QUESTO GIORNALE NON RICEVE ALCUN FINANZIAMENTO DA ENTI PUBBLICI
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Direttore Antonella Italiano
inAspromonte
Giugno 2014 numero 010
La guerra, dopo l’invasione della Sicilia, arrivò fin dentro l’Aspromonte. Il popolo sopravvisse tra allarmi e raid aerei: poi la ritirata dei tedeschi, gli abusi, la distruzione. E quando a nulla valsero le preghiere dalla gente si fece strada un coraggio scellerato. Di guerrieri senza spada e senza nome che salvarono l’intero borgo aspromontano. Furono umili. Furono grandi eroi Ombre e luci La ‘ndrangheta di Barillaro
Il ritratto Beppe Fabiani. Il fotomodello di Gianni Favasuli
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di Cosimo Sframeli
Aspromonte greco I cowboy aspromontani pag. 5
di Salvino Nucera
Vipere e bisce. Insidiosi in apparenza
servizio e foto di Leo Criaco
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LA NOSTRA STORIA
Casignana. La grotta di S. Florio servizio e foto di Domenico Stranieri
pag. 19
di PINO MACRÍ
La provocazione
Vivere come Zanotti, morire come Strati pag. 8
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TRA I BOSCHI
occo Mollace (nella foto), durante un’escursione sul sentiero che dal monte Perre porta al casello di Canovai, incontra l’aquila reale: «Stava lì, accovacciata tra le rocce, sembrava un bambino messo di spalle. Poi aprì le ali, coi suoi due metri di apertura, e maestosa salì nel cielo». Una testimonianza importante per la nostra montagna. Il video dell’avvistamento sarà consultabile on line sul sito inaspromonte.it a partire dal 20 giugno 2014 pag. 13
pag. 2 - 3
LA SIGNORA DEL CIELO
di Antonella Italiano
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amminando, di notte, lungo il sentiero che da San Luca porta a Polsi, mi raccomandarono di non puntare la torcia fuori dalla strada. Perché? Non ricordo nemmeno se lo domandai, conoscevo già la risposta. Ma dei pastori, dei massai, degli aspromontani incontrati durante il percorso nessuno riuscì a farmi più paura di quella gente bigotta che, nonostante l’istruzione certificata, permetteva il proliferare del luogo comune: il triangolo della morte, i terribili sequestratori, i briganti armati di kalashnikov. E poi ancora la morte inflitta, la morte subita, la morte cercata. Ma la morte più feroce mi parve, allora, quella dell’intelletto. Se la signora con la falce fu davvero di casa probabilmente era fuori mentre risalivo i torrenti, dove trote grassocce, laghetti e giacigli di roccia regalavano un po’ di paradiso. O mentre passeggiavo per le strade di Alvaro, di
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Copertina
inAspromonte
VIVERE COME ZANOTTI, MORIRE COME STRATI segue dalla prima di Antonella Italiano
Giugno 2014 Strati, di Perri. E fu sempre così. La scorsa estate, a Gambarie, ho immerso le mani in una terra che pareva cipria. Nera, come sputata dall’inferno. Fonte, in cui si dissetava un verde costante. Nulla di strano se, rientrando dal versante jonico, non avessi poi incontrato la terra bianca di Spropoli e Palizzi. Colline ostili, aride, in cui si arrampicavano malvolentieri ciuffi di chissà quale erba. Rocce svergognate, nude, davanti al mare. Correvano, correvano verso
CASO BOVA
l’interno, come a cercare sollievo dalla mamma montagna. E lì rifiorivano. Piccoli pezzi di Aspromonte, tanto diversi, così genialmente assemblati fra loro. Non incontrai, però, la morte. Oggi, che un intellettuale abbia amato queste terre a tal punto da dedicare ad esse tutta la sua vita pare impossibile. Il bigottismo e luogo comune continuano a imperare. Ma più si scava nella storia di Zanotti Bianco più tutte le teorie “deviate” si
perdono nella grandezza dei suoi progetti. Ci hanno insegnato a morire, gli disse un giorno un amico alla stazione di Catanzaro riferendosi ai calabresi, ma a vivere? (Morire non è ammazzare, la precisazione è d’obbligo data la premessa) E ci pensò lui. Gli sforzi de “u signurinu” donarono alla perduta gente dei pascoli liberi da restrizioni burocratiche, ponti per attraversare le fiumare, scuole e asili, medicine e assistenza. In particolare
agli africoti regalò Campusa, una frazione geologicamente più sicura, con abitazioni larghe e salubri. Struttura che fu realizzata, si pensi al destino, da un altro grande della montagna: il maestro Strati. All’epoca giovanissimo muratore. Ed entrambi, prima di essere riconosciuti dalla storia, conobbero la morte. Per Zanotti fu quella materiale, dovuta alla sofferenza che vessava la gente del sud, su cui gravavano tasse e vincoli, ma a cui nulla era desti-
QUANDO GLI U BOVALINO SUPERIORE, 4 SETTEMBRE 1943
IL SINDACO “AVVICENDA”
MARINO NON CI STA
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allo scorso 30 di maggio, Gianfranco Marino, dopo tre anni di mandato, non è più vicesindaco di Bova. La notizia, di quelle che lasciano il segno, giunge a seguito della decisione del primo cittadino Santo Casile che, attua la sostituzione in toto della triade assessorile, sostituendo oltre a Marino anche Vittorio Nucera e Biagio Callea. A qualche settimana di distanza dalla scelta che ha destato non poco clamore in paese e a dire il vero anche in tutte le sedi istituzionali della provincia reggina, abbiamo sentito telefonicamente proprio Marino che, all’indomani della revoca aveva affidato ad una nota stampa tutta la sua amarezza per quello che aveva definito un gesto tanto inatteso, quanto a suo dire inspiegabile. «Una semplice nota - spiega Marino - non può bastare a rappresentare il mio stato d’animo. Fin dal 18 di maggio 2011 ho lavorato con serietà, impegno, risultati e correttezza, nei confronti dei cittadini, dei tanti elettori che, conferendomi un ampio consenso mi hanno consacrato come più votato in assoluto, ma soprattutto nei confronti del primo cittadino al cui fianco sono stato, senza paura di essere smentito, con lealtà politica e personale fino al giorno della revoca del mandato. Mai mi sarei aspettato epilogo più amaro, mai avrei creduto possibile di venire ripagato con un atteggiamento che ancora stento a credere. Quando circa tre settimane addietro, mi veniva rappresentato proprio dal Sindaco il malessere di alcuni consiglieri, bramosi di entrare in giunta e le insistenze rispetto ad un rimpasto della stessa, pena le dimissioni, lo stesso Casile aveva rassicurato me e l’ex assessore Biagio Callea, anche lui silurato, che qualora non vi fosse stato un esplicito consenso degli interessati non avrebbe mai provveduto al ritiro delle deleghe. In pratica si è poi verificato l’esatto contrario. Ancora più discutibile è stato il modus operandi, nessun colloquio né
col Sindaco né con i consiglieri, nessuna telefonata di spiegazione, né precedente né successiva al fatto. Detto questo, e credo non sia certo poco, passo al rovescio della medaglia, alla parte positiva che c’è in ogni esperienza, ed epilogo a parte, di positivo nella mia esperienza amministrativa c’è davvero tanto, dai risultati sotto gli occhi di tutti, raggiunti in tre anni di intenso lavoro, testimoniati dall’enorme cassa di risonanza venutasi a creare all’esterno rispetto al percorso di crescita turistico-culturale del nostro splendido centro, al proliferare di iniziative culturali di respiro provinciale e regionale, alle tantissime testimonianze di incredulità, ma soprattutto di vicinanza ed affetto piovute ininterrottamente per giorni su telefoni e social network, testimonianze di chi, con me ha condiviso in modo diretto ed indiretto o anche da semplice ed imparziale spettatore un percorso esaltante, solo in parte vanificato. Detto ciò, dopo un primo comprensibile momento di stupore, ho già riordinato le idee, ripartendo fin da subito da dove avevamo interrotto, dalla cultura. In quasi due settimane ho sentito di tutto, anche inutili e a volte scorretti tentativi di gettare ombre e discredito sul mio operato che comunque lascio alla valutazione della gente. Prendo atto anche di questo, fa parte del gioco, non serbo alcun rancore personale e non faccio nessuna polemica, mi tocca solo una doverosa presa di posizione, la linearità politica mi impone, alla luce di fatti incontrovertibili, una seria riflessione e un’ovvia presa di distanza, da un gruppo di maggioranza in prevalenza e inspiegabilmente a me ostile sin dalla prima ora, e dal primo cittadino che, nell’ultimo frangente, operando una scelta radicale, ha preferito soddisfare esigenze personalistiche accantonando i più giusti criteri meritocratici, contribuendo così a modificare, anche solo in parte gli equilibri politici del nostro centro».
«Ma, se è vero che un fiore può nascere anche nelle fessure della roccia più arida e dura, ridando una speranza alla vita, oggi, con la mente a quel fiore, voglio raccontare un episodio di mancata distruzione, e degli invisibili e dimenticati eroi che la resero possibile...» Servizio e foto
di PINO MACRÍ
giornata del 4 « Lasettembre fu pervasa dal continuo sferragliare di uomini dall’Aspromonte diretti alla marina
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La distruzione del ponte serviva a proteggere la ritirata, e nulla avrebbe fermato i soldati dal compierla manipolo di « Uncoraggiosi
riuscì a strappare gli inneschi, impedendo la forte deflagrazione
L’
estate calabra è calda per antonomasia, ma quella del ‘43 ebbe, come in molte altre parti di quel mondo impazzito, i lugubri connotati dell’inferno e della tragedia. L’assurda ed insensata avventura di un pazzoide e del suo lacchè stava, finalmente, per avere il suo epilogo, e nel modo peggiore possibile: con un corollario di infiniti lutti e di terrificanti distruzioni. Né dovrebbe mai avere spazio di esistenza, in un’umanità che voglia veramente dirsi tale, l’apologia del “tanto peggio, tanto meglio” (Hiroshima & Nagasaki docent). Ma tant’è: l’uomo scorda in fretta, e non vede l’ora di ripetere allegramente i propri errori. ANCHE LA CALABRIA, fortunatamente in un “piccolo” tutto suo (almeno, rispetto alle infinite atrocità perpetrate altrove), non scampò alle rovine ed ai massacri. Quasi paradossalmente, la fase acuta della crisi calabra ebbe inizio il 10 luglio, di quel ‘43, con l’invasione della Sicilia: la logica militare imponeva che, dovendo stringere in una morsa inesorabile l’isola trinariciuta, necessitasse impedire i rifornimenti alle forze avversarie, rendendo inagibile il “ponte” calabro. Fino ad allora, i raid aerei sulla nostra regione erano stati commisurati alla limitata importanza strategica di qualche nodo importante (Reggio, in primis), ma niente di più di “normali” azioni di disturbo. Da quel maledetto giorno, alle strazianti sirene di allarme ed ai terrificanti sibili delle bombe facevano da contrappunto le isteriche frenesie dei
Nelle foto il borgo di Bovalino Superio soldati e degli indifesi civili. Il terrore imperversò per quasi due mesi; poi, finalmente, l’8 settembre tacquero gli strumenti di morte. In Calabria, ovviamente, non altrove. Ma, se è vero che un fiore può nascere anche nelle fessure della roccia più arida e dura, ridando una speranza alla vita, oggi, con la mente a quel fiore, voglio raccontare un episodio di mancata distruzione, e degli invisibili e dimenticati eroi che la resero possibile. DA SEMPRE, A BOVALINO, l’8 settembre è una data con una valenza particolare per la “pietas” popolare: in un altro servizio (in Aspromonte nº 6 – Gennaio 2014) si è detto di come la festa religiosa in quel giorno vuole ricordare l’intercessione della Vergine per salvare, con una pioggia dirotta, il paese dall’incendio seguito al saccheggio piratesco di Sinan Basha. Ovviamente, le ostilità in corso avevano imposto l’abbandono temporaneo delle luminarie, ma non quello delle funzioni religiose. Quell’anno, poi, c’era un motivo in più per implorare la protezione celeste: il sordo rumore della distruzione era alle porte e in quelle serene notti si iniziavano a vedere i lontani bagliori provenienti dalla Sicilia. Certo, il rombo dei cannoni non era così nitido come quello di tre anni prima dalla vicina Punta Stilo, ma non c’era di che stare troppo tranquilli. Tutt’altro. La posizione arroccata, indispensabile difesa contro gli attacchi pirateschi del passato, poneva, ora, il paese del tutto in balia degli attacchi dall’alto, e non sarebbero bastati quei
Copertina nato: né strade, né aiuti, né ospedali, o treni o stazioni. Per Strati fu quella spirituale perché, volutamente dimenticato dal suo popolo e dalla sua terra, visse negli stenti e nella solitudine. Se ne ricordino, oggi, gli intellettuali che chiedono contributi per onorarne memoria. Ne abbiano per loro, di memoria. Se ne ricordino, soprattutto, gli enti pubblici. La signora l’ho incontrata, piuttosto, tra le distese di serre dimenticate dal
tempo, nel cemento di restauri improvvisati, nei libri di calabresi lontani, negli ecomostri di cemento e acciaio che offendono gusto e salute, nei mostri di carne e ossa che li hanno voluti. In chi specula su tutto questo per impartire lezioni. La lezione è il nulla che quotidianamente raccogliamo, non vi basta? Risparmiateci le letture antropologiche dal vostro “alto” economico, politico, scolastico e geografico. Morire non è ammazzare. Giusto si-
inAspromonte Giugno 2014 gnora? È l’incapacità di vivere, piuttosto, come scrisse Zanotti. Perché vivere è un lento esercizio di costanza, cocciutaggine, noia e malinconia. Un’impresa. Oggi, camminando sulle stesse strade di un tempo, punto la torcia fuori dal selciato, sorrido, la spengo. Lo faccio perché gli occhi si abituino al buio e alla luce delle stelle. Poi, da Campusa, guardo la valle, mentre il mare resta alla sinistra, non si vede per via della fiancata, ma è chiara la
sua presenza. Domani, quando ci avrai portati via, cara signora, la poesia di questi posti resterà immutata. A chi passare il testimone? Se ne vadano al diavolo i bigotti, i cultori del luogo comune, i progetti, i finanziamenti, gli amici a intermittenza, i depressi, i repressi e gli invidiosi. Se avessimo una redazione ci potremmo barricare dentro per protesta: ma non abbiamo neanche quella. Ci inghiottirà il buio: e dopo aver tentato di vivere come Za-
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notti, cercheremo almeno di morire come Strati. Non commemorateci, non sospirate, non presentatevi al cordoglio per la banale dietrologia. Noi moriremo dopo aver vissuto, e senza aver mai ammazzato nessuno. Diverso sarà per gli zombie, gli ottusi, i traditori.
UMILI FECERO LA STORIA
ore, con il bunker di Donna Palumba e i simboli del Fascismo. Teatro della storia raccontata in queste pagine pochi bunker scalcinati (due sulla spiaggia, uno a Donna Palumba ed altri due al vecchio borgo) pomposamente detti “di difesa contraerea”, a proteggere né il vecchio borgo né la sua Marina, ormai da mezzo secolo scalpitante dalla voglia di esporsi sfacciatamente, abbandonando vieppiù i tetri ricordi legati alle decrepite costruzioni medievali di pietra e gesso sulla collina tufacea. LE PRIME AVVISAGLIE si erano abbattute sui centri viciniori più importanti (Locri, soprattutto), ma anche la Bovalino - Bagnara aveva una sua importanza strategica, ed il 21 agosto era stata essa stessa obbiettivo di bombardamento e qualche bomba era pure caduta in zona abitata. Si era ormai al 4 di settembre, e la data della festa, si diceva, si approssimava; ma, con essa crescevano ansia e preoccupazione: il giorno prima, il 3, con l’Operazione Baytown, le truppe alleate erano sbarcate a Reggio dopo un fuoco di sbarramento terrificante, e, subito, avevano iniziato a penetrare nel territorio secondo tre direttive: la Tirrenica (l’area strategicamente più importante) la Jonica e l’Aspromonte. Parallelamente, le truppe nazifasciste, non in grado (per fortuna) di opporre qui una seria resistenza, iniziavano la frenetica ritirata per riorganizzarsi più a nord. La giornata del 4 settembre, dunque, fu interamente pervasa dal continuo e rumoroso sferragliare di mezzi e uomini provenienti dall’Aspromonte e diretti alla Marina. In mattinata, Mastru Gianni ‘u scarparu (il nome è di fantasia) era de-
dito al lavoro nella sua botteguccia che dava proprio sulla strada e, davanti a quel tetro spettacolo, non resistette alla tentazione di sollevare verso i fuggitivi il martello in segno di “minditta”, seppur a denti stretti: nessuno saprà mai se l’autoblindo tedesco che si arrestò all’improvviso aveva l’intenzione di vendicare l’onta subita o stava seguendo propri disegni: di fatto, mastru Gianni diede vita ad una memorabile fuga a rotto di collo per la strada della Limbìa, e si rifece vivo in paese soltanto dopo più di una settimana, quando stimò probabilmente cessato il pericolo di rivalse. Ma i disegni dei militari erano ben altri: con la tipica organizzazione teutonica, in un battibaleno da alcuni autocarri fermatisi ai lati della strada iniziarono a scendere degli uomini carichi di casse colme di esplosivo, soprattutto in polvere. Agli ordini di un ringhioso graduato, in men che non si dica le arcate su cui si snodava l’arteria aspromontana, proprio al di sotto della Chiesa Matrice (che di lì a poco avrebbe ospitato le funzioni per la sentita festività), furono intasate con la micidiale polvere. DA DIETRO LE FINESTRE, la popolazione inerme e trepidante assisteva attonita a quelle operazioni, senza, peraltro, avere la benché minima possibilità di intervenire. Né valse ad alcunché il timido tentativo dell’arciprete di far notare che non solo la Chiesa, ma l’intera parte alta del Paese era così messa in grave pericolo. Il graduato fu irremovibile: la distruzione del ponte serviva a proteggere la loro ritirata e nulla li avrebbe fermati. E senza altro dire,
essendo il contingente ormai lontano, diede ordine di innescare l’esplosivo e se ne andò di gran carriere per non essere coinvolto nell’esplosione, che si preannunciava piuttosto seria. A QUESTO PUNTO, il racconto degli anziani che assistettero ai fatti si fa un po’ nebuloso sull’esatta dinamica del mancato scoppio: per certo, ci fu l’istintivo quanto ardito intervento di un manipolo di coraggiosi che riuscirono a strappare gli inneschi, impedendo il verificarsi della deflagrazione che sicuramente, se avvenuta, avrebbe lasciato ben poco della fragile rocca su cui è arrampicato il borgo antico. Il paese, gli abitanti e la venerata chiesa erano salvi e, ancora una volta, i canti di ringraziamento echeggiarono commossi fra le antiche e sacre mura. Non sono riuscito a recuperare tutti i nomi di quei coraggiosi: le testimonianze sono unanimi solo su due: Pietro Ietto (‘u Cardara) e Domenico Zinghinì (‘u Summicu), e pare anche che, specie quest’ultimo, fu anche perseguitato dalla polizia fascista per quello che fu ritenuto un atto di sabotaggio. Appena tre giorni dopo arrivarono gli Alleati: ancora l’8 settembre, nonostante l’Armistizio, si registrarono incursioni aeree a Lauria, Trebisacce, Pizzo, Lamezia, Vibo Valentia, Catanzaro (il giorno prima, il 7, anche nella vicina Locri), ma, per Bovalino, l’incubo era definitivamente cessato. Non risulta che mai alcun riconoscimento sia stato conferito agli autori di quel gesto che, con ogni probabilità, salvò molte vite.
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Ombre e luci
inAspromonte Giugno 2014
IL FOTOMODELLO
Beppe Fabiani. Dai capretti al capocollo, le strategie di un disoccupato per accaparrarsi un impiego
Nella foto spazzini nella capitale. Foto de l’Unità
«Sfiduciato, ma deciso più che mai a tagliare la testa al toro, Beppe, contro la volontà del padre che aveva un’avversione profonda per ogni tipo di uniforme, di nascosto, aveva inoltrato domanda per entrare nei carabinieri. Fortunatamente, con la salita a sindaco di un suo cugino, finì di penare» di GIANNI FAVASULI
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eppe Fabiani era balzato alle cronache del paese per un episodio spassoso, singolare. Disoccupato, in cerca di primo impiego, per trovare una sistemazione, Beppe non aveva lasciato niente d’intentato. A profusione, a gettito continuo, nella scuola, nelle poste, nelle ferrovie, in tutte le branche della pubblica amministrazione, insomma, aveva inoltrato istanze d’assunzione. Tutte le lotterie cui aveva partecipato, però, lo fecero girare a vuoto. Non furono solo una gran perdita di tempo, ma principalmente, di denaro! BEPPE, INFATTI, ad ogni concorso, per non rimanere indietro, per non farsi scalzare da quelli che, come lui, usavano lo stesso approccio, la stessa tecnica, non si dava pace, si dannava l’anima per trovare ‘u cugnu di tronu, la raccomandazione per eccellenza; quella cioè che gli avrebbe consentito di sbaragliare la concorrenza e di dormire, per il resto della vita, sonni tranquilli. Cugnu di tronu con cui una pletora di somari scardinava e, purtroppo, continua a scardinare, le serrature delle porte che immettono nelle larghe ed ubertose pasture del pubblico impiego, dei posti di comando. Con buona pace di tutti quelli che hanno aperto l’uscio, inserendo nella toppa della serratura la chiave del loro valore, della loro onesta preparazione. Per cui, con capretti, agnellini, forme di cacio, vino e capocollo, Beppe andava a scomodare i pezzi grossi, i notabili della zona. Quelli che avevano, o millantavano di avere, possibiltà di accesso in ambienti molto elevati; entrature nei palazzi romani del potere. I quali, sempre più ingordi, sempre più insaziabili, dall’alto del loro pulpito, della loro sdegnosa supponenza, ad ogni incomodo, con fervorini, non perdevano occasione di rammentargli che le raccomandazioni erano da considerarsi alla stessa stregua delle grazie divine. Per cui, solo i supplici, solo quelli che omaggiavano con prodigalità i loro benefattori potevano sperare di ottenerle! S’ERA RIVOLTO, ad ogni tornata elettorale, senza
scrupoli, anche a tutti i politicanti della zona offrendo loro, come contropartita per il favore, oltre ai suddetti ovini, caprini e loro derivati, i cinquanta e passa voti del suo parentado. Puntualmente, però, andava a finire che i pezzi grossi da una parte e i politicanti dall’altra, dopo averlo munto per bene, si schermavano con i “vedremo...” che avevano l’amaro sapore della beffa. Sfiduciato, ma deciso più che mai a tagliare la testa al toro, Beppe, contro la volontà del padre che aveva un’avversione profonda per ogni tipo di uniforme, di nascosto, aveva inoltrato domanda per entrare nell’arma dei carabinieri. Fortunatamente, con la salita a sindaco di un suo cugino, finì di penare. Fu assunto dal Comune. A QUESTO PUNTO, si verificò lo spassoso episodio prima accennato. Beppe, la mattina del suo primo giorno di lavoro, si presentò dal signor Cosimo Gentile, assessore al personale, tirato di tutto punto. La sorpresa dell’assessore fu enorme. Il buon uomo, infatti, dinnanzi a tanto sfarzo, a tanto spreco, non credeva ai suoi occhi. Si sistemò meglio gli occhiali che lui, per consuetudine inveterata, portava sulla punta del naso. Ripose sulla scrivania le scartoffie che teneva sotto braccio. Si raspò lentamente la nuca e, poi, dopo un attimo di riflessione, gli disse: «Beppe, ti faccio notare che non sei stato invitato ad una cerimonia, ad una sfilata di moda! Sei stato assunto per lavorare nella nettezza urbana! Vuoi andare, per caso, in giro per il paese a pulire le strade e a raccogliere la spazzatura bardato in quel modo? Con quel vestito misto seta e con la cravatta griffata? Be’, se fossi stato assunto come ragioniere, come geometra, potrei capirla la cosa! Adesso, con calma, per favore, vuoi spiegarmi che significato ha questa mascherata, questa messa in scena?». «Signor Gentile, mi creda, non mi sarei mai potuto immaginare che sarebbe finita in questo modo. Convinto che anche io, come tanti, un giorno sarei riuscito a trovare
un posto nel pubblico impiego; convinto che anche io, come tanti, un giorno sarei riuscito a raggiungere una posizione di un certo prestigio nella scala sociale, comprai questo vestito con l’intenzione di fare colpo agli occhi dei miei colleghi e dei miei superiori. Ora, visto che le cose sono andate, purtroppo, come non dovevano andare, io questo vestito non posso più tenerlo chiuso nell’armadio. Devo sfruttarlo. Non posso correre il rischio che se lo mangino le tarme. Tra un anno non mi starà più bene!» spiegò Beppe, all’attonito assessore. «Ochei! Però lo puoi indossare di pomeriggio, quando smonti dal lavoro. Lo puoi indossare di domenica e nelle feste comandate. Bello mio, per svolgere l’attività per cui sei stato assunto, tu hai bisogno semplicemente di una tuta!» gli puntualizzò il signor Gentile, scoppiando a ridere fragorosamente. «NO! IO, SUL POSTO di lavoro, indosserò questo vestito per una questione di principio! Fin da quando vidi tanti morti di fame, tanti pezzenti andare a lavorare tirati di tutto punto, giurai che anche io un giorno avrei fatto lo stesso e non sarei stato da meno. Assessore, quelli che hanno più di me? Sono forse figli della gallina bianca?» controbatté, con decisione, Beppe. «Caro mio, una cosa del genere è semplicemente assurda, ridicola! Quando mai si è visto uno spazzino municipale vestito come un figurino, come un fotomodello!» gli replicò, più divertito di prima, il signor Gentile. «Assessore, vi piaccia o no, io spazzerò le vie del paese vestito in questo modo. Che cosa c’è di male? Lo vieta il regolamento?» tagliò corto, stizzito, Beppe. A quel punto, il signor Gentile, dopo aver riflettuto un po’, si grattò di nuovo, lentamente, la nuca. Infine, dopo avergli mollato una gran pacca su di una spalla, sentenziò: «Beppe, l’importante è che tu le pulisca le strade! Per quanto riguarda il resto, contento tu...». Detto questo, ridacchiando, si sedette alla scrivania e prese a compilare i fogli di presenza di quel nuovo impiegato... modello!
Ombre e luci
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L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri
Nella foto il luogotenente Cosimo Sframeli
LA ‘NDRANGHETA DI BARILLARO
Uno scrittore calabrese, dal manicomio criminale, scrive di onoratà società, anticipando tutte le più grosse firme del panorama nazionale. Sono 7 le cose belle, 99 i punti di umiltà, 1 di brutalità di COSIMO SFRAMELI
L
a narrativa come strumento letterario per conoscere la Calabria. Un libro introvabile, anche sul mercato dell’antiquario, e di cui solo gli “addetti ai lavori” ne conoscono l’esistenza. La famiglia Montalbano di Saverio Montalto (il suo vero nome era Francesco Barillaro), scritto e concluso tra il 1939 ed il 1940, viene pubblicato nel 1973, come è facile dedurre da una lettura del Memoriale, ed è il romanzo capostipite di tutti i romanzi sulla mafia, supplendo alla disattenzione della letteratura meridionale del Novecento sull’aggregato criminale. Infatti, l’ultimo di cui si ha notizia è la braveria de I promessi sposi. Poi, Leonardo Sciascia con Il giorno della civetta (1961) precede cronologicamente, ma non geneticamente, La famiglia Montalbano. Saverio Strati giunge più tardi con Il selvaggio di Santa Venere (1977). Il primo romanzo organico sulla mafia della provincia di Reggio Calabria è di Saverio Montalto, veterinario e scrittore di Ardore. La mafia ne La famiglia Montalbano non è un’accidentalità, un comportamento, una cultura dell’onore, una dei tanti incastri del mosaico paesano, ma è come un gas, che riempie l’intera vita paesana nelle sue più profonde radici.
Le regole e le donne
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a testa e piedi nella campagna, che ne costituisce il suo humus storico e culturale. Si mostra potente e prepotente, agguerrita ed organizzata, protetta e impunita. Il prete, il sindaco, il medico, il deputato, i proprietari terrieri, gli avvocati, persino i magistrati, sono amici degli amici e, tutt’insieme concorrono alla stagnazione della piccola comunità contadinesca. Non è più un mito l’onorata società, che difende i deboli e le donne. Tutto è associazione a delinquere, macchina di sfruttamento, di morte, di alleanza con il potere economico e politico. Nel romanzo, malavita calabrese e mafia americana si toccano, s’incontrano, s’influenzano. É l’emigrazione che ha reso possibile il contatto ed il contagio, “esportando” anche picciotti e uomini d’onore. Saverio Montalto è il narratore italiano, ancorato in Calabria, che afferra il rapporto d’interdipendenza tra emigrazione e mafia, l’ingrandimento di questa da quella, e il docile innesto degli usi, dei costumi, dei comportamenti della mafia americana sulla già mala pianta (come la chiama Corrado Alvaro) della mafia calabrese. Saverio Montalto, nel narrare, individua il principio d’involuzione e corruzione della onorata società calabrese,
degli uomini d’onore che sono poco onorati. Trescano, intrigano nell’ombra, si affiatano con il potere, derubano la povera gente, “spogliano” e “vestono” affiliati secondo le loro comodità, architettano infamie. Disonorano madri, moglie, sorelle dei camorristi, che le “regole sociali” vorrebbero fossero rispettate. In particolare, la donna cambia modo di essere, si attiva in funzione della malavita ed emerge per spirito di vendetta. Ella, nell’universo mafioso, non ha un ruolo primario, ma può attizzare l’odio, chiedere e ottenere vendetta, essere parte determinante delle decisioni. É proprio la donna, nella società contadina, depositaria del valore estremizzato dell’onore. L’uomo non può che uccidere la donna indegna per ridiventare onorato oppure, disonorato per sempre, destinato al non rispetto, al disprezzo, allo scherno. Nella società onorata non c’è posto per altri. Ne fa parte l’uomo vero, l’uomo di sostanza, l’uomo di malavita, dotato di “sette cose belle” che sono: l’Omertà, la Fedeltà, la Politica, la Falsa-politica, la Carta, la Penna, il Coltello e il Rasoio. A tal proposito, è bene precisare, come l’Omertà sia propriamente considerata l’umiltà nel senso che, secondo la “regola sociale”, l’uomo d’onore deve possedere 99 punti di umiltà e una di brutalità. “Omertà” è, appunto, la capacità di mantenere il silenzio sulle regole e i delitti dell’onorata società. Anche se, nella persistente lettura nazionale, l’Omertà viene vista come una caratteristica peculiare del popolo meridionale, portato dalla sua natura a non vedere, a non sentire, a non parlare. La famiglia Montalbano è stata una delle tante denominazioni della criminalità organizzata. Miticamente, la sua nascita è indicata nel passaggio leggendario in Calabria di tre famosi cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, provenienti dalla Spagna. Storicamente la sua formazione è fatta risalire ai primi anni dopo l’Unità d’Italia. Saverio Montalto, nel romanzo, oltre che il termine di “famiglia Montalbano”, usa quello di mafia, malavita e onorata società. Mai il termine ‘ndrangheta che appare negli anni del secondo dopoguerra. I prefetti di Reggio Calabria, dove il fenomeno ha avuto la sua manifestazione, nei rapporti scritti dopo il 1880 hanno usato l’espressione: “camorra”, “maffia” e, più tardi, “picciotteria”. Il testo si legge tutto d’un fiato. I ritratti psicologici delle persone sono straordinari, anime perse in una società che va dissolvendosi nei suoi valori tradizionali, sino alle figure sinistre e spietate dei capi bastone, che preludono ai moderni capi ‘ndrangheta. «Al paese la fama delle sue prodezze era arrivata prima di lui da tanto tempo […]. Tutti si misero ad ossequiarlo
e a venerarlo e quando si parlava di lui nel paese, specie il popolo minuto, lo facevano con lo stesso rispetto come si fosse trattato di Dio e del diavolo insieme. Anche il medico, l’arciprete e don Mico, i quali tutti e tre erano stati dispensati dal servizio militare chi per una ragione e chi per un’altra, lo trattavano, come si dice, di gnorsì e di gnornò, e la loro casa per lui era aperta in qualunque ora e momento, benché lui, a dire il vero, di loro nutriva nel suo animo un sacro rispetto, in quanto, a parte che don Mico era l’assessore, pensava, non si sapeva mai, che da un momento all’altro avrebbe potuto ammalarsi e quindi cadere in potere del medico ed inoltre, quando fra cent’anni sarebbe morto, aveva una paura matta d’andare all’inferno per la qual ragione non bisognava guastarsela neanche con l’arciprete. Bruno lo Spincione che si trovava anche lui a casa con l’esonero agricolo, non appena lo vide gli diede le redini del comando conservando per sé il grado di sottocapo e Gianni Zoppa allora, avendo trovato che le cose erano alquanto malandate, subito organizzò la mafia del suo paesello all’uso americano e come prima entrata fece pagare ad ognuno, principalmente ai giovanottini di primo pelo che ambivano di avere l’alto onore di appartenervi, una tangente di cento lire» (da La famiglia Montalbano).
La famiglia Montalbano
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Le file in poco tempo s’ingrossarono, specie dopo l’armistizio, giacché ormai, anche quelli che tornavano dalla guerra erano convinti che per essere rispettati, o per lo meno essere lasciati in pace, bisognava appartenere alla “famiglia Montalbano”, come fra di loro l’associazione veniva comunemente chiamata. Avevano visto che in genere tutti coloro della portata di Gianni della Zoppa non avevano fatto la guerra, perché o si imboscavano oppure si facevano mandare a casa e quindi era entrata nella convinzione di tutti l’idea che non esistevano più né giudici, né carabinieri, né sindaci. Ormai era chiaro che o anche loro appartenevano alla “famiglia Montalbano”, ovvero avevano paura, e ciò veniva pure confermato dal fatto che quando un individuo dell’onorata società del paese ed anche degli altri paesi vicini commetteva qualche reato così grave e palese da non potersi fare a meno a non portarlo dentro, non c’era tempo di arrestarlo per quanto presto lo rimettevano di nuovo in libertà» (da Saverio Montalto La famiglia Montalbano). Una storia che rende perfettamente l’ambiente, l’atmosfera di quell’epoca in quei luoghi. Una delle più belle storie ambientate in Calabria, in cui si narra la mafia senza giustificazioni di alcun genere.
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Aspromonte orientale
inAspromonte Giugno 2014
Saverio e il maresciallo Antichi mestieri e personaggi in bilico tra le ombre e le luci della montagna
di FRANCESCO E. NIRTA
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ppena fuori dall’abitato si snodava verso il monte un largo viottolo che, a chi l’avesse guardato dall’alto, avrebbe dato l’idea di un tronco d’albero dalle tante ramificazioni. Due volte alla settimana Saverio, guardia campestre, infilati gli schinieri, ereditati dal padre veterano della Grande Guerra, e le scarpe da montagna suolate con più strati di cuoio dello scudo di Achille, lo percorreva per dovere d’ufficio; e, poiché le deviazioni erano tante, ne sceglieva una diversa ad ogni sortita. Nel suo lungo servizio le aveva percorse tutte e sapeva che, alla fine, ognuna si sarebbe prima o poi intersecata con altre. Così, imboccandone una ad ogni ispezione, riusciva, nel giro di un mese, a controllarle tutte, risparmiando tempo e fatica, e a dare al contempo l’idea di un impiego immane dell’uno e dell’altra.
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La montagna, a guardarla da lontano, sembra silente, inabitata, misteriosa, eterna; ma, già quando giungi ai suoi piedi, ne av verti la vita segreta nei mille echi di suoni lontani, nel tintinnio monocorde dei campanacci dei bovini
PARLASSE CON gli altri o con sé stesso, la sua conversazione si componeva di tante parole e altrettante parolacce. Al suo avvicinarsi, le donne tappavano con le mani le orecchie alle figlie e facevano mostra di allontanarsi, ma non più di tanto. Non che i loro mariti fossero da meno, ma nessuno come lui sapeva, in un crescendo irrefrenabile, rievocare talune parti anatomiche e illustrarne le funzioni. Fingendo di scandalizzarsi, gli intimavano in coro di smettere sperando che continuasse. Le interiezioni raggiungevano il diapason ad ogni ritorno dalle ispezioni montane: stanco ed affamato, andava in municipio a far rapporto; e lì a ripetere per l’ennesima volta che non era giusto che alle quattro case e due strade dell’abitato fossero applicate due guardie municipali e che alla campagna e alla montagna fosse addetto lui solo; e giù parolacce a dar profumo di spontaneità ad uno sfogo in malafede. SI, IN MALAFEDE, perché tutto voleva meno che avere vicino un collega quando contestava ai contadini di coltivare più terreno di quanto il Comune aveva concesso. Le tratta-
LA MILLANTERIA A «Sono chi non sono» di BRUNO S. LUCISANO
tive che ne seguivano giungevano a buon fine proprio perché era lui solo a condurle: per il contadino era conveniente compensare in natura la chiusura di due occhi, ma non di quattro. Gli sarebbe costato più che pagare il terratico per il pezzo di terra usurpato. Questo succedeva al piano. La montagna, a guardarla da lontano, sembra silente, inabitata, misteriosa, eterna; ma, già quando giungi ai suoi piedi, ne avverti la vita segreta nei mille echi di suoni lontani, nel tintinnio monocorde dei campanacci dei bovini, nel fumo che dalle buche dei carbonari o dal focolare degli stazzi si alza verso il cielo oltre le cime degli alberi, nei richiami dei pastori alle bestie vaganti per i mille sentieri della montagna tracciati nei secoli dai loro zoccoli tenaci e dal passo degli uomini. SAVERIO IMBOCCAVA esperto il sentiero maestro, da cui diramavano altri, che si perdevano nel fitto del bosco e che portavano ognuno ad uno stazzo. Sapeva che non vi avrebbe trovato gli animali, lasciati liberi a pascolare; e sapeva anche che intimare di tenerli dentro al terreno concesso in fida era inutile, perché pascolavano non marchiati e apparentemente incustoditi, sicché ognuno poteva tranquillamente negare che fossero suoi. Giunto allo stazzo, non gli era necessario annunziarsi a gran voce perché i cani, allarmati dal suo avvicinarsi, stupidi e zelanti come tutti i cani di mandria, cessavano di abbaiare appena lo riconoscevano, tanto lo avevano in dimestichezza. Scambiato il saluto, sedeva su un ceppo vicino al fuoco ad attendere che il mestolo affondasse più volte nella caldaia e travasasse la ricotta calda nella fiasca di legno, che gli veniva posta davanti a mo’ di offerta rituale, insieme ad un pane quasi raffermo. Egli lo tagliava a piccole fette che immergeva nel liquido e spingeva a fondo, premendo col cucchiaio di legno fino a quando, intenerite dal calore del liquido, le portava alla bocca fumanti e screziate di bianco. Alle offerte di formaggi e ricotte da portar via
ristotele scriveva così: «Il millantatore è colui il quale fa mostra di titoli di merito che non possiede, esagerando il suo controllo del mondo di cui in realtà è privo». Si distingue dall’ironico che, invece, è colui che nega e nasconde i titoli di merito di cui dispone attenuandoli. Tra questi due contrapposti estremi - l’ironico e il millantatore - si colloca la sincerità, che trova il suo opposto nella menzogna. La millanteria ci appare essere come l’attribuirsi qualità che non esistono e il millantatore è colui che stando sul molo [del Pireo] racconta ai forestieri quanto danaro ha per mare. Ed egli descrive con precisione l’importanza dei prestiti marittimi e di quanto ci ha guadagnato e perso. E mentre si riempie così la bocca, manda lo schiavo alla banca dove non ha che una dracma. Abbindola un compagno di viaggio raccontandogli di aver fatto una campagna con Alessandro e in che relazione era con questi e di quante coppe tempestate di pietre preziose ha riportato a casa. E sostiene che gli artisti dell’Asia sono migliori di quelli in Europa; eppure non si è mai mosso dalla città di Atene (Teofrasto). La vanità è un tratto ricorrente. Nei millantatori la vanità è spesso solamente il frutto di una deformazione della realtà, una specie di millantato credito che, se scoperto, si traduce in una frustrazione massima. È comunque singolare che molti apparenti non si credano tali. Questa posizione tipica dell’apparente diligente è sicuramente generatrice di una confusione esistenziale per cui il sog-
opponeva un motivato rifiuto: nell’adempimento del suo dovere non gli era consentito accettarli; ma a casa, a tarda sera, quando, dismessi gli schinieri ed il berretto di guardia campestre, riprendeva dimensione di privato cittadino, nessuno avrebbe potuto malignamente insinuare che vi fosse rapporto tra l’omaggio ed il servizio. E INVECE il primo pensiero che gli venne in mente quando fu convocato in caserma dai carabinieri fu che qualche infame lo avesse accusato di questo. Invece, gli capitò di peggio: il maresciallo gli chiese di accompagnarlo agli stazzi, che sospettava ricovero di latitanti. Era arrivato da poco e, poiché non avrebbe saputo nemmeno che direzione prendere, gli necessitava una guida. Saverio avrebbe preferito essere accusato di corruzione perché quel che per il maresciallo era un sospetto, per lui era una certezza. Sapeva, poiché aveva imparato ad attribuire un linguaggio anche alle cose per loro natura mute, che la porta del ricovero dei pastori, di solito aperta, talvolta al suo arrivo nello stazzo si presentava chiusa, come ad impedirgli di vedere ciò che era meglio non vedesse. Ora si trovava tra l’incudine della legge e il martello di chi gli avrebbe addebitato la condotta infamante di traditore di una consolidata fiducia per aver guidato lo sbirro a catturare un ospite di amici comuni: non poteva eluderle entrambe senza pagarne la pena, la perdita del posto per l’una, della vita per l’altra. LA MATTINA DOPO, dismesse l’uno e l’altro le insegne militari, si avviarono. Quando arrivarono in prossimità del primo stazzo, i cani avvertirono la presenza inconsueta e corsero loro incontro abbaiando. Fu così che gli venne in mente l’idea salvifica: «Legate i cani, sennò mordono il maresciallo!» urlò facendo imbuto con le mani; e al maresciallo che gli si volse a rimproverarlo furibondo, rispose serafico: «Vuol dire che la prossima volta lascerò che vi mordano!».
getto non riesce a trovare il bandolo della matassa. Preferisce annegare nei problemi di una vita vissuta sopra le righe piuttosto che accettare la sua dimensione. Se alla fine la situazione si cronicizza, diventa un apparente fallito, colui che dentro di sé anela a diventare affermato, ma per motivi vari può solo invidiare tale condizione (Roberto Albanesi). Ho raccolto un po’ di queste notiziole, di qua e di là, per cercare di capire taluni comportamenti e mi sono accorto che è inutile perché questi (i millantatori), esistono da molto tempo, già ai tempi di Aristotele e, quindi, si prevede che scompariranno con la fine del mondo sempreché, loro, i millantatori, non ci racconteranno di essere eterni! La millanteria, comunque, si fa strada nell’ignoranza e soprattutto quando viene accettata passivamente e a volte esaltata dagli altri. Mi spiego, se la millanteria non viene contrastata e combattuta e, addirittura in alcuni casi, viene assecondata, si finisce per essere complici di gente che non ha requisito alcuno per fare e dire, quello che fa e dice (Bruno Salvatore Lucisano). Non si può parlare e ragionare di tutto perché il tutto lo conosce solo Dio, per chi crede, per chi no, il tutto non lo conosce nessuno! Qualche anno fa (mi pare 10), avevo scritto un detto: «Cu campa i luci rriflessa, quandu si stuta a luci, rresta fessa». Credo non ci sia bisogno di traduzione. Con rispetto, salute/i. PS. Il primo che risponde o si riconosce, in questa nota, è un millantatore!
Aspromonte orientale
inAspromonte Giugno 2014
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Panduri, febbraio 1509. Un violento sisma distrugge il paese e seppellisce tutte le sue genti
L’eco della morte Il borgo di Careri, foto di Associazione culturale Francesco Perri
«Theràsia aveva finito di accudire il vecchio Nicodemo, il pappùa, che le giunse l’eco di un tuono lontano. Tutto iniziò a tremare e lei restò inebetita, incapace di capire se si trattasse di un sogno...» di MIMMO CATANZARITI
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heràsia osservava la vallata sottostante il paese. Dal punto dove era situata la sua casa, l’orizzonte si allargava nell’ampia conca appoggiata ai primi contrafforti dell’Aspromonte. E proprio da quella casa era possibile ammirare la grande pietra conosciuta come Pietracappa, un masso enorme, dall’aspetto simile ad un pane, circondato da altri monoliti minori: la pietra di Febo e quella di Pietracastello che si distinguevano tra tutte le altre. La bellezza del panorama, in quella tersa giornata di febbraio dell’anno del Signore 1509, era tale da mozzare il fiato; Panduri, per la sua posizione, dominava tutta la valle del torrente Bonamico, da Capo Bruzzano fino a Roccella, e da lì si potevano vedere vari paesi incastonati alle pareti dell’Aspromonte: da Platì a Ciminà, da San Luca a Gerace, da Natile a Casignana fino a Ferruzzano. E poi in alto il monte Varràro con le sue balze, con il suo querceto fittissimo e le rare spianate, che sembrava una sentinella messa a guardia del paese sottostante.
Theràsia e il terremoto
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montanari e i muletteri che lo attraversavano per recarsi dall’altro lato della valle, verso Gerace, raccontavano storie paurose. Di vecchie pietre abbandonate proprio là, sulla cima della montagna, di ceramìdi e mattoni dalle strane forme di argilla, cotta nei tempi remoti in qualche fornace sconosciuta. Forse anche per questo era poco frequentata, se non dalla moltitudine di maiali selvatici che erravano sotto le sterminate forre di chamaròpe, le piccole querce ricche di ghiande di cui erano ghiotti. L’Aspromonte con i suoi boschi inestricabili era ritenuto in legame simbiotico con la natura, con la fatica di vivere quotidiana, ed era abitato da essere umani che, anche se sofferenti, non erano ancora corrotti dalla povertà e dai mali che attanagliavano i grandi centri urbani. La settimana prima era riapparso in paese il vecchio Teòfilo, uno dei monaci cercatori che frequentavano i paesi
della valle facendo tappa per riposarsi nei vari ascetèri e romitòri dei monasteri del circondario. I monaci che giravano per queste vallate abitavano sempre vicini alle fonti d’acqua, coltivavano la vite e l’ulivo, piantavano castagni e querce per l’allevamento dei maiali e gelsi per l’allevamento dei bachi da seta. C’era un connubio tra i monaci e la popolazione locale, che approfittava della loro esperienza per imparare nuovi metodi di coltivazione della terra e di allevamento del bestiame. Il monaco portò notizie sul barone Tommaso Marullo, nobile messinese e nuovo signore del luogo, che aveva acquistato da Re Federico le terre di Bianco, Bovalino, Panduri, Precacore, Potamìa, Motta e Torre Bruzzano e finanche il castello e le terre di Condoianni. Theràsia aveva finito di accudire il vecchio Nicodemo, il pappùa, padre di suo padre che viveva con loro da quando era stato colpito alla schiena da un torello impazzito per la calura estiva non molti anni prima. All’improvviso le giunse l’eco di un tuono lontano, e una leggera vibrazione le avvolse tutto il corpo. Era come se vedesse molte immagini davanti agli occhi che tremolavano velocemente. Ma velocemente come era arrivato questo fenomeno, altrettanto velocemente scomparve, lasciandola inebetita, incapace di capire se avesse o no sognato ad occhi aperti. Il nonno però capì subito cosa stava accadendo, ricordò infatti che, quando era bambino, lo avevano svegliato le urla delle donne del paese, in una nottataccia in cui il mondo intero sembrava non avere né capo e né coda, ricordava soltanto che tremava tutto, e che il campanile della chiesa di San Giovanni era crollato con un frastuono che era rimbombato per tutto Panduri. «Scappa Theràsia, terremoto!» aveva gridato alla nipote, buttandosi per terra dal giaciglio dove stava ed aiutandosi con le braccia per raggiungere l’uscio di casa. Ma non fece in tempo ad attraversare il breve spazio che lo separava dalla speranza di uscirne vivo che il soffitto rovinò addosso a lui e alla nipote, seppellendoli in un vortice di polvere e calcinacci assieme a tutto il paese.
L’antica Pandùri fu distrutta da questo terrificante terremoto nel 1509, ed i suoi abitanti, in seguito all’evento catastrofico, si dispersero nelle zone vicine insediandosi principalmente nell’area dove oggi è situato il paese di Careri. La storia della Calabria è stata condizionata da continui eventi alluvionali e da ricorrenti terremoti, i più devastanti furono quelli del 1783 e del 1908. Molti furono i centri montani e collinari semidistrutti e abbandonati dagli abitanti che costruirono spesso più a valle, in zone geomorfologicamente più sicure, i nuovi centri abitati. Il paesaggio calabrese, purtroppo, è rimasto privo delle strutture e dei monumenti architettonici della civiltà greca e bizantina, che furono l’orgoglio della regione nella storia passata. Quel poco che è sopravvissuto dei centri storici, e che rappresenta un patrimonio notevole spesso sconosciuto, ha subito la devastazione e le offese del tempo e delle catastrofi naturali, oltre che quelle provocate dagli uomini.
Un patrimonio dimenticato
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on è raro per il ricercatore imbattersi in posti “dimenticati”, veri e propri tesori vergognosamente abbandonati. In questi ultimi anni, però, si è registrata un’inversione di tendenza e molti si sono spinti nella ricerca e nella riscoperta dei luoghi del passato, ma, ahimè, in alcuni casi ormai è troppo tardi. La nostra è una regione ricca di storia e di cultura ma, nonostante ne abbia le caratteristiche e i titoli, è una delle poche regioni nell’elenco dei 49 siti italiani considerati dall’Unesco “patrimonio dell’umanità” solo per l’evento della Varia di Palmi, catalogato quale “patrimonio immateriale”. Ci vorrebbe troppo tempo per acquisire la giusta coscienza e sensibilità ambientale, e troppo lunga è stata la decadenza dovuta ad una gestione approssimativa e incompetente delle istituzioni perché si possa conservare quel che ancora rimane del nostro passato.
393/9045353 0964/992014
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Aspromonte greco
inAspromonte Giugno 2014
Catu Chorìu
di Salvino Nucera
UN “PAESE CALDO E DENSO PIÚ DI UNA MANDRA”
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Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati a una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero verdastro rinforzato d’erbe selvatiche. Tutti intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande pei porci neri. Intorno alla caldaia, ficcano i lunghi cucchiai di legno inciso, e buttano dentro grandi fette di pane”. Corrado Alvaro
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Nei pressi di Montenardello, tra Furnelle e Materazzelli, vissero intere generazioni di famiglie dedite all’allevamento delle vacche. Quella Tripodi fu la più importante
SCÍ MELU
E i COWBOY ASPROMONTANI
Carmelo Trapani, detto Clienti, difese la sua mandria con un geniale stratagemma
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e falde aspromontane non hanno mai offerto gli abbondanti foraggi di cui sono ricche le vallate alpine, per poter praticare un redditizio e diffuso allevamento bovino. Tuttavia non sono mai mancate sparute e minuscole mandrie di animali bovini. Ne è stata testimone, in anni non lontani, la produzione di ottimi formaggi quali i caciocavalli, le trecce ed altro di ottima fattura e qualità. Non mancavano in quegli anni le occasioni di dover difendere gli armenti, presi di mira dai ladruncoli nel momento in cui erano lasciati incustoditi.
elle sagome umane che si avvicinavano furtivmente. La situazione di un tentativo di furto era chiara e lampante, ma istintivamente la sua mente partorì un’idea che poteva forse impedire l’evento che stava per verificarsi. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola: «Accorrete tutti! Sette di qua, sette di là e sette al passo di Trifillà!». Al sentire queste frasi, questa specie di tiritera, i ladri disorientati si videro scoperti e scapparono desistendo dal tentativo della ruberia della mandria di bovini.
i mettevano 6 o 7 ore per scendere dall’alpeggio e altrettante per ritornarvi. E non era raro che ci si fermasse in paese per un paio di giorni prima di riprendere la via per l’Aspromonte. Solo nei mesi invernali più freddi, le mandrie venivano condotte nelle stalle nelle zone più basse in vicinanza di Santo Stefano. Tutto questo durò fino a quando i discendenti più giovani non presero la via dell’emigrazione verso l’Italia del nord, o addirittura verso la Svizzera e la Germania.
n aneddoto raccontatomi da Carmelo Trapani, detto Clienti, narra di un tentativo di furto di bovini di proprietà di più famiglie imparentate tra di loro, di cui lui faceva parte. Per una serie di imprevisti motivi, egli si era trovato, una notte da solo, a dover custodire in montagna la mandria di mucche della collettività, visto che gli altri vaccari erano dovuti rientrare in paese, per delle situazioni familiari. Nel cuore della notte venne destato dal dormiveglia, da dei rumori sospetti ed insoliti, accompagnati dal latrare dei cani. Uscì dalla capanna per rendersi conto di cosa fosse successo, e al chiarore della luna notò in lontananza delle ombre.
rande fu la meraviglia di Carmelo Trapani per aver messo in fuga in un modo tanto rocambolesco i furfanti. Nei pressi di Montenardello, tra Furnelle e Materazzelli, vissero intere generazioni di famiglie dedite all’allevamento delle vacche. Una di queste, forse la più importante, fu la famiglia dei Tripodi, i vaccari a cui erano affidate le mandrie bovine del cavalier Priolo di Santo Stefano d’Aspromonte. A partire da aprile o maggio fino a ottobre o anche di più, a seconda delle annate in cui la clemenza del tempo lo permetteva, vivevano nei pascoli appresso agli animali, lasciandoli ogni 15 giorni solo per rifornirsi di indumenti puliti e di alimenti di vario genere.
a produzione dei formaggi e dei derivati dal latte di mucca, che fino ad allora era fiorente ed in via di espansione, venne improvvisamente a mancare in quella come in altre zone della montagna a cavallo tra i mari Jonio e Tirreno. I paesi e le comunità, che vivevano ancora con i ritmi dettati dalla tradizione e dalla natura, ne risultarono ulteriormente impoveriti. Rimangono solo i racconti dei vecchi vaccari, che ricordano le quotidiane lotte intraprese, oltre che con il tempo spesso avverso, anche con i lupi. Questi furono una minaccia costante per le mandrie, specie nel momento in cui nascevano i vitellini.
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Aspromonte greco
inAspromonte Giugno 2014
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Foto di Francesco Depretis
Nelle foto di Enzo Penna (sopra e a destra) un capraio e la sua mandria. Gallicianò, Aspr. greco
L’ANTICA ARTE DEI CAPRAI
Tradizioni culturali, artigianali e religiose si fondono nella semplicità di oggetti antichi, intagliati dai pastori. In essi si nascondono infiniti simboli e significati di FRANCESCO VIOLI*
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Un importante valore simbolico si cela dietro i semplici manufatti dei pastori Un pezzo di « legno e un buon coltellino sono sufficienti per dar vita a vere sculture
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Si ringrazia per la consulenza fornita il prof. Salvatore Dieni, presidente dell’Associazione culturale Delia di Bova Marina.
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er comprendere la straordinaria valenza delle tradizioni, che la cultura greco-calabra ci ha rimandato, occorre immergersi nel variegato mondo agropastorale dell’Aspromonte greco. Dalle colline della marina fino alle cime maestose della grande montagna, pastori e massari ancora parlano e vivono dell’arte antica. Ed è grazie a questo micro cosmo che si comprende l’importante valore simbolico nascosto dietro semplici manufatti o banali oggetti, utili nella vita quotidiana. Durante il pascolo e durante le giornate piovose i pastori impiegano il tempo lavorando il legno, presente in grande quantità nella nostra montagna. Nascono così una serie infinita di oggetti e di utensili indispensabili per la casa ma soprattutto per la vita della campagna e nei boschi. Fin dai tempi più remoti la lavorazione è rimasta sempre la stessa: un pezzo di legno e un buon coltellino sono sufficienti per dar origine a vere e proprie sculture. Ancora oggi si preferisce usare la tecnica dell’intaglio a mano e, anche se gli oggetti vengono utilizzati poco nella quotidianità, un tempo rappresentavano l’utensileria preminente nelle attività agropastorali. Il legno è l’elemento maggiormente usato: in particolare si presta benissimo alla lavorazione quello di noce, di pero selvatico,
di erica, di agrume, di faggio, di pioppo, di ciliegio, di gelso nero (to sicaminò màvro), di giunco e di pungitopo. Una volta sistemata la mandria i pastori forgiano ed a intarsiano il legno con la stessa maestria e bravura di scultori di grande fama. Quindi dai diversi tipi di legno vengono realizzati una serie di utensili come la capinda, un ba-
Utensili in legno I pastori ricavavono capinde, càspie, suratùri, mistreddhà, clastrì, musulupàre, mistra e plumìa decorandoli con fiori, animali o croci greche
stone, ricurvo da un lato, usato come bastone da appoggio, le càspie, bicchieri intarsiati con motivi floreali alternati a rami o petali spinosi, e i suratùri, un vero e proprio filtro per far colare il latte. Quest’ultimo oggetto è composto da un piccolo bicchiere poggiato su una base leggermente allungata, sempre in legno e sempre finemente lavorata ad intarsio su entrambi le parti; il bicchiere, con un piccolo foro a forma di croce greca sul fondo, e la base (solitamente ricavati da un unico pezzo di legno) sono divisi da una foglia di felce che funge da filtro, appunto. La stessa forma del suratùri la ri-
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troviamo nella mistreddhà, un utensile che serve a pressare il formaggio fresco, incidendo su esso il segno della croce greca (ricavata dal traforo effettuato sul legno) ad espressione di un marchio che vuole simboleggiare l’importanza della religione cristiana molto diffusa nel mondo agropastorale. Questa simbologia trova le sue radici nella religiosità bizantina: la dimostrazione di tutto questo è possibile trovarla in una decorazione di un piatto e di un candeliere conservato nel museo di Iràclion nell’isola di Creta. Altri utensili che servono alla lavorazione del latte e dei suoi derivati sono i clastrì (semplici bastoni per la quagliata) e la mistra (cucchiaio). Particolare interesse, invece, rivestono le musulupàre, utensili adatti a pressare il formaggio dai cui calchi si hanno i musulùpi (un formaggio fresco simile alla tuma) a forma di mammella o di donna con le labbra serrate a testimonianza del periodo di astinenza durante il periodo della Quaresima. Non mancano nelle decorazioni elementi geometrici che rimandano ad altri oggetti dell’artigianato agropastorale come le coperte di lana e di ginestra nonché in altri oggetti liturgici della tradizione religiosa ortodossa. La parte esterna delle musulupàre, ossia quella non interessata al calco, è decorata con figure di animali, soprattutto pecore ed uc-
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celli. Un altro esempio di questa arte pastorale sono i plumìa (timbri per dolci) a forma di capitelli rovesciati tali da costituire due bracci penduli uniti tra loro e ricavati da un unico pezzo ligneo. All’estremità di questi due “capitelli”, vi è incisa la croce greca che poi rimarrà impressa sul dolce “marchiato”, come prova e come ringraziamento della buona riuscita dell’alimento prodotto
Pastori e religione Questi segni trovano le loro radici nella cultura bizantina, la dimostrazione di ciò è possibile trovarla al museo di Iràclion nell’isola di Creta
mentre il resto del plumìa viene decorato con motivi floreali. Alcune di queste incisioni le possiamo trovare sui collari che servono a mantenere i campanacci sul collo delle greggi ovine e caprine, realizzati quasi sempre con legno di gelso nero opportunamente trattato e poi inciso con i motivi della croce greca, delle foglie, di linee che riprendono i solchi dell’aratura. Le testimonianze della storia di questa terra, oltre alla lingua, quindi, si sviluppa e di diffonde nel mondo agropastorale in una sorta di arte che coinvolge pastori e contadini, massaie e consumatori.
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Aspromonte settentrionale
inAspromonte Giugno 2014
Venerdì, 18 settembre 733. Costantino è in viaggio verso le Planitiae Sancti Martini
L’IMMAGINE DI DIO
Pauliciani o “Paucciani”? I primi furono una setta di asceti e presero il nome da Paul-ik (figlio di Paolo). I secondi, nel linguaggio popolare, sono coloro che pregano Dio mentre fregano il prossimo di GIUSEPPE GANGEMI*
«
Sono uomini malvestiti, che si incoraggiano l’un l’altro con grida e invettive
«
A tutti è noto che il nobile Terenzio aspira ad occupare le terre di Sant’Agata
*
Università di Padova Docente di Scienza dell’Amministrazione E-mail
giuseppe.gangemi@unipd.it
«
Paul-ik!» «Paul-ik!» «Paulik!». Questa parola si ode, sempre più forte, provenire dal fondo della valle del Cumi. È una folla vociante che grida. Costantino, figlio di Brunazzo, sta percorrendo a cavallo la strada, a mezza costa, che porta alle Planitiae Sancti Martini. Distingue le voci, si preoccupa, ferma il cavallo e ascolta. Gli viene un dubbio: «Paul-ik-iani? Qui?». Guida il suo ben addestrato animale per un ripido sentiero tracciato dalle capre, che scende verso il fondo della valle. Per due volte, lo zoccolo scivola. Ora, la nervosa zampa del cavallo tormenta, prima di poggiarsi, la rossa terra. Il cavaliere si sporge a destra e sinistra. Guarda, preoccupato, i sassi affioranti, ritti in mezzo alla poca erba. La sua mano si appoggia, scendendo, agli immensi alberi inclinati verso il torrente a valle. Come per aiutare il cavallo a non scivolare. A portata d’occhio, coperto, a chi ne sta lontano, dalle basse fronde degli alberi, ma in grado di vedere tra le foglie a lui vicine, si ferma. Dalla macchia, non visto, scruta la folla vociante. Sono uomini malvestiti, stracciati, che marciano disordinati e si incoraggiano l’un l’altro con grida e invettive. Al giovane sfugge un’imprecazione quando vede che non tutti sono armati solo di accette, bastoni e forconi: tre di loro portano spada, arco e frecce. «Paul-ik-iani, guidati da gente armata di tutto punto» guarda oltre la piccola indistinta folla e oltre i soldati. Distante, come se non
avesse a che fare con loro, scorge Marciano, il soprastante di un nobile romano di San Martino. Da lungi, dà ordini, con segnali, attento a non farsi notare troppo «Li sta facendo marciare lungo il torrente per non essere riconosciuto come guida e ispiratore dell’azione». Così pensa Costantino. E si scuote. Intuisce dove sono diretti e che cosa intendono fare. A tutti è noto che il nobile Terenzio aspira ad occupare le terre della parrocchia di Sant’Agata. Per
“
Il parroco si volge e guarda, dietro di sé, il grande Gesù dipinto sopra il portale. E capisce. «Quanti sono?» questo fomenta l’azione di prezzolati finti seguaci (che si definiscono figli) di San Paolo di Tarso. Ha visto abbastanza. Ripercorre in salita il sentiero, con analoghe difficoltà per il cavallo. Risale alla strada sterrata e galoppa verso il villaggio di Sant’Agata. Urla ad ogni curva per evitare di travolgere qualcuno che gli si pari davanti, all’improvviso, magari una donna o un bambino. Rallenta solo appena arriva al villaggio. Grida ad alcuni ragazzi che giocano per strada di andare a casa e di avvisare gli uomini di raggiungerlo davanti alla chiesa. «Andate, se volete salvare la chiesa e il vostro parroco».
Urla ancora dietro, mentre quelli corrono «Che vengano armati!». Si infila a cavallo tra le viuzze del villaggio e arriva al sagrato della chiesa «Padre Stefano! Padre Stefano!». Il parroco esce fuori dalla chiesa, stupito. «Stanno arrivando i Paul-ikiani!». Il parroco si volge e guarda, dietro di sé, il grande Gesù dipinto sopra il portale. E capisce. «Quanti sono?» «Una ventina» «Cosa facciamo?» «Limitatevi a suonare le campane». Il religioso corre al piccolo campanile. Costantino si prepara, piegando con calma il suo arco composito. Le campane suonano a stormo. Pochi minuti e i Paul-ik-iani arrivano davanti alla chiesa. Urlano e lanciano pietre, da lontano, contro il ritratto di Gesù. Non osano avanzare oltre il cavallo di Costantino. Questi si mostra armato e risoluto. Qualcuno, spinto da dietro, esce dal gruppo, con una scala. Poi un altro, con in mano un martello. Costantino li guarda e fa solo un cenno di diniego con la testa. Si fermano. Pochi attimi di stallo e cominciano ad arrivare addosso al cavaliere sassi e bastoni. In due corrono e poggiano la scala allo stipite della porta. Il terzo si appresta a salire. Ma prima si volta e guarda verso il cavaliere. Questi, proteggendosi con un braccio, si è buttato con il cavallo contro la folla. Si è aperto un varco, ha superato le prime file e si è posizionato tra i soldati che sono dietro. Adesso mira con l’arco verso Marciano, minacciando di scoc-
care. Costui è stato sorpreso e non ha avuto il tempo di defilarsi. Sotto la minaccia, fa un segno. Non è contento di farlo. I tre soldati urlano ai Paul-ik-iani di fermarsi. Costantino si avvicina con il cavallo a Marciano. Abbassa l’arco, si piega verso di lui e gli sibila «Dì al tuo padrone che, se qualcosa succede in questo paese al parroco o alla chiesa, sarà la sua casa la prima a bruciare». Arrivano di corsa due contadini a mettersi a protezione della
“
Arriveranno i Paul-ik-iani veri, quelli che credono veramente che Dio non tollera si facciano immagini di se stesso chiesa. Costringono l’uomo con il martello a scendere dalla scala e gli altri due a portarla via. Altri paesani corrono, urlando da lontano per far sentire che ci sono anche loro. Agitano in alto zappe e falcetti. Marciano capisce che la partita, per il momento, è persa. E ordina ai suoi di portare la folla fuori dal villaggio «È un altro il nostro obiettivo. Andiamocene!». Urlando, il gruppo dei prezzolati Paul-ik-iani si allontana, minacciando di tornare. Prima o poi, arriveranno i Paulik-iani veri, quelli che credono veramente che Dio non tollera che si facciano immagini di se stesso. E sarà più dura.
Aspromonte settentrionale
inAspromonte Giugno 2014
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Il sistema calabrese, le sue regole e il “bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”
CALABRIA
FRA TRUCCHI E MAGIE di GIOACCHINI CRIACO
N
San Roberto. Giovani aspromontani in “movimento”
GENERAZIONE
A
mare la propria terra e non voler scappare da essa possono essere considerati sentimenti ripudianti? Questo è l’interrogativo che i ragazzi del movimento Generazione Aut.Aut si sono posti in una serie di dibattiti dai quali è emersa a gran voce la volontà di resistere e di lottare per una Calabria migliore. Gran parte dei ragazzi completano la loro formazione nelle scuole e nelle università del meridione per poi “scappare” verso fittizi orizzonti del settentrione o addirittura europei. Così non è per i giovani del movimento Generazione Aut.Aut i quali non accettando l’idea di dover utilizzare le proprie competenze professionali, sociali e politiche in altri luoghi, lottano
AUT.AUT per poter rimanere in quella Calabria che troppo spesso sbatte le porte in faccia alla meritocrazia spalancando i portoni ai giovani prediletti dai vari e svariati partiti politici. Questi ragazzi non urlano, non inneggiano alla distruzione di tutto ciò che c’è ma sussurrano la loro volontà di pretendere una Calabria migliore, una terra che senza le emigrazioni sarebbe stata decisamente più ricca e più produttiva. A differenza dei loro coetanei della Padania, essi rivendicano il diritto di vivere in uno stato che possa garantire a tutti i suoi cittadini uguali diritti e soprattutto stesse opportunità sia di lavoro che di vita sociale. Nel giorno della loro presentazione al grande pubblico hanno sottoli-
neato che i calabresi non possono più ritenersi semplici residenti di una terra geograficamente ritenuta a sud dell’Italia bensì devono sentirsi cittadini italiani e soprattutto cittadini europei. Ed è qui, in questa Europa dei popoli che si gioca il futuro di un continente, che mira a diventare centro nevralgico della nuova geografia mondiale. Tre di questi ragazzi, Angelo Vizza, Claudio Megale e Salvatore Penna hanno iniziato a lavorare per questo processo dettando le loro linee programmatiche dall’interno dell’Amministrazione comunale di cui fanno parte. Dal territorio devono iniziare e devono prendere forma le idee attraverso le quali realizzare quel sogno chiamato sviluppo, occupazione, turismo, ricchezza.
on fermatevi alla banalità del titolo con un senso d’irritazione, o addirittura di disgusto; pensando di trovarvi davanti al solito pezzo calabro-orgoglioso che rivendica la grandezza della nostra terra elencandovene le bellezze marittime, quelle montane e persino dei paesaggi a mezzacosta. O che vi snoccioli i siti archeologici, vi citi i suoi figli illustri e rispolveri le glorie passate. Non che tutto questo non vi sia. Fossimo una terra normale vi sarebbero un sacco di cose per cui andare fieri; pregi che ci ritroviamo, comunque, senza un nostro apporto. É delle magie dei calabresi che vi voglio parlare o meglio dei loro trucchi che il termine mago può anche avere elementi di nobiltà. Illusionisti, prestigiatori sono parole più appropriate per i professionisti dell’inganno, ma forse anche queste sono eccessive per descrivere un buon numero di imbroglioncelli che anima, per modo di dire, la Calabria. Non sono la maggioranza ma nel silenzio degli altri appaiono tali. Per dirsi la verità, almeno fra noi; tra i tanti stereotipi che ci siamo costruiti o abbiamo lasciato ci cucissero addosso, ci sono pecche vere che hanno tante giustificazioni per il modo in cui la Calabria è stata governata negli ultimi secoli, ma che non ci assolvono dal dovere di provare a cambiare le cose. Ed è alla parola cambiamento che arrivano i guai, perché il cambiamento in molti lo professano a trucco. La nostra non è una terra da grandi poteri o ricchezze immense è un posto di poteri piccolissimi o piccoli e di rendite minuscole; in mano alla stessa gente da lungo tempo. Danari e cariche di cui nessuno si vuol privare fosse pure per condividerle col bene comune. Chi ha una posizione di vantaggio se la tiene e chi arrivando dal basso conquista qualche prebenda si adegua immediatamente al sistema, abbraccia i nuovi fratelli scordandosi dei parenti dei tempi grami. E se ai piani rialzati si arrivasse per meriti, il sistema anche se non condivisibile sarebbe comprensibile. Il sole bacia sempre i calabresi più furbi, poche volte riscalda quelli più bravi. E il sistema della Calabria
non differisce, se non per dimensioni, da quello che è il sistema Occidentale che ricomprende in se gli egoismi e le furbizie locali. La peculiarità del sistema calabrese sta nel fatto che alla testa dei moti di cambiamento si piazzano, in numero rilevante, i potentucoli e i novizi del potere, gli agiati e gli ex peones che si inventano magie di rinnovamento e di emancipazione che si rivelano solo trucchi per immobilizzare tutto. E questa che è la regola generale in tutta la Calabria, diventa ferrea e assume caratteristiche medievali, finite le Serre e iniziate le selve aspromontane. In provincia di Reggio i secoli nuovi non sono mai arrivati, ricchi e potenti rimangono sempre gli stessi e le aggiunte plebee si omologano a velocità elevate. E nulla cambia perché niente può mutare. Tutto resta fermo nella politica, nelle professioni, nelle istituzioni, nella cultura, nell’informazione. La tavola ha i posti numerati; chi è senza invito o si arrangia o se ne va. E visto lo stato catatonico dei meno abbienti, dei poco ammanicati e dei fessi; il mutamento è ancora lontano da venire. Così l’asino che si lascia mettere il basto deve portar pazienza e trasportare la soma. Quello che non è giusto è l’inganno. Da noi non si cambia perché chi ha un potere, qualunque esso sia, lo tiene stretto e lo utilizza per se e per i suoi; così chi ha qualche censo. E chi ha un ruolo, lo merita o meno, non lo molla. Da noi non si cambia perché chi sta un po’ più in alto a quelli che vogliono salire molla solo calci sui denti. Da noi non si cambia perché i buoni si sono autoeletti tali e per i cattivi o presunti tali non esiste redenzione. E pazienza tutto, ma la si smetta almeno con i trucchi. L’irrisione diventa un carico troppo pesante anche per i ciuchi che messi alle strette un calcio lo potrebbero rifilare a chiunque. Lo si dica chiaro: è chi non ha un lavoro, un servizio, una speranza.. è chi sta male che vuol cambiare; chi ha uno scranno, un ruolo, attici o anche mezzanini fa di tutto per opporsi al cambiamento, con in più l’arroganza di proporsene quale campione.
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Tra i boschi d’Aspromonte
inAspromonte Giugno 2014
INSIDIOSI La vita dei serpenti e il difficile rapporto con l’uomo
IN
APPARENZA
«Le bisce d’acqua, numerose in Aspromonte, sono innocue per le persone e per gli animali domestici, in quanto prive di veleno»
S
di LEO CRIACO
ul nostro pianeta ogni anno i serpenti causano migliaia di vittime. In natura esistono circa tremila specie, un gran numero (circa mille) uccide le persone e gli animali (prede) inoculando il veleno: altre specie (pitoni, boa e anaconda) prive di veleno soffocano le loro vittime stritolandole. FRA I SERPENTI velenosi i più temibili sono: i serpenti a sonagli, i mamba, i cobra e le vipere. Il veleno dei serpenti viene utilizzato per produrre molti farmaci utili alla salute dell’uomo, in particolare alcuni prodotti coagulanti e analgesici (antidolorifici). Hanno dimensioni diverse a seconda della specie: i più piccoli raggiungono a malapena i 10 centimetri (serpenti scavatori), i più grandi (anaconda) arrivano e certe volte superano i 10 metri di lunghezza e i 100 chilogrammi di peso. Occupano quasi tutti gli ambienti presenti sulla terra: si trovano nei deserti, nelle savane, nelle foreste tropicali, nei corsi d’acqua, nelle pianure e nelle zone collinari e montagnose. In diversi continenti, alcune popolazioni consumano con gusto carne di serpente; la più ricercata e apprezzata è quella del boa. NEI TERRITORI aspromontani gli unici serpenti potenzialmente pericolosi per l’uomo sono le vipere. La più diffusa è la vipera comune (vipera aspis), vive e si riproduce nella macchia mediterranea, nei boschi, nelle zone pietrose, nelle colline e in montagna fino alle sommità. È poco
aggressiva e tende ad allontanarsi dall’uomo, reagisce solamente se molestata o calpestata. In Aspromonte i serpenti più numerosi sono le bisce d’acqua; appartengono alla famiglia dei colubridi e sono: il biacco, la natrice dal collare e la natrice tassellata. Prima di passare ad una breve descrizione di questi rettili, ricordiamo che sono innocui per l’uomo e per gli animali domestici in quanto privi di veleno; vivono e cacciano dentro o in prossimità dei corsi d’acqua e sono molto importanti per l’ecosistema in quanto il loro ruolo di predatori, ma anche di preda (principalmente dei rapaci diurni) è parte integrante della catena alimentare. Per questo motivo è opportuno non uccidere questi animali utili alla natura e quindi all’uomo. TRA LE BISCE quella che incute più paura a chi la incontra e non la conosce è il biacco (coluber viridiflavus) sia per le sue dimensioni (può arrivare a due e più metri di lunghezza) sia perché in caso di pericolo, sibilando, si alza in posizione verticale fingendo di attaccare. Il biacco (nome locale: scurzuni nigru) ha la testa piccola e ovale, il colore varia da nero macchiata di giallo a nero lucente; la parte inferiore è sempre giallo avorio. Si ciba di topi, arvicole, piccoli anfibi, lucertole, grossi insetti e uccelli. Al contrario delle altre due bisce, caccia senza entrare in acqua e spesso si allontana dagli ambienti acquatici e per questo motivo frequentemente è vittima delle auto; alcune volte invade
anche i giardini delle case. La natrice dal collare (natrix natrix) caccia dentro e fuori dall’acqua, vive negli stagni e lungo le rive delle fiumare, raramente si sposta nelle campagne e nei boschi, quasi mai si avvicina ai centri abitati. La biscia dal collare viene così chiamata per la presenza di due macchie chiare sul collo, seguite da due macchie scure. Il colore del corpo normalmente è grigio macchiettato di nero. È molto più corta del biacco e può raggiungere e superare il metro di lunghezza. LA NATRICE dal collare (nome locale: lafiti) caccia piccoli pesci, anfibi, piccoli mammiferi (talpe, topi e arvicole) e nidiacei di uccelli. Quando viene attaccata si difende dagli aggressori (cani, volpi, rapaci e ricci) secernendo dalle ghiandole anali una sostanza repellente. La natrice tassellata (natrix tassellata) caccia e vive dentro l’acqua che abbandona raramente e per poco tempo. Rimane per ore immersa in attesa di sferrare attacchi contro piccoli pesci, girini e rane. Esce dall’acqua per accoppiarsi, per deporre le uova, per consumare le prede. Ha la testa piccola, piatta e arrotondata, il colore del corpo va dal grigio chiaro al grigio bruno con molte macchie scure. È lunga circa la metà del biacco e anch’essa, se attaccata, secerne un liquido puzzolente. Come le altre bisce con l’arrivo dei primi freddi autunnali si ritira negli anfratti, sotto le radici degli alberi e nelle tane abbandonate dai topi e va in letargo.
Anche Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, legge in Aspromonte. É stato immortalato proprio a ridosso di queste ultime elezione europee. La cosa, è evidente, gli ha portato fortuna... (Foto di Leo Criaco)
Tra i boschi d’Aspromonte
inAspromonte Giugno 2014
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M
Montagne
Le Serre Nella foto a sinistra il biacco, fotografato da Leo Criaco nei pressi del fiume Aposcipo (Aspromonte orientale). In alto un particolare del biacco (foto di Leo Criaco). Sotto una natrice dal collare.
LA BIODINAMICA di FRANCESCO TASSONE
I
n biodinamica l’azienda agricola è intesa come un organismo che si evolve grazie ai principi di sostenibilità ambientale; pertanto la fertilità del suolo e la biodiversità vengono preservate riducendo l’apporto di prodotti esterni, come ad esempio pesticidi e fertilizzanti sintetici, e ottimizzando l’impiego delle risorse aziendali. Oltre al recupero delle pratiche tradizionali quali il sovescio e la rotazione delle colture, l’agricoltura biodinamica si basa sull’impiego di una serie di preparati come il cornoletame, il comosilice, utilizzati in dosi omeopatiche.
Il video dell’avvistamento dell’aquila reale sarà consultabile on line sul sito inaspromonte.it a partire dal 20 giugno 2014
S
econdo la scienza solo poche coppie di aquile reali si trovano e nidificano in Italia (sulle Alpi e in Sicilia). É una creatura maestosa, furba, capace di trarre in inganno anche gli studiosi più esperti. E un giorno, mentre percorrevo il sentiero monte Perre - casello di Canovai, sul costone di puntone Galera, mi imbatto in una creatura che pareva
LA SIGNORA DEL CIELO un essere mitologico. Stava lì, ferma, a guardarmi: ero di fronte alla signora del cielo, l’aquila per eccellenza. Cerco il telefono, di fretta, per farle un filmato. Pochi secondi, poi apre le ali e vola via. Probabile che, al mattino presto, percorra sempre quello stesso tratto: la linea d’aria che collega il fiume Butramo-Bonamico con l’Aposcipo-La Verde. In tanti non
credono alla sua presenza in Aspromonte sostenendo che, qui, si trovi solo l’aquila del Bonelli; ma quasi ogni giorno la “signora” si fa vedere, come per urlare che l’Aspromonte è il suo territorio. Il filmato che testimonia quanto scritto è stato concesso in esclusiva ai ragazzi della testata in Aspromonte, amanti e cultori della montagna. Rocco Mollace
I PRINCIPI DEL METODO biodinamico si sono diffusi nel corso degli anni, favorendo lo sviluppo di più di 4.200 aziende agricole biodinamiche in oltre 40 Paesi del mondo. Più di 128.000 ettari sono certificati secondo le norme internazionali della Demeter, l’associazione di agricoltori biodinamici fondata nel 1928 allo scopo di mantenere degli standard produttivi sia a livello agricolo, che nei processi di trasformazione delle materie prime. In Italia, come del resto in molti altri Paesi del mondo, si è assistito negli ultimi anni ad un notevole sviluppo delle coltivazioni viticole biologiche e più recentemente di quelle biodinamiche. Tuttavia, gli studi scientifici sulla composizione chimica e le caratteristiche sensoriali di uve e vini ottenuti con i metodi biologico e biodinamico, nonché sulla suscettibilità della vite a patogeni e parassiti, sono ancora piuttosto scarsi e hanno bisogno di ulteriori approfondimenti. A TAL PROPOSITO, per soddisfare la crescente domanda di informazione tecnico-scientifica relativa agli effetti dei preparati biodinamici sulla vite, l’Università di Bologna ha avviato una specifica ricerca: il progetto Tecniche colturali in viticoltura biologica e biodinamica. Lo scopo della ricerca è quello di ottenere informazioni scientifiche ben interpretabili a seguito dell’applicazione di metodologie sperimentali adeguate. Le attività, dirette a sviluppare tecniche colturali sostenibili per migliorare la qualità e la salubrità delle uve e del vino.
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Tra i boschi d’Aspromonte
inAspromonte Giugno 2014
Notizie dal Parco... Un progetto per i pastori
I
l dialogo tra Parco e pastori prosegue senza sosta, con l’Ente che vuole coinvolgere nelle proprie attività i soggetti che animano più da vicino i luoghi dell’Aspromonte, “i guardiani del Parco” come li ha definiti il Presidente Giuseppe Bombino nel corso della conferenza stampa svoltasi a Reggio Calabria alla presenza del direttore Tommaso Tedesco e del responsabile Servizio tecnico e delle Biodiversità del Parco Antonino Siclari. L’occasione è stata importante per illustrare le fasi propedeutiche (risultati avviso pubblico) ad
in f o
un progetto più ampio e che consentirà di «restituire dignità professionale ed economica ai pastori» ha spiegato Bombino. Progetti che camminano lungo i luoghi della storia, della cultura, nel solco delle più antiche tradizioni. L’obiettivo che l’Ente Parco si propone è duplice: da un lato, il “progressivo recupero dell’antico rapporto uomo-natura e dall’altro, la restituzione della dignità professionale ed economica ad una figura, quella del pastore, troppo spesso relegata ad un ruolo sociale del tutto marginale e poco gratificata dal punto di
vista monetario”. Attraverso specifici corsi di formazione che il progetto prevede di attivare, inoltre, verrà fornita un’occasione concreta per accostarsi alla figura professionale del pastore o rafforzare le competenze di coloro che già operano nel settore. Con questi nuovi progetti, strettamente integrati con le altre attività poste in essere dall’Ente, il Parco vuole proporsi come opportunità concreta per il territorio e per lo sviluppo delle comunità aspromontane. ufficio stampa Ente Parco
Parco Nazionale dell’Aspromonte Via Aurora, 1 – c.a.p. 89057 Gambarie di S.Stefano in Aspromonte (RC) Tel. +39 0965 743 060 Fax +39 0965 743 026 PEC: epna@pec.parcoaspromonte.gov.it E-mail: info.posta@parcoaspromonte.gov.it
BANDI E CONCORSI
- Manifestazione d’interesse per l’iniziativa Adotta un sentiero del Parco (in pubblicazione dal 09-06-2014 al 25-06-2014) - Avviso pubblico per la concessione di contributi per lo svolgimento di attività compatibili con le finalità del Parco - anno 2014 (in pubblicazione dal 06-06-2014 al 23-06-2014) - Bando di gara procedura aperta per l’affidamento del servizio di maneggio e custodia di n. 5 equidi del parco nazionale dell’Aspromonte (in pubblicazione dal 06-06-2014 al 21-06-2014) - Bando per la concessione di contributi a sostegno del turismo scolastico e del turismo sociale rivolto ad anziani e diversamente abili nel Parco nazionale dell’Aspromonte (in pubblicazione dal 28-10-2013 al 30-09-2014) - Avviso pubblico per la nomina dell'organismo indipendente di valutazione (OIV) in composizione monocratica dell'ente Parco nazionale dell'Aspromonte (in pubblicazione dal 29-05-2014 al 18-06-2014)
DECRETO DEL PRESIDENTE n. 8 del 07/11/2013 OGGETTO: Concessione finanziamenti ai comuni del Parco per interventi di promozione economica e sociale Comune
Finanziamento (euro)
Africo
96.055,00
Antonimina
80.000,00
Ripristino strada in pietra Africo vecchio-Casalinuovo e realizzazione di una passerella in legno per l’attraversamento del vallone di Casalinuvo Ripristino sentiero di accessp alla casa natia di Rossella Staltari in località Cacciagrande
Bova
70.000,00
Allestimento del museo il lingua grecanica, Gherard Rohlfs
Canolo
70.000,00
Installazione lampioni fotovoltaici a led per centro abitato
Cardeto
70.000,00
Il sentiero della memoria
Careri
70.000,00
Adeguamento della rete delle fontane pubbliche nell’antico centro abitato di Natile vecchio
Ciminà
71.880,00
Fornitura e posa in opera di corpi illuminanti a led
Cittanova
20.000,00
Interventi per mobilità sostenibile lungo la dorsale dello Zomaro
Condofuri
70.000,00
Gerace
20.000,00
Mammola
114.943,00
Molochio
70.000,00
Allestimento Museo archeologico della Vallata della Fiumara dell’Amendolea Collocazione corpi illuminanti fotovoltaici a led nel territorio comunale Recupero con bonifica della copertura dell’eremo di San Nicodemo al bosco Recupero rifugio “ex casa forestale”
S. Lorenzo
70.000,00
Sistema di videosorveglianza e telerilevamento boschi per AIB
Staiti
70.000,00
Percorso dei monasteri bizantini
Oggetto finanziamento
Nella foto la conferenza dell’Ente Parco a Reggio Calabria
DELIBERA DEL PRESIDENTE n. 7 del 12/05/2014 OGGETTO: Concessione finanziamenti ai comuni del Parco per interventi di promozione economica e sociale Comune
Finanziamento (euro)
Condofuri
7.320,00
Cosoleto
30.000,00
Integrazione allestimento del museo archeologico della valle dell’Amendolea con la realizzazione della “Carta archeologica georeferenziata” Costituzione rete dei musei dei comuni del Parco. Riallestimento museo delle carrozze
Delianuova
70.000,00
Riqualificazione percorso naturalistico in loc. Carmelia
Gerace
30.000,00
Gerace
15.000,00
Oggetto finanziamento
Platì
40.000,00
Costituzione rete dei musei dei comuni del Parco. Allestimento sezione del museo civico archeologico nella chiesa Annunziatella Riqualificazione paesaggistica delle murazioni esterne al Centro storico Riqualificazione paesaggistica ambientali della zona della battaglia dello Zillastro Costituzione rete dei musei dei comuni del Parco. Museo civico archeologico di località Palazzo Riqualificazione pubblica illuminazione del Centro storico con impianti a risparmio energetico
Roghudi
100.000,00
Ripristino delle vie di accesso ai centri storici del parco
Samo
70.000,00
Sant’Agata del Bianco
Riqualificazione pubblica illuminazione del Centro storico con lampade a led
85.000,00
Realizzazione di un punto base del Parco
Santa Cristina d’Aspromonte
70.000,00
Oppido Mamertina Oppido Mamertina
30.000,00 70.000,00
129.665,00
Riqualificazione del percorso di collegamento delle sorgenti con ripristino delle fontane (località Trono,Tripodi, Recanati e Camera di Pasquale) Realizzazione di una altana sul serbatoio dell’acquedotto comunale
70.000,00
Allestimento dell’ostello comunale
60.000,00
Riqualificazione paesaggistica dell’area attigua al Castello
San Luca
70.000,00
San Roberto
70.000,00
Santo Stefano in Aspromonte
70.000,00
Scido
100.000,00
Scilla
71.156,00
Sinopoli
107.000,00
Riqualificazione ambientale con bosco di farnetti e lecci dell’area esterna al Centro visita di Casa Fera Percorso naturalistico e valorizzazione del principale punto di osservazione dell’avifauna migratoria denominato “passo del Falco” Efficientamento di impianti ed attrezzature per il risparmio energetico e sviluppo di nuovi percorsi turistico-ambientali Sistemazione della rete delle fontane e abbeveratoi pubblici con ripristino degli accessi Sviluppo di una rete di servizi informativi e di accesso per il turismo naturalistico e riqualificazione del rifugio di Pidima Riqualificazione area sosta in località Tabaccari, adiacente sentiero n° 122, e realizzazione altana per bird watching e osservazione avifauna migratoria in località S.Stefano
Varapodio
70.000,00
Sant’Eufemia d’Aspromonte San Giorgio Morgeto San Giorgio Morgeto
Sistema di spazi urbani aperti lungo la cintura del parco
Tra i boschi d’Aspromonte
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inAspromonte
escursioni
Giugno 2014
In cammino con l’associazione... Gente In Aspromonte Certosa di Serra San Bruno
29 giugno
info
Associazione escursionistica Gente in Aspromonte via Fontanella, 2 89030 Careri (RC) Tel. 348 8134091
www.genteinaspromonte.it info@genteinaspromonte.it
Tempo: ore 5.30 Dislivello: 190 slm 550 Difficoltà: E. Escursionistico Località: San Nicola Comuni int.: Caulonia
Sant’Ilarione
I
l percorso, poco agevole e raramente frequentato, permette di conoscere uno degli angoli più belli del territorio. Dopo aver lasciato il vecchio borgo di San Nicola, offre interessanti scorci sull’Allaro. A ridosso del quale, su uno sperone di roccia, sorge l’incantevole eremo di Santo Ilarione Abate e il fantastico borgo di Salincriti.
13 luglio
Tempo: ore 6.30 Dislivello: 1020 slm 825 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Mongiana Comuni int.: Mongiana - Serra San Bruno
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Certosa
n percorso adagiato sulla catena montuosa delle Serre che si sviluppa tra Mongiana e la Certosa di Serra San Bruno. A questa altezza spiccano gli abeti bianchi che è la specie dominante delle Serre e i faggi che si mescolano con i castagni secolari. Il sottobosco è ricco di un’infinita varietà di piante officinali.
Gruppo Escursionisti d’Aspromonte 4-6 luglio
29 giugno - 4 luglio trekking
cultura e territorio
Gambarie
Il sentiero del Brigante Il FAI in Aspromonte
N
el luglio del 1991, cinquanta escursionisti, a piedi e a cavallo, sono stati protagonisti di un indimenticabile viaggio attraverso le Serre e l’Aspromonte. Hanno percorso il “Sentiero del Brigante”, l’itinerario per escursionisti che il GEA aveva individuato e dotato di segnavia rosso-bianco-rosso negli anni precedenti. Filippo Veltri, corrispondente del Sole 24 Ore, così scriveva il 10 luglio del 1991: “un suggestivo asse... che abbraccia una zona potenzialmente enorme dal punto di vista turistico, visti i connotati assolutamente nuovi della montagna aspromontana”. C’è da dire che il territorio, in tutte le sue componenti, pubbliche e private, non è riuscito a cogliere il senso profondo di quell’iniziativa che aveva lo scopo di dimostrare che l’Aspromonte, a buon diritto, può aspirare ad essere l’ultima frontiera dell’escursionismo continentale. Dopo oltre venti anni, con un contesto sociale che appare più maturo e propenso al cambiamento, con l’intervenuta istituzione del PNA e di quello regionale delle Serre, con l’attenzione di Amministrazioni locali e di quella provinciale, il GEA ripropone il viaggio a piedi tra le Serre e l’Aspromonte.
I
l FAI, delegazione di Reggio Calabria, ha scelto il Parco Nazionale dell’Aspromonte per la manifestazione “il FAI nei Parchi”. Sono previste escursioni, visite guidate, incontri e dibattiti.
17-20 luglio
trekking a cavallo
Il sentiero del Brigante
I
Passo del lupo (monte Perre)
l tracciato non presenta particolari difficoltà o pericoli. Può essere percorso a piedi, a cavallo e in mountain bike, e si può accedere al sentiero da più punti, così che non è necessario recarsi a Serra San Bruno, Stilo o Gambarie per percorrerne uno o più tratti. Un numeroso gruppo di cavalieri lo percorrerà da Gambarie a Stilo al fine di definire quali e dove dovranno essere create le strutture dedicate per rendere l’itinerario una stabile infrastruttura per il turismo equestre.
o G. E. A. infGruppo Escursionisti
d’Aspromonte via Castello, 2 89127 Reggio Calabria Tel. 0965 332822 www.gea-aspromonte.it info@gea-aspromonte.it
Club Alpino Italiano 22 giugno
22 giugno
Sicurezza in montagna e legalità (PnA) E. Miriello con CNSAS e SAGF E (Escursionistico)
i tesori di Seminara e Palmi M. Monteleone G. Gioffrè con Alpinismo giovanile T
Casa del Principe e Zomaro S. Cannavò - D. Fortugno con Alpinismo giovanile T
Serro Cerasia - forgiarelle - Palmarello A. Ciulla E (Escursionistico)
6 luglio
Appuntamenti delle Alte Quote prima del Cervino
7 e 8 giugno: Monte Alpi in Basilicata, conduce Peppe Romeo; 21 e 22 giugno, tra sacro e profano: visita di Papa Francesco a Cassano sullo Jonio e risalita del massiccio del Pollino, in collaborazione con Carla Primavera e il Cai di Castrovillari; 4-6 luglio, alba dal Gran Sasso: notturna sulla cima più alta degli appennini, conduce Alberto Mastrangelo (island peak in Himalaya) e tentativo verso l’Aconcagua (Ande Argentine) 9 e 10 luglio: doppia traversata sommitale dell’Etna, referente Peppe Marino.
13 luglio
26 giugno - 6 luglio
XV sett. nazionale dell’escursionismo Cadore e Conca d’Ampezzo C/T/E (Turistica/Escursionistica)
Comunicazioni CAIREGGIO
*Il programma del Cervino si svolgerà a cavallo del weekend del 23 e 24 agosto; vi preghiamo di prenotarvi con grande anticipo alle escursioni programmate al fine di procedere per tempo agli adempimenti assicurativi, sia per i soci, che per i non soci. Ogni giovedì precedente gli organizzatori saranno in sede per tutti i dettagli operativi. info Peppe Marino 339.8268231 peppe@marinocostruzionisas.it *19 giugno ore 21.00 nella sede del CAI Reggio, conferenza sul tema Il meteo in montagna tenuta da Roberto Lombi, agronomo.
Cascate Forgiarelle
info
C.A.I. - Club Alpino Italiano Sezione Aspromonte via San Francesco da Paola, 106 89127 Reggio Calabria Tel. 333 5354074 www.caireggio.it Aperto il giovedì dalle ore 21.00
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www.zoomsud.it
inAspromonte Giugno 2014
direttore Aldo Varano
FATTI E OPINIONI
LA GALERA, TROPPO FACILE di ANTONIO CALABRÓ
IL RACCONTO
IL MIO AMICO ROCCO
Perché non mi hai invitato al matrimonio di tua figlia? Speravo che mi rispondesse male, avrebbe potuto farlo. Ma non lo fece, cercò di farfugliare qualcosa di incomprensibile... di DOMENICO LUPPINO
V
eniva puntuale ogni anno a chiedermi la stessa cortesia. C’era un piccolo uliveto di proprietà della mia famiglia, che noi chiamavamo i vintiquattru pedi (ventiquattro alberi d’ulivo). Rocco era confinante con il suo altrettanto piccolo uliveto e pareva naturale, sia a lui che a me, che i frutti del mio piccolo uliveto li raccogliesse lui. Era troppo disagevole per me condurre sul posto operai, mezzi ed attrezzature per nemmeno un’ora di lavoro. Meglio ne avesse bene lui, come prima di lui ne aveva avuto bene suo padre. Erano persone oneste e laboriose. Lo erano sempre stati, Rocco e la sua famiglia. LA SUA VISITA, ogni anno, era più una formalità, sia per me che per lui, che non altro. Dal canto mio era anche un’occasione piacevole. Gira e rigira, prima di arrivare al dunque della visita, si finiva per parlare di politica. Ancora di più a rimpiangere il partito che non esisteva più. Qua e là, Rocco non mancava di accennare a qualche gnuri (signore) del passato e faceva l’espressione compiaciuta nel ricordare quante volte li avevano bastonati alle amministrative. Quasi sempre concludeva il suo discorso con una frase o una parabola che aveva detto il prof. Misitano. Mi piaceva ascoltarlo, perché mi aiutava a compiere delle acrobazie malinconiche, immaginando una realtà paesana migliore che, forse, non c’era mai stata. Dopo avere ricevuto il mio formale sì, Rocco se ne andava. Ed io sapevo che avrei potuto rivederlo per Natale o per Pasqua, quando mi avrebbe portato un regalo. NON SAPEVO nemmeno che la figlia di Rocco si fosse fidanzata. Lo seppi quando era pronta, assieme al suo promesso sposo, per andare all’altare. Era il periodo in cui lo Stato, per scaricarsi la coscienza, mi aveva dotato di due uomini di scorta. Per quindici giorni a testa, una volta i ca-
rabinieri e una volta la polizia. Non ero più sindaco, ma per un certo periodo continuarono a darmi una scorta. Stavo tornando chissà da dove ed ero fermo in attesa che si aprisse il cancello elettrico delle mia azienda. Quando, lungo la strada, vedo venire Rocco e un’altra persona. Era insolito vedere Rocco camminare per le strade del paese, era insolito a quell’ora ed era altrettanto insolito vederlo in compagnia dell’altro. Notai, però, che entrambi avevano in mano un mazzo di buste da lettere in mano. Capii immediatamente che erano le buste che si usano per i matrimoni. Non ci fu bisogno d’altro, capii di cosa si trattasse. I due, che per età e per mancanza di parentela non potevano essere che i sumpesseri (consuoceri ), stavano facendo il giro dei compaesani per invitarli al prossimo matrimonio. Visto che erano oramai a pochi metri da me, mi attardai prima di entrare con l’auto all’interno dell’azienda. Per me, che come al solito avevo capito poco, era certo che si sarebbero fermati per darmi l’invito. Invece, i due passarono oltre. LE COSE CHE mi colpirono furono più di una. La prima, quella di essere rimasto come un fesso ad aspettare l’invito ad un matrimonio, io che detesto i matrimoni; la seconda, di essermi offeso perché ero stato saltato a piè pari e, dunque, di essermi sentito offeso; la terza, ma non per importanza, di avere visto nel viso di Rocco un’espressione che io non gli avevo mai vista. Passarono accanto alla mia auto, mi salutarono e non aggiunsero altro. Successivamente, mi informai di come era stato il matrimonio della figlia di Rocco, di quante persone del paese erano state invitate e quant’altro. Le notizie che ricevetti confermarono ciò che temevo: non mi avevano invitato deliberatamente. Passò il tempo e mi ero ripromesso
che di questa cosa non ne avrei parlato, tanto meno con Rocco. A dire il vero, speravo che non venisse più a chiedermi nulla. Speravo che quel ghigno che gli avevo visto quel giorno fosse un segno di cambiamento che, di certo, lo avrebbe condotto a non volere più contatti con me. MI SBAGLIAVO! Come ogni anno Rocco si presentò. La cosa che più mi dava fastidio è che me lo ritrovai davanti con gli stessi modi di sempre. Come se quella volta avesse agito sotto l’effetto di una droga. La mia resistenza durò meno di pochi attimi ed a bruciapelo gli chiesi: perché non mi hai invitato al matrimonio di tua figlia? Quello mi guardò un po’ stranito, si fecce rosso in viso e non era il tipo. Speravo che mi rispondesse male, avrebbe potuto farlo. Ma non lo fece, cercò di farfugliare qualcosa di incomprensibile. Dopo essere rimasto impietrito per un certo tempo, raccogliendo le idee e la forza che aveva dentro, mi disse: «Abbiamo avuto una lotta a casa per l’invito da portare a te. Oltre a quello che si dice di te in giro (che sei un infame) che io non ho mai creduto, il timore più grosso era che se tu fossi venuto al matrimonio saresti stato accompagnato dalla scorta dei carabinieri o della polizia». NON RICORDO se la risposta me la ero preparata prima e, ad onor del vero, io non sarei mai andato a quel matrimonio, l’ho già detto, detesto i matrimoni. Di certo avrei mandato un regalo agli sposi. Ma in quel momento il mancato invito di Rocco mi aveva trasformato nel più accanito sostenitore degli sposalizi e risposi: «Se tu hai ritenuto di non volere un amico, come io ritenevo di essere per te, per condividere una giornata di gioia della tua casa, non devi volere nulla da questa persona, nemmeno fosse l’ultimo uomo o l’ultima cosa presente su questa terra».
G.
entrò in galera, per la prima volta, più di trent’anni fa. Si fumava le canne, venne beccato ad un posto di blocco con una certa quantità di marijuana, centomila lire dell’epoca, quindi interrogato e messo sotto chiave per un mese circa. Fu la sua prima permanenza a San Pietro. Era di famiglia molto modesta, e gli avvocati d’ufficio non riuscirono a dimostrare l’uso personale della droga rinvenuta. Rinviato a giudizio, condannato per spaccio con pena sospesa. Quella prima volta lo marchiò più della sua fotografia stampata sul giornale, come si trattasse di Vallanzasca. Il carcere gli aprì la porta della sopravvivenza estrema, della difesa a suon di pugni e schiaffi, del rispetto verso criminali incalliti, delle regole primitive della violenza. G. uscì dal carcere affamato di vendetta. Nulla poteva fargli più paura. NON PASSARONO due anni che ci tornò, questa volta accusato di rissa, aggressione, resistenza e ingiurie a pubblico ufficiale. Un caratterino, G, certo. Ma nella sua mente debole si era insinuata l’idea che i nemici fossero quelli che l’avevano sbattuto in quel luogo infernale. Condannato, scontò primo e secondo reato. Permanenza lunga, in vacanza dietro le sbarre di tanti istituti di pena italiani. Passò l’inferno, è sicuro, in quel periodo. E ne uscì ben deciso a non tornarci mai più. Ma non per un suo pentimento. Il carcere incarognisce, rende furbi, e anche quando piega difficilmente spinge al pentimento. Il carcere dovrebbe rieducare, ma non fu così: G. tornò spesso dietro le sbarre, sempre per reati di piccola entità, ma soprattutto per la sua incapacità a reinserirsi nei circuiti della normalità. PROSSIMO AI cinquant’anni, finalmente libero, G. venne accolto da una comunità dedita al recupero degli sbandati: generosi volontari ancora fiduciosi nell’essere umano. Ma G. viene nuovamente arrestato, ancora per traffico di stupefacenti,
qualche tempo fa. La sua vita ormai è segnata. Eppure a ricordarlo come era, trent’anni fa, nessuno lo avrebbe detto. Esuberante, certo, ma affatto malvagio; anzi di buon cuore, spiritoso e persino romantico. IL CARCERE oggi è una coltivazione in serra di delinquenti e disadattati, un modificatore genetico di personalità, il mondo terribile della forza bruta e delle regole criminali. Sovraffollato, senza pietà e senza speranza, forma nemici dell’umanità, entrati magari con un torto perpetuato da scontare e usciti con mille ingiustizie da vendicare. Il carcere è nemico del consesso umano, è l’ultimo rifugio dell’applicazione della legge, è il buco nero della civiltà, un buco nero necessario, certo, come necessarie sono le fogne, ma resta comunque una perenne fonte di dolore, di crudeltà e di morte dell’individuo. Il carcere non è equo, non è neanche giusto; non è uguale per tutti, distingue tra ricchi e poveri, il carcere è la fiera applicata del pregiudizio, oltre che la messa cantata del grande crimine organizzato. La galera non è una barzelletta; la galera è dura, sporca, terrificante. C’è chi la merita ampiamente, penseranno alcuni; e magari hanno anche ragione; ma ce l’hanno soltanto nel momento in cui ammettono che il loro è un ragionamento ispirato da quel sentimento, decisamente umano, che è la vendetta. TRA GIUSTIZIA e vendetta il carcere annulla le differenze. Il desiderio di vedere soddisfatta la propria bramosia di equilibrio, la fame di sofferenza altrui a parziale sconto della propria, offusca ogni pensiero razionale e la meta, lontana, di contribuire ad una società “giusta”. Pensiamoci tutti, quando esultiamo di fronte ad una condanna alla galera. E al posto di ricordare soltanto chi questa condanna la meriti ampiamente, pensiamo pure a G. entrato in carcere per una ragazzata e il giorno dopo morto per sempre alla vita degli onesti.
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Forse si volle far leva sulla paura della gente, facendo credere che il paese era in dissesto e instabile sotto l’aspetto geologico. Un gioco architettato per far passare come rischiosa la vita nel borgo
L’inchiesta
inAspromonte Giugno 2014
Un falso storico?
maturò, cancellò l’identità dei luoghi cari ai nostri antenati. Brancaleone Superiore non subì questo scempio, per cui oggi è possibile intuire le sue antiche viuzze ed i suoi spiazzi (o larghi) quasi assaporando l’amara sconfitta del tempo, che qui ha snocciolato muri antichissimi, sventrato interi palazzi, pur sopravvissuti a terremoti ed alluvioni davvero importanti.
di CARMINE VERDUCI
D
overoso precisare che Brancaleone Superiore non subì l’abbandono per nessuna alluvione riferita al 1953, in quanto questa non provocò danni ingenti, o tali da rendere il paese “inabitabile”. I danni, come riportano oralmente alcuni anziani (ex abitanti del borgo), si ebbero in modo consistente a valle, dove le fiumare strariparono mettendo in ginocchio l’economia dei campi coltivati a grano, ulivi, e vitigni di cui tutti i brancaleonesi beneficiavano. LA QUESTIONE dello sfollamento dell’abitato è da ricondurre con molta probabilità nell’interesse politico di quel tempo che, in sintonia con gli interessi economici degli Istituti case popolari, fece costruire dei nuclei abitativi (scatole di 20-25mq) in tutto il territorio, certamente per consentire una vita più degna alle famiglie, che vivevano in precarie condizioni igienico sanitarie. Questi nuclei abitativi, all’avanguardia per il periodo e con tutti i servizi necessari ad una vita sana (allaccio idrico e fognario, energia elettrica e predisposizione al gas), crearono purtroppo un disorientamento iniziale per cui vi fu molta resistenza, da parte degli abitanti di Brancaleone, a prendere possesso delle nuove abitazioni. Una sorte che toccò a tanti paesi di montagna, i cui abitanti vennero predisposti sistematicamente dentro le nuove case, rafforzando così il processo di ripopolazione delle zone costiere, sino all’epoca utilizzate a campi coltivati. DA BAMBINO, sono stato messo al corrente di una vicenda alquanto strana, che riguardava l’abbandono di Brancaleone. Gli ultimi abitanti, rimasti nel paese vecchio con le famiglie ed i bambini, che ormai per andare a scuola facevano km a piedi, vennero sollecitati ad abbandonare il borgo, con opere di convincimento verbale e persuasione che anno dopo anno li resero sempre più deboli. Si racconta che una notte alcuni ignoti scavarono delle buche nella piazzetta Vittorio Emanuele (o piazza del Ponte) portando alla luce le antiche cisterne poste al di sotto del lastricato di pietra che abbelliva
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Quali furono le cause che spinsero gli aspromontani a lasciare i paesi nell’entroterra? Le alluvioni, certo, le meno rilevanti. Un grande business di gare d’appalto, piuttosto, e delle vere strategie del terrore
LE GROTTE-CHIESE di Brancaleone, uniche in Calabria, sono in gran parte ancora visitabili. Per la loro unicità, tecnici, esperti ed appassionati vengono ogni anno a studiarle, verificando la rarità di tali specie di romitori e grotte-chiese, che di simili se ne trovano solo in Armenia e Cappadocia. Brancaleone Superiore (come piace a noi chiamarlo) è un gioiello della struttura medioevale, che spicca sul colle sacro dominato dal monte pellegrino, dalla particolare conformazione conica. Il paese si trova arroccato interamente a 310 mt s.l.m., e sembra osservare silenzioso ed inerme i suoi figli che ancora credono alla storiella dell’alluvione come causa del suo spopolamento. L’alluvione in sostanza fu solo un pretesto per arricchire i politici locali, le ditte appaltatrici, e si potrebbe persino azzardare la complicità di qualche ‘ndrina locale (cosa comune a tutti i processi di pseudo-urbanizzazione dei paesi), che puntò a creare nuova economia mediante l’attuazione di grandi progetti atti, ufficialmente, a migliorare la vita del popolo nei suoi aspetti sociali e civili.
NEL CONTEMPO, però, questi micro-centri urbani, che arrivarono in epoche più antiche a toccare e superare anche i 1.000 abitanti, subiNella foto un’abitazione di Brancaleone superiore. Foto di Carmine Verduci rono un lento degrado di cui BRANCALEONE Superiore conla piazzetta, erano le antiche cisterne Questi vennero in un certo senso isocomplici furono gli episodi di sciaserva ancora un fascino irreale, ed al scavate nella roccia d’arenaria utilizlati dal resto della civiltà, che piano callaggio. tempo stesso unico nel suo genere. zate probabilmente nel medioevo per piano muoveva i passi sulle coste già Le abitazioni furono depredate di Fu forse grazie all’abbandono che l’approvvigionamento idrico e per la dai primi del ‘900 (teniamo in consiogni bene, non solo dai ladri ma mantenne la sua originalità, salvanconservazione di granaglie e cereali. derazione che l’energia elettrica a anche dai locali, proprietari e non, e dosi così dall’inquietante sovrappoUna forte pressione psicologica che Brancaleone non arrivò mai, se non i materiali riutilizzati per costruire sizione di stili post-moderni che volle far sembrare il paese instabile recentemente nel 2010), per cui gli altri fabbricati nelle campagne circohanno rovinato gran parte dei paesi sotto l’aspetto geologico. abitanti vennero messi nella condistanti. dell’entroterra caUn gioco archizione di scegliere o Lo storico e ricerlabrese. tettato da chi la civiltà e la mocatore Vincenzo De Irriducibili montanari Sciacalli di antichità Ne esistono aveva interessi, dernizzazione o Angelis ritiene che: molti esempi, tri- Le abitazioni furono che con il decreto Le ultime famiglie l’isolamento e l’ar«in realtà convesti testimonianze depredate di ogni municipale, che retratezza. niva a tutti scendere rimasero, sino ai primi di un insano sentenziò già da Queste vicende a valle, e tutti lo gusto “posticcio bene, non solo dai prima l’inagibi- anni ‘60, per un senso certo accomunano vollero senza nesed approssima- ladri ma anche dai lità di Branca- di attaccamento al tutti gli antichi censuna costrizione. tivo”. leone, gettarono tri della Locride, Ogni famiglia sucQuando la mo- locali, proprietari e le basi per il luogo d’origine, o per dell’Area grecanica cessivamente ha dernizzazione, i non, e i materiali “vero” sfolla- testardaggine. e di tutto il meriabbandonato totalnuovi materiali di usati nelle campagne mento dell’abidione d’Italia, ma la mente l'abitazione costruzione e le tato (non certo Tipica dell’entroterra storia scritta e trasenza più farvi ritecniche più all’avanguardia arrivaper alcuna alluvione)! scritta sino ad oggi riporta notizie torno e quindi non conservarla rono a contaminare le più antiche poSicuramente le ultime famiglie rimamascherate da altre motivazioni: una quando ancora era in ottime condipolazioni, si ebbe uno sradicamento sero, sino ai primi anni ‘60, per un sorta di “occultamento della verità”. zioni. La stessa cosa sta accadendo a delle tradizioni e delle tecniche di senso di attaccamento al proprio É opportuno, oggi, riflettere su come Ferruzzano, infatti, molti proprietari costruzione, ereditate dagli avi biluogo d’origine, o per testardaggine. e perché questo borgo venne abbandi case ancora in buono stato le zantini e greci. Questo processo, ove Tipica dei popoli dell’entroterra. donanto, se pur gradualmente. hanno abbandonate totalmente».
18 BOVALINO
CORSO SIF DI FLEBOLOGIA
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i svolgerà il 27 ed il 28 giugno a Bovalino, presso l’Hotel Afrodite, il Corso interregionale Sif di Flebologia. Le regioni interessate sono Calabria, Basilicata e Puglia. Presiederà l’evento il dott. Enzo Strati (re-
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Una storia densa di prodezze, di atti eroici, di cultura e di sapere; di leggende e di trionfi. Una storia che vide gli aspromontani affrontare e vincere guerre impossibili
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La nostra storia
inAspromonte
di FRANCESCO MARRAPODI
hissà quante volte i nostri avi si son sentiti gelare il sangue dietro l’arrivo dei Saracini. E quante altre volte i loro figli, sorelle e mogli si son viste portare via. Si era nel medioevo - il rebus più buio della nostra storia - e, caduto l’impero romano d’Occidente, i popoli di questo fascio territoriale, decimati dalle incursioni barbariche e dalla malaria, si videro costretti ad abbandonare le località costiere per erigere nuovi bastioni. E difatti, piccoli borghi, paesotti e grandi centri sorsero su tutta la costa. Si mostravano appollaiati su irti colli, su monti o cocuzzoli, difesi da possenti mura; a un tiro di schioppo dall’Aspromonte, protetti dalla natura e dagli innumerevoli vantaggi che offre.
Giugno 2014
sponsabile Sif per la Regione Calabria) che ci spiega come «questo Congresso, voluto ed organizzato con i colleghi responsabili regionali di Basilicata (dr. Pieroni) e della Puglia (dr. Monte), nasce con l’intenzione, data la grande attualità dei temi trattati, di far capire che l’aggiornamento non deve rivestire carattere di obbligo fine a sé stesso, ma necessità volontaria per la propria esperienza e per il bene dei malati». Il programma prevede che venerdì
27, alle ore 16.00, si inizi con l’iscrizione al Congresso. Seguirà la presentazione dei lavori ed una serie di interventi con professionisti di altissimo livello. Il Congresso si chiuderà sabato 28 giugno con la consegna degli attestati di partecipazione. Insomma una manifestazione di grande interesse, di livello nazionale, che il dott. Enzo Strati presenta nella sua Locride, una terra troppo spesso privata di eventi di tale importanza.
Ruderi del castello di Brancaleone, eretto per contrastare le incursioni saracene
I NOSTRI ANTENATI
CI DIFESERO DALL’ISLAM
Ai tempi delle invasioni saracene, l’Aspromonte diede una straordinaria prova di forza. E le gesta del suo furioso popolo si narrarono per secoli
eroico, affrontando i mori con l’audacia del più impavido dei guerrieri. Insomma, essi non si piegarono alle angherie di questi feroci incursori che, a differenza della Sicilia (dove avevano già solidificato le loro radici) non riuscirono ad assoggettare la Calabria all’islam, cosa che aveNELLE LONTANE campagne, vano tentato per più e più volte. poi, si era invasi da pagliai o da Stando ai fatti, se togliamo la piccoli rifugi costruiti con tetti di fase che va dal 901/909, (breve frasche e pareti di canne e argilla; periodo di dominazione turca e successivamente adibiti a ripari nella provincia reggina) i loro occasionali da contadini e patentativi si stori, e a vere verificarono e proprie di- «I Saraceni, al contrario e f f e t t i v a more durante di quanto avvenne in mente un fiai mesi d’in- Sicilia, non riuscirono sco dal verno quando momento che le forti ma- ad assoggettare la i nostri antereggiate im- Calabria all’islam. nati, come pedivano ai Impresa che tentarono detto poco fa, pirati sara- inutilmente più volte» si batterono ceni di praticon molta più care i mari. Poi arrivava la determinazione dei fratelli siciprimavera e con essa la devasta- liani. Del resto, rovistando nel zione. I nostri progenitori, già loro passato più diretto, non si samartoriati a sangue dalla sferza rebbero potuti sottrarre alla stodella miseria, erano dunque sot- ria. toposti anche a questa dura verità? Effettivamente è così, e, UNA STORIA costellata di proancor quando di suddetta realtà dezze, di atti eroici, di cultura e non rimane un chiaro ricordo, ab- di sapere; di leggende e di trionfi. bracciò un lungo periodo della Una storia che aveva varcato i nostra storia. confini del tempo, per vedere i Tuttavia i calabri seppero resi- nostri antenati erigere enormi stere in modo straordinariamente città, costituire grandi armate,
combattere e vincere le guerre più impossibili. Stiamo parlando del periodo della Magna Grecia e dell’impero romano. La storia più prossima per i nostri avi. Figuriamoci se potevano far loro impressione le scorrerie saracene. Cionondimeno, il problema esisteva e tendeva a trasformarsi in un’enorme piaga sociale. Tuttavia, in questa piccola angusta fetta di terra (allora dominio bizantino) non mancarono gli eroi. E le loro prodezze, seppur cadute nella dimenticanza, contribuirono in gran forma a frenare quella che potremmo benissimo chiamare: l’invasione culturale dei turchi.
PURTROPPO i nostri non erano più guerrieri di professione, - competenze che avevano perso con l’andar dei tempi e con l’avvento di una vita meno irruenta - si trattava, invece, di campagnoli, pastori, artigiani, bottegai; arditi combattenti alle dipendenze di se stessi, privi di cavallo e di armatura, che si battevano con forconi, bastoni e zappe; padri di modeste casate e figli del mondo agreste. E se i loro nomi son caduti nell’oblio, non è perché non si dimostrarono degni dei più valorosi guerrieri, ma perché erano costretti a combattere improvvise guerricciole
di sobborgo. Questi prodi erano, infatti, impegnati a difendere la propria vita e quella dei loro cari, i pochi averi e la loro gretta povertà, ben lungi dagli scontri diretti e di conseguenza dalla bramosia di vittorie e di successive feste di trionfo. Comunque, che la storia voglia riconoscercelo o no, questi arditi individui, che avevano sposato la fede di Cristo, si batterono anche in suo onore e con reale coraggio.
zione storica che ne attesti le prodezze, di certo sappiamo però che la leggenda narra di lui e della sua eroica cacciata dei morisco da Reggio.
SI PROVI ad immaginare dunque quanto difficile poteva essere la realtà presso un territorio quale era allora il nostro; un territorio quasi privo di vie di comunicazione; dove a parte l’orrendo stato d’indigenza in cui riversava la popolazione - un tempo impieE SE OGGI (con tutto rispetto gata soprattutto nel commercio per i mussulmarittimo - la mani) a mez- «Arditi combattenti alle vita si svolzogiorno non dipendenze di se stessi, geva a peci volgiamo privi di cavallo e di riodi e dentro in preghiera il più stretto con il capo armatura, si battevano riserbo delle rivolto verso con forconi e zappe; roccaforti. La Mecca, è padri di modeste casate, Nel nostro lianche per ad figli del mondo agreste» torale, merito loro. esempio, ne Mentre in Romania ci pensava il danno prova i resti di Panduri, temerario Conte Dracula a fre- piccolo centro nel comune di Canare l’invasione ottomana, a reri; o di Precacore, a pochi passi Reggio c’era Ruggieri de Risa dall’attuale Samo; o ancora di (Ruggero di Reggio) che dopo la Brancaleone vecchio, di Bruzconquista della città da parte dei zano, di Staiti. E se solo provasturchi, con una piccola folla di simo ad ascoltare cosa hanno da ardimentosi e con l’appoggio dei dirci, nel silenzio del loro conpochi soldati bizantini, mise a vulso sibilo, i ruderi di questi ferro e fuoco l’insediamento centri messi sotto scacco del mussulmano facendolo capito- tempo, allora capiremmo senza lare. Sfortunatamente, oggi, non grandi sforzi che tipo di vita abbiamo nessuna documenta- toccò ai nostri poveri avi.
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La nostra storia
inAspromonte Giugno 2014
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Casignana, distrutta per sempre la grotta di San Florio. Proprio quella roccia, tra centinaia
I vandali siamo noi, con le camicie stirate e le scarpe lucide. Siamo una specie nuova, che ancora i libri non hanno raccontato. Siamo statici spettatori del nostro futuro, ci lamentiamo e non riusciamo a liberarci dalla nostra vecchia rozzezza. Quando non ci vede nessuno normalmente distruggiamo qualcosa di DOMENICO STRANIERI
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i sono scenari fermi nel tempo, immagini che ognuno conserva nella mente senza sapere se tuttora esistano oppure no. É un fenomeno strano che sottintende la presenza eterna di qualcosa. Ed invece non è così. Poiché, nel momento in cui nulla sembra cambiare, luoghi e memorie si dissolvono o vengono volutamente cancellati. É il caso della grotta di S. Florio (S. Gròlio nel gergo popolare) a Casignana. Essa si trovava su una collina, dalle pareti ripide, che ancora oggi è denominata con il nome del Santo. Le sue rocce si ergono torreggianti davanti al mare tanto che, da Caraffa del Bianco, si può scorgere una particolare angolazione laddove l’altura si mostra come il rudere di un grande castello di pietra. Se invece ci si addentra fra tronchi, spelonche e sassi di ogni misura, quasi adagiate da una mano gigante, non è difficile fantasticare che questo luogo sia stato abitato in epoca primitiva, anche perché le grotte disposte a più piani garantivano un riparo sicuro contro gli animali. Ma facciamo un passo indietro. INTORNO AL XI SEC. sul versante jonico della provincia di Reggio Calabria oltre ai santi del posto (vedi S. Leo ad Africo) ed al fenomeno del monachesimo italo-greco si registra anche una migrazione di monaci dalla Sicilia. A questo periodo è legata la nascita di vari monasteri (molti distrutti nel corso dei secoli) e le leggendarie vite dei santi anacoreti (eremiti). Tra essi, in un lasso di tempo imprecisato, vi era anche S.Florio che, dall’antica Samo (Precacore), si diresse sulla collina che oggi porta il suo nome. Naturalmente non esistevano ancora i paesi di Casignana, Caraffa e Sant’agata del Bianco. Qui il Santo condusse vita ascetica vivendo in solitudine in un antro da lui stesso ricavato nella roccia. Se la ricordano in tanti quella specie di stanza, tra i castagni, con due aperture (soprattutto quella perfettamente squadrata). Gli anziani di Casignana rammentano persino che lì solevano nascondersi durante la seconda Guerra Mondiale quando, in lontananza, udivano il rumore degli aerei e, dunque, il preannuncio di un possibile bombardamento. DI QUESTO LUOGO fa menzione Giuseppe Dieni (Dove nacque Pitagora?, Frama Sud 1976) che, riportando le memorie di V. Tedesco, sostiene che il Santo passò “i suoi giorni nella penitenza, e nella vita contemplativa dentro una grotta da lui stesso incavata nel sasso, che tut-
NOI, COME I BARBARI S. Florio, l’area si trova sopra le abitazioni di Casignana (Foto di Domenico Stranieri)
tora esiste, e ben si conserva”. Ma non solo. Anche Domenico Minuto (Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Storia e Letteratura 1977), Giovanni Musolino (Santi Eremiti italo greci. Grotte e chiese rupestri in Calabria, Rubettino 2002) e Vito Teti (Il senso dei luoghi: memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli 2004) parlano nei loro testi della grotta di San Florio. Teti, ad esempio, sottolinea che “nell’attuale territorio del comune di Casignana sono famose le grotte di San Grolio o di San Florio, il cui culto era attestato a Samo, caverne poco profonde scavate in una grande roccia di tufo in prossimità delle quali permangono rovine e una cap-
pella che attestano la permanenza di monaci italo-greci”.
MA C’É QUALCOSA che nessuno ha finora evidenziato, poiché si dà per certo che questo luogo “sacro” esista ancora. E cioè che la grotta di San Florio è stata completamente cancellata dalla faccia della terra, non c’è più. É stata distrutta dagli spaccapietre, impunemente. Proprio quella roccia tra centinaia di rocce. E non si capisce bene se tutto ciò sia successo durante i lavori per costruire delle muraglie o le varie case del paese. O forse per l’oscura schizofrenia di qualcuno. Sicuramente ha ragione Salvatore Settis (archeologo e storico dell’arte)
quando sostiene che “il paesaggio è il grande malato d’Italia”. Tanto che, in un mix di indifferenza e malcostume, rinneghiamo quotidianamente quella “cultura urbana diffusa che vietava non alla mano, ma al cuore e all’anima di deturpare la bellezza”.
ANZI, LA MUTAZIONE avviene silenziosa attorno a noi laddove, come dicevo all’inizio, tutto sembra non cambiare. Siamo, difatti, abituati alle devastazioni sensazionali, al saccheggio di predatori esterni che arrivano, senza storia né cultura, e aggrediscono le persone e le loro opere. Ed invece, oggi, non dobbiamo più
attendere l’assalto di nessuno perché i barbari siamo noi, con le nostre camicie stirate e le scarpe lucide. Siamo una specie nuova, che ancora i libri non hanno raccontato. Siamo statici spettatori del nostro futuro, ci lamentiamo e non riusciamo a liberarci dalla nostra vecchia rozzezza. Quando non ci vede nessuno normalmente distruggiamo qualcosa. Per di più, amiamo usare espressioni frequenti nei discorsi o negli articoli, come “eravamo la Magna Grecia” oppure “lo dobbiamo alle nuove generazioni”. Proprio mentre il vuoto si sostituisce ai segni della presenza umana ed un mondo si spegne, inesorabilmente, senza aver dato un senso alle sue cose.
Casignana. L’area dove era posizionata, poi distrutta, la grotta di S.Florio (Foto di Domenico Stranieri)
Ricostruzione verosimile di come appariva la grotta di S.Florio prima della sua distruzione (disegno di Laura Garreffa)
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Libri e scrittori
inAspromonte Giugno 2014
L’anno
Alla mia terra. Alla sua paziente attesa...
dei
limoni
I bambini raccoglievano erbe aromatiche e fragole di bosco. Facevano il bagno nella fiumara e frugavano per scovare i nidi dei merli. A sera si raccoglievano intorno a Zio Carmelo per i racconti del mare e delle balene di VINCENZO CARROZZA
L’
anno dei limoni iniziò come conviene per convenzione agli anni, di gennaio. Un gennaio insolitamente mite per le montagne d’Aspromonte. Passato il mese senza freddo, tra la gente della montagna si diffuse la certezza che quello era di sicuro l’anno della fine del mondo. A metà febbraio lo pensavano tutti. Anche gli scettici, che continuavano a prendere in giro chi si faceva ripetuti segni della croce. Stava prevalendo il timore che qualcosa di catastrofico stesse per accadere. Don Calarco dovette cercarsi un aiutante perché le messe in suffragio delle anime morte e, di più, in suffragio delle anime dei vivi erano aumentate a dismisura. Le prenotazioni avevano ormai preso una china inarrestabile, e niente e nessuno pareva potesse fermarle. Anche Don Vincenzo, che veniva dalla parrocchia di Reggio ad aiutare Don Calarco, dovette ammettere che il fenomeno era di una certa portata. Dichiarò infatti che: «Neanche in Vaticano si dicevano tante messe in un solo giorno». UN’IMMORTALE primavera s’impadronì dell’intero anno: piogge abbondanti e frequenti si alternavano a giornate tiepide e luminose in cui il sole scaldava la terra, asciugandola di quella pioggia che era pronta a ricadere per saziare di nuovo la terra. Acqua e sole, in un clima mite, anticiparono la fioritura dei limoni e l’intero loro ciclo di crescita. Dai fiori bianchi e delicati vennero fuori limoni robusti e profumati di un giallo brillante mai visto prima. I raggi del sole si riflettevano sulla buccia dorata dei limoni che, a loro volta, rimandavano quella luce a tutto quello che avevano intorno, esaltandone la presenza e i colori. Così le foglie stesse degli alberi parevano delle stelle in un cielo notturno, e l’erba dei prati pareva il morbido giaciglio degli eroi padroni delle costellazioni. Erano, i limoni, migliaia di pietre preziose sfaccettate seminate per le valli d’Aspromonte. CATA, QUELL’ANNO, non fu chiamata a piangere i morti. Non poté esercitare l’antica arte di fami-
glia. Era una delle ultime prefiche greche che cantava i pregi dei defunti, la loro vita, affinché le gesta del morto fossero ricordate dai vivi. «I vivi tendono a dimenticare presto, molto presto chi non è più, e anche il bene ricevuto; - diceva Cata - allora, bisogna ricordare il bene fatto dal defunto ai parenti». «RICORDARE DAVANTI a tutto il paese, davanti a tanti testimoni prima che il morto sia seppellito, affinché nessuno possa dire menzogne per non mantenere patti o doveri verso la famiglia dell’uomo che non è più. Così si difendono le vedove, così si difendono gli orfani che rimangono soli, quasi sempre, dopo il
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zio, unico medico condotto di quei comuni. Dopo tre mesi, quasi alla fine di marzo, si resero conto della stranezza e si consultarono. «Certo, potrebbe essere un semplice caso» disse il medico rivolto verso Don Calarco mentre si toglieva i paramenti sacri dopo la funzione del primo mattino. «Potrebbe essere un caso ripeté Don Calarco - e forse no. Posso solo dire che è dall’inizio dell’anno che non celebro funerali, né qui né in altri paesi della valle». Chiaramente si era davanti ad una novità, che i due interpretavano nella maniera che la loro educazione e i loro mestieri suggerivano: dogmatica il prete, quasi scientifica il medico. Quasi scientifica, perché il dottor
Cata quell’anno non fu chiamata a piangere i morti. Non esercitò l’antica arte d ’antica arte di famiglia. Era una delle ultime prefiche greche che cantava i pregi dei defunti, la loro vita, perché i vivi ne ricordassero le gesta
passaggio della morte». Lo sapeva bene lei, orfana del padre a tre anni, cosa vuol dire la morte che passa non attesa in una casa. Ancora di più, quando la casa è povera. Lo sapeva bene. Ed era lei quella che ripeteva sempre i pregi degli uomini, le loro gesta, il bene fatto, affinché nessuno dimenticasse e tutti sapessero i doveri da compiere, per difendere le vedove, per difendere gli orfani.
RACCONTAVA I PREGI dei defunti con passione, piangendo come se sul letto di morte ci fosse suo padre, che non aveva potuto piangere ma che le era rimasto impresso nel cuore, perché era duro crescere senza un padre in Aspromonte e in ogni altra parte del mondo. Il mondo uguale ovunque, quello dei contadini che si spaccano la schiena. Quell’anno Cata non cantò per i parenti dei defunti, né per l’aldilà, semplicemente perché nell’anno dei limoni non morì nessuno. La morte si fermò. I primi ad accorgersene furono Don Calarco e il dottor Domenico Profa-
Profazio era pur sempre nipote di quel Don Fulgenzio che aveva retto la chiesa e le pecorelle del gregge prima dell’attuale sacerdote. Ed era pur sempre un credente praticante. Uno dei pochi a seguire la prima funzione del mattino alle sei precise. «Ma il dubbio è entrato con i molti libri nella tua testa a tarlare la colonna del dogma, del credere ciecamente e senza bisogno di riscontri scientifici» gli ripeteva di frequente Don Calarco. Certo, il dubbio che fosse un caso quell’assenza di morte ci poteva stare, rifletteva dentro sé il prete, ma può la morte di sua iniziativa fermarsi, distrarsi per tre lunghi mesi senza l’assenso dell’altissimo? E mentre pensava queste cose dentro di sé, si rivolse nuovamente al medico «E malattie, malattie ne curi o anche i malati sono venuti meno insieme alla morte?». Il medico dovette confermare che anche i malati erano venuti meno «Anche le malattie si sono fermate, padre. I vecchi malati cronici non vengono da me da mesi. Certo qualcuno viene solo per capire se davvero sta bene. Qualche
altro per tenermi, come si dice, buono, che non si sa mai cosa riserva il futuro. Ma niente malattie e malati nuovi». «Vedi allora, come non può essere solo un caso mio caro» affermò il prete. «La morte da sola può essere un caso. Ma la morte e le malattie sarebbero due casi. E due casi, due indizi fanno una prova anche per gli uomini del mondo, non solo per la Chiesa caro Domenico». IL DOTTORE dovette cedere alla logicità del ragionamento del prete: due indizi, e poi di quella importanza facevano davvero una prova. «Dunque padre, ci troviamo di fronte ad un fenomeno che apparentemente non ha una razionale spiegazione. Nessuna base scientifica da cui partire» ammise il dottore Profazio. Nel dubbio, comunque, non restava che aspettare e guardare cosa sarebbe accaduto nei mesi a venire. In fondo, si poteva dire che l’anno era appena iniziato. «I limoni, quest’anno, non vengono giù dalla pianta e nemmeno marciscono. Rimangono ostinatamente attaccati al loro ramo e ci devi mettere una certa forza per staccarli dal picciolo quando li raccogli. Anche le arance e i mandarini sono tenaci, ma non come i limoni. Non ho mai visto limoni così cocciuti» disse Fante Francesco a Cata. Era giugno. «E nemmeno gli animali muoiono, né si ammalano. Rosina fa il doppio del latte e le galline il doppio delle uova. E i ragazzi nemmeno una febbre, che mi vergogno a guardare il medico se l’incontro, ma le uova le ho date lo stesso alla moglie» rispose Cata. Così fu in ogni casa d’Aspromonte quell’anno. Dalle altre parti si moriva e ci si ammalava, in Aspromonte no. In Aspromonte era l’anno dei limoni. CI VOLLERO sei mesi perché la notizia dell’assenza di morte e di malattie in Aspromonte si diffondesse negli altri paesi, nelle città vicine. Era estate che iniziarono ad arrivare alla spicciolata uomini e donne, ammalati e sani, soprattutto anziani, per verificare se le cose erano davvero così come raccontate. In cerca, anzi, in fuga dalla morte e dalle malattie arrivavano nei paesi delle valli. I
primi ad arrivare, anzi a tornare, furono quelli partiti anni prima in cerca di fortuna. Le lettere scritte dai parenti nei paesi lontani, dove si erano dispersi per cercare fortuna, avevano comunicato loro l’assenza della morte e della malattie come una curiosa novità, non come un dono, ma come una possibilità. La notizia divenne, però, speranza e occasione di ritorno nei cuori di chi era andato via per la fame e per la disperazione. Dal Belgio, da Torino, da Milano, dalla Francia, dalle Americhe tornavano ed andavano a riempire gli spazi vuoti delle loro case, delle loro terre lasciate sole ed incolte dalla partenza. Le case e le terre abbandonate decine di anni prima ebbero una nuova vita. I paesi si riempirono in silenzio. Le terre ebbero nuove piante rigogliose addosso, nuovi frutti nacquero in silenzio. E, in silenzio, i ritorni furono accettati da chi era rimasto, come se mai nessuno fosse davvero partito. Tornò anche Carmelo dall’Argentina. Tornò affaticato dai viaggi e dalla vita, con la barba bianco-grigia lunga oltre il petto, il viso annerito e spellato dal sole e dall’arsura che regala il mare ai suoi abituali frequentatori. I CAPELLI bianco perla, anch’essi lunghi, erano tirati all’indietro e raccolti in una mezza coda. I grandi occhi conservavano ancora tutta la forza e il colore azzurro cielo della gioventù, con la sete di conoscere le cose del mondo che ancora non si era spenta. Il corpo alto conservava un vigore antico, di tronco stagionato, solido, asciutto, con cui ancora potevi farci parecchie cose. Aveva viaggiato un mese per mare prima di approdare a Genova. Un po’ come quando era partito, circa quarant’anni prima da Napoli, «Ma il mare era più calmo questa volta» precisava. Era tornato con un baule e un paio di pacchi grandi quanto il baule. Una borsa di pelle nuovissima pendeva dalla sua mano quando bussò alla porta di Fante Francesco e di Cata. Nessuno gli aprì la porta, allora girò il piccolo asse di legno che la teneva appena incollata allo stipite ed entrò [...]. (continua)
Libri e scrittori STORIE D’ASPROMONTE
Il dott. Vincenzo Carrozza
L
’anno dei limoni è un insieme di storie di uomini e donne d’Aspromonte. Protagonista della maggior parte delle storie è Fante Francesco, che è esempio d’esistenza cristallina, uguale all’esistenza di milioni di altri miei conterranei. Fante Francesco è il paradigma dei buoni sentimenti e dell’onestà della mia gente che contraddicono la grande mistificazione che di questo territorio ha promosso la cultura ufficiale della nuova Nazione, rendendo spaventoso ciò che era magico, rendendo mostruoso quello che era incantevole. Il bello e il buono spariscono così dall’orizzonte dei popoli meridionali, sostituiti dalle categorie che ai nuovi governanti fa comodo cucirgli addosso: il cattivo, il mafioso, il brutto, il malvagio, l’ignorante, il sudicio. Perfino il significato d’Aspromonte viene sfigurato. L’antico “Montagna Bianca” della Calabria greca, “l’Aspron Muntagna”, dei primi colonizzatori greci, diviene il monte inaccessibile e selvaggio per la nuova Nazione. L’antro buio e criminale dove si nascondono i briganti resistenti al nuovo ordine. Rimane, poi, come logica conseguenza, nell’immaginario collettivo della Nazione, il luogo abitato da gente, tutta, altrettanto aspra, rozza e violenta. Tutto può, d’un tratto, divenire brutto e mafioso se l’interesse della classe dirigente vuole che così sia. Infine, anche gli eroi della guerre combattute per il nuovo Stato, gli eroi decorati e celebrati in pompa magna il giorno prima, possono divenire, senza misericordia, i demoni del giorno dopo se così fa comodo. Uomini-oggetto, popoli-oggetto che non hanno più valore di per sé, ma hanno il valore che la mistificazione della cultura ufficiale gli assegna, che l’interesse del nuovo Stato coltiva. Il ricordo di come eravamo e di come realmente siamo, attraverso il racconto, serve per non dimenticare. Diviene l’unica arma utilizzabile affinché la memoria non sia schiacciata definitivamente. Il racconto come unica difesa per conservare un frammento di radici. Il racconto come testimonianza di come realmente è la mia gente. Il racconto come una forma di lotta che consente di far vincere la verità contro la menzogna. Verità che servirebbe al nuovo Stato Unitario come punto di partenza per un nuovo patto, questa volta sincero e paritario, tra uomini e donne figli d’una grande Nazione, che parlano la stessa lingua e vivono gli stessi problemi. Lasciando da parte, finalmente, la lagnosa retorica nazionale, fatta di manifestazioni vuote, di moniti altisonanti e falsi che glorificano un solo punto di vista, unilaterale, imposto, ormai inutile. Come un fiore riesce a germogliare, nonostante il suo seme sia soffocato da colate di catrame e cemento, anche la mia terrà germoglierà. Ci vorrà tempo e pazienza, ma è nell’ordine naturale delle cose che la mia terra risorga nonostante i Liborio Romano, i Cavour, i Savoia, le caste, le massonerie, le mafie, i partiti di destra e di sinistra che ne hanno fatto un orinatoio dell’occidente. I tempi saranno maturi presto, prima di quanto temono coloro che la tengono al guinzaglio e per proprio orinatoio personale. Prima ancora di quanto sperino i suoi figli sinceri e sofferenti.
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A ‘Ndrangheta, la prima presentazione a Palazzo Campanella
Il tavolo dei lavori durante la presentazione del libro di Sframeli e Parisi a Palazzo Campanella (RC)
IL SUCCESSO REGGINO P
resentato, nell’aula “Giuditta Levato” di Palazzo Campanella, A ‘Ndrangheta- Evoluzione e forme di contrasto edito da Falzea. L’ultima opera di Cosimo Sframeli, comandante della stazione dei carabinieri di Reggio Calabria Principale, e di Francesca Parisi, maresciallo dei carabinieri di stanza presso il Museo storico dell’Arma di Roma. I due autori non sono nuovi a questo tipo di impegno, avendo già, qualche anno addietro, “firmato” Un carabiniere nella lotta alla ‘ndrangheta, che ricevette tanti ed importanti premi, tra cui la medaglia di rappresentanza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed il consenso tributato dagli studenti che hanno avuto modo di capire come la legalità sia un bene primario che si coltiva e s’apprende proprio sui banchi di scuola.
VALORE AGGIUNTO e peculiare della nuova fatica letteraria è aver squarciato il velo del silenzio su un periodo, quello degli anni ‘70 e ‘80, segnato dalla stagione dei sequestri di persona a scopo di estorsione, dal narcotraffico e dal suo proliferare nello stivale. Da qui, un bilancio delle attività investigative e giudiziarie messe in campo per fronteggiare la criminalità organizzata nelle diverse modalità ed evoluzioni, proprio come ci suggerisce il titolo dell’opera. É un vero e proprio viaggio, dove le diverse “stazioni” non sono che tappe prestabilite per ricordarci, se ce ne fosse bisogno, quanto diffuso sia il fenomeno ed inquietanti gli scenari. Nella
sala gremita a porgere il saluto del Consiglio regionale è il presidente del Corecom Calabria Alessandro Manganaro (presente il capo gabinetto Pasquale Crupi), e i magistrati Giuseppe Carbone, già procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Locri, e Ezio Arcadi, sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria. A Reggio, il 9 maggio, si ricostruiscono tasselli pesanti di una storia difficile da dimenticare anche, se come detto, nessuno prima aveva pensato di tradurla in pagine di riflessione e di collegamento tra passato e presente. E C’É ANCHE UNA FUNZIONE pedagogica riconosciuta dal presidente Manganaro, che ha moderato i lavori. «É una parte importante della storia calabrese, da cui trarre utili insegnamenti. Da una parte, la consapevolezza che il contrasto alla criminalità organizzata non può essere solo affidato alle forze dell’ordine e ai magistrati, ma deve coinvolgere tutti i cittadini. Dall’altra, la convinzione che combattere la ‘ndrangheta equivale a costruire la cultura della solidarietà e quindi a coltivare la speranza civile che devono rappresentare un impegno di tutti e per tutti, affinché trovino diritto di cittadinanza nei molteplici e variegati ambienti di vita dell’uomo, tra i quali si impone un’azione di integrazione» ha sottolineato Manganaro. «É un lavoro che mi è piaciuto molto - ha ammesso Carbone - attraverso testimonianze dirette di coloro che si sono opposti alla triste ideologia mafiosa, che hanno vissuto la terribile piaga dei sequestri di persona, a volte pagandone le conseguenze, altre ottenendo piccole ma significative vittorie, il libro rappresenta in modo organico un periodo che fino a questo momento è stato poco trattato ed approfondito ma che è fondamentale per capire tante cose».
DA QUI IL MERITO agli autori di aver vinto sul silenzio, che, insieme agli scarsi mezzi e alle risorse carenti del tempo, ha segnato la natura del fenomeno deviante. «Era un vuoto che andava colmato, per un motivo molto semplice. Oscurando, infatti, un determinato periodo storico, si finisce con l’oscurare anche le cose positive che sono accadute, come l’attività giudiziaria e la reazione della comunità. Ed è proprio quello che abbiamo cercato di fare» hanno ribadito Sframeli e Parisi. A firmare alcune pagine del libro, Ezio Arcadi, per il quale «l’iniziativa è utile perchè accende i riflettori su fatti estremamente importanti dai quali trarre conseguenze per il presente e che ci fa capire, al tempo stesso, quanto si sia trasformata la ‘ndrangheta ed i diversi interessi che sono alla base. Problemi e questioni che, a distanza di tempo, purtroppo, non possiamo certo dire siano scomparsi». In conclusione, la lettura di alcuni dei passaggi più significativi da parte di Martino Parisi, presidente dell’associazione Pentakaris.
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Cinema
inAspromonte Giugno 2014
Il film di Sorrentino insegue un concetto coraggioso. Per tanti è un viaggio, equilibrio, armonia «I miei colleghi della stampa... amici o no dei Cahiers du cinema, non saranno dunque scioccati, spero, se mi stupisco di vederli di tenere in poco conto la nozione di bellezza nella critica dei film» 1961, Eric Rohmer
Ci sono registi che raccontano una storia il cui senso non va al di là della storia raccontata. Ci sono registi che raccontano una storia il cui senso va al di là della storia raccontata. E ci sono registi che raccontano una storia che non sembra avere bisogno di ulteriori letture; mentre invece va al di là di quello che mostra...» di GIOVANNI SCARFÓ
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a Grande Bellezza ha messo in crisi critici e gente comune, più o meno competente e/o appassionata. A creare ulteriori dubbi e aspettative è stato sicuramente il titolo: parlare di Bellezza in Italia è stato sempre un esercizio difficile, tenuto conto della negativa o quanto meno incerta storia che riguarda la nostra dinamica socio-politica nei confronti della Bellezza genericamente intesa. É solo da pochi anni a questa parte che il concetto di Bellezza ha cominciato timidamente a farsi strada. Eppure, già nei lontani anni ‘70, Peppino Impastato
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Parlare di Bellezza in Italia è stato sempre un esercizio difficile
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Impastato intuì che “la potenza della Bellezza” avrebbe potuto sconfiggere la mafia aveva intuito che “la potenza della Bellezza” avrebbe potuto sconfiggere la mafia; e oggi il titolo di un programma radiofonico serale gli rende omaggio con una trasmissione dal titolo La Bellezza contro le Mafie. «La bellezza può manifestare le infinite possibilità delle sue forme, offrendo tanti spazi di meditazione e di dialogo» scrive Laurent Mazas. Purtroppo, sullo sfondo di un orizzonte incolore in cui si colloca la società contemporanea, uno dei tanti spazi di meditazione e di dialogo riguarda le riflessioni sulla bellezza che rischiano lo scontato e il banale, riducendola ad un’idea sdolcinata e accademica, perché riproposta
Nella foto il regista Sergei Eisenstein (1898-1948), a lui si devono opere fondamentali di teorica del cinema
RIFLESSIONE
“FUORI CAMPO”
come “percezione esteriore superficiale”; oppure come contemplazione fine a se stessa, che rischia il vuoto o trova la morte, come Dorian Gray. «Rara infatti è la capacità di lasciarsi ferire dalla Bellezza» ha scritto Gianfranco Ravasi, perché la bellezza è anche nell’oscurità, persino all’interno del “male” e del dolore. Bellezza significa anche un viaggio nello stupore che possono suscitare i diversi volti della creatività, che non si limitano all’arte genericamente intesa, ma anche alle teorie scientifiche. Per gli scienziati più insigni, infatti, la Bellezza è sempre stata uno degli obiettivi da raggiungere, quando non una guida nel cammino verso la verità. Da Einstein, per scrivere la relatività, ad Heisemberg, per ricercare la chiave della teoria quantistica, la storia della fisica e della matematica moderna è accompagnata dal desiderio di tro-
vare l’armonia della natura e quindi la sua Bellezza. Come si evince da quanto ho finora scritto, intendo offrire una riflessione “fuori campo”, riprendendo un titolo di Eisenstein del 1929, con il quale il regista ci ha fatto vedere quanti oggetti il cinema sia capace di offrire al pensiero, oltre ciò che viene pensato nei singoli film. Cosa incontriamo infatti nel “fuori campo”? incontriamo il senso del cinema, come sistema di rappresentazione e di comunicazione. Ci sono per esempio registi che raccontano una storia il cui senso non va al di là della storia raccontata. Ci sono registi che raccontano una storia il cui senso va al di là della storia raccontata. E ci sono registi che raccontano una storia che non sembra avere bisogno di ulteriori letture; mentre invece va al di là di quello che mostra. E lo fa non solo con i
personaggi, ma anche e soprattutto con il paesaggio che diventa protagonista, da una parte perché i personaggi si collocano in rapporto al paesaggio, dall’altra perché il paesaggio diventa esso stesso personaggio. É per esempio il caso del film L’Avventura (1960) di Michelangelo Antonioni, che ha per protagonisti un gruppo di persone che, alla lettera, vive un’avventura inaspettata; ma, in effetti, nella loro realtà apparente, queste sono alla ricerca di sé stesse; così come Sandro e Claudia sono in apparenza alla ricerca di Anna, mentre nella storia si dipanano le loro crisi reali. La professione di Sandro, architetto, è solo un pretesto per servirsi dell’architettura siciliana e dei significati espressivi che essi pro/muovono. «Che cos’è oggi la città per noi? - si chiedeva Italo Calvino in un conferenza tenuta a N.Y. nel 1983 - Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo poema
d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città». Il cinema ha posto varie domande in questo senso, cioè sulla funzione e il significato della forma architettonica nel cinema. E un film come La grande bellezza pone ancora queste domande, così come se le pongono L’Avventura, come già detto, e Il ventre dell’architetto (1986) di Peter Greenaway: «Un dramma psicologico che narra la vicenda di Stourley Kraklite, un architetto nordamericano in visita a Roma per allestire una mostra dedicata ad un suo predecessore Etienne Luois Boullèe (1728/1789); film pretesto per riflettere sull’immaginario collettivo della nostra attuale società, nonché un grande affresco di Roma». Per concludere: il film di Sorrentino può essere visto anche come l’identificazione dell’architettura di Roma intesa come «comunicazione nella dimensione dell’antropologia culturale che è un modo specifico di osservare l’uomo e le sue attività, ovvero nel momento in cui appare convincente la sua capacità di comunicare altro, di divenire media» (Virgilio Vercelloni). Ma protagonisti non sono solo l’Architettura e il Paesaggio, ma anche la macchina da presa, con i movimenti di macchina che tracciano i percorsi dei perso-
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Per gli scienziati più insigni, la Bellezza è stata un obiettivo da raggiungere
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La Bellezza del mondo ha sempre due tagli: uno di gioia, l’altro di angoscia naggi nella città. E la sequenza d’apertura del film è sufficiente a dare senso alla “bellezza terribile” del film (e del cinema): «La bellezza del mondo ha sempre due tagli: uno di gioia, l’altro di angoscia, e taglia in due il cuore» (W.Woolf). P.s. Un film “pirandelliano”? All’inizio del film Jep Gambardella ascolta un pezzo de Il fu Mattia Pascal: sta forse pensando di “morire” per cambiare nome e vita e così mettere fine allo “squallore disgraziato di un uomo miserabile”? O sta forse pensando ai “suoi” personaggi perduti in cerca di un senso, dei quali lui tira le fila come un capocomico?
Lettere alla redazione
inAspromonte Giugno 2014
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QUANDO AFRICO CHIESE OSPITALITÁ
AL CAI DI REGGIO CALABRIA
Nella foto soci del CAI a Montalto il 7 luglio 1958. Foto di CAIReggio
Nella foto il rifugio CAI “Riccardo Virdia” (1950). Foto di CAIReggio
Il professore Favasuli risponde alla lettera* di Francesco Talia (*pubblicata su in Aspromonte 009 e su inaspromonte.it)
«Ho scritto questo pezzo avendo di fronte il braccio di mare dove, fin da piccolo, ogni estate, mi metto a mollo da mane a sera. Il pensiero che anche il mitico Ulisse sia potuto transitare da queste parti, però, non mi ha fatto venire i brividi lungo la schiena! È un altro film!»
L’
Caro Direttore, seguo con molto interesse il vostro giornale e numerosi sono i riferimenti alle tragiche alluvioni che hanno funestato Africo ed altri paesi dell’Aspromonte che sono spesso meta delle escursioni dei soci del Club Alpino Italiano. E dato che il nostro camminare non è solo attività fisica ma è sempre volto alla conoscenza profonda dei luoghi è certamente utile illuminare con tali notizie le mura ormai corrose di tali paesi. Colgo quindi l’occasione per aggiungere una informazione relativa al Comune di Africo. Sappiamo che inizialmente i profughi di tale Comune furono accolti a Gambarie nella colonia ENPAS e in un albergo. Nell’archivio della nostra sezione del CAI, di recente dichiarato di interesse storico dalla Soprintendenza Archivistica per la Calabria, è custodito un carteggio relativo alla corrispondenza tra il comune di Africo ed il CAI. La nostra sezione è stata costituita nel 1932 quindi all’epoca dell’alluvione si contraddistingueva già per una intensa attività sportiva legata soprattutto alla stazione turistica di Gambarie. Il Comune citato chiede pertanto, in data 23.11.1951, alla nostra sezione di concedergli il piano terreno del Rifugio CAI esistente in Gambarie per adibirlo a sede
Alfonso Picone Chiodo sul Kala Pattar (5.500 m), ed alle spalle l'Everest
municipale «…dato che siamo alluvionati, accampati provvisoriamente alla men peggio… ». Il CAI, a firma dell’allora presidente Prof. Dott. Michele Barbaro, rispose «In relazione alla richiesta di codesta Amministrazione Comunale…, questa sezione pienamente compresa della necessità di offrire ogni solidarietà ai colpiti dell’alluvione, mette senz’altro, temporaneamente, a disposizione di codesta Amministrazione stessa la stanza a piano terreno del rifugio di Gambarie, accantonando nelle due stanzette del piano superiore le suppellettili che in atto occupano il vano di cui sopra. Si gradirà però, che sia
alluvione che nel 1951 ha distrutto Africo, causando, tra l’altro, la perdita di vite umane, ha compiuto un grave, irreparabile danno. Ha prodotto una lacerazione profonda nell’anima e nel tessuto sociale di un popolo. Ha spazzato via, ha annientato in modo crudele, spietato, tutto quello che gli uomini, pazientemente, per secoli, avevano costruito e poi, tra mille difficoltà, strenuamente salvaguardato e difeso. Così un popolo fiero, millenario, forte come una quercia, come una pianta di ulivo, fu sradicato dalla sua terra d’origine e trapiantato in una landa deserta che aveva già ospitato, secoli prima, esuli provenienti dalla Grecia. Ha distrutto, quel cataclisma, non dimentichiamolo, uno dei siti antropici più interessanti e più importanti, non solo dell’Aspromonte ma dell’intera regione. Pertanto, un argomento così complesso e delicato, va trattato con cautela, con molta attenzione. Orbene, considerato che un approccio sociologico a questa tematica porterebbe a dei risultati discutibili, tendendo la sociologia ad essere la scienza sociale dell’osservatore, direi che un approccio, un’indagine di tipo antropologico, darebbe delle risposte molto più precise; essendo, appunto, l’antropologia la scienza sociale dell’osservato. Da questo preciso momento, quindi, tratterò l’argomento in modo impersonale. In terza persona.
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MAX SCHELER, nella sua opera Il posto dell’uomo nel cosmo, del 1928, attribuisce all’antropologia non solamente il compito di considerare l’uomo come vita, come natura, come spirito, ma di riportare il complesso degli elementi che lo costituiscono al suo modo di esistenza unica, particolare. Su tale scia, anche l’opera di Ernst Cassirer, Saggio sull’uomo, del 1944, va intesa come una ricerca che si accentra sul concetto dell’uomo considerato come animal symbolicum, come animale cioè che parla e crea l’universo simbolico della lingua, della religione e del mito. Lingua, Religione, Mito: elementi assoluti, imprescindibili dalla cultura, dalle tradizioni di un popolo; cartina di tornasole per vagliarne il grado di civiltà, di evoluzione. Il mito, acqua che fluisce spontaneamente dalle profondità della psiche, determina, a livello della coscienza collettiva, una realtà linguistica il cui carattere, riconosciuto da Martin Buber nel cosiddetto stato di veglia, trova riscontro anche in un frammento di Eraclito. “Coloro che vegliano, a differenza di coloro che dormono, scriveva, infatti, il filosofo, hanno un unico cosmo in comune, un mondo al quale partecipano tutti quanti insieme”.
Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 13/06/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.
CON GLI OCCHI APERTI, spalancati non solo sul presente, ma anche sul passato, gli africoti, rovistando dentro il grande baule del tempo, dentro il grande e fecondo scrigno della terra, hanno tirato fuori e consegnato all’attualità dei nostri giorni, innumerevoli reperti riconducibili ad un glorioso passato, ai loro trascorsi culturali e ai caratteri unici ed irripetibili, della loro storia millenaria! Il particolarismo storico che qui salta subito agli occhi
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sorvegliata, nei limiti consentiti dalla circostanza, l’integrità del materiale accantonato come sopra detto costituendo esso un complemento necessario per lo svolgimento dell’attività sportiva, estiva ed invernale di questa Associazione». L’ospitalità durò alcuni mesi e conferma, ove ce ne fosse bisogno, la lunga storia del CAI reggino e la sua vicinanza alle popolazioni montane. Ulteriori notizie si possono desumere dal recente libro Il CAI a Reggio Calabria: 80 anni di amore per la montagna della Kaleidon editore. Cordiali saluti Alfonso Picone Chiodo
e che trova in Franz Boas, antropologo tedesco di adozione americana, il suo principale assertore, non deve essere inteso, però, come una camera stagna. Ogni gruppo etnico, ogni popolo, anche se diverso da un altro, con l’apporto del suo tassello, del suo filo di carattere unico, specialistico, contribuisce in modo determinante alla realizzazione del grande mosaico, del grande arazzo antropologico, storico; contribuisce, insieme a tutti gli altri, a mettere in luce le similitudini delle diverse e più disparate culture, così prossime e così lontane, ma tutte tese ad aprire squarci sempre più ampi sullo sviluppo degli uomini e della loro storia. Fin dai primordi. Così i temi tipici di una civiltà remota, di un Eden ormai irrimediabilmente perduto, uscirono prepotentemente fuori dal tempo e la morte, la mistica, il sacrificio, la festa, la magia, le leggende, la poesia e la musica, unitamente al senso sacro della vita, si ersero come granitici dolmen, possenti; come laceranti esperienze umane, come straordinarie trasfigurazioni estetiche. LÍ, SULL’ASPROMONTE, dunque, in quel grande bacino antropico, dove sacro e profano, spesso, avevano dei confini puramente virtuali; lì, dove realtà e mito si mischiavano e si confondevano, gli africoti trovarono la conferma, le vestigia degli antichi fasti. Scoprirono che la loro storia si riallacciava, sotto vari aspetti, con quella di tante altre civiltà distanti anche migliaia e migliaia di chilometri; scoprirono che le circostanze, se pur declinate negli usi e nei costumi, negli idiomi dei parlati, rivelavano coordinate sempre più ampie e, per loro natura, circolari, universali. Così i vecchi, consci dell’appartenenza ad una civiltà la cui dignità culturale aveva radici profonde che si perdevano nella notte dei tempi, seppero che avevano gli stessi connotati di altri vecchi che nella mesoamerica e in tante altre parti della terra, raccontavano ai figli, ai nipoti, storie e miti che altri, secoli prima, avevano già raccontato alle nuove generazioni. Seppero di rappresentare , nel grande cerchio della vita, l’anello della catena che perpetrava la loro storia. QUEL MONDO ormai non c’è più! Tra il 15 ed il 18 ottobre del 1951, è stato distrutto, è stato annientato dalle cieche forze della natura. Oggi, gli africoti per non cadere in catalessi, in un profondo sonno senza risveglio, dovrebbero recuperare l’antica fierezza; dovrebbero imparare a rivolgersi al mito come al recupero di un'antica memoria universale del sentire oggettivo, dove, però, non ci sia più spazio per evocazioni autoconsolatorie di felicità remote, di cose ormai perdute anche se infinitamente amate! * Ho scritto questo pezzo avendo di fronte il braccio di mare dove, fin da piccolo, ogni estate, mi metto a mollo da mane a sera. Il pensiero che anche il mitico Ulisse, perseguitato da una schiera d’incavolati dei, che non volevano farlo rientrare a casa manco morto, sia potuto transitare da queste parti, però, non mi ha fatto venire i brividi lungo la schiena! È un altro film. * Elena Fabbro. Il mito greco nell’opera di Pasolini
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inAspromonte Giugno 2014
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Le tappe
Crinale degli dei
Scalone di Cicutà
“Furraina” La composizione delle miscele SA.GI.CAF. è frutto di grande esperienza e di anni di lavorazione. La sapiente tostatura e la professionalità del torrefattore nell’amalgamare le diverse specie di caffè sono frutto di equilibrate ed armoniose scelte che mirano ad offrire sempre il profumo intenso e l’aroma inconfondibile dell’autentico caffè all’italiana. Tutte le fasi nella preparazione, fino al prodotto finito, vengono scrupolosamente e rigorosamente controllate per fornire al consumatore sempre la qualità migliore. La scelta di SA.GI.CAF è una scelta di qualità. Una scelta precisa di una industria italiana emergente che sa proiettarsi verso la conquista di nuove e più ampie fette di mercato.