozzo del Pesco.
www.genteinaspromonte.it info@genteinaspromonte.it
Gruppo Escursionisti d’Aspromonte 18 maggio
Il sentiero del Brigante Impegno tecnico: medio Percorrenza: 13 km Tempo: 5 ore Quote: 1000 – 900 – 1150 - 950 Difficoltà: E. Escursionistico Rientro: ore 20
P
25 maggio
Impegno tecnico: medio Percorrenza: 11 km Tempo: 5 ore Quote: 820 – 1023 - 268 Difficoltà: E. Escursionistico Rientro: ore 20
P
Soriano
artiremo dalla località Vardaro e percorreremo il artiremo dalla Certosa di Serra S. Bruno e, con i soci sentiero che scende alla fiumara Scorzonara e prodel FAI, imboccheremo il sentiero che sale alla losegue poi, in salita, fin nei pressi del Passo di Croce calità detta Colla del Monaco. Da qui scenderemo Ferrata. Da qui, seguendo i segnavia rosso-bianco-rosso al Piano S. Giovanni, Sorianello e Soriano, dove visiteche individuano il sentiero, raggiungeremo Fabrizia. remo i resti del convento e il museo dei marmi.
31 maggio - 1 giugno
P.N. I Sila
Gita - Escursione
15 giugno
Impegno tecnico: medio Percorrenza: 14 km Tempo: 5 ore Quote: 1351 – 1700 – 1792 – 1815 - 1351 Difficoltà: E. Escursionistico Rientro: ore 20
P
artiremo dal Piano Melia per seguire il sentiero che ci porteràa Pietra Tagliata. Attraverseremo quindi il Piano Tabaccari e saliremo fino all’Acqua Selvaggia. Da qui, proseguiremo verso Guardia del Falcone e scenderemo al Puntone dell’Albara e al Passo del Cervo.
La Certosa di Serra S. Bruno
l Parcodella Sila può essere definito “maturo”. Lo testimoniano i centri visita, tra i piùimportanti e completi d’Italia, realizzati negli anni e costantemente migliorati. Il nostro saràun viaggio nella natura, tra alberi secolari, montagne e valli, ma anche nei caratteristici centri abitati dell’altipiano. A Soveria Mannelli visiteremo il lanificio Leo, la piùantica fabbrica tessile calabrese.
17-18 maggio 25 maggio
18 maggio
Pietra Cappa (Pna) M. Gruppino C. Romeo A. Falcomatà Int. Calabria. E (Escursionistico)
24-25 maggio
Percorso naturalistico entomologico E. Castiglione con Alpinismo Giovanile T
i Qanat (PA), Le gole di Tiberio C. Caridi L. Siciliano con CAI Cefalù E (Escursionistico)
Amendolea e Gallicianò (Pna) Percorso serale con G. Giandoriggio e S. Settimio. E (Escursionistico)
Maddà, fiumara Amendolea (Pna) A. Picone con Alpinismo Giovanile T
7 giugno
o G. E. A. infGruppo Escursionisti
d’Aspromonte via Castello, 2 89127 Reggio Calabria Tel. 0965 332822 www.gea-aspromonte.it info@gea-aspromonte.it
Club Alpino Italiano
Frascineto e Cerchiara (Pollino) R. Romeo EEA (Escurs. Esperti con Attrezzatura)
Melia
8 giugno
14 giugno
Incontri con il canyoning (Pna) M. Mangiola e ass. Aspromonte Wild EE (Escursionisti Esperti) Oppido Antica
15 giugno
Croce romeo - Piani di Cufalo (Pna) M. Gruppino C. Romeo T (Turistica)
info
C.A.I. - Club Alpino Italiano Sezione Aspromonte via San Francesco da Paola, 106 89127 Reggio Calabria www.caireggio.it Aperto il giovedì dalle ore 21.00
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Ambienti e città
inAspromonte Maggio 2014
CAVI E TRALICCI NEI NOSTRI BORGHI
Bova, centro storico (Aspromonte greco)
Campagne di Samo (Aspromonte orientale)
Condojanni (Aspromonte orientale)
Servizio e foto di CARMINE VERDUCI
Elettricità e telecomunicazioni LA SITUAZIONE
D
LA VIOLENZA
a quando, agli inizi del ‘900, l’energia elettrica e le telecomunicazioni si sono sviluppate sulla costa jonica, e nel nostro entroterra, si è assistito ad un incremento continuo di reti elettriche e telefoniche, frutto del lento processo di modernizzazione che il nostro territorio ha intrapreso come LA DENUNCIA obiettivo. Ma è da evidenziare anche come si è approfittato di Eppure, qualora dovessimo ridiinteri paesi, considerati tra i più pingere il nostro immobile, tali belli al mondo, che oggi si tro- società richiederebbero il pagavano ad avere più fili volanti e mento di un’ammenda cospicua, centraline che popolazione ed per lo spostamento temporaneo utenza. Sembra siano stati volu- di un linea telefonica o elettrica. tamente giustapposti, a decorare É vergognoso venire soffocati in maniera orribile stradine e vi- giorno per giorno da idiozie e coli: grovigli di cavi e fili e intere spot pubblicitari senza senso, o foreste di pali di sostegno e tra- sentirci impotenti nel guardare licci. Un modo per privarci del altre regioni adottare misure estenostro paesaggio, della bellezza tiche strategiche. di un tramonto o di un alba. Occorre, forse, impugnare la Senza contare, poi, anche le linee legge per sensibilizzare i nostri telefoniche ed elettriche ormai in amministratori, affinché proibidisuso (cavi morti che fanno scano opere antiestetiche? bella mostra di se lungo tutto Dovremmo cercare di tutelare il l’Appennino) nostro patriconcentrati in «Grovigli di cavi e fili, monio stoborghi come: intere foreste di pali di rico, avendo Pentidattilo, cura e riBova, Galli- sostegno e tralicci spetto della cianò, Staiti, concentrati in borghi natura e dei Gerace, Con- come Pentidattilo, luoghi. dojanni (per Bova, Gallicianò, Staiti, Solo adotcitarne altando misure cuni) alcuni Gerace, Condojanni» drastiche podi questi considerati “gioielli tremmo concretamente parlare di d’Italia”. ricchezze paesaggistiche, di recuÉ ovvio che una linea che taglia pero storico dei borghi abbandole distanze riduce drasticamente nati, di questa Calabria e di i costi di installazione, ma è questo Aspromonte che di belanche ovvio che non ci si pone il lezza ne avrebbe da vendere. problema che la rete passi da- Pensiamo ad una montagna finalvanti ad un monumento, ad una mente libera dai cavi morti, inucasa, o un palazzo storico. tili e inquinanti.
Nel nostro entroterra, la “modernità” ha portato ad un incremento continuo di reti elettriche e telefoniche
Costa jonica reggina
LA RIFLESSIONE Le comunicazioni e i servizi elettrici hanno contribuito allo sviluppo della nostra terra, ma guardare alla modernità sfrenata, incuranti del senso estetico dei luoghi, sarebbe un grave errore. I nostri antenati vissero perfettamente adattati al territorio, lo si comprende dalla scelta dei materiali di costruzione, basata prettamente sulle risorse locali: pietra e calce integrati alla nuda roccia. La particolarità di queste antiche abitazioni è ciò che oggi si ha l’esigenza di riproporre; un po’ per moda, un po’ perché si è compresa la bellezza della semplicità. Pensiamo a cosa significherebbe, domani, recarsi a Gerace (una eccellenza della Locride) e poter scattare una foto ai quei vicoli pittoreschi, senza centrare un groviglio di fili su di un muro di pietra. Occorre cercare una via giusta affinché questa violenza cessi! Occorre che noi, figli di questi borghi, lottiamo affinché venga adottato l’uso delle cosiddette “linee interrate” che, per motivi legati a qualche misterioso piano economico, le società scelgono di non applicare. Ed attaccarci, invece, per le mura e per le strade, quasi fosse un triste decoro, orrendi fili grigi .
Gallicianò (Aspromonte greco)
“
Non permettiamo, ancora una volta, alle lobby delle multinazionali di scegliere la strada della libera beffa, cercando di omettere la verità con slogan e frasi fatte, che non trovano dimostrazione
LE SOLUZIONI
IL SOGNO
Occorre dunque un piano regola- Il sogno è non trovarsi più a tore, stipulato fra comuni e mul- dover cancellare, con photoshop, tinazionali, che faccia fronte a un cavo elettrico da una foto di tale problematica. Nei borghi un paesaggio meraviglioso. della Toscana, del Lazio, delle Il sogno è quello di gustare un Marche i vicoli sono completa- alba, o un tramonto, senza avere mente “puliti” da ogni forma di la vista disturbata da un traliccio o da un cavo volante. “abuso energetico”. Questo è il frutto di un processo Il sogno è che la battaglia si conculturale che ha creato una giusta centri più sull’estetica che sui concezione dell’estetica e ha ga- principi imposti dalle lobby. rantito, dal punto di vista turi- Abbiamo taciuto per troppi anni, stico, un rientro d’immagine. Si ma i nostri diritti avrebbero doè dunque arrivati ad una forma vuto essere rispettati. di rispetto delle norme del decoro Avrebbero dovuto essere rispettati l’identità e la bellezza dei urbano. Non permettiamo, ancora una luoghi, capace di trasmettere un senso di orvolta, alle dine, di pulilobby del- «Cerchiamo una via zia, di l’energia e giusta perché questa integrità. delle teleco- violenza cessi! Occorre Ci si auspica municazioni l’intervento di scegliere la che noi, figli dei borghi, congiunto di strada della lottiamo affinché venga tutte le autolibera beffa, adottato l’uso delle rità compecercando di linee interratee» tenti che, in omettere la verità con slogan e frasi fatte, che sinergia con i politici, potrebbero non trovano dimostrazione a garantire più attenzione verso le quello che stanno operando da nostre problematiche. anni su tutto il territorio nazio- Oggi, purtroppo, le guardiamo nale. Non permettiamo che il no- impassibili, senza far nulla, stro territorio divenga una anche perché ci hanno costretti a giungla di tralicci morti, di cavi pensare che, di problemi più volanti, di pali di resina, ferro, gravi, la Calabria ne ha da risolvere. legno e alluminio, di antenne. CAVI E TRALICCI NEI NOSTRI BORGHI
Staiti (Aspromonte orientale)
Ambienti e città
inAspromonte Maggio 2014
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Rete stradale. L’inadeguatezza della segnaletica e delle vie di collegamento monte-mare
SEGNALI E “SEGNALI”
Tempo fa la Provincia, competente in materia, ha sostituito le indicazioni stradali lungo la SP3 Melito-Gambarie. Risultato? «Scusi, per San Lorenzo?» «30 km, no 15, forse 20» SEGNALETICA SULLA SP3 MELITO-GAMBARIE
di FEDERICO CURATOLA
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e potenzialità di sviluppo turistico legate ai luoghi ed alle tradizioni dei borghi e delle aree interne dell’Aspromonte s’infrangono sul “muro” della inadeguatezza delle infrastrutture viarie attualmente disponibili. La struttura territoriale a pettine, con le strade di penetrazione che corrono grosso modo lungo gli argini delle fiumare, rende difficile ed in molti casi impossibile il collegamento tra centri interni, cosicché questi si relazionano solo con “la marina”. Questa é una delle principali cause di isolamento e spopolamento delle aree interne. Avendo infatti direttrici ed assi di collegamento monte-mare, l’impossibilità di relazionarsi con altri centri di mezzacosta o altri sistemi vallivi, ha causato l’impoverimento dal punto di vista dei servizi (scuole su tutti) e quindi la “fuga” verso valle di un cospicuo numero di abitanti. Le conseguenze sono quelle che conosciamo: abbandono delle attività legate alla terra, appiattimento sul terziario, squilibri territoriali forti. Difficile pensare che si possa tornare indietro o anche semplicemente porre un freno alla continua emorragia demografica dei centri aspromontani. Difficile soprattutto a fronte della situazione in cui versano le arterie di collegamento ed in generale il sistema dei trasporti locali.
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Forse è quello che ci meritiamo! Siamo un territorio in cui nemmeno le distanze tra un paese e l’altro si conoscono più
La rete stradale (se di rete di può parlare) é di competenza della Provincia, la quale però non dimostra ormai da parecchi anni un interesse forte al potenziamento della rete stessa, limitandosi a malapena ad effettuare una pallida manutenzione ordinaria dell’esistente. Sarebbe servito invece un intervento deciso sul piano infrastrutturale, magari con la realizzazione di tratti di pedemontana o di viabilità di mezza-
In fuga verso valle L’impossibilità di relazionarsi con altri centri ha causato l’impoverimento dei servizi e quindi la “fuga” verso valle di molti aspromontani costa così a da poter mettere in relazione le comunità che abitano i centri interni. Ciò avrebbe fornito anche l’opportunità di razionalizzare i servizi (scuole, caserme, guardie mediche) evitando tagli drastici e disagi ulteriori per i residenti. Credo che ormai sia tardi, credo che ciò che è andato perduto non tornerà, neanche se da domattina si mettessero in cantiere (cosa impossibile) interventi di questo genere. Ciò che però é fattibile, e che
tutti noi abbiamo il dovere di pretendere, é che le condizioni minime di civiltà e sicurezza vengano garantite a chi queste strade le percorre quotidianamente ed a quanti intendessero percorrerle per godere degli splendidi panorami e delle bellezze storico-paesaggistiche che in Aspromonte dimorano. Qualche mese fa notavo e riportavo sul mio blog la sequenza di indicazioni stradali errate dislocate in vari centri dell’Area grecanica. Il post é stato letto, commentato e condiviso da molti internauti sui vari social network, ma con mio sommo stupore, nessuno é intervenuto per correggere quei grossolani errori riportati dai cartelli. Questi sono “segnali”, è proprio il caso di dirlo, che fanno riflettere. Lasciano intendere quanto amore e quanta attenzione sia riservata a questa parte del territorio. Anche dai suoi stessi abitanti, intendo, che non hanno visto, oppure hanno visto e taciuto, tanto i residenti lo sanno quanto dista San Lorenzo dalla SS106 e turisti non ce ne stanno. Forse è quello che ci meritiamo. Siamo un territorio in cui nemmeno le distanze tra un paese e l’altro si conoscono più. Niente più fa scalpore. Né le cose importanti, né le piccole cose, che spesso però sono le più indicative del totale abbandono e quelle dalle quali si deve partire per cambiare quelle più grandi.
Allo svincolo della SS106 in prossimità della Galleria Calvario le indicazioni circa la distanza sono errate. San Lorenzo infatti, dista 20 km e non 30 km
Cento metri più avanti, alla fine della rampa, come per incanto, San Lorenzo dista 16 km
Al Ponte San Nicola, a 9 km da questo punto, all’innesto della SP23 per San Pantaleone, la storia si ripete. Ma come 2 km? Ma se ne ho percorsi 9!
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L’inchiesta
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Regno d’Italia (17 marzo 1861), il tributo di sangue dei piccoli comuni della vallata de L
IN NOME DELLA “RAGION
«A S. Agata il 25 settembre 1861 cadono sotto il piombo dei bersaglieri presso le Pietre di S. anni 33; Francesco Carneli, di anni 22; Francesco Priolo, di anni 50; Giuseppe Spanò, di ann Altri mezzadri dei Franco furono fustigati con un nerbo bagnato con l’imposizione di gridare di VINCENZO STRANIERI*
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Ferdinando Mittica scese dall’Aspromonte, e si presentò in chiesa a Sant’Agata I piemontesi « commisero eccidi indicibili con la morbosa certezza di essere nel giusto
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Università della Calabria Cultore di Etnologia E-mail vincenzostranieri@hotmail.com
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uanti cercano di capire i motivi di fondo che portarono al Regno d’Italia (17 marzo 1861) è doveroso che lo facciano con rigore e competenza spogliandosi da pregiudizi ed analisi sommarie. Chi pensa che il Sud sia stato annesso con l’inganno e la violenza non deve essere etichettato come “neo-borbonico”, viceversa quanti chiudono gli occhi (spesso per ignoranza, cinismo e/o per mero interesse di bottega) devono comprendere che la ricerca della verità non è animata da alcuna volontà disgregatrice della Nazione. Indietro non si può e non si deve tornare, ma esigere la conoscenza dei fatti è quanto mai doveroso. DENUNCIARE - ad esempio le carneficine perpetrate dai bersaglieri piemontesi è un atto moralmente dovuto, ciò anche per dare “degna sepoltura” ai tanti, troppi, morti innocenti. Dalle preziose ricerche di alcuni cultori locali (attendibili quanto quelle di tanti illustri cattedratici) ho appurato, con non poco sgomento, che alcuni comuni della nostra Vallata La Verde (particolarmente a Caraffa, S. Agata, Casignana e Bianco) sono stati anch’essi, al pari di tanti altri, oggetto della violenza, spesso gratuita, delle truppe savoiarde. Le cose andarono come segue. Uno dei briganti che nella Locride giurò fedeltà a Francesco II (ultimo re dei Borbone a Napoli) e che all’occorrenza ebbe aiuti
dai comitati legittimisti, e sostegno dai numerosi soldati e sottoufficiali borbonici sbandati, fu Ferdinando Mittica che, con la sua banda, si era sistemato nelle vicinanze di Platì. Egli, una mattina del mese di agosto (si era nel 1861), scese dall’Aspromonte con un buon seguito di giannizzeri armati di schioppo, e si presentò in chiesa a S. Agata, mentre l’arciprete Tedesco alzava verso il cielo l’ostia consacrata che, essendosi questo spaventato, per
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missione militare in Calabria fu nominato da Francesco II maresciallo di campo. Borjes parte da Marsiglia e punta su Malta con una ventina di compagni, ufficiali spagnoli, francesi, siciliani, napoletani, e da qui con un trabiccolo parte per la Calabria dove il 13 settembre sbarca sulla costa ionica, nei pressi di Brancaleone. Il suo intento era di raggiungere al più presto Platì per unirsi a Mittica. Passa sotto Caraffa. Quando arrivano in con-
Dalle ricerche di alcuni cultori locali (attendibili quanto quelle di illustri cattedratici) ho appurato che alcuni comuni della nostra Vallata La Verde sono stati oggetto della violenza, spesso gratuita, delle truppe savoiarde poco non gli cadde di mano. Sul campanile della chiesa fu issato lo stendardo di Francesco II e Giuseppe Franco (figlio del Barone don Amato, e fedele borbonico) fu proclamato sindaco al posto di Francesco Rossi che era un savoiardo, cosicché la festa finì a tarallucci e vino senza colpo ferire e i briganti tornarono ai monti (nota 1).
NEI CENTRI di arruolamento borbonici, aperti a Roma e in altre città degli Stati Pontifici, gli ufficiali stranieri: spagnoli, francesi, bavaresi, austriaci, piombarono a frotte. Il più noto di questi fu senza dubbio Jose Borjes, il quale in vista di una prossima
trada “Petrusa”, dalla prominenza del rione Pizzo partono contro di loro alcuni colpi di fucile, a cui essi rispondono.
AL CONVENTO del Crocefisso di Bianco, qualche chilometro più avanti, gli spagnoli (così furono chiamati dagli abitanti della zona i membri di quel corpo di spedizione) sono accolti e rifocillati dai monaci. Quel convento era storico. Il principe Carafa in persona, affacciandosi alla finestra, si benignava ogni anno di ordinare “il cominciamento della Fera” e ivi viveva e pregava Padre Bonaventura da Casignana (al secolo Giuseppe Nicita, Casignana,
1880-1860), “religioso di santa vita”, e confessore della Beata Regina Maria Cristina di Spagna la quale, tra l’altro, gli aveva scritto: “Alle 2 il dopo pranzo, Dio mi concesse un parto felicissimo dando alla luce una bambina”. Sempre in detto convento, vent’anni prima, il viaggiatore inglese Edward Lear si era dissetato in un pomeriggio caldo d’agosto. “Un pozzo d’acqua pura”, scrisse, “e un secchio di ferro incatenato che ricorderò per tutta la vita” (nota 2). DA QUI IL DRAPPELLO si avvia verso Platì. “Borjes e i suoi compagni saranno poi, l’8 dicembre 1861, intercettati a Tagliacozzo dalle truppe italiane (carabinieri, guardia nazionale, bersaglieri) e fucilati alle 4 del pomeriggio dello stesso giorno. Per S. Agata e Caraffa incomincia ora la tragedia: il generale savoiardo De Gori sbarca il 20 di settembre con forze ragguardevoli a Bianco per una spedizione punitiva e affida la missione al maggiore Rossi, cugino del sindaco spodestato di S. Agata. “Si cercano tutti i coloni che furono creduti manutengoli dei briganti o ligi alla cospirazione”. A S. Agata il 25 settembre 1861 cadono sotto il piombo dei bersaglieri presso le Pietre di S. Rocco, site davanti al palazzo baronale: Don Giuseppe Franco, di anni 33, figlio del barone e della nobildonna Marianna Scoppa; Francesco Carneli, di anni 22, bracciante; Francesco Priolo, di
L’inchiesta
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La Verde (Aspromonte orientale)
Nella foto a sinistra: Comune di S. Agata, 25 settembre 1861- Atto di morte n. 25 di Don Giuseppe Franco, di anni 33, proprietario, figlio del Barone Amato Franco e della Nobildonna Marianna Scoppa, fucilato il 25 settembre 1861, alle ore quindici, dal Reale Governo esercito. Rosario Patti - Ufficiale Civile. Nella foto in basso: il Convento dei Riformati di Crocefisso, fondato nel 1662. Bianco (Foto a cura di Francesco Misitano, 1964)
IL GENERALE JOSÉ BORJES
Riconquistare le Due Sicilie
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l generale, con soli 17 combattenti, iniziò la sua missione partendo da Marsiglia e giungendo prima a Malta e poi a Capo Spartivento, in Calabria. Giunto a Precacore (l'odierna Samo), venne accolto da un parroco ma nessun rappresentante del comitato borbonico giunse a riceverlo e riuscì ad arruolare solamente una ventina di contadini. Incontrò la banda di "Don" Ferdinando Mittica, composta da 120 uomini, con la quale attaccò il comune di Platì senza successo. Abbandonato da Mittica, che verrà ucciso qualche giorno dopo in uno scontro, Borjes si diresse verso la Basilicata, nella speranza di trovare una situazione più ottimista.
DI STATO”
. Rocco: Don Giuseppe Franco, di ni 39; Vincenzo Zangari, di anni 36. e ad ogni nerbata: Viva l’Italia!» anni 50, domestico dei Franco, nato a Reggio; Giuseppe Spanò, di anni 39, mulattiere; Vincenzo Zangari, di anni 36, campagnolo. Altri mezzadri e coloni dei Franco furono fustigati con un nerbo bagnato allo stesso posto vicino ai caduti con l’imposizione di gridare ad ogni nerbata: Viva Vittorio Emanuele! Viva l’Italia! Abbasso i Borboni! Morte a Mittica (nota 3). A tal proposito “Francesco Sicari, fittavolo dei Franco, dopo le nerbate ricevute, avviandosi verso casa “zoppicando e contorcendosi”, si lamentava: «O gnura Mariantonia lapriti a porta e lavatimi prestu cu sali ed acitu, ca sugnu tuttu na caja. Viva Vittoriu e Manueli! Viva u generali Di Gori! Morti a Mittica! Morìu compari Vicenzu e Peppi Spanò, attri ammazzanu! Tutti ndi mmazzanu…Viva Vittoriu, Viva Di Gori (nota 4). DE GORI era il generale che aveva ordinato il massacro e le fustigazioni! Giovanni Franco, fratello di Giuseppe, si salvò perché, cucito dentro un materasso ch’era indirizzato ad un cardi-
nale, fu spedito a Roma a bordo della nave “Pagliata”, ormeggiata in prossimità di Bianco. L’abate don Antonio Franco, un sacerdote della famiglia baronale di S. Agata, fu catturato a Bianco e fucilato nei pressi del Convento del Crocefisso. Questi fu incendiato. I monaci però avevano già abbandonato il convento e s’erano rifugiati: padre Bernardino a Casignana, padre Giacomo ed il ventinovenne padre Francesco Battaglia a Caraffa. Un quarto monaco (forse il superiore del convento) fu raggiunto dai bersaglieri in contrada “Gnura Elena” del Comune di Caraffa ed abbattuto a colpi di fucile. PADRE FRANCESCO Battaglia fu poi arrestato nel suo nascondiglio di Caraffa, dove viveva la sua famiglia, e liquidato lo stesso 25 settembre dietro l’abside della chiesa parrocchiale. Nello stesso giorno fu fucilato nei pressi della chiesetta della “Madonna delle Grazie” Antonio Zappia, di anni 36, nativo di S. Agata, figlio di Vin-
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NOTE AL TESTO
1. DIENI G., Dove nacque Pitagora, Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1974, pp. 263, 264. 2. INCORPORA G., Lupa di mare, Age, Ardore Marina, 1997, p.36. 3. MISITANO F., Il sacerdote Vincenzo Tedesco, in “Calabria Sconosciuta”, n. 77, 79. 4. DIENI G., Ibidem, p. 267. 5. MISITANO, Ibidem, pp.79-80. 6. CATALDO V., Cospirazioni, Economia e Società nel Distretto di Gerace in provincia di Calabria Ultra Prima dal 1847 all’Unità d’Italia, AGE, Ardore Marina 2000 , p. 499. cenzo e di Elisabetta Mesiti e marito di Agata Sicari. Era stato prelevato nel suo fondo in contrada “Cannavia” del comune di S. Agata. La voce popolare narra di un altro fucilato dietro l’abside della chiesa parrocchiale di Caraffa. Si tratterebbe di un tale, professione tintore, forse un parente di padre Francesco Battaglia, che anche apparteneva ad una famiglia di tintori. Purtroppo di questa esecuzione non si trova traccia né nei registri dello stato civile né in quelli della parrocchia di Caraffa. Giovanni Battaglia, fratello di Francesco, per sfuggire alla cattura, in quanto anche lui ricercato, si dovette nascondere per lungo tempo in una stalla di maiali (hurnegliu di porci). QUANDO GLI SPAGNOLI di Josè Borjes passarono, si trovava con loro un giovane caraffese, denominato “Carzi Randi” (Pantaloni Grandi), che li aiutava trasportando per loro una cassetta. Un altro giovane di Caraffa, di nome Giovanni Alafaci, si avvicinò al compaesano per dirgli di cedergli la cassetta, per un cambio nel trasporto, che lui alla prima svolta se la sarebbe svignata col carico, del quale poi gli avrebbe dato la metà. “Carzi Randi” però non cedette alle lusinghe e Giovanni Alafaci, dopo
«O gnura Mariantonia lapriti a porta e lavatimi prestu cu sali ed acitu, ca sugnu tuttu na caja. Viva Vittoriu e Manueli! Viva u generali Di Gori! Morti a Mittica! Morìu compari Vicenzu e Peppi Spanò! Tutti ndi mmazzanu… Viva Vittoriu, Viva Di Gori»
qualche centinaio di metri, si staccò dal gruppo. Il 25 settembre, giorno del massacro dei filoborbonici da parte dei piemontesi, Giovanni Alafaci fu accusato, per quei pochi passi fatti con gli spagnoli, di collaborazionismo insieme a “Carzi Randi” ed iscritto nella lista degli eliminandi per fucilazione. Entrambi dovettero cercarsi un nascondiglio ed ivi starsene bene accovacciati fino a quando, qualche mese più tardi, le esecuzioni capitali furono sospese (nota 5). Ma il ritorno dei Borbone era un sogno effimero, impossibile da realizzare, troppo le cose mutate, troppo forti ed organizzate le truppe sabaude. DALLE MONTAGNE di Gerace il 19 settembre (1861) venne spedito un dispaccio a cura del deputato Agostino Plutino, comandante mobile di Reggio, col quale si comunicava l’avvenuto sbaragliamento della comitiva Mittica e degli spagnoli, inseguita verso il territorio di Monteleone dal De Gori e dallo stesso Plutino. Il Mittica veniva braccato come una belva sanguinaria. Questi, contro una mobilitazione così grossa, aveva poche speranze di uscire vivo. Al brigante fu teso un agguato sulle montagne di Platì dal capitano delle milizie di quel Comune, Ferrari,
assieme a sette guardie nazionali. Mittica morì alla prima scarica con il compagno Loseri. Decapitate, le teste furono portate sulle baionette a Gerace dove il Generale De Gori, che lì aveva il quartier generale, ordinò il seppellimento. Il Mittica venne tradito dai suoi stessi paesani dietro compenso. Anche Borjes e compagni rimasero vittime dell’illusione che avevano loro inculcato Ruffo e Clary, e saranno fucilati con la stessa ferocia riservata al Mittica ed ai suoi pochi fedeli (nota 6).
SPECIE LA POVERA gente, aveva accolto il brigante Mittica per paura ed ignoranza, non certo perché approvasse le sue idee, c’era poco da approvare e da capire in quel frangente storico. I piemontesi hanno commesso eccidi indicibili con la morbosa certezza di essere nel giusto; hanno ucciso a sangue freddo gente inerme nei pressi della casa di Dio; hanno inseguito e trucidato persone che non avevano avuto alcun ruolo decisivo nella scelta borbonica di riappropriarsi del Regno. E dunque l’impronta lasciata nella terra di Calabria era stata quella del sangue e del terrore, dell’istituzione forte che badava non ai morti innocenti ma alla cosiddetta ragion di Stato (sic!).
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La nostra storia
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Il crudele conte Qua Peppe, Paolo, Pino e Luciano ci andavano spesso a giocare: nei racconti di zi’ Peppino, quella era la prigione del castello, dove nel passato erano state consumate nefandezze orribili di PINO MACRÍ
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«IL CONTE QUARANTA - narrava - era un uomo terribile e crudele, che soleva chiamare sempre un barbiere per farsi fare la barba; ma, questi, nel farlo, non gli doveva toccare il naso, pena l’immediata uccisione, o, peggio, l’essere murati vivi» in quel terribile luogo, che per questo i bambini esploravano sempre con un certo timore.
LE TRACCE DEL PASSATO
Sopra, il castello di Bovalino Superiore. Foto concessa da Pino Macrì. A destra, le antiche vie della Frazione ma Un giorno, per caso, mentre i quattro amici giocavano proprio lì, lo sbattere accidentale di una pietra contro la parete interna produsse un ben strano rumore sordo: i bambini si bloccarono, ammutoliti per la sorpresa, finché Luciano, che era anche il più grandicello del gruppo (doveva avere sui 10-12 anni, contro i 7-8 degli altri), non prese l’iniziativa di fare un salto a casa e prendere in prestito gli attrezzi del mestiere del padre muratore, cioè mazzetta e scalpello, coi quali si diede a scavare nel punto in cui si era prodotto quel misterioso rumore. Bastarono, in verità anche i pochi colpi inferti dalla forza di un fanciullo perché si aprisse un buco del diametro di una trentina di centimetri, profondo quasi altrettanto. L’eccitazione era tanta: alcuni dei più richiesti racconti di zi’ Peppino vertevano su un favoloso tesoro che ancora si troverebbe nascosto fra i ruderi! Ma l’inevitabile delusione fu ampiamente superata dall’orrore della macabra scoperta: un mucchietto di ossa chiaramente umane, ancorché di piccole dimensioni! Come si sa, i “cunti” e le leggende hanno spesso un fondo di verità. È, dunque, veramente mai esistito un Conte Quaranta a Bovalino? E, nel caso, era veramente così terribile? La risposta alle due domande è la stessa: forse sì. Iniziamo dalla prima: già del ‘500 il Meridione era stato adocchiato come terra di conquista (commerciale) dai mercanti genovesi, che si radicarono profondamente anche in Calabria. A BOVALINO I GENOVESI arrivarono a metà del secolo successivo, con i Del Negro (quattro in tutto) che tennero direttamente il feudo dal 1650 al 1688, quando l’ultima Del Negro sposò un (ex?) abate, Ferrante Spi-
! FOTO 2 il punto del ritrovamento di ossa umane
nelli. Il terzo della dinastia, Giovangeronimo, fu anche il primo che, per investiture precedenti, aveva assunto il titolo di Conte di Quaranta. Ma, su di lui, nessun particolare men che “normale” emerge dalle cronache e dai documenti d’archivio. Viceversa, la figlia Francesca, succeduta al padre nel 1676, ed anch’essa titolata contessa di Quaranta, era sposa, come detto prima, di Ferrante Spinelli, dei principi di Tarsia: costui non avrà mai la signoria diretta sul feudo, ma, prima, in qualità di marito acquisisce il titolo della moglie, e, poi, amministra fino alla morte in nome della figlia Caterina Spinelli, legittima erede anche del feudo. E PROPRIO SU DON FERRANTE si appuntano i sospetti: era infatti questi una persona straordinariamente disinvolta e del tutto priva di scrupoli, su cui di recente è emersa una documentazione d’archivio sufficiente a consentire di esprimere questo giudizio. Di che pasta fosse fatto lo dimostra non appena mette le mani sul potere (solo nominalmente della moglie): durante la celebre rivolta antispagnola di Messina, riesce a fare del contrabbando con i francesi in difficoltà per il blocco spagnolo. Denunciato alle autorità (filo-spagnole) da un gruppo di cittadini di Bovalino capeggiati dal sacerdote Domenico Strangis (così è chiamato nei documenti), non esita ad assoldare due sicari, Francesco Palmieri e Carlo Cosma, per far assassinare il prete, il 20 novembre 1677, mentre tornava da Benestare dove aveva finito il quotidiano officio religioso. Nonostante prove sufficienti, grazie ai suoi potentissimi familiari (gli Spinelli erano fra le più potenti famiglie di Calabria), don Ferrante riesce comunque a farla franca, e solo i due autori materiali del delitto ven-
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egli anni ‘60, a Bovalino Superiore, il boom economico che impazzava nel resto d’Italia non era ancora arrivato. Ma se ne percepivano le prime avvisaglie. I gnuri (due o tre in tutto, non di più) avevano già i primi televisori in casa: per gli altri abitanti, solo nel retrobottega di don Ciccillo (e solo per il “Campanile sera” del sabato) o nel bar di donn’Antoni (si inseriva una moneta da 50 lire nell’apposita fessura e si poteva vedere mezz’ora di tv) si potevano recepire i primi rudimenti della globalizzazione massificante. Sicché, specie nelle lunghe serate invernali, era ancora il braciere a fungere da polo d’aggregazione per la famiglia. Talvolta, attorno a quello che è ormai quasi un’icona, un simbolo di tempi che (si spera) non torneranno più, non era soltanto la stretta cerchia familiare a riunirsi: attorno a zi’ Peppino erano tanti i bambini accovacciati ad ascoltare i “cunti”, che ogni sera quegli riusciva a tirar fuori dal suo inesauribile serbatoio della memoria. Di giorno, esaurito l’impegno scolastico, era la strada, resa quasi sicura dalla pressoché totale assenza di traffico, il palcoscenico su cui quei bambini esibivano l’inarrestabile voglia di vita della loro età. Oppure le vecchie mura del castello, nella parte che la strada di nuova costruzione, aperta per giungere più comodamente alla Chiesa madre ed alla “Timpa”, aveva inesorabilmente tagliato fuori dal resto, e relegata ad un abbandono spietato quanto insulso. Peppe, Paolo, Pino e Luciano ci andavano spesso a giocare a nascondino (a ‘mmucciateglia), o, più semplicemente, a bighellonare stancamente, così, tanto per far passare il tempo. Erano, all’epoca, soltanto due gli ambienti del castello, per così dire, praticabili (nel senso che ci si poteva avventurare senza alcuna difficoltà), più un terzo, dalla forma stretta ed allungata, cui si accedeva da una sorta di vano di accesso piccolo e stretto, ma sufficiente a far passare una persona adulta, magari abbassando un po’ la testa. Lì, una massa di detriti consentiva di raggiungere il fondo senza particolari difficoltà, né pericoli: nei racconti di zi’ Peppino, quella era la prigione del castello, dove alcuni dei Signori del passato avevano consumato nefandezze orribili.
FOTO 3 il punto del ritrovamento da altra angolazione
FOTO 4 interni del castello di Bovalino Superiore
La nostra storia
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Un anziano massaru aspromontano. Foto di Enzo Penna
Il massaro, dal pagghjiaru alle università di Napoli e Messina
RANU, CASU E JUNCU di ROCCO MOLLACE
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atrice gono catturati e giustiziati. Qualche anno dopo, don Ferrante comincia a progettare un’impresa che, pur non inusuale di quei tempi, solo in due casi ha ricevuto il crisma dell’ufficialità (il suo, e quello di Papa Paolo V): far la guerra di corsa contro i pirati saraceni. All’uopo, per prima cosa si rende conto che la Torre Scinosa, costruita nel 1607 alla marina con compiti di semplice avvistamento delle incursioni piratesche, deve svolgere una funzione più concreta di difesa, e le fa costruire a fianco un fortino dotato di quattro cannoni a lunga gittata (di solito le torri costiere erano munite di soli “mascoli”, cioè cannoncini da utilizzare contro chi fosse sbarcato sulla spiaggia, o per dare l’allarme, grazie al fortissimo rumore di sparo). Successivamente, mette in atto la seconda parte dell’ardito piano: fa armare due feluche che, dalla base di Bovalino, partivano alla ricerca di navigli pirateschi da assaltare e depredare, utilizzando anche gente del posto (questi alcuni dei nomi, inequivocabilmente, o quasi, bovalinesi: Antonio Morabito, Giacomo Spanò, Gaetano Mazzuni, Francesco Misiano, Giuseppe Macrì, Domenico Scaglione, Giuseppe Lombardi, Antonio Franco, Giuseppe Piscopi [Pricopi?], Giovanni Romeo (scrivano), Giuseppe Spanò, Bastiano Tuccio). ALTRE NOTIZIE, AL MOMENTO, non si hanno su questo personaggio, che definire “dai modi disinvolti” è poco, ma, se tre indizi certi formano una prova, è ben possibile che in qualche misura quegli possa essere identificato con il terribile Conte della leggenda: che, poi, i resti umani rinvenuti dai bambini potessero appartenere a qualche… barbiere, è difficilmente credibile (specie per le dimensioni ridotte); molto più probabilmente, potevano essere la prova di un infanticidio, o, comunque, dell’occultamento di un cadaverino, magari frutto di una qualche gravidanza compromettente. P.S.: come forse si sarà capito, uno di quei quattro bambini è l’autore di questo articolo, e gli altri tre sono tuttora viventi. La foto n.2 (purtroppo di pessima qualità) mostra il punto del ritrovamento (indicato dalla freccia), oggi non più riscontrabile dopo i lavori di restauro che hanno interessato il maniero bovalinese.
Aspromontani temuti e rispettati, spesso oggetto d’invidia
spressione di una realtà agricola fondata sul latifondo, la masseria era una struttura tipicamente meridionale, sorta dopo che gli Aragonesi, saliti sul trono napoletano, diedero maggiore impulso alla produzione agricola del regno. Il collegamento tra il signore “proprietario” e i dipendenti era tenuto dal “fattore”, che si recava periodicamente dai responsabili dei diversi comparti produttivi. La pastorizia si svolgeva, durante l’inverno, ‘nto iazzo mentre nella stagione primaverile le pecore erano portate a pascolare all’esterno. Ranu, casu e juncu: una vita, quella del massaru, passata interamente in mezzo alla natura. Nei mesi estivi sotto il sole cocente si arava con i buoi la terra. I voi erano dei vitelli castrati comprati nelle fiere dei paesi. Appena acquistati venivano addobbati con del nastro rosso sulle corna, per allontanare il malocchio. Nei mesi di ottobre-novembre avveniva la semina e il massaro, con grazia e dedizione, lavorava interi campi di grano, aiutandosi con aratri attaccati, o juvi. Dicembre era il mese propizio per la produzione du casu: il massaru, con arte, amalgamava la tuma nella fascera di juncu e ringraziava Dio per l’abbondanza, facendo il segno della croce sulla pezza du casu.
A gnura era la moglie du massaru. Stimata e riverita nel paese, si occupava della famiglia, dei prodotti caseari e della vendita degli stessi. I proventi delle vendite venivano custoditi gelosamente dalla gnura ‘nto sinu. Le famiglie numerose, al fine di poter garantire ai figli la sopravvivenza quotidiana, si rivolgevano al massaro, affinché potesse accordare presso la propria mandria uno o più figli. Questi divenivano pecurari, cioè garzuni du massaru, e si occupavano del gregge e della mungitura delle pecore che avveniva all’interno du iazzu, in un passaggio obbligatorio chiamato vadu. Spesso accadeva che u pecuraregliu si innamorava della figlia du massaru quindi, da garzone, diventava padrone, in quanto ereditava parte dei beni del massaru. Ogni domenica il massaru e la sua famiglia si recavano alla messa delle 10.00, era anche un momento in cui si potevano incontrare e salutare amici e parenti nel paese. A fine giornata si riempiva di provviste a vertula e si ritornava a lu iazzu. La domenica di Pasqua era un gran festa: venivano accampanati gli animali e il suono dei campanacci rimbombava nelle valli per annunciare la resurrezione di Cristo. La dimora del massaru era detta pagghjiaru spesso costruito da pali in legno e tamponato con rami di ginestra. Il tetto era tessuto in paglia e foderato in fango che fungeva da isolante nel periodo piovoso, classico era il focolare interno, in quanto nel periodo invernale si doveva dormire chi pedi o focu. In quei tempi nei paesi si riveriva u medicu, u vvocatu, u previti. La vita dura dei campi e le responsabilità verso i grandi proprietari terrieri portarono i massari a cercare finalmente il loro riscatto sociale. Avendone la possibilità economica, il massaro mantiene ai suoi figli gli studi, in scuole lontane dal paese; basti pensare che l’Università più vicina era a quel tempo Messina o Napoli. Gerace invece era la sede per lo studio di teologia. Inizia così l’ascesa dei laureati: tutti figli di massari. Inizia il riscatto delle famiglie montanare. Si abbandona l’Aspromonte, si abbandona la pastorizia, inizia l’esodo verso i paesi della costa. E i figli di massari che non avevano potuto studiare, per esigenze familiari o per aver sottovalutato la vocazione allo studio, scelsero di lasciare il proprio paese per raggiungere, dopo mesi di navigazione incerta, l’America o l’Australia.
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Cinema e cultura
inAspromonte Maggio 2014
Uomini della montagna. Individui appassionati, imperfetti e violenti, contesi tra Storia e Mito
Dovrebbero tutelarmi, trattarmi come l’ultimo rappresentante di una specie estinta, l’ultimo Yeti, invece vorrebbero linciarmi, mi hanno sempre perseguitato come un “personaggio di destra che minaccia la civiltà occidentale progressista”. Perché la maggioranza dei miei personaggi è fatta di solitari - contorti, disadattati - che vivono ai margini del sistema. Guardano sempre (dentro) la società dall’esterno. Non possono avere una vita normale. La loro, in un certo senso, è una condanna» John Milius di GIOVANNI SCARFÓ
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o seguito le tracce dell’uomo assalito dai lupi. Ho chiesto alla gente della montagna: «Ride West to the sun sets. Turn left to the Mountain» (Cavalca ad ovest sin dove il sole tramonta. Poi gira a sinistra verso la Montagna). «Perché lo stai cercando?» «Voglio capire perché l’ha fatto» «Ne sei sicuro? Sei forte e preparato per affrontare la Montagna? Quando soffia il vento, e si sente un eco lancinante, l’uomo è solo davanti alla paura e al freddo» «Dicono che sia morto congelato» «Some say he’s up there still» (Qualcuno dice che sia ancora là) «É ancora vivo?». Mi sa-
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Chi sceglie la solitudine della Montagna, racconta la forza di volontà dell’individuo
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Se io abbandonassi questo progetto sarei un uomo senza sogni lutarono con un sorriso e s’incamminarono per la loro strada. La Leggenda aveva vinto. Proprio così disse qualcuno: quando parliamo di eroi, tra Realtà e Leggenda vince la Leggenda. Gli uomini che scelgono la solitudine della Montagna raccontano la forza di volontà dell’individuo: la forza richiesta per
«La sua montagna. La sua pace. Le sue grandi cacce. La sua giovane sposa. Con tutto ciò, sarebbe stato diverso»
Nella foto una scena del film Corvo rosso non avrai il mio scalpo (1972), sceneggiato da J. Milius, diretto da S. Pollack, con R. Redford e W. Geer
QUALCUNO DICE
CHE SIA ANCORA LÁ
affrontare e superare gli ostacoli su un percorso segnato dal destino. Si, ma perché? Sono forse essi stessi l’immagine di qualcosa che non riescono a rappresentare, e allora la vivono come conflitto di un solitario che rifiuta la civiltà ma che comprende però di farne parte? Individui sorprendenti, appassionati, imperfetti e violenti. Molti di loro sono stati affondati nella Storia e ri/fondati nel Mito: la verità dei fatti non è che una parte della fibra morale del soggetto; perché la verità “interiore” dell’eroe è sacrosanta, ed egli si atterrà sempre e comunque al suo codice personale, a prescindere di cosa gli impongano le circostanze. “Se io abbandonassi questo progetto sarei un uomo senza sogni, e non voglio vivere in quel modo. Vivo o muoio con questo progetto” (W. Herzog). La conquista dell’inutile? Se lo chiede Werner Herzog scrivendo i diari della lavorazione di Fitzcarraldo, scoprendo “un paesaggio interiore partorito dal delirio della giungla. Una visione si era radicata dentro di me: l’immagine di un grande battello a vapore su una montagna e, in mezzo a una natura che annienta senza distinzioni i deboli e i forti,
la voce di Caruso che riduce al silenzio il dolore e il clamore degli animali nella foresta amazzonica e smorza il canto degli uccelli. O, meglio: le grida degli uccelli, perché in questa terra incompiuta e abbandonata da Dio nella sua ira, gli uccelli non cantano, ma gridano il dolore. E io mi ritrovo a provare un profondo terrore”. “Up here” and “down there”: la montagna qui e ora e il resto del mondo. Tutto quello che hai imparato “down there”, “up here” non serve più a nulla. E allora Lost e L’isola deserta (?) metafora della condizione umana del XXI secolo naufragata, precaria; che vive (in) una civiltà che sembra aver esaurito i suoi simboli, i suoi significati (ma l’ha mai avuti?). “L’uomo delle grandi metropoli sta precipitando in un stato non più civile, quasi selvaggio” (P. Valery); sperimentando stati primordiali, esperienze di sopravvivenza: dal proletariato al precariato, naufraghi che tentano di sopravvivere. Ma quanti sono a conoscenza dell’utilità dell’inutile? Non certamente la società urbana, che vive nel “caos deterministico” della propria solitudine.
“L’Antica alleanza è infranta, l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso” (J.Monod, Il caso e la necessità). La scienza e la politica hanno tentato di fornire le risposte alle domande fondamentali (“chi siamo”) al posto della religione, ma non ce l’hanno fatta. Sono tutte forme del sapere che hanno bisogno di essere ripensate a partire proprio da un naufragio su un’isola deserta o su una montagna. Perché “se Dio c’è e ha dei progetti su di noi, il nostro problema è di vedere come tutto ciò, ammesso che sia vero, possa dare un significato alla nostra vita” (Robert Nozik). Mi vennero incontro un bambino e una donna indiana. Il bambino era muto, la donna non parlava. Una donna e un bambino sono parte di una famiglia, ma Lui dov’è? Mi indicarono un percorso, ero quasi arrivato. «La sua montagna. La sua pace. Le sue grandi cacce. La sua giovane sposa. Con tutto ciò, sarebbe stato diverso». Mi ricordo sorridendo di qualcuno che ha detto che una famiglia è ideale quando non ci si parla. Mi sono girato: scomparsi.
Ombre della notte. Morti. Trucidati. Ricordo qualcosa. Mi metto a correre. Uno spiazzo. Orme di lupi. Crow. É quasi notte. Alzo gli occhi al cielo. Una bisaccia appesa ad un albero. Due iniziali: JJ. Come immaginavo, è proprio lui Jeremiah Johnson (“mangiatore di fegati”) l’ultimo dei
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Una donna e un bambino sono parte di una famiglia, ma Lui dov’è? Ero arrivato É proprio lui, « Jeremiah
Johnson, l’ultimo dei mountain men. Ed io l’ho visto mountain men, scappato dal presente per ritrovare una purezza originaria. Me l’avevano detto giù al fiume: “è ancora là”. Ed io l’ho visto, nell’immobilità glaciale dell’immagine: il braccio scivola verso l’alto, la mano si apre lentamente: «e pace sia, Mano Che Segna Rosso, ma senza il mio scalpo».
Cinema e cultura
inAspromonte Maggio 2014
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SANT’AGATA DEL BIANCO
La casa del professore
«L’ignoranza che c’è però, se non verrà istruita in tempo, manderà questa terra al macello e, poi, si venderà le sue carni. E noi moriremo. Soli. Nella solitudine del tempo che resta» Saverio Strati
di GIUSY S. CALAFATI
A
metà luglio, come ogni anno, veniva in villeggiatura, al paese, un grande intellettuale. Era il ‘professore’ Saverio, nato e cresciuto a Sant’Agata a botte di terra, manicola e pane. Ogni stagione tornava per accertarsi delle sue origini (contadine) che finivano qui dove erano cominciate. Nella terra. Per certo, lui, Dio salvi mia madre e mio padre, doveva essere parte di quella categoria di uomini che pur vivendo all’ariola della bell’Italia, si era sempre e solo considerato cittadino del sud. Il suo sud. Quello stesso sud che ti fa piangere quando ci nasci e ti piange invece quando gli muori. Faceva scuola pure ai ciucci perché con il tempo gli rendesse le capizze colte. «La Calabria - diceva, - povero io e voi, altro non è rimasta che un luogo di culto incolto e pure fesso. Non ha più nemmeno un sepolcro per riposare. Ti partorisce e non ti sa sfamare. Ti cresce e non ti sa tenere. Ma te la tieni sempre dentro al cuore come un destino che ti prende e non lo sai lasciare». Ascoltarlo, il professore, era come sentir parlare la casa di mio padre. Bella e dannata. Era come
sentire gridare le doglie di mia madre quando mi ha partorito. Con dolori e fatica. E mi rendevo conto, con scosse alla coscienza, che di intelletti contadini con il dono della ‘restanza’ ha bisogno questo ‘maledetto’ sud, non di intellettuali strafottenti con la sola prosopopea dell’erranza, che quaggiù oziano lenti. E gli uomini nati dal senso dei luoghi con il senso dell’appartenenza come il vecchio Saverio, sono il solo concime di cui la terra - questa terra - ha bisogno. Il sud va dissodato, palmo a palmo, con fatica e duro lavoro, perché non colga più nessuno, né padri né figli, la maledizione che con il sud nasce e con lo stesso sud, muore. Aveva scritto libri pari al doppio dei miei anni. E malediceva il sud benedicendo la sua casa. Una sorta di rito contro la maledizione che noi meridionali ci portiamo addosso da una vita. Una terra bestemmiata da Dio! «Quaggiù, - diceva - i cieli non sono altro che pezzi d’azzurro tamarri, non esistono i numeri
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primi e gli uomini vengono chiamati ‘ultimi’. Solo ultimi. Perché lavorano con le mani, si bagnano con il sole e mentre grondano pregano e mentre pregano vivono e poi ridono». Eppure tornava. «Qui c’è aria di casa mia» sospirava assaporando l’aria che sapeva di basilico, menta e rosmarino. La sua lotta non era la guerra diretta contro il malaffare. Si batteva per la cultura il professore Saverio: «Non ti sfama la cultura - diceva, - ma gli uomini colti fanno nuova la terra. La fanno bella, saporita come il pane. L’ignoranza che c’è però, se non verrà istruita in tempo, la manderà al macello presto e, poi si venderà le sue carni. E noi moriremo. Soli. Nella solitudine del tempo che resta». L’anno a venire, il professore Saverio, al paese, non era più tornato. All’ariola della bell’Italia, l’avevano levato con i piedi avanti, in aprile. Uno di quei mesi fatti di trenta e non trentuno. E quaggiù a Sant’Agata, nella tristezza dell’estate nuova che veniva, non restava altro che il ricordo delle sue cose e della sua casa. Casa Saverio Strati.
Via delle porte pinte
Hanno scritto in questo numero Domenico Stranieri, Gianni Favasuli, Cosimo Sframeli, Carmine Verduci, Federico Curatola, Vincenzo Stranieri, Pino Macrì, Rocco Mollace, Giovanni Scarfò, Giusy Staropoli Calafati Per l’Aspromonte orientale Antonio Perri, Bruno Salvatore Lucisano Per l’Aspromonte greco Salvino Nucera, Francesco Violi Per l’Aspromonte occidentale Giuseppe Gangemi
Sopra i lavori dei ragazzi del CPC Mediterranea a Sant’Agata del Bianco (RC). Foto di Giusy Staropoli Calafati
Per le biodiversità Leo Criaco, Angelo Canale, Francesco Tassone, Mirko Tassone Fotografi Antonio Iulis, Enzo Penna, Leo Moio, Pasquale Criaco, Paolo Scordo, Francesco Depretis, Francesco Criaco Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 13/05/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.
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inAspromonte Maggio 2014
www.inaspromonte.it
Lettere
alla redazione
L’Aspromonte è l’Eden?
Gentilissima direttrice, stimatissimo direttore editoriale. Leggo sistematicamente il mensile in Aspromonte sin dall’uscita del suo primo numero e ne apprezzo sia l’impostazione che gli argomenti trattati. Abituare i giovani al rispetto dell’ambiente e all’amore verso il creato in generale è una virtù. Abituarli a conoscere e amare l’Aspromonte oltre che una virtù è un dovere, dopo le tante denigrazioni del passato di quella bellissima cordigliera di montagne che fa da Parco allo Ionio e al Tirreno ed è il polmone verde della nostra “Calabria Ultra”. Per quanto attiene a noi Africesi, già“tignanisi” e “fricazzani” direi di non esagerare nell’esaltazione dei vecchi siti di Casalinuovo e Africo in quanto, detti centri da amare e tutelare sempre non sono stati per le nostre passate generazioni, né lo zenit né l’eden della felicità e del benessere. Per chi come me colà vi è nato ma non cresciuto, Casalinuovo e le sue contrade rappresentano solo in parte i luoghi della memoria. La stessa cosa dicasi per i nati e non cresciuti ad Africo Vecchio, sito quest’ultimo che per espressa volontà di chi giustamente ha operato per il trasferimento degli abitanti in altro luogo, è stato dichiarato inabitabile nel lontano 1953 e burocraticamente inesistente. Oggi grazie alla lungimiranza dei nostri nonni e padri, i cittadini africesi che io amo chiamarli “Africonovesi”, proprio per la loro capacità di amalgamarsi e caparbietà nel mantenere la propria identità storica anche dopo l’alluvione del 1951 che da un’apparente disastro è stata motivo di crescita e occasione di sviluppo, vivono lungo la fascia ionica nella nostra bella Locride in un sito che fu della Magna Grecia e che tanto ha da insegnare alle leghe ed ai leghisti di ogni sito e di ogni tempo. Proprio per questo è importante non parlare in negativo del nuovo sito che mi creda, non è un luogo limaccioso; il pantano è stato risanato; la nuova Africo è in uno dei posti più belli della Calabria e si affaccia su quel mare che di reminiscenze greche né ha tante e altrettanto ricco di storia e cultura. Che noi non abbiamo saputo raccogliere tutto il positivo di questa realtà è un fatto sul quale riflettere e farlo diventare motivo di discussione. Se di caffè letterari si tratta, facciamoli nel e per il nuovo sito. Avremo l’occasione così, di parlare con i giovani, abituandoli ad amare se stessi e tutto ciò che li circonda. É per noi una cambiale da onorare nei confronti dei nostri avi e un dovere che dobbiamo alle future generazioni. Francesco Talia
Nella foto un’abitazione di Africo antica (Aspromonte orientale). Foto di Antonio Iulis
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