"in Aspromonte" numero 2

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QUESTO GIORNALE NON RICEVE ALCUN FINANZIAMENTO DA ENTI PUBBLICI

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Direttore Antonella Italiano

UNA TERRA FACCIA AL MURO

inAspromonte

Ottobre 2013 numero 002

A Saline? La centrale a carbone! A Gioia Tauro? Il rigassificatore! A Caulonia? La centrale idroelettrica! E ORA MIRATE... L’analisi

pag. 2- 3

AREA GRECANICA

MACERIE SOCIALI

Aspromonte occidentale

Cultura

Ombre e luci

di Federico Curatola

Il Calivi e le sue cascate

Chi di noi farà ritorno?

Assalto al Municipio

N

on riesco a capire se c’è una strategia dietro tutte le scelte e le angherie imposte a questo povero territorio, oppure se, in quanto ventre extra-molle della già supermolle Calabria e della arcimolle Provincia di Reggio, sia naturale che ogni provvedimento assuma al tempo stesso le caratteristiche di un improvviso terremoto e di un mare calmo e piatto. Sto parlando dell’Area Grecanica. Un’area che dopo secoli di continuo e forzato nascondimento della propria storia e della propria identità, stava riaffondando le mani nel proprio passato e pian piano, eliminando gli strati e le incrostazioni, stava cercando faticosamente di far riemergere quel patrimonio di lingua, di culture, di tradizioni ormai sommerso dall’abusivismo edilizio, dall’abbandono dei centri interni, dalla corsa alla sviluppo (ma non al progresso). E poi? Un black-out. Tutta la dottrina derivante da Agenda 21, tutti i programmi concertati con la base, lo sviluppo proveniente dal basso… dove va a finire? Sbatte contro un colosso industriale che propone di realizzare una Centrale a Carbone, in un luogo che ha già rigettato, come un trapianto mal riuscito, ipotesi di industrializzazione lasciandoci cattedrali arrugginite pag. 3

pag. 16

Aspromonte orientale

Platì, 1956 “Spartenza” pag.11

pag. 22

“Pompa”. I ragazzi dell’Aspromonte muoiono in galera pag. 9

pag. 8

Speciale Aspromonte Le mappe

Aspromonte grecanico

L’intervento

Una lingua che non deve morire

L’ululato del lupo non ha eco

pag. 5-6-7

pag. 12

LA CHANSON D’ASPREMONT E IL DOCU-FILM DI SCARFO’ Dopo i fumetti dell’assessore Caligiuri, arriva il docu-film di Giovanni Scarfò. I Cantari della nostra montagna non necessitano di queste banalizzazioni

pag. 19

di Antonella Italiano

«

Quanti siamo, secondo te, ad ammirare il paesaggio in questo preciso momento?» «Beh ci sarà qualcun altro, l’Aspromonte è grande». Seduta su una roccia, a centinaia di metri di altezza, guardai le vallate sottostanti. Il presepe, pensai. Sembra proprio la carta pesta del presepe. Le montagne sotto il sole, infatti, parevano fatte di morbida pesta accartocciata. Verde scura e marrone, come quella che papà compra a natale. Fissai con attenzione i piani e le mulattiere e, a parte qualche capra, non mi parve di vedere nessuno. Bene, l’Aspromonte era solo il nostro. Eravamo soli. Anzi, era il mio, perché tu non ci credevi veramente. Era chiaro, anche se zittisti le mie domande, sorridendo, e mi lasciasti risucchiare da quella mia improvvisa possessività. pag. 2-3


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L’ULULATO DEL LUPO NON HA ECO

è una terra nel mirino dei venditori di illusioni. È l’ennesima, falsa, promessa di lavoro e soldi ai calabresi di Carmine Verduci

S

La copertina

inAspromonte

i fa viva l’ombra di una centrale idroelettrica a Caulonia, che dovrebbe sorgere tra le gole del fiume Allaro. È l’ennesimo danno ecologico annunciato. L’ennesima promessa di lavoro e soldi, fatta ad una zona con una alta densità di disoccupazione. Il progetto, non ancora finito sulla tavola degli amministratori locali, prevedrà la trivellazione della montagna fino alla falda principale, da cui attingere, con delle enormi condotte, l’acqua necessaria alla produzione di energia elettrica. Sui social network, da qualche mese, è scoppiata la rivolta del comitato “No centrale” che promuove una petizione per sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso l’informazione libera. I social network si sono dimostrati una fonte di comunicazione preziosa, specie nelle battaglie per la difesa della natura o della salute. Siamo sempre più minacciati da multinazionali e società private che cercano in tutti i modi di imporre i loro baluardi di cemento armato. La Calabria, in particolare, è nel mirino di coloro che vendono illusioni, come la promessa di apportare, con queste opere, solo benefici e posti di lavoro. Illusioni sostenute, purtroppo, dai nostri stessi politici. Basterebbe fare qualche conto e confrontare quanta occupazione produrrebbe l’industrializzazione in Calabria e quanta invece il turismo bio-sostenibile. Persino l’Europa riconosce alla nostra regione di essere terra di arte, storia e cultura millenaria. Un mondo tutto da studiare. Un mondo che non ha certo bisogno di essere “cementificato” ulteriormente. Un mondo in cui si dovrebbero incrementare i progetti bio-sostenibili per dar lavoro ai nostri giovani disoccupati. Per far questo è necessario, però, agire nel pieno rispetto del territorio. La Calabria potrebbe essere prima, su scala nazionale, per offerta turistica, se solo avesse la possibilità di decentrare l’afflusso dei visitatori su tutto l’anno.

Ottobre 2013

segue dalla prima di Antonella Italiano «Forse è davvero così» rispondesti. Mi credi ora? Eravamo soli ed io lo sapevo. E non confondere chi guarda con chi vede. Guardare e vedere sono cose diverse.

Ci ripenso spesso a quei discorsi, ed è una fortuna poterlo fare, altrimenti lo schifo quotidiano mi toglierebbe il fiato. Ripenso alle nostre escursioni e alle camminate lunghe dodici ore. Alle arrampicate notturne, all’acqua gelida dei torrenti, al fuoco acceso sotto la pioggia e con la neve, all’odore di nepetella che ci coglieva all’imbrunire

sulle scale della scuola. A quanto fosse bello sentire la voce di un amico all’alba, nel cuore della montagna, «ci siete? ho portato i cornetti». E lasciarlo sedere accanto al fuoco, infreddolito, mentre l’odore del caffè faceva di noi un branco. Strampalato e male assortito, probabilmente, ma che nulla aveva a che fare con i viscidi vermi in

giacca e cravatta che, dopo qualche ora, giù in città, si sarebbero, fintamente felici, trascinati nei bar del corso principale: che ti offro? Offro io. Signorina non prenda soldi. È pagato. Come va? Ah senti… e quel discorso? Sappiamo cosa si può fare? Si sono messi questi ma non è un problema, non hanno dove andare.

NUOVE CENTRALI? GIUDICATE DA SOLI... Seguici su inaspromonte.it Nelle foto alcuni danni dell’inquinamento ambientale. Sotto la copertina dell’editoriale on line sul nostro sito

AREA GRECANICA

MACERIE

SOCIALI

«Il popolo, tramortito, potrebbe vedere la sua salvezza persino in una Centrale a Carbone. Ad un territorio che non ha più nulla da perdere si può offrire di tutto»

segue dalla prima di Federico Curatola nel deserto creato dalla mancata promessa. Sono già più volte entrato nel merito della questione Centrale a Carbone, divenendo anche oggetto di attacchi deliberati da parte di fantomatici comitati che sembra siano più avvezzi a calunniare chi ha idee diverse piuttosto che a sostenere le proprie, perciò passerò oltre e tenterò, con questo mio ragionamento, di toccare altri punti critici di questo territorio abbandonato da Dio. Non riesco, come dicevo, a capire se ci sia o meno una strategia dietro questa lenta e progressiva demolizione del territorio dalle sue fondamenta. Demolizione che però è evidente. Non si può non accorgersene. L’ultimo dei colpi assestati, in or-

dine di tempo, è la chiusura di tutti gli uffici giudiziari di Melito di Porto Salvo (Giudice di Pace e Sezione staccata del Tribunale di Reggio Calabria), compresa nel Decreto “Spending review”. Una perdita rilevante per tutta l’Area. Uffici importanti a cui fa riferimento una popolazione che si aggira sui 50.000 abitanti, che vivono in un territorio caratterizzato da scarsa infrastrutturazione, da collegamenti carenti sotto il profilo del trasporto pubblico e lunghi per il trasporto privato. Una perdita economica anche, se vogliamo, da non trascurare. Per Melito, per le attività vicine e connesse, per i fornitori di servizi. Una perdita “sociale” considerevole poiché viene sottratto ad un territorio a medio-alta densità criminale, un simbolo di giustizia ed un pezzo dello Stato! Tribunalini, li chiamano. Forse sembreranno piccoli guardandoli


La copertina Per fortuna noi, misero gruppetto di aspromontani (tra veraci, simpatizzanti e acquisiti) non abbiamo dove andare davvero. Che ansia sarebbe per dei rusticoni del nostro calibro metterci in ghingheri e fare i salti mortali per destreggiarci con ipocrisia dall’ipocrisia. Siamo lupi. Stiamo in montagna. Guardare e vedere sono cose

da Roma, sono certamente nulla al cospetto del Palazzaccio o di qualche altro “palazzo” del potere romano ma qui, in trincea, nell’estremo lembo di penisola italica, anche un tribunalino è un simbolo dello Stato. E chiudendolo, si da l’impressione che lo Stato stia abbandonando questo territorio. Stesso dicasi per l’Ospedale T. Evoli di Melito. Per un secolo baluardo di sanità e centro brulicante di grandi chirurghi e ginecologi, meta di pazienti provenienti da ogni angolo

inAspromonte Ottobre 2013

diverse, spero tu mi creda adesso. Potrei in qualsiasi momento alzare gli occhi e indicarti dove si trova lo Zomero, o il Monte Giove, e persino contare le pecore che pascolano qui sotto, e su questo versificare qualche bel pensiero. Ma questo sarebbe sentire? Che le nostre strade, dunque, si dividano dalle strade bat-

tute dai vermi di provincia per noi va benissimo. Se si siano mai incrociate è il dubbio che ci resta. E non abbiamo paura di morire. Noi. Non barattiamo la nostra libertà per elemosinare qualche soldo (e l’elemosina andrebbe anche bene, perché è sacra, ma se fosse un gesto genuino e non una “compra-vendita” di servizi). Noi.

della Regione ed oltre, oggi, grazie alle continue ed inarrestabili espoliazioni ed alla miopia gestionale di chi ha governato e governa la struttura e la sanità, è un “cadavere”! Quando un Ospedale non fornisce risposte di sanità al territorio ed il territorio non si rivolge più a quell’Ospedale, significa che quell’Ospedale è “clinicamente” morto! È aperto, certo, si timbrano i cartellini, si lavano i pavimenti, si consuma corrente elettrica, ma nei fatti, l’Ospedale è morto!

E tutto è accaduto e sta accadendo nel più totale silenzio di tutti. Ma non parlo delle Istituzioni. Parlo della gente, dei residenti, degli ipotetici utenti di quell’Ospedale, di quel Tribunale. C’è una strategia? Non so, ma di certo so che se qualcuno colpisce con un maglio di pietra questo territorio e non vi è reazione, chi colpisce è indotto a colpire di nuovo, e di nuovo, e di nuovo. Ecco come si azzera un territorio, colpendolo ripetutamente. A quel punto, tramortito, potrebbe vedere la sua salvezza chimerica addirittura in una Centrale a Carbone. Quel territorio non avrà più nulla da perdere. Gli si può offrire di tutto. Su questo territorio martoriato non rimane molto altro oltre alle macerie. Sociali, politiche, economiche, ambientali. Macerie su macerie. Sono tanti gli interrogativi ai quali occorre dare risposte, in tempi brevi, prima che anche quello che rimane non sia insufficiente per far ripartire il territorio. Quali forze devono farsi carico della costruzione di un progetto di rilancio dell’Area? Quali forze possono farsene carico? Come essere protagonisti della ripresa? A questa domanda do subito la risposta. Introducendo degli elementi di discontinuità rispetto al passato. Ed al presente. Altri sono gli interrogativi che ci si deve porre, di fronte ad uno scenario in cui, azzerate le guide istituzionali, democraticamente elette, e senza alcuna rappresentanza politica, il territorio sta attraversando una fase critica della sua storia. Chi scrive è stato sempre convinto che solo attraverso l’impegno attivo e diretto si può imprimere un cambio di rotta, quando le cose non vanno. Pertanto è all’impegno diretto che richiamo chiunque abbia a cuore il futuro di questo territorio. Il momento è adesso. Occorre ripartire dalle idee, ripartire dalla partecipazione e riprendere il timone di questa “nave senza nocchiero in gran tempesta”.

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Mi auguro solo che tanta fatica conduca questi vermi ad un buon risultato. Sul nostro ci stiamo già scrivendo perché, che piaccia o no, è questa la voce del branco. L’ululato senza eco di un lupo a caccia, che comunica agli altri lupi la sua posizione tra le montagne. I lupi lo sentiranno. I vermi lo vedranno. All’improvviso.

L’EDITORIALE

di Gioacchino Criaco

NASCE LA CALABRIA MIGLIORE SULL’AMBIENTE

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orse si compie il miracolo, quello che in nessun altro modo si era riuscito a fare si realizza attraverso le lotte per la difesa dell’ambiente che sono nate in luoghi diversi della regione. Piccole, grandi, battaglie locali a sostegno di obiettivi particolari. I no alla centrale a carbone di Saline Joniche, le resistenze alla costruzione del rigassificatore a Gioia Tauro, l’opposizione alle trivellazioni delle società petrolifere nell’alto Jonio, la petizione per impedire la realizzazione di una centrale idroelettrica sull’Allaro, la lotta per la bonifica del bacino dell’Alaco e tanti altri antagonismi sull’eolico, sulle discariche, sulle centrali a biomasse. Le tante piccole, grandi, Calabrie che resistono, potrebbero costruire una grande Calabria, che protesta contro un progetto di dissipazione dell’ambiente calabrese. Se si riuscisse a saldare insieme tutti i movimenti e da questo sunto nascesse una proposta sulla Calabria che i calabresi vorrebbero, si potrebbe tornare a sperare. Sotto un immobilismo imposto alla Calabria dalle sue classi dirigenti, è covato un fermento, una resistenza e un dinamismo locale che hanno coinvolto le persone normali, al di là degli schemi e delle ideologie. Tanti piccoli movimenti che insieme costituiscono un rilevante dato numerico. E non sto a dirvi se quelli che lottano siano le persone migliori, certo è che sono i calabresi più vivi. Quelli che sono rimasti in Calabria per costruirsi il futuro e non per fare opera di testimonianza. Tante mosche bianche mossesi in solitaria o in minuscoli stormi che senza essere notati si sono infoltiti e adesso, concretamente, possono avere un ruolo, contro un potere politico, economico e culturale che ha tutto l’interesse a non cambiare le cose. Una nuova razza di calabresi, convinta che si debba mettere da parte il chiedere e si deve passare al fare contando su se stessi, cosciente che dal sistema non verranno aiuti se non lo si mette con le spalle al muro. Ragazzi svegli, di buona cultura, in grado di individuare i tanti nemici che si presentano da amici. Con loro sarà difficile usare le armi della retorica, della paura e utilizzare i tanti inganni delle rivoluzioni finte. I calabresi che nascono intorno alle battaglie ambientali si muovono per spinte endogene e non per impulsi di parti interessate, credono solo in loro stessi e in chi lotta. Si proverà a intimidirli e a lusingarli, si cercherà di dividerli. Ma se sapranno stare insieme vincendo gli individualismi e la voglia di primeggiare, potranno dire la loro, sulla Calabria che vogliono, quella che se nascesse da loro sarebbe la Calabria migliore.A Saline hanno vinto una battaglia, bloccando la costruzione della centrale a carbone. Da li debbono passare a Gioia e insieme arrivare all’Alaco, all’Allaro. La questione ambientale è unica e risponde a un disegno che vorrebbe la Calabria come colonia energetica dell’Europa centrale, il movimento a difesa del territorio deve essere unico, e dal suo interno deve nascere una proposta condivisa con la quale tutti dovranno fare i conti.


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inAspromonte Ottobre 2013

L’approfondimento

Platì contò 17 vittime

Le vallate più colpite furono quelle del versante ionico: Aposcipo-Verde, Amendolea, Careri, Bonamico

Acqua che uccide

Il ricordo E. VUERICH S. GIORGI

T

ra il 12 e il 18 Ottobre 1951 un evento alluvionale eccezionale interessa la Calabria, causando morte e distruzione. La zona più colpita dal fenomeno alluvionale, generata dalla presenza di un minimo afro mediterraneo tra Sardegna e Tunisia, risulta essere il basso Ionio reggino nella zona dominata dall’Aspromonte. Notevole è la quantità di acqua caduta in poco più di cento ore: 1770 millimetri di pioggia, una quantità superiore alle medie annuali. La giornata drammatica risulta essere quella del 16 ottobre quando si assiste ad un aumento dell’intensità delle precipitazioni. Nella zona di Santa Cristina d’Aspromonte, si registrano più di 535 millimetri d’acqua in sole ventiquattro ore. Anche nei giorni a seguire la quantità di acqua caduta rirettamente all’alluvione più un sulta essere elevata con connumero imprecisato dovuto seguenze disastrose per i alle cause indirette degli spaterritori compresi fra l’Asproventosi nubifragi che si abbatmonte e la Serra di San terono in diversi eventi distinti Bruno. sin dai primi giorni del mese e Le comunicazioni stradali e per tutta la durata dello. telegrafiche saranno interrotte Diversi centri abitati furono in oltre quintalmente dici località, danneggiati «Agrumeti e coltivazioni mentre per i da essere vari centri di cotone sono distrutti: abbandosituati sulla collassa l’economia nati e ricofascia costruiti in locale, mentre centinaia stiera, il colaltro luogo o legamento di famiglie di braccianti mai più ricopotrà avve- e mezzadri perdono i struiti. nire solo via propri posti di lavoro» Tra questi mare. NardodiIl bilancio pace che fu ricostruito in altro conclusivo sarà di oltre 70 vitluogo, Africo che fu ricostruito time, 4.500 senzatetto, quasi a decine di km dall’antico cen1.700 abitazioni crollate o tro aspromontano, Casalrese inabitabili, 67 comuni colnuovo d’Africo, abbandonato, piti. Tra le infrastrutture danCanolo, ricostruito in altura, neggiate si segnaleranno 26 anche se il vecchio centro è ponti crollati e 67 acquedotti ancora abitato, Careri, devalesionati. Per la sola provincia stato dalle alluvioni e che ha di Reggio Calabria i danni amdato origine al vicino centro di monteranno a 30 miliardi di Natile Nuovo, e soprattutto lire. Questo il bilancio concluPlatì devastato dalle frane e sivo dell’inondazione, come riquasi completamente diportato dal rapporto ufficiale strutto, insieme a tante condel Governo. trade che furono letteralmente I morti nella sola Calabria mespazzate via. ridionale furono 75 dovuti di-

16 OTTOBRE 1951

L’ALLUVIONE

Le vittime nel comprensorio della valle del Bonamico furono due: il sanluchese Sebastiano Giorgi, pastore e buon padre di famiglia ed un giovane friulano, di 26 anni, Enrico Vuerich. Quest’ultimo scomparve in alta montagna inghiottito dai flutti di un vallone in piena; il corpo non fu mai ritrovato. Di lui resta solo un ricordo inciso sul marmo che si conserva nella chiesetta del cimitero vecchio di San Luca. Tanti si chiesero per anni di chi mai fosse quel nome forestiero.

Ha inizio il nubifragio senza fine. Le correnti sono da Levante e Scirocco. A Polsi cadono 410 mm. Da Reggio a Catanzaro l’acqua travolge paesi e vite

Nella foto in alto la città di Africo prima dell’alluvione, nella foto sopra la fiumara Laverde durante una piena

I danni all’economia sanluchese Nelle montagne del Comune di San Luca, i danni furono ingenti, tali da cambiare completamente il paesaggio. A San Luca era in corso, da alcuni anni, un rivoluzionario processo economico ed industriale: imprenditori lungimiranti avevano fondato un polo industriale del legno notevole, che prometteva ancora più importanti sviluppi. Nel periodo di maggior espansione, tra gli ultimi anni ‘40 e i primi anni ‘50, il complesso industriale occupava circa 400 persone tra personale della segheria, addetti alla teleferica, tagliaboschi, tecnici, addetti al trasporto del legname lavorato e personale amministrativo. Molti di questi, circa una settantina, specie boscaioli, contabili e tecnici erano stati reclutati in altre regioni, ed alcuni provenivano dall’estero.

Sicché il paese dei pastori di Alvaro, era diventato un luogo di immigrati. C’era gente del Piemonte, del Veneto, del Piemonte, del Trentino, della Jugoslavia, dell’Emilia Romagna, della Basilicata, che, a sera, si riunivano nello spaccio - dopo lavoro gestito dal novarese Signor Zaccarelli, a bere e cantare le canzoni delle loro valli. Tutto ciò fu distrutto in quei pochi giorni di ottobre di sessantadue anni fa. L’economia pastorale fu quasi decimata per sempre: intere greggi scomparvero travolte dalla furia dell’acqua. Molta gente sorpresa dal nubifragio in montagna, si salvò o perché trovò asilo nel Santuario di Polsi, o per la grande esperienza maturata in anni di vita in montagna che consentì loro di trovare rifugi di fortuna.


Speciale Aspromonte

inAspromonte Ottobre 2013

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Cartografia storica, sei secoli di Calabria e di controversie sull’origine e la denominazione dei luoghi

MAPPARE L’ASPROMONTE

Dalla Carta Aragonese alle mappe dell’Ufficio Militare Austriaco. Tutta la storia delle nostre montagne raccontata dai cartografi dell’epoca di Pino Macrì

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ià al solo pronunciarla, la parola “Aspromonte”, ti lascia nella mente il ricordo di un suono rotondo, ampio e, insieme, fiabesco e regale. Per chi accetta gli insegnamenti linguistico-strutturali di De Saussure, ciò equivale quasi ad un magico imprinting che non abbandonerà mai più chi lo abbia anche solo pronunciato, forse ancor prima di chi lo abbia percorso veramente e profondamente conosciuto. In questo senso, la straordinaria immagine geografica di Piri Re’Is (fig. 1) pare esaltarne ancor di più il fascino, attraverso l’uso di quelle vive colorazioni, che in verità, però, sono utilizzate per tutte le catene montuose. Cionondimeno, ci hanno provato a lungo le culture latina, prima, e celtico-eurocentrica, poi, a disinnescare il fascino dell’etimo che, sulle ali dell’epico trasporto ingenerato dalla omonima Chanson, rischiava di invadere gli ambiti cortigiani dell’erudizione. Cosicché, in letteratura come in geografia, “Brutium” (fig. 2) e “Appennino” (o, meglio, “Apennino”, con una sola ‘p’), per un certo periodo tentarono di sovrapporsi alla tradizione indigena: il primo, omologando erroneamente tutto quanto stava al di là (al di qua, per i calabresi) del Pollino, il secondo dichiarandone la subalternità orografica, degradandolo al tòpos di semplice segmento terminale della catena dorsale della penisola italica. A noi piace pensare che, forse, gli antichi abitatori aspromontani già fossero ben consci della diversità anche strutsegue a pag. 6 e 7

FIG: 1

FIG: 2

FIG: 3


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Speciale Aspromonte

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la carta di Janszoon, assieme alla omologa di Ortelius, è stata addirittura da qualcuno ritenuta l’antesignana dell’origine della parola ‘ndrangheta in quanto, in una zona bianca reca la scritta “Andragathìa Regio”. Quel qualcuno avrà pensato che in “Regio” magari l’autore avesse distrattamente dimenticato una “g”… segue da pag. 5 di Pino Macrì

turale fra Aspromonte e Appennino: di origine granitica (strictu sensu, assieme alle Serre ed alla Sila), e quindi molto più antica, il primo, sedimentario, e più recente, il secondo. Paradossalmente (ma non tanto), Aspromonte, Serre e Sila sono più imparentati con le Alpi che non con l’Appennino. La Geografia, attraverso la sua filiazione visuale più diretta, la Cartografia, non poteva esimersi dal “richiamo all’ordine” delle culture dominanti; cosicché, allorquando, agli inizi del ‘600, vide la luce quella che fu definita “la più importante modernizzazione geo-cartografica del suolo italiano”, ad opera del padovano G. A. Magini, il Nostro sembrò destinato ad un imperituro ruolo secondario attraverso l’apposizione del toponimo “M. Apennino” (fig. 3). IN REALTA’, L’OPERA DEL MAGINI, che pure ebbe un successo furioso per tutto il ‘600 e fino a quasi la fine del ‘700, aveva ben poco di originale: sostenuto dal Duca di Mantova, lo studioso padovano, incaricato di redigere il primo “Atlante d’Italia” mai mise nemmeno piede in molte delle Regioni di cui pur così “minuziosamente” descrisse contorni geografici e toponimi: per gran parte del Regno di Napoli, in particolare, si avvalse soprattutto della cartografia del geniale scienziato nolano (che alcuni, errando, vorrebbero addirittura di origini sidernesi) Nicola Antonio Stigliola (fig. 4). Eppure, già vent’anni prima, l’enorme affresco della Galleria delle Carte Geografiche nei Musei Vaticani, iniziato da Egnazio Danti e portato a termine dal grande erudito Lucas Holsten (Holstenio per gli italiani) non aveva lasciato spazio a dubbi, con quell’ “ASPRO MONTE” in bella vista al centro della rappresentazione della Calabria Ultra (fig. 5). Ma, come detto, Magini si mosse poco da Mantova, e forse non arrivò nemmeno a Roma… Le prime avvisaglie dello “scippo” si erano concretizzate con l’opera di Abraham Ortel (più noto come Ortelius), altro abile collazionatore di opere altrui, che a differenza del Magini però almeno dichiarava sempre le proprie fonti, e che, per non scontentare nessuno, capovolse il ragionamento e dichiarò la catena montuosa reggina chiamarsi, sì, Aspromonte (anzi “Aspro Monte”, fig. 6) ma “olim” (una volta, anticamente) Apenninus.

LE CARTINE STORICHE

FIG. 5 Calabria Ultra (Danti, 1580)

MAPPARE L’ASPROMONTE

Eppure, Ortelius aveva dichiarato di ispirarsi direttamente alla Calabria del Parisio, un numismatico cosentino che qualche anno prima aveva guidato l’opera incisoria di Natale Bonifacio da Sebenico (fig. 7) talmente bene (almeno in riguardo alla toponomastica) da essere direttamente copiato tanto dal De Nobili (fig. 8) che dallo stesso P. Fiore da Cropani (nel riquadro piccolo di fig. 7), autore del celeberrimo Della Calabria illustrata.

QUASI COME UN NOVELLO PILATO, invece, Giò Rigo Verricy, rinuncia a prendere posizione per l’una o per l’altra versione dei fatti (fig. 9) e proprio non si esprime, lasciando orfana questa parte di territorio calabro della sua fiera rivendicazione toponomastica. Ma, in fondo, Verricy era un veneziano che, per quanto la sua carta del Regno di Napoli fosse seducente dal punto di vista estetico, in Calabria non solo non ci aveva mai messo piede, ma ne aveva delle informazioni così frammentarie, da sbagliare quasi tutti i toponimi che vi risultano rappresentati! Janszoon, invece (fig. 10), pur copiando la sua carta storica pari pari da un’altra dell’Ortelius opera in pieno ‘600, e, quindi, vira senza tentennamenti sull’Apenninus. E qui mi sia consentita una piccola parentesi: questa carta di Janszoon (o Janssonius che dir si voglia), assieme alla omologa di Ortelius, è stata addirittura da qualcuno ritenuta come l’antesignana dell’origine della parola ‘ndrangheta in quanto, in una zona completamente bianca reca la scritta “Andragathìa

FIG. 6 Ortelius-Parisio, 1595

FIG: 4

Regio” (fig. 11): forse, quel qualcuno, nonostante che a completamento del concetto Janszoon avesse aggiunto “Lucania”, avrà pensato che in quel “regio” magari l’Autore avesse distrattamente dimenticato una “g”… Tornando, più seriamente a questa breve storia cartografica dell’Aspromonte, bisogna comunque arrivare alla fine del ‘700 per avere, con un altro padovano, G. A. Rizzi Zannoni, finalmente una vera e propria rivoluzione nella pratica cartografica. Certo, non può essere un caso che, stavolta, il cartografo in Calabria ci stazionò a lungo, e poté compiere il primo rilevamento non solo accurato, ma estremamente prezioso in riguardo ad alcune informazioni storiche a noi tramite quella carta pervenute, come, ad esempio, il gruppo di laghetti (da me evidenziati in blu, e oggi non più esistenti) che formarono il novero di quasi trecento invasi, fra grandi e piccoli, originati dal colossale sconvolgimento prodotto dal terribile terremoto del 1783 (fig. 12). Peraltro, nonostante i suoi grandissimi meriti, Rizzi Zannoni non mancò di compiere un ultimo sgarbo nei confronti della nostra montagna, riportandola, sì all’antico nome, ma quasi in sottinteso, attraverso l’associazione al Mont’Alto (“la cima più alta dell’Aspromonte”) ed ai piani più propriamente noti come “della Corona” che non “di Aspromonte” (fig. 13). AD OGNI MODO, A SISTEMARE definitivamente le cose ci pensarono, qualche anno più tardi, gli Ufficiali topografi dell’Esercito Austriaco (che ci facevano gli au-

FIG. 7 Parisio, 1589


Speciale Aspromonte

inAspromonte Ottobre 2013

Chi è

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LE CARTINE STORICHE L’INGEGNERE

Giuseppe Fausto Macrì (Bovalino, 1955) è ingegnere e cultore di storia della Calabria e di cartografia storica. Ha già pubblicato Mari di carta (2007), La sentinella perduta (2008), Per antichi sentieri (2010), oltre ad articoli in riviste scientifiche nazionali ed estere. Ha curato il catalogo della Mostra di cartografia storica … E la terra diede vento (2008), e gli Atti del Convegno di Locri: Giochi di specchi. Spazi e paesaggi mediterranei fra storia ed attualità (2012). Di recente ha dato alle stampe Il Tempo, il Viaggio e lo Spirito, negli inediti di E. Lear in Calabria (2012).

FIG. 11 Andragathia (Jans.-Ortelius, 1642)

L’AUTORE

Pino Macrì (nella foto)

FIG. 12 Rizzi Zannoni-Laghi, 1788

FIG: 15 striaci nel Regno di Napoli fra il 1821 ed il 1844? Beh, questa è un’altra storia…), che, basandosi proprio sulle carte del Rizzi Zannoni, redassero un accuratissimo Atlante del Regno che, stranamente, non ebbe però la fortuna che invece avrebbe meritato (fig. 14), non foss’altro che per l’evidenziazione, per la prima volta, di luoghi e toponimi sconosciuti ai più, come Pietra Cappa (in verità ritratta anche dal Rizzi) e Pietra Castello. A CONCLUSIONE DI QUESTO EXCURSUS che spero non abbia troppo annoiato il coraggioso lettore che sia arrivato a questo punto, però (last, but not least direbbe l’inglese), mi sia consentita di riparare attraverso il regalo di una vera e propria “chicca”: la carta di fig. 15, meglio conosciuta come Carta Aragonese perché, come

recita il cartiglio, sarebbe stata fatta ricopiare dall’Abate Galiani, “per ordine del RE, da un antico manoscritto conservato presso il Deposito della Marina di Parigi” nel 1767. Vi è riportata la descrizione del territorio per come sarebbe stato, secondo la ricostruzione più accreditata, attorno al 1495! Se il presunto originale (oggi scomparso) fosse veritiero (ci sono delle riserve) questa carta rappresenterebbe una testimonianza eccezionale degli insediamenti antropici medievali in questa parte di Calabria, addirittura tale da costringere a rivedere molte pagine di storia. Al momento, purtroppo, non si può parlare di conferme definitive, ma nessuno potrà mettere in second’ordine il fascino e l’eleganza di segni cartografici fra i più belli della cartografia antica. E, fra tutti, spicca in splendida evidenza un inequivocabile “aspro monte”.

FIG. 8 De Nobili-Parisio, 1550

FIG. 9 Giò Rigo Verricy, 1595

FIG. 13 Rizzi Zannoni, 1788

FIG. 14 Uff. Militare Austriaco, 1821-1844

FIG. 10 Ortelius-Janszoon, 1642


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Ombre e luci

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L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri

ASSALTO AL MUNICIPIO

Locri. Macrì e Arcadi, due magistrati che non si piegarono a nessuno. Neanche alla ‘ndrangheta

di Cosimo Sframeli

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a raffica di mitra sparata contro il Municipio, mentre era riunito il Consiglio comunale, fu considerata un avvertimento per l’intera città. Ci furono drammatici momenti di panico generale. I consiglieri comunali si rifugiarono sotto i banchi, cercando di ripararsi dai proiettili, alcuni dei quali si conficcarono sulle pareti dell'aula consiliare. La 'ndrangheta, nell'assenza di risposte efficaci, faceva la voce grossa. I suoi appetiti diventavano sconfinati, totalizzanti, grandi quanto un Piano Regolatore Generale. C’erano interessi e lottizzazioni miliardarie. Tutto si svolgeva senza regole. Il nuovo assessore all'Urbanistica, eletto dopo sette mesi di crisi, era curioso. Chiese di essere informato, per capire con quali criteri il progettista scegliesse le aree edificatorie. Proprio quelle controllate dalla 'ndrangheta. Un crescendo di terrore. Dapprima, una scarica di colpi di pistola contro la porta di casa dell'ingegner Gaetano Gallì, dirigente dell'ufficio tecnico comunale. Quindi, un agguato alall'Urbanistica l'Assessore Federico Fazzari, scampato miracolosamente al fuoco del commando mafioso. Infine, di venerdì, l'ammonimento al Consiglio comunale che si era riunito proprio per esprimere solidarietà all'assessore. Il linguaggio delle cosche era estremamente chiaro. L'attività edilizia non aveva bisogno di regole, l'abusivismo pilotato dalla 'ndrangheta non poteva avere freni. Locri, all'una del po-

meriggio, sembrava una città morta, avvolta nel silenzio. In quella società mafiosa, in territorio italiano, la vita aveva ritmi diversi. C'era una sola persona davanti al Municipio, dopo l'assalto criminale. Rare le auto che transitavano per le principali strade. Chi poteva, andava via. Le attività economiche vivacchiavano tra un attentato e una richiesta estorsiva. E negli ultimi cinque anni di attentati ne furono commessi più di cinquecento. Bombe, sparatorie a scopo intimidatorio, auto incendiate, contro tutti. Contro amministratori, appaltatori, uomini politici, giornalisti, albergatori, contro la stessa Curia Vescovile che aveva fatto sentire la sua voce contro i principi mafiosi ed i politici collusi per un recupero di vivibilità su cui pochi credevano e in molti speravano. C'era una logica militare nell'operare delle cosche mafiose. Imponevano i propri progetti, tentavano di bloccare le coscienze. Chi era attaccato, se poteva, andava via. La città si spegneva. Pur tentando di minimizzare, ci si rendeva conto che le cosche avevano esteso il loro controllo dal territorio alle istituzioni. Il Palazzo di Giustizia di Locri spalancava le sue porte sulla Piazza deserta offrendo al visitatore il vuoto desolante di un qualsiasi ufficio pubblico nei giorni di calura. Una lapide di marmo, in cima alla prima rampa di scale, ricordava Zaleuco, primo legislatore del mondo occidentale. Il Palazzo di Giustizia, grigio e squadrato, era un avamposto nella Fascia Jonica reggina, dove prosperavano mafia ed illegalità. Lo Stato non voleva arren-

e negli ultimi cinque anni di attentati ne furono commessi più di cinquecento. Bombe, incendi, intimidazioni dersi. Non a caso in Italia il primo processo alla mafia, secondo l’innovativo art. 416 bis del c.p., fu celebrato proprio a Locri (Giudici Luigi Cotrona e Rosalia Gaeta). Eppure, la normalizzazione avvolgeva e paralizzava le energie dell'apparato che avrebbe dovuto lottare contro la ’ndrangheta. Di trasferimento in trasferimento, si era smantellato l'esile ma efficace Squadra di investigatori messa su, in anni di lavoro, dai giudici Arcadi e Macrì. Un cambio di strategia nella lotta alla mafia che passò attraverso lo scioglimento del pool, formato da Magistrati e Carabinieri, il primo, ideato e voluto per fronteggiare in maniera seria ed esclusiva il fenomeno mafioso, poco conosciuto, della ‘ndrangheta. Tutti trasferiti e nessuno rimpiazzato. Fu uno smantellamento non tanto quantitativo, ma soprattutto qualitativo. Non rimase Spanò, “memoria storica”. Alla guida del pool, i Pubblici Ministeri Macrì ed Arcadi; la loro fu la storia di due magistrati che non ebbero riguardi per nessuno. Che non si piegarono a nessuno. Dai loro Uffici partirono inchieste contro i mafiosi,

Nella foto sopra, Cosimo Sframeli contro i politici collusi e potenti. Contro la ‘ndrangheta. Contarono nella lotta, non nella vittoria. Ed era inutile restare a Locri, se non per combattere la mafia. Meglio andar via. «C'è stata - affermava il Giudice Ezio Arcadi - una maledetta fretta di smontare tutto. Smontare la piccola, fragile macchina che pure ha dato i suoi frutti, nel passato. Un gruppetto di magistrati e carabinieri che, fra l'82 e l'86, ha ottenuto gli unici successi organici contro l'Anonima sequestri ed è giunto a toccare certi ambienti politici collegati alla mafia. Oggi non si applica la politica dei risultati, ma quella della

normalizzazione. Vengono trasferiti Marescialli e Brigadieri attivi in zona, magari solo da un paio d'anni, applicando con fiscalità regolamenti che ad altri, di stanza qui magari da vent'anni senza pestare i calli a nessuno, non si applicano. Per farci la guerra, è stato usato qualsiasi mezzo. False lettere di raccomandazione, falsi rapporti del Sisde, processi, procedimenti disciplinari, ispezioni ministeriali, esposti, citazioni per danni. Si è giunti perfino all'istanza di interdizione presentata da un avvocato per dire che un giudice era pazzo. L'apparato mafioso ha lavorato alla nostra delegittimazione».


Ombre e luci

IN VERITA’ CONDANNATI A MORTE

inAspromonte Ottobre 2013

Papa Francesco: «Tutti siamo uguali davanti a Dio» Davanti al ministro della Giustizia, lo scorso 22 settembre, il Santo Padre si è rivolto alle persone che soffrono in carcere: «Tutti abbiamo difficoltà, miserie, fragilità. Nessuno è meglio dell'altro, e tutti siamo uguali davanti a Dio». La missiva di un ergastolano, consegnata al Santo Padre, conteneva un appello affinché il Papa intercedesse e "aprisse il cuore" ai governanti e ai parlamentari. Le righe del detenuto si chiudevano con una poesia: "Fine pena mai". Dall'epilogo ancora più eloquente: "Non è brutta la morte, brutto è vivere la morte".

Opera. La prigione di Pompa

I ragazzi dell’Aspromonte muiono in galera

Per noi era Pompa, da sempre. Sigarette e caffè e poteva fare 2 mila chilometri senza dormire di Gioacchino Criaco

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e rughe di un tempo erano microcosmi nel piccolo mondo dei paesi della Locride. Intere famiglie contenute a stento in minuscole case popolari, disposte intorno al cortile della ruga. Centinaia di anime avvinte da un vincolo che andava oltre il legame di sangue. Tutti per uno e tutti per tutti. Tutti uniti in un destino comune. Una grande famiglia. La festa era festa per tutti e il dolore un dolore comune. I bambini si alzavano all’alba, d’estate, giocavano sino a sfinirsi. Una pausa per il pranzo e poi di nuovo in cortile fino al tramonto. L’imbrunire era un evento, magico e strano allo stesso tempo. I bambini fermavano il gioco, le donne portavano fuori le sedie e aspettavano il rientro degli uomini dalla campagna. Anche quelle avvinte nel nero si sedevano davanti all’uscio, pur non avendo uomini che potessero rientrare. I bambini le scrutavano con compassione, senza capire. Compresero più avanti.

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Antonio Favasuli Di Africo. Fu accusato di omicidio qualche anno fa e stava scontando la condanna a trent’anni nel carcere di Opera, assieme al fratello Pasquale. Pur soffrendo entrambi di gravi cardiopatie (Pasquale fu costretto persino al trapianto nel 2003) non hanno avuto la possibilità di curarsi in strutture adeguate esterne all’ambiente carcerario.

Nella foto sopra Antonio Favasuli, detto “Pompa”, scomparso nel settembre scorso a causa di un arresto cardiaco (Foto di Leo Moio) Così i ragazzi delle rughe diventavano grandi, abbeverati alla fonte dell’odio e alla sete della vendetta, imparando a cambiare i colori del dolore in quelli dell’odio placato. Quei ragazzi percorsero le strade infernali e il nero lo portarono altrove, a colorare altre case e altre donne e creare altre attese. I ragazzi delle rughe diventavano grandi all’imbrunire quando la luce abbagliante

del sole non riusciva più a nascondere la durezza della vita. E alla fine l’aurora non arrivò più e il giorno divenne notte e l’imbrunire si prese tutto. I bimbi della Locride diventarono uomini in fuga dalle pallottole e dalla galera. Furono cattivi, e non m’importa se la colpa della cattiveria appartenesse solo a loro o andasse condivisa con una società cieca e sorda. Ci sono nato in

una ruga e comunque fosse, quella gente è la mia gente. E ogni volta che qualcuno di loro manca è un colpo al cuore. E a Pompa l’ha fregato il cuore, gli si è fermato di colpo, dentro una galera. Il suo nome nemmeno ce lo ricordavamo più, per noi era Pompa, da sempre. Sigarette e caffè e poteva fare 2 mila chilometri senza dormire. E a me non importa se fosse stato

colpevole o innocente, mi spiace sapere che il suo sorriso, perenne dentro un viso macchiato dalla plastica infuocata, in questa vita non lo vedrò mai più, insieme ai volti di tanti fratelli stupidamente e inutilmente divisi. Tanto, troppo sangue hanno versato e fatto scorrere i figli dei boschi. Possano Dio e gli Dei placare lo spirito guerriero che li anima, e scacciare il Demone che li possiede.

Lettere dal carcere L’ARIA DEL MARATONETA Io non corro come te, per essere il primo. Non corro come tanti per non arrivare ultimi. Io corro per lasciare tutto dietro, soprattutto gli anni buttati che mi tallonano e mi afferrano per la maglia o i calzoncini. Gli anni insistono e io più di loro. Accelero il passo, e freno perché ogni quattro passi c’è un muro da schivare. Accelero e freno, e li sopravanzo i pensieri molesti. Accelero e freno e tengo dentro i ricordi e le fantasie, tonici per i miei muscoli, doping per il mio morale. Ed ecco che appare, la tua testa liscia, inconfondibile. Corro più veloce possibile, non per fuggire ma per raggiungerti, per starti al fianco. Corriamo e freniamo e le sogniamo insieme le nostre spiagge, che in due il sogno è quasi realtà. L’ora finisce e tu corri lontano. Io cammino, cammino piano per una nuova

fuga. La faccio da fermo tra le pagine di un libro. Perché io i libri li so scegliere, ho il maestro e margherita sul letto ad attendermi e la curiosità di sapere se i due se la intendano è forte. Si, io sono furbo i libri li scelgo con cura e li evito quelli che potrebbero amareggiarmi. Prendo quelli romantici per distruggere la maschera di un cinismo che ho regalato agli anni. Accelero e freno anche nella corsa sui libri, evito i muri dei sentimenti sui quali ho già sbattuto. E quando mi spengono la luce, che qua nemmeno di quella si è padroni, non mi fermo. Mi infilo in un sogno a passo svelto, e accelero e freno quando tutti dormono. Mi tengo pronto, mi esercito. Anche domani ci sarà l’aria, sfuggirò ai pensieri e agguanterò i ricordi. Ti acchiapperò come faccio ogni giorno, in questa corsa da eterno maratoneta.


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Aspromonte orientale

inAspromonte Ottobre 2013

La ricetta del capraio

CAPRA BOLLITA ASPROMONTANA

Ingredienti: una capra aspromontana (si si, tutta intera) tagliata a pezzi (la carna è più gustosa se è di un castrato), un recipiente capiente (a cardara), qualche pomodoro fresco, 3-4 cipolle tagliate a pezzi, quanto basta peperoncino fresco, basilico, olio,

sale, acqua. Procedimento: dopo aver messo nella “cardara” la carne tagliata a pezzetti riempirla con acqua (deve arrivare quasi all’altezza della carne), aggiungere insieme cipolla tagliata a pezzi, pomodoro fresco, peperoncino, olio, basilico, poco

Africo, il racconto liberamente ispirato alla storia di Ciccio Larizza

Il fantasma di Ciccio “Marguni” di Bruno Criaco

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l rumore del ferro battuto svegliò la bambina che ricominciò a piangere, era sudata e febbricitante, Ciccio gli accarezzò la fronte preoccupato, non sapeva cosa fare per calmarla. «Vittoria vieni qua muoviti, la bambina sta male» «Ciccio non ti preoccupare, vedrai che presto gli passerà, piuttosto manda qualcuno da mastro Gianni per farlo smettere, che è da stamattina che fa rumore, neanche stesse forgiando le campane per San Rocco» «Ci passo io più tardi». Vittoria riuscì ad addormentare la figlioletta e attizzò il fuoco. La casa, un unico locale, si era riempita di fumo, e Ciccio, che in attesa della sera stava cercando di riposarsi, si svegliò tossendo. Era inquieto, forse perché Angela la più piccola delle sue figlie stava male, o forse per l’appuntamento che aveva quella notte. Ciccio era un “valente”; qualche mese prima in un duello rusticano, come si usava allora, aveva ucciso un suo compaesano. Aveva lottato in modo leale. Aveva lottato con onore come gli antichi guerrieri. Ma aveva ucciso un padre di famiglia e questo lo faceva dannare. Era latitante, dunque attendeva il buio per muoversi. La moglie gli preparò un po’ di polenta ma Ciccio quella sera non aveva fame, tirò fuori da una cassapanca il Mab, indossò il cappotto militare, che col fucile mitragliatore era “la sua dote” della grande guerra, e dopo aver salutato figlie e moglie uscì nel buio della sera. Attese qualche minuto sull’uscio di casa, gli occhi si dovevano abituare all’oscurità. Si legò bene le “calandrelle”, il selciato bagnato dalla pioggia era scivoloso, e si diresse fuori dal paese, prima però passò dal fabbro che per tutta la giornata aveva spaventato la sua bambina con i suoi colpi, e lo trovò ancora intento ad affilare un’ascia enorme. «Ah maestro, è per questa che da stamattina batti il ferro. È bella, e ad ogni colpo farà volare una testa. Chi te la ha ordinata?» «È di Turi, il figlio di massaro Peppe, deve passare a ritirarla, manca solo il manico» «Meno male che hai finito, mia figlia ha la febbre e con il rumore che facevi non riusciva a riposare, questo ero venuto a dirti.» Ciccio uscì dal paese senza incontrare nessuno, col maltempo chi

doveva rientrare a casa lo aveva già fatto. Il cielo era coperto, piovigginava, ma la luna riusciva comunque a far filtrare un po’ di luce. Ciccio camminava spedito, i suoi piedi evitavano fosse e pietre, avevano calpestato quel selciato da sempre, lui l’avrebbe potuto percorrere ad occhi chiusi. Nei boschi si sentiva al sicuro perché i carabinieri non sarebbero mai andati a cercarlo, tutti in paese lo temevano e loro non facevano eccezione. Quando giunse nel suo rifugio, una piccola capanna di pietre, coperta di corteccia di faggio, terra e ginestra, era inzuppato e perciò si mise all’opera per accendere il fuoco. Aspettava visite e voleva far trovare al suo ospite il fuoco acceso. La legna era umida ma grazie ad un piccolo fascio di rametti d’erica riuscì a farla accendere. Il piccolo rifugio si riempì di fumo, e lui per non respirarlo si sdraiò sulla lettiera di felci secche, era molto stanco ed il calore alimentò la sua sonnolenza. Crollò. Per un attimo nel dormiveglia lo assalì un brutto pensiero, gli venne in mente l’ascia e Turi. Ed era Turi la persona che aspettava. Era poco più che un ragazzo, ma aveva il diavolo negli occhi. Era un valente pure lui, un dannato, non aveva paura di niente e di nessuno. Giorni prima aveva rubato due capre ad un amico di Ciccio e seppure a malincuore adesso le stava riportando indietro. Ciccio era un lupo della montagna e a Turi se lo mangiava crudo e lo sputava cotto, non lo vedeva neanche. Ma era dal mattino che il pensiero di doverlo incontrare lo rendeva inquieto, aveva anche pensato di sparargli un colpo in testa e di buttarlo in un rovo, ma massaro Peppe era un buon uomo e non se lo meritava. Quando il ladruncolo arrivò, legò le capre ad un tronco ed entrò nella casetta, Ciccio aveva ceduto al sonno ma l’istinto lo fece svegliare. Fece in tempo a vedere l’ascia luccicante e gli occhi di Turi senza paura, riconobbe quello sguardo. E poi fu il nulla. Ciccio fu ucciso senza onore, e per tanti anni anche dopo morto incuteva paura. La leggenda vuole che il suo fantasma vaghi ancora tra i castagni giganteschi che proteggevano il suo rifugio. Lo uccise un ragazzino a tradimento, ma prima ancora lo uccise il troppo coraggio.

La leggenda vuole che il suo fantasma vaghi ancora tra i castagni giganteschi che ne proteggevano il rifugio. Lo uccise un ragazzino a tradimento, ma prima ancora lo uccise il troppo coraggio


Aspromonte orientale sale (va aggiunto poco alla volta durante la cottura). Coprire la “cardara” con il coperchio e lasciare bollire a fuoco lentissimo per circa 2 ore. Il trucco: in alcuni paesi aspromontani, anziché mettere l’acqua nella “cardara” al livello della carne, si aggiunge solo

qualche litro per evitare che questa si attacchi al fondo durante la cottura. Ciò richiede una maggiore attenzione da parte del cuoco che, durante la cottura, deve mescolare la carne molto spesso (con il cucchiaio di legno naturalmente)! La cottura: cuocere

inAspromonte Ottobre 2013

questi cibi su un fuoco a legna tende a renderli più gustosi. Si consigliano tronchetti di leccio o quercia (che sono aromatici e bruciano a lungo) e rami di erica (da aggiungere di tanto in tanto per ravvivare il fuoco, data la loro elevata infiammabilità).

Platì 1956, con una valigia di cartone in cerca di fortuna

SPARTENZA

Il destino doloroso dei numerosi emigranti calabresi di Mimmo Catanzariti

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i primi sentori del cambiamento di temperatura, il paese si avviava lentamente alla sonnolenza invernale. Le imposte delle finestre, sempre spalancate per il caldo, si richiudevano a quel nuovo stato che si ripeteva ogni anno, ciclicamente. Per le strade del paese gli ormai radi barbagli di sole abbandonavano angoli, piazzette e posti ormai deserti dove le persone anziane si attardavano per raccogliere "U suli pò 'mbernu". Le giovanette riprendevano la loro naturale riservatezza ritirandosi all'interno dei loro balconi con le loro sconosciute e silenziose vite, lanciando ai giovanotti sguardi furtivi e maliziosi, mute promesse di un futuro di sogni e di famiglia. Ciccio si avvicinava verso la piazzetta, dove era l'appuntamento con gli altri paesani, per aspettare che il camion di mastro Peppe "d'u mustu" arrivasse al punto di ritrovo. Ci volevano due ore di cammino su quel vecchio cassone sgangherato per arrivare a prendere il treno alla fermata di Gerace marina, quel treno che li avrebbe portati via, lontano dalle loro case, dai loro paesi sempre più desolati e solitari. Erano già stati a Reggio Calabria per fare la visita finale, quella che certificava il buono stato di sa-

lute, requisito essenziale richiesto dalla commissione tedesca per l'idoneità al lavoro in Germania. Ancora non sapevano che tipo di lavoro avrebbero dovuto fare; si diceva che molti proprietari di aziende tedesche avevano richiesto manodopera giovane da selezionare per i lavori nelle loro fabbriche, che, nonostante la guerra, avevano ripreso a produrre materie prime a ritmi forsennati. Sicuramente un lavoro duro, nelle fonderie e nelle accia-

compagnia di qualche carbonaro e di qualche "forisi" lo avevano fatto arrendere all'inevitabile decisione di partire verso quei paesi in cui si diceva che avrebbe fatto i soldi con la pala. Partiva da un paese lacerato dalla guerra, dalla fame e dal rischio di morte, sognando una terra lontana che si figurava come il luogo della pace, della libertà e del futuro per i propri figli. Un sogno che avrebbe voluto avesse il nome della sua terra, dove i diritti e i

Strada mia abbandunata, ora ti dassu, ciangendu mi 'ndi vaju la via via. I quantu passi che di tia m’arrassu, tanti funtani furu l'occhi mia... Non sulu funtani, no, ma feli e tassu, tassu che m'intassau la vita mia. Eu partu pe' l'America luntana, nun sacciu undi mi porta a mè furtuna... ierie, o nelle fabbriche automobilistiche di cui la Germania andava fiera. Sempre meglio che finire dentro una miniera in Belgio o in Francia, o fare la fine di quei disgraziati morti a Marcinelle qualche mese prima! Ciccio aveva cercato di sbarcare il lunario in molti modi, zappatore a giornata tra i contadini del Conte, grazie al fatto che era il nipote del massaro che gestiva per conto del nobile i terreni di famiglia, ma con la paga del periodo della semina non si campava tutto l'inverno; aveva provato a prendere un uliveto a mezzadria, ma le annate scarse e il crollo del prezzo dell'olio gli avevano prosciugato quasi tutto quello che era riuscito a mettere da parte. Era andato finanche a lavorare sui piani di Zervò in Aspromonte, a condurre i buoi per la semina del grano e delle patate, ma la paga scarsa e gli stenti di vivere e dormire dentro un "pagghiaru", in

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doveri dell’uomo erano sacri; e poco importava da quale passato di dolore o di paura si era arrivati. Fosse anche un poveraccio, senza vestiti e senza pane, in fuga da guerre e tragedie. A Ciccio gli si stringeva il cuore mentre percorreva le "vineije" del vecchio paese, e ad ogni porta chiusa che incontrava sul suo cammino, faceva un saluto con la mano. Proprio come gli aveva insegnato il nonno massaro: «Saluta sempre la porta della casa della persona che rispetti, anche se non ci sta nessuno in quel momento». Aveva salutato per ultima sua moglie Caterina, che aveva gonfio il ventre e gli occhi, ormai due pozze nere per le lacrime versate da quando Ciccio aveva deciso di partire. Non senza aver discusso, litigato e gridato, contro la necessità di quell'abbandono, seppur temporaneo, ma purtroppo inevitabile. Così partiva, Ciccio, e si imprimeva negli occhi ogni albero, ogni pianta, ogni casa da portare con sé. Nella mente. Nel cuore. Li avrebbe così ricordati nei momenti più difficili. E spontanea gli venne alle labbra una muttetta, che sentiva cantare a compare 'Ntoni 'u Giarruni nelle serate primaverili per le viuzze dell'Ariella...

L’acqua calda di BRUNO SALVATORE LUCISANO 2013

Giuseppe e Alfonsina, assieme alle due figlie, si recano a Reggio Calabria a casa di zia Clelia e zio Franco. La zia ha fatto il compleanno e li ha invitati a passare una giornata assieme. All’ora di pranzo si siedono a tavola per consumare il pasto che la zia ha preparato. Carne di capra, maccheroni, anguria e, per finire, il dolce fatto in casa. Finito il pranzo, si rimette a posto la cucina, prima di andare a fare un bel riposino. Sei piatti di plastica dell’antipasto, sei piatti di plastica del primo, sei del secondo, e sei del dolce. Poi, ancora, sei bicchieri di plastica del vino, sei del caffè, sei della grappa. E ancora una trentina di tovaglioli di carta. Ah, dimenticavo, la lattina di Coca Cola di Zio Franco, che ama mischiarla al vino, senza alcun rispetto della fatica dell’uomo. Un po’ di maccheroni rimasti, le ossa della carne, la buccia dell’anguria e della frutta, qualche ritaglio di salame, i contenitori del salame, il tutto, in due belle buste di plastica che vanno a finire in due contenitori per la raccolta dei rifiuti. Ah, dimenticavo, nelle buste è finito pure l’assorbente con le ali della figlia più grande di Alfonsina.

1963

Giuseppe e Alfonsina assieme alle due figlie, si recano a Pietrapennata a casa di zia Clelia e zio Franco. La zia ha fatto il compleanno e li ha invitati a passare una giornata assieme. All’ora di pranzo si siedono a tavola per consumare il pasto che la zia ha preparato. Carne di capra, maccheroni, anguria e, per finire, il dolce fatto in casa. Finito il pranzo, si rimette a posto la cucina, prima di andare a fare un bel riposino. Si lavano i piatti, i bicchieri del vino, le tazzine del caffè, i bicchierini della grappa. Non c’è la lattina della Coca Cola, Dio ce ne scansi e liberi. I ritagli del salame, i maccheroni rimasti e qualche pezzetto di torta, vanno portati al porcile dove Pirlone, il maiale arrivato dal nord, attende impaziente. Le ossa, invece, a Black il cane da caccia bastardo, anch’esso del nord. Ah, dimenticavo, il panno, senza ali, del ciclo della figlia più grande di Alfonsina è stato lavato e messo ad asciugare. Questi due episodi, in epoche diverse, vogliono dimostrare, per quanto è possibile, questo che segue. Invece di parlare di differenziata, di come bisogna comportarsi con i rifiuti, perché non insegniamo a non produrli? Perché non cominciamo a lavare piatti e bicchieri, ad usare i tovaglioli di stoffa, i fazzoletti, ecc.? Certo, ci sarebbe un maggior consumo di acqua, le multinazionali della plastica ci dichiarerebbero guerra, ma che importa? Adesso per concludere, moltiplicate per milioni di famiglie il consumo giornaliero della famiglia di zia Clelia, e immaginate le montagne di rifiuti che si producono ogni giorno e con un po’ di buona volontà si potrebbero dimezzare. Senza contare il grande risparmio di denari. È la scoperta dell’acqua calda? No, è la scoperta dell’acqua del rubinetto. L’unico vero inconveniente, è che si troverebbe meno tempo per stare su facebook. Con rispetto.


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Aspromonte grecanico

inAspromonte Ottobre 2013

SEGNI DI MAGNA GRAECIA SULLE MONTAGNE

Lungo la Vallata dell’Amendolea

454 km² di superficie

L’Area grecanica, compresa tra il basso Jonio reggino e l'Aspromonte, ha paesi situati a 15 km dalla costa, su monti di difficile accesso e solcati da burroni.

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Ma un mondo di cultura alle spalle I siti che fra il XIX e il XX secolo erano ellenofoni vanno dalle porte di Reggio Calabria sino a tutto l’Aspromonte jonico, arrivando alla stessa Locride.

La Calabria greca. Poesie, artigianato tessile, musica, religione

Una lingua che non deve morire

C’è una cosa che da sempre caratterizza i paesi grecanici. È l’arte del Poesiari su natura, amore, dolore e nostalgia portante della cultura; quella grecanica in particolare si muove in quattro ambiti: abitudini, artigianato, musica, religione. La lingua mostra i segni di un’eredità l territorio immediatamente ad est ed a sud-est di che risale ai tempi omerici. L’artigianato usa, nei Reggio Calabria, all’incirca fra Cardeto e Africo, suoi schemi formali, disegni che la cultura tardo anha una tradizione grecanica che si è mantenuta tica e bizantina ha mutuato dalla preistoria; succede più a lungo nel tempo rispetto al resto della Calabria così che l’ornato di un oggetto artigianale di questo ed anche della provincia reggina. In particolare atterritorio mostri concordanze con decorazioni di cultorno alla vallata dell’Amendolea, tra le pendici ture pregreche dello stesso territorio e sia del tutto dell’Aspromonte, nell’estremo della Calabria merisimile ad altri oggetti esemplati in località assai didionale, quest’area mostra ancora un residuo di vistanti dal mondo romaico. Nello stesso artigianato talità oggettivamente verificabile. I suoi centri più tessile i disegni sono ravvivati dall’accostamento acnotevoli, speceso dei colori; cie nel secolo ciò si può amscorso, sono mirare ancora La lingua mostra i segni di un’eredità che stati: Cardeto, oggi nei prorisale ai tempi omerici. L’artigianato usa, dotti di RoAmendolea, Condofuri, Galghudi (Ghorio). nei suoi schemi formali, disegni che la licianò, RoccaLa vena poeforte, Ghorio di cultura tardo antica e bizantina ha mutuato tica ha sempre R o c c a f o r t e , dalla preistoria. I disegni sono di colori accesi caratterizzato Roghudi, Ghogli abitanti dei rio di Roghudi, paesi grecanici, è una peculiarità originatasi dall’inBova e Bova Marina, ed oggi sono ristretti a Rodole delle persone o, razionalmente, dalle difficili ghudi e Gallicianò, con testimoni a Bova. È bene condizioni culturali, sociali ed economiche oltre che sottolineare, tuttavia, che la cultura greca di Calaambientali, in uno scenario paesaggistico di straorbria non è esclusiva del territorio menzionato. Infatti dinaria e aspra bellezza. Connotazioni alcune che nell’età alto medievale tutta la Calabria fu bizantina, hanno contribuito non poco nel corso dell’immediato anche nella lingua. Nel basso medioevo la lingua dopoguerra e anche dopo, alla fuga degli abitanti greca continuò ad essere parlata nel catanzarese e dei paesi grecanici, gli ultimi a parlare questo affanel reggino, mentre nel cosentino affluirono i portascinante idioma, in cerca di migliori condizioni di tori di un altro filone della cultura bizantina, di lingua vita, condannando così le famiglie alla dispersione mista, albanese e greca, e di etnia albanese. Durante il medioevo tutta la piana di Gioia Tauro fu apprezzata per la cultura e per la lingua grecanica. Più tardi, in età moderna, l’antica lingua continuò a mantenersi, in particolare tra le falde dell’Aspromonte. Quali che siano le diverse cause prossime di questa corrosione, è evidente che la cultura greca di Calabria abbia subito un attacco deciso e vincente da parte di altre culture veicolate nella società dalle classi dominanti, sia forestiere che locali. La lingua è un segno immediato e il veicolo più imdi Salvino Nucera

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Sopra un’immagine del territorio grecanico di Calabria, scatt foto sotto l’interno della chiesa di San Giovanni Battista (Ga e alla colpevole, definitiva scomparsa di tradizioni, lingua, cultura che per secoli erano sopravvissute. Questi, specialmente i più anziani, incontrarono non poche difficoltà nell’inserimento in nuovi contesti ambientali. Ironia della sorte, lo spopolamento con conseguente sparpagliamento delle popolazioni di alcuni paesi grecanici è coinciso cronologicamente con la nascita di una “attività culturale intellettualmente consapevole”, scriveva il grande studioso Minuto, negli anni settanta. Così mentre il parlato quotidiano cominciava la sua inesorabile agonia, nasceva in parallelo, come per incanto una letteratura grecanica costituita in prevalenza da manufatti poetici che avevano come autori un cospicuo stuolo di giovani. Erano e sono versi sciolti nella maggior parte dei casi, con eccezione di testi in rima baciata o alternata; nelle produzioni meglio riuscite la qualità dei contenuti, il ritmo e la musicalità dei versi, liberi o in rima possono raggiungere vertici poetici apprezzabili. In generale, però, il costrutto sintattico è molto semplice così come i contenuti espressi e i lemmi che li rappresentano, talvolta poco ritmati e spesso ripetuti. Anche gli argomenti che gli autori scelgono come oggetto delle loro composizioni sono spesso ripetuti: la lingua che muore, il paese d’origine, la natura, l’amore in tutte le salse; talvolta l’emigrazione o le angherie del vivere quotidiano. I lemmi del grecanico sono molto limitati e per una scomparsa fisiologica, e per l’evoluzione culturale e tecnologica degli ultimi secoli. I continui e fraterni rapporti di tipo umano e culturale che si sono instaurati negli ultimi trentanni con la madrepatria Grecia, hanno consentito ad autori di vario genere di innovare il loro bagaglio lessicale utilizzando parole neogreche al posto di lemmi dialettali grecizzati. Si può registrare anche qualche raro caso di contatto e contaminazione culturale con la poesia greca in generale ed autori classici in particolare. Spesso il livello culturale di molti poeti, non di altri generi letterari, così come era stato rilevato per l’arte del “poesiari”, è di grado medio basso e sicuramente molti di questi ultimi non sono per nulla paragonabili ad alcuni dei primi.


Aspromonte grecanico

PENTEDATTILO LA STRAGE DEGLI ALBERTI

P

entedattilo fu teatro di un crudele misfatto. Nel 1686 l’unione della famiglia Alberti, marchesi del posto, con i Cortez di Napoli, fece infuriare il barone Abenavoli, ex feudatario della città. Nella notte del 16 aprile questi si introdusse nel castello con un gruppo di uomini

inAspromonte Ottobre 2013

armati. Sorprese nel sonno Lorenzo e lo finì con 14 pugnalate. Poi si lanciò all'assalto delle altre stanze uccidendo tutti. Da questa storia nacquero tante leggende. Una di esse afferma che le torri sovrastanti il paese siano le dita insanguinate del barone Abenavoli. La mano del diavolo.

COMUNICATO STAMPA

tata dal satellite, nella foto a sinistra il professore Salvino Nucera, nella allicianò)

AREA GRECANICA NASCE IL MOVIMENTO PER LA TUTELA DEL TERRITORIO

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19 SETTEMBRE 2013, una rappresentanza del Movimento Politico Area Grecanica in Movimento ha incontrato il Commissario Straordinario del Comune di Melito Porto Salvo, Antonio Giannelli. L’incontro ha consentito di mettere a fuoco i temi scottanti della città di Melito Porto Salvo con l’avvio di un proficuo scambio di opinioni tra il movimento e il Commissario Straordinario. Fra le richieste avanzate alla terna commissariale c’è la necessità di dotare l’Amministrazione comunale del bilancio sociale partecipato per salvaguardare i principi di trasparenza e legalità che tale strumento garantisce; è stato sollecitato in tal senso anche un incontro aperto con la cittadinanza per favorire la partecipazione e il confronto. IL COMMISSARIO ha manifestato apertura a tali due richieste assicurando che per questo ottobre ci sarà presso l’aula del Consiglio comunale un incontro aperto con la cittadinanza e con le associazioni cittadine. Il Movimento, inoltre, ha posto l’accento su alcune criticità in tema di Sanità e Giustizia: il Commissario straordinario ha accolto

l’invito di farsi promotore di una Conferenza con i Comuni dell’Area Grecanica , mentre ha comunicato di avere già trasmesso una missiva al dirigente dell’Asp n° 5 facendo presente la necessità di salvaguardare il presidio ospedaliero. AREA GRECANICA in Movimento ha denunciato come il servizio emergenza sul territorio grecanico non sia adeguatamente garantito e in questa direzione il dott. Giannelli si farà carico di un incontro, allargato agli altri rappresentanti dell’area, con la direzione generale dell’Asp n° 5 per dotare la struttura ospedaliera di un’altra ambulanza. Quanto, invece, al mantenimento dell’Ufficio del Giudice di Pace, il Commissario ha fatto presente l’impegno del Comune di voler sostenere la quota spese, nonché la messa a disposizione dei locali. SULLA RICHIESTA, poi, di assumere una posizione netta contro il progetto Centrale a Carbone il Commissario, prendendo atto della vocazione turistica dell’area grecanica, si è impegnato a verificare con l’Ufficio Legale del Comune i termini e i margini di intervento nel contenzioso giudiziario presso il

TAR del Lazio. Rispetto, invece, ai problemi più specifici della comunità melitese sollevati dal Movimento il Dott. Giannelli ha precisato che quanto prima la villetta comunale sarà dotata di un impianto di video sorveglianza e quindi ritornerà ad essere usufruibile dalla cittadinanza, mentre la villetta Turi Pansera sarà data in gestione ad un ente no profit. Sulla questione i rappresentanti del Movimento hanno rilevato che sarebbe opportuno che in futuro si procedesse per la gestione dei beni pubblici attraverso manifestazioni di interesse, o bandi, in un ottica di programmazione. SULLA VIVIBILITA’ del Corso Garibaldi è stato garantita la presenza assidua di 3 vigili urbani e si interverrà sull’arredo e la manutenzione delle piante. Rispetto al servizio idrico, infine, è stata assicurata la potabilità dell’acqua nonché la piena funzionalità del depuratore ed eventuali problemi sarebbero riconducibili a qualche comune limitrofo. Al termine del proficuo incontro il Movimento ha consegnato un documento articolato al Commissario straordinario nel quale vengono riassunte le problematiche e le proposte di risoluzione.


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L’intervista

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di Francesco Violi

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rofessore Dieni, dall’alto della sua esperienza quarantennale come cultore di questo comprensorio, cosa deve intendere il lettore come Area Grecanica? L’etimo “grecanico”, derivante dal latino graecanicus, che è stato importato o imitato dalla Grecia, ossia un sostantivo caratteristico dei dialetti o delle culture greche dell’Italia meridionale e della Sicilia utilizzato per esprimere ciò che non è perfettamente greco, non appartiene, in verità, alla lingua calabro-greca. Il termine è stato introdotto, insistentemente, alla fine degli anni Settanta da alcuni simpatizzanti, o allora parlanti il Greco, che man mano si andavano organizzando come ricercatori dell’idioma. Il termine che venne usato per la prima volta dal Galatèo, oggi, viene usato scorrettamente ed impropriamente, per indicare ogni cosa che nella Calabria grecofona, abbia attinenza con la cultura e la lingua calabro-greca; addirittura in San Lorenzo Marina un cartello così scrive: “Farmacia grecanica”. A questo punto si rimane senza parola! Si è soliti sentire espressioni come: “lingua grecanica”, “grecanici”, “letteratura grecanica”, “parlano il grecanico”, “area grecanica” e chi più ne ha, più ne metta; sono espressioni che ormai sono entrate nella forma mentis di chi vuole parlare dei Grecofoni della Bovesìa, ma gli autentici parlanti non hanno mai usato questo termine; i più anziani, mi riferisco ai conoscitori della lingua, ormai pochi e ultraottantenni, non hanno mai usato tale termine nella loro parlata greca. Nessun Grecofono ha mai detto platègguo grecanica, ma avrebbe usato l’espressione platègguo greca (parlo greco), come pure ìmme grecanico, ma ìmme greco, e così via. La domanda è posta bene poiché oggi l’aggettivo “grecanico”, almeno per coloro che sentono vivo il senso d’appartenenza a questa Comunità grecofona, indica solo e solamente, l’area geografica dove il Consiglio

Il termine grecanico è stato introdotto alla fine degli anni settanta da alcuni simpatizzanti, o allora parlanti il greco, che man mano si andavano organizzando come ricercatori dell’idioma

Nella foto sopra la lapide affissa nella piazza di Bova, a destra una vista panoramica della Chòra

A colloquio con Salvatore Dieni. Esperto di lingue e cultura greco-calabra

PARLO IL GRECO NON IL GRECANICO provinciale di Reggio Calabria, facendo seguito alla Legge 482 del 15 dicembre del 1999 cui compete l’individuazione delle aree da porre sotto tutela ed operando con la logica della becera politica di voti, con diverse delibere distanziate nel tempo ed a seconda degli amministratori comunali da accontentare, ha individuato la “superstite” Comunità grecofona, in un’area che va dalla Locride al Reggino: inizia da Samo e finisce a Reggio Calabria. Nulla di più assurdo, illogico e falso! In realtà l’area storica dove ancora oggi sopravvive qualcuno che parla l’idioma greco, è quella che esperti e ricercatori indicano col nome di Bovesìa, area che comprende i paesini che registrano ancora anziani parlanti e uno sparuto numero di giovani e meno giovani: precisamente Bova (400 anime),

Chi è

ritenuta la Chòra dei Grecofoni calabresi, da qui appunto il nome Bovesìa, coniato già nella seconda metà dell’Ottocento per identificare l’area dei parlanti e la sua moderna emanazione; Bova Marina cioè (3900 abitanti); Gallicianò di Condofuri, oggi abitato da non più di venti persone, ma considerato l’agglomerato umano più “puro” riguardo la lingua e le tradizioni calabro-greche; Roghùdi Nuovo (1800 residenti), la comunità greca potenzialmente più numerosa di parlati, ma nessuno ormai anche lì usa la lingua nella propria quotidianità; infine Roccaforte del Greco che di greco ha solo il nome visto che nessuno dei suoi circa 600 abitanti, da anni ormai non parla greco, annoverato nell’area storica dei comuni di lingua greca più per il nome che per la sua consistenza

linguistica. I parlanti oggi il calabro-greco non raggiungono le 300 unità, ivi compresi un gruppo che ha appreso la lingua in età matura. In questo “sfacelo” e “disgregamento” sociolinguistico della Comunità grecofona calabrese non bisogna dimenticare chi, negli ultimi anni apporta maggiore confusione, distorsione, stravolgendo perfino quello che è rimasta della lingua un tempo lessicalmente ricca ed oggi spaventosamente depauperata: sono i nuovi “colti”, coloro che tutto sanno, sanno insegnare, sanno lanciare crociate per la sua difesa, sanno conferenziare, sanno fare e seguire corsi di cultura greca, ma a buon diritto si può ragionevolmente credere che la stragrande di questi “nuovi colti” della lingua calabro-greca, siano degli arrivisti, alquanto presuntuosi e un po’ arroganti,

SALVATORE DIENI Docente di Lettere, di Greco e Greco-Calabro presso l’Istituto Comprensivo di Bova Marina rappresenta uno dei massimi esperti della Cultura e della Lingua GrecoCalabra. Presiede ed insegna Lingua e Storia Greco-Calabra presso altre Istituzioni Scolastiche della Provincia di Reggio Calabria ed è docente nei Master dell’Università per Stranieri “Dante Alighieri”. È Presidente del Circolo Culturale “DELIA” di Bova Marina. Da oltre 40 anni studia e si appassiona alla salvaguardia della culturaggrecanica. Forte dell'esperienza maturata in Grecia diviene un dei riferimenti più significativi della cultura minoritaria della Bovesìa. Dagli anni Ottanta a tutt'oggi, come docente di CalabroGreco e Neo-Greco, è presente, nelle scuole dell'ara grecofona ad insegnare l'antico idioma ed il Neo-Greco, naturale evoluzione del “bovese”. Il suo impegno socioculturale per i grecofoni non si è fermato solamente all'attività didattica, ma si è anche consolidato nell'inaugurare già dalla fine degli anni Settanta una nuova stagione di rapporti e scambi socio culturali con la Grecia e con l'Isola di Cipro favorendo scambi umani e soprattutto di studenti tra la Grecia e la Bovesìa.

smaniosi della pubblicità e dell’apparire. Qual è il futuro culturale e linguistico di questa area? Il futuro di quest’area non è affatto roseo, a questo pessimismo concorrono tutti e tutto; è un futuro che non riguarda solamente la cultura minoritaria greca, basti pensare che oggi l’area della Bovesìa è “sorvegliata speciale” da parte del Ministero degli Interni. Non sappiamo poi chi sorveglia tanti prefetti e alti funzionari che sono sbrigativi a sciogliere comuni perché controllati dalla mafia. I Comuni della cosiddetta Area grecanica, sono quasi tutti sciolti, o sono stati sciolti nel passato recente, per infiltrazioni mafiose o hanno le cosiddette commissioni d’accesso; di tale contesto lascerei a voi le riflessioni. La situazione della lingua è tragica: la lingua calabro-greca è ormai morta. Chi non concorda o non vuole ammettere ciò è ipocrita, è un sognatore o non conosce la realtà contemporanea della lingua nei nostri paesini. Chi disconosce lo stato di malato terminale della nostra lingua è un falso ed un irresponsabile [...]. A Bova Marina da qualche anno si erano interrotti i percorsi didattici specifici sul greco, ma adesso nuovamente si sta adoperando ad un rilancio dell’insegnamento della lingua e della cultura dei Grecofoni della Bovesìa. Certo non è facile, bisogna “ammodernare” lo strumento legislativo, soprattutto quello regionale, occorre coinvolgere la direzione scolastica regionale, quella provinciale, i dirigenti scolastici. Solo attraverso la sinergia di idee e di azioni si può pervenire a qualche risultato. l’intervista integrale su inaspromonte.it


Vallata del Gallico

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LA CARTIERA RACCONTA...

A pugni con la storia

L’anacronismo di una scelta, condannata da dieci anni di sviluppo consapevole, che si vorrebbe riproporre di Maurizio Malaspina

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he a distanza di dieci anni dai giorni di lotta si torni a parlare della costruzione di un impianto di rifiuti in Contrada Cartiera è, prima ancora che una scelta sbagliata, un’eresia, qualcosa di completamente fuori dalla storia. La lotta fu, infatti, tanto grande e tanto giusta da tradursi in un processo di valorizzazione che ha coinvolto negli anni l’intera Vallata del Gallico, diventando un modello virtuoso e meritando uno spazio importante su un giornale come questo che parla di Aspromonte, ma al contempo di paesaggio, di voglia di riscatto, di valorizzazione delle risorse, di persone e comunità temprate da secoli di ingiustizie. Che il sito di Contrada Cartiera, prossimo a quello che si vorrebbe chiudere per i problemi legati al dissesto idrogeologico della zona dell'alveo del Gallico, con problematiche ancora più gravi per certi versi del sito che attualmente ospita l'impianto di Sam-

batello, non sia idoneo a ricevere impianti per il trattamento rifiuti è stato sancito da almeno una decina di organi istituzionali e scientifici [...].

non certo di chiusura, il che dà certezza che non ci sia rischio alcuno di perdita di lavoro ed attività per i dipendenti di Sambatello.

IL PRIMO ACCENNO relativo ad un ritorno di fiamma per Contrada Cartiera riprendeva le linee guida del Piano rifiuti che la Regione Calabria sta predisponendo. In quel documento si parla di delocalizzazione dell’impianto oggi esistente a Sambatello, cento metri più a monte di località Cartiera. Dietro il rischio di una chiusura di Sambatello, i lavoratori, accompagnati dai sindacati, avrebbero proposto all’Assessore regionale Pugliano che questo venisse spostato cento metri più in basso, in quel sito passato alla Regione Calabria con la fine del commissariamento dell’emergenza ambientale. Ora, nel rispetto assoluto delle esigenze occupazionali che devono essere tutelate, i recenti provvedimenti regionali parlano di esigenza di delocalizzazione

IN UN SECONDO momento, a seguito di un sopralluogo dell’Assessore Pugliano, fu presentata alla stampa una nuova posizione, ovvero l’esistenza di un’opzione che vorrebbe l’ammodernamento del sito esistente come alternativa alla costruzione di un nuovo impianto a Contrada Cartiera. Certo ha sorpreso non poco leggere che questa scelta sarebbe subordinata esclusivamente a “valutazioni di natura tecnico-economica”, in quanto vorrebbe dire continuare a localizzare industrie insalubri in Calabria senza valutazioni di carattere ambientale, idrogeologico, paesaggistico, storico-culturale, senza il parere dei cittadini e soprattutto senza la valutazione comparativa tra più alternative, come la prassi vuole nel caso di impianti di questa natura. Non è certo sufficiente una valutazione esclusivamente “tecnico-economica” per scegliere un sito su cui localizzare un impianto che dovrebbe trattare centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti (parliamo di spazzatura, non di barbabietole), bensì dovrebbero essere messe in campo analisi e valutazioni ben più ampie, complesse e probabilmente diseconomiche. E questo dovrebbe di per se incidere nelle scelte.

SUPPOniamo che ... vivendo, in migliaia, in un ambiente fatato, fra lo Jonio l'Aspromonte e Pentedattilo, vi proponessero di barattare il vostro paradiso per un centinaio di posti di lavoro, e un po' di tumori al seguito, costruendovi una centrale a carbone, come la prendereste?

ORA, PRENDENDO atto della nuova posizione, e ammettendo di voler discettare su questa, facendo finta che prima si sia scherzato o che quanto detto non sia realmente presente in un do-

Nella foto l’impianto per lo smaltimento dei rifiuti di Sambatello cumento di indirizzo (a proposito, non si dovrebbe approvare il nuovo piano rifiuti prima di annunciare la costruzione di un impianto?), non dovrebbe esserci storia nella valutazione di convenienza tra le due alternative, ovvero tra compromettere un nuovo sito dalle importanti valenze ambientali e storico-culturali, un sito che non risolve alcuno dei problemi che si vorrebbe risolvere con l’intera operazione (dissesto idrogeologico, etc) che si sta mettendo in piedi, e intervenire e sanare con interventi di ammodernamento una situazione che investe un sito già da tempo compromesso. LA CHIUSURA DI Sambatello, oltre a determinare la costruzione di un nuovo impianto, vorrebbe dire smantellare il vecchio sito, bonificarlo e risanarlo per riconsegnarlo alla collettività nella sua conformazione originaria, con enorme dispendio economico e di risorse. Nella convinzione che la Regione oggi sia un interlocutore più credibile e consapevole dell’Ufficio del Commissario, si è certi invece che il buon senso prevarrà e si opterà per soluzioni coerenti con le posizioni da tutti espresse sulla vicenda. Si cominci a lavorare, invece, affinché località Cartiera diventi una grande opportunità per il territo-

rio. Ora che il sito è passato alla Regione, si cominci a pensare ad un progetto di valorizzazione orientato alla vocazione rurale e paesaggistica, un sito al servizio della cultivar belladonna di Villa San Giuseppe (produzione di eccellenza per l’intera Regione Calabria riconosciuta dal marchio DECO comunale), un centro sperimentale che coinvolga il territorio, l’università, i dipartimenti Ambiente ed Agricoltura della Regione, con un ecomercato sulle produzioni di qualità della Vallata del Gallico. RECUPERIAMO I mulini della Cartiera e orientiamo questa componente del sito alle visite guidate e al turismo didattico nella Vallata; inseriamo la Cartiera in circuiti di fruizione turistica e in un sistema produttivo virtuoso. Fino a qualche mese mancavano gli interlocutori a cui rivolgersi per proporre tutto questo, perché quel sito era dell’Ufficio del Commissario all’emergenza ambientale e non poteva essere distolto da quella funzione. Oggi quell’area è della Regione Calabria, un interlocutore che può farsi promotore di uno dei più importanti processi di valorizzazione che si siano mai registrati dalle nostre parti. Nel decennale di quella lotta, non si perda quindi questa occasione.


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Aspromonte occidentale

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SAN GIORGIO MORGET0

UNA CITTA’ AMBITA

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Morgeti, secondo alcune ricostruzioni, avrebbero costruito una fortificazione attorno alla quale sarebbe sorto il loro primo insediamento. La leggenda colloca tale evento nell'anno 2349 a.C. e lo descrive quale opera del re Morgete, figlio del re Italo (stirpe degli Enotri).

Secondo altre fonti Morgetum fu fondata dai locresi quale punto strategico di collegamento fra Locri e le colonie sul Tirreno. Alla dominazione locrese seguì quella romana sino all'avvento dei Normanni. Qui la storia di San Giorgio si delinea con maggiore certezza.

Santa Cristina d’Aspromonte. Il racconto di un’escursione al limite, con l’Associazione Imagorà

IL CALIVI

E LE SUE CASCATE

«La risalita del torrente è un’esperienza entusiasmante, caratterizzata da una totale immersione nella natura, tra la rigogliosa vegetazione e le acque cristalline» di Giancarlo Parisi

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l Calivi si trova poco più a monte di Santa Cristina, raggiunta la quale è sufficiente proseguire per qualche chilometro sulla strada provinciale 112 fino a raggiungere il “ponte calivi”; lo si riconosce per via dei resti di un ponte più antico, spazzato via dalla furia del torrente. Un piccolo sentiero al lato del ponte conduce direttamente sul greto del torrente e si può notare la presenza di una briglia di contenimento, letteralmente sventrata dalla corrente. Come quasi tutti i torrenti aspromontani del lato tirrenico, il Calivi, è insediato in una forra ricca di vegetazione e apparentemente ostile. Ad uno sguardo più attento, accompagnato da una buona preparazione fisica e materiale, si scopre poco a poco che quella che all’inizio sembrava ostilità è, in realtà, l’ennesima prova di natura pressoché incontaminata che si riscontra in Aspromonte. Sul percorso del torrente si formano numerosi laghetti dai colori cangianti tra il verde smeraldo e il blu cobalto che durante i mesi estivi sono meta di alcuni gruppi di irriducibili bagnanti. Dopo circa 20-30 minuti di cammino, alternandosi sulle due sponde del torrente e su tratti appena accennati di sentiero, si giunge in vista di un pianoro, c.d. “Piano Calivi”, sul quale insistono le vestigia di un’area probabilmente dedicata ad attività ortive, sulla quale si rinvengono numerosi muretti a secco. Secondo il glottologo Rohlfs il toponimo “calivi” significa “piccole capanne” (dal grecanico), dunque potrebbe essere che i muretti visibili fossero sovrastati da una copertura in legno della quale, per questo, non è ri-

masta traccia. Tutta la zona circostante e sovrastante il torrente, in realtà, presenta tracce del passaggio umano: muretti e resti di antiche costruzioni, tra le quali l’antico abitato di Santa Cristina, distrutto dal terremoto del 1783 (Cocuzzolo dei Diavoli). Continuando il percorso le pareti che costeggiano il torrente si innalzano, il letto forma alcune curve a gomito e, improvvisamente, ci si ritrova al cospetto della cascata Teresa. Si tratta di un salto di una quindicina di metri, alla base del quale si forma il consueto laghetto di acqua limpida. Il sito della cascata appare quasi magicamente, la sensazione che si

La fiumara delle piccole capanne FOTOGRAFARE IL CALIVI

Il torrente Calivi è anche conosciuto come Fiumara Galati ed è uno dei quattro torrenti (o fiumare) che interessano il comune di Santa Cristina d’Aspromonte (insieme al Duverso, al Lago e al Calabretto) e che segna il confine con il comune di Oppido Maprova è quella di essere finiti in un luogo sconosciuto. Il fragore dell’acqua è assordante data la grande portata del torrente. Abbiamo fatto una sosta per mangiare e iniziare una sessione di scatti.

mertina. A marzo il torrente é particolarmente ricco d’acqua, a causa delle piogge ancora frequenti ed allo scioglimento delle nevi invernali. Ciononostante, con l’Associazione Imagorà abbiamo deciso di realizzare comunque l’escursione consci delle maggiori difficoltà che avremmo incontrato, proprio per poter fotografare il torrente e le cascate che si formano lungo il suo corso in condizioni di maggiore impeto.

Terminata la sessione abbiamo deciso di tentare di raggiungere la seconda cascata, nonostante il tempo si stesse guastando. Per proseguire oltre ed incontrare la cascata di Paola è necessario inerpicarsi nella lecceta che insi-

Torrente Calivi. Foto di Giancarlo Parisi

CONSIGLI PER LA SICUREZZA Non perdere mai di vista l’acqua I torrenti aspromontani sono affascinanti ma richiedono attenzione e preparazione. In assenza di un vero e proprio sentiero da seguire, come nel caso del torrente Calivi, è necessario sapersi orientare e procedere con cautela, fissando dei punti di riferimento per il ritorno. La direzione da seguire è quella del torrente, ma non è sempre possibile attraversarne il greto; in alcuni punti la parete rocciosa impedisce

il passaggio e bisogna cambiare sponda, in altri ci sono accenni di sentiero che, però, potrebbero portare fuori strada. Mantenete sempre alta l’attenzione e scegliete il punto più facile ed al contempo più vicino al torrente. Dal punto di vista fisico è necessaria una discreta attitudine ai percorsi accidentati ed una buona agilità: alcuni punti richiedono piccole arrampicate e attraversamenti precari sulle rocce del fiume. È buona norma dotarsi di scarponi impermeabili o, meglio, di stivali di gomma (specialmente nel periodo invernale).

ste una ventina di metri prima della cascata Teresa. La salita è ripida, ma consente di superare il dislivello del torrente e di arrivare più a monte. Si giunge così al livello del torrente prima della cascata; a questo punto è necessario orientarsi tenendo presente la posizione del greto del fiume, che però non è visibile, dirigendosi nel bosco (ora non più in salita) verso monte. Dopo poco si giunge nuovamente in vista del Calivi ed è possibile vedere in lontananza dapprima un piccolo affluente e poi la Cascata Paola. Questa è leggermente più bassa della prima, ma non per questo meno affascinante. Il laghetto sottostante é letteralmente forgiato nella roccia dalla potenza dell’acqua e incorniciato dalla vegetazione. Tra le specie vegetali presenti si annovera la felce Woodwardia Radicans, risalente al Cenozoico. Terminate le riprese fotografiche abbiamo ripreso la marcia per tornare al ponte dove avevamo lasciato l’auto. Durante il tragitto di ritorno ci siamo fermati diverse volte ad effettuare alcune altre riprese che avevamo tralasciato all’andata. Non conoscendo esattamente quanto tempo fosse necessario per raggiungere le cascate, infatti, abbiamo preferito dedicarci alle riprese degli scorci e di qualche laghetto durante il ritorno.


Aspromonte occidentale Nel IX secolo i monaci bizantini edificarono un monastero dedicato a San Giorgio di Cappadocia ed una chiesa consacrata a Santa Maria dell'Odigitria o di Toxadura, che divennero un punto di riferimento per l'intero territorio e per le genti che vi abitavano. Come riporta S. Nilo, quando vi

di Ulderico Nisticò

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i segnala un amico di Facebook che in Spagna, nella provincia di Cordoba in Andalusia, ai confini della Castiglia, si trova un paese di Sant’Eufemia. Tradizione locale vuole che a fondare il paese siano stati 33 cavalieri calabresi che combattevano contro i Mori, e, al grido di Sant’Eufemia, avrebbero conquistato un castello nemico. Così traduciamo dalla Vikipedia in spagnolo: Infatti i nativi di Santa Eufemia sono chiamati con l'aggettivo di "Calabria" e la "Confraternita del Santo" è un vero riflesso di questa tradizione. Le confraternite portano distintivi militari: Bandiera, Stendardo, Bastone, Alabarda e Tamburo, ciascuno con un numero dei "fratelli" come quello dei 33 conquistatori. Sul luogo dove si accamparono le truppe fu eretta la cappella attuale, portata in processione a "Santa Eufemia" la domenica di Pasqua. Stranamente precisa, la narrazione popolare colloca l’evento ai tempi di Alfonso VII, che fu re di Castiglia dal 1126 alla morte (1157) e si proclamò imperatore di Spagna. Alfonso era, per parte della madre Urraca, nipote di Alfonso VI, la cui figlia Elvira sposò nel 1117 Ruggero II d’Altavilla, allora granconte di Calabria e Sicilia, dal 1130 re di Sicilia (Meridione dagli Abruzzi a Malta); Elvira morì nel 1135, Ruggero II nel 1154, e gli successe Guglielmo I il

furono le incursioni dei Saraceni, Morgetum e il suo monastero non subirono alcun danno, e i monaci, la cui presenza era volta a convertire al cristianesimo gli abitanti (che erano, invece, adusi a venerare quale dio il re Morgete), attribuirono l'incolumità alla protezione di San Giorgio.

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Così nel 1075 il nome della città venne modificato in San Giorgio. Successivamente, Ruggero il Normanno concesse il feudo ai monaci basiliani. Nel 1864, con decreto del re Vittorio Emanuele II, il nome di San Giorgio venne modificato definitivamente in San Giorgio Morgeto.

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SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE

CAVALIERI

DALLA CALABRIA ALLA SPAGNA

Malo. Anche questi prese una moglie iberica, Margherita di Navarra. E così Federico II ebbe in moglie Costanza d’Aragona. Suo figlio Manfredi diede in moglie la figlia Costanza a Pietro d’Aragona, poi re anche di Sicilia… ma qui andiamo lontano, e ce n’è abbastanza per attestare stretti rapporti tra i vari regni spagnoli e il Meridione molto prima del Vespro (1282), della dinastia d’Aragona (14421501) e dell’unione personale che i disinformati e depressi chiamano dominazione spagnola. Facile che dei calabresi, in questo caso dei nobili e valenti cavalieri, siano andati a combattere in Spagna, dove la reconquista dava grandi occasioni di gloria e guadagno a combattenti animosi. Altra sorte è quella del povero rematore le cui sven-

ZERVO’ Il gioiello della Comunità Incontro di don Gelmini

ture sono cantate dal poeta calabrese Coletta di Amendolea, schiavo o condannato o bonavoglia per bisogno sopra una galea catalana: ma a questo mondo ci vuole fortuna, e chi non ne ha, peggio per lui anche nel XV secolo! Qui ci vorrebbe uno studio, un gemellaggio… Già, a chi glielo dico? Affaccio una proposta? Mi diranno tutti in coro di sì e che solo a me può venire un’idea così intelligente. Fine dell’operazione e ho perso solo tempo. Ma io faccio finta di informarne i responsabili politici e le università eccetera. Sant’Eufemia è molto venerata in Calabria, e ci sono almeno due importanti toponimi: Sant’Eufemia d’Aspromonte; e il noto quartiere lametino. Qui sorgeva un cenobio greco, che Roberto Guiscardo

rifondò come convento benedettino, assai grande e ricco, poi devastato dal sisma del 1783. Intanto erano giunti i Cavalieri di Malta, che costruirono il Bastione. Subentrò poi la palude, debellata dalla bonifica fascista del 1936, e venne fondato il villaggio con lo zuccherificio malinconicamente abbandonato verso il 1970. Secondo voi, quanti assessori e sindaci e rettori si faranno vivi? Secondo me, zero. In Calabria la sola storia che ha successo è: la Magna Grecia senza entrare nei particolari tanto sanno a stento Pitagora ruminante ed erbivoro; i Bizantini tutti monaci; la fucilazione di Murat non chiedete chi fu; l’emigrazione e l’antimafia segue in entrambi i casi cena, e che cena! Ma non si può mai dire. tratto da soveratoweb.it

CARMELIA Una capra pascola tranquilla nella faggeta

ZILLASTRO Il Crocefisso più famoso della montagna


18 I luoghi LA BATTAGLIA A OPPIDO VECCHIO

La Chanson d’Aspremont

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La torre “piena”

La torre “vuota”

Una delle due torri aragonesi gemelle di Oppido Vecchio, quella “piena” che contiene al suo interno una torre circolare. La torre è rimasta in piedi dopo il terremoto del 1783.

La seconda torre aragonesa gemella di Oppido Vecchio. Conosciuta come “la torre vuota”, si è spaccata in due e ha perso tutti i pavimenti durante il terremoto del 1783.

L’INESPUGNABILE FORT di Giuseppe Gangemi

N

el 1494, Matteo Maria Boiardo lascia incompiuta un’opera dal titolo Orlando Innamorato, che viene pubblicata a stampa nel 1495. Nel 1516, Ludovico Ariosto pubblica la prima edizione dell’Orlando Furioso che comincia da dove si è fermata l’opera di Boiardo. Le due opere avranno molto successo e incuriosiranno molti lettori che vogliono sapere di più sui paladini di Carlo Magno, su Bradamante (che è il nome che Boiardo dà al personaggio di Galiziella), etc. Appena qualche anno prima della pubblicazione dell’Orlando innamorato, un anonimo pubblica una edizione a stampa di una Canzone d’Aspramonte. L’incunabolo, stampato da Jacopo di Carlo e Piero Bonaccorsi, manca di ogni indicazione relativa alla data. Boni data questa pubblicazione al 1487-90. L’opera è inferiore per valore letterario alle precedenti versioni italiane, i Cantari e il romanzo Aspramonte. Per questo, nessuno studioso di lingue e letteratura medioevale ha ripubblicato il poemetto. Così Boni lo valuta: “il nostro rimatore si preoccupa di rinnovare più che può il racconto tradizionale [che è quello dei Cantari e il romanzo di Andrea da

Barberino], per rendere più accetto il poema ai suoi lettori. Ma, se si può apprezzare lo sforzo compiuto dal rimatore per dar nuova veste alla narrazione, bisogna d’altro canto riconoscere che i risultati delle sue fatiche sono stati tutt’altro che felici. Scrittore di povera fantasia e scarsa vena, l’autore del nostro poema ha aggiunto soltanto episodi assai banali e convenzionali, e si rivela, nei suoi rimaneggiamenti, piuttosto piatto e pedestre”. Aggiungo a questo giudizio, che condivido, che persino l’unica novità di un certo interesse, l’episodio dei Romiti, è deludente sia dal punto di vista scenografico, sia nella ricostruzione delle dinamiche.

QUESTO POEMETTO, con modifiche più o meno ampie, ma mai per mano di un poeta o narratore paragonabile ad Andrea da Barberino o all’autore dei Cantari d’Aspramonte, verrà ristampato numerose volte, fino al 1620, per sfruttare la curiosità sui personaggi che suscita la popolarità delle opere di Boiardo, Ariosto e di Torquato Tasso. Con il 1620, l’oblio comincia lentamente a scendere sopra la Chanson d’Aspremont. E non è da escludere che a questo oblio contribuisca anche la scarsa qualità letteraria delle ristampe del poemetto. Questo oblio durerà per due secoli e mezzo, fin quando un nuovo interesse per l’opera, nelle sue varie versioni, non comincerà a diffondersi insieme al progetto di una Federazione degli Stati Europei e, soprattutto, dopo la seconda guerra mondiale

quando cominciano a nascere istituzioni comuni europee. Questo nuovo interesse è esclusivamente centrato sulle opere letterariamente più valide. Si comincia, così, dalla prima versione, quella in lingua anglo-normanna del 1187-91. La stesura manoscritta di quest’opera si basa su un riscontro storico inoppugnabile: la Chanson d’Aspremont viene letta ai soldati in attesa tra Reggio e Messina per partire per la terza crociata. Questi soldati sostano dalle due parti dello stretto nel periodo tra l’agosto del 1190 e l’aprile 1191, cioè nel periodo in cui Riccardo Cuor di Leone si ferma a Messina. Ipotizzare che la composizione della prima Chanson manoscritta sia stata iniziata tre anni prima che i soldati arrivino sullo stretto significa suggerire che è questa versione manoscritta a essere letta ai soldati. Ipotesi accettabile? Non ne sono convinto. Propendo, infatti, per una seconda e alternativa ipotesi: è certamente esistita, prima della trascrizione manoscritta, una lunga tradizione orale in lingua greco-calabrese e osco-calabrese e, più tardi, normanno-calabrese, da cui il primo trascrittore in anglo-normanno ha ampiamente attinto. Ci sono vari argomenti a favore della seconda ipotesi. Il primo e fondamentale è che la prima versione manoscritta sarebbe stata stilata in massimo quattro anni. Troppo pochi per quasi dodicimila versi, senza un testo orale da cui attingere. Anni che diventano tre se si considera


La Chanson d’Aspremont

inAspromonte Ottobre 2013

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La torre circolare Un particolare dela torre “piena” di Oppido Vecchio che rivela la struttura sottostante circolare di una torre più piccola. Questa è comparsa solo dopo il 1783, a causa dell’incuria.

ARRIVARONO I NORMANNI

... e i Calabresi difesero la storia

TEZZA

il dato storico inoppugnabile che, nell’ultimo anno, la Chanson sarebbe stata anche rappresentata e cantata ai soldati. Troppo in contemporanea le due cose per poter essere realizzate con un’opera originale, di quelle dimensioni e in così poco tempo. Quindi, la versione raccontata ai soldati deve essere stata una versione orale, probabilmente in lingua normanno-calabrese, costruita in modo informe e contraddittorio, da più cantastorie, ciascuno dei quali conosceva solo una parte dell’intera storia.

IL PRIMO ANONIMO estensore della versione manoscritta ha semplicemente trascritto quanto ascoltato da questi cantastorie. Successivamente, lavorando su questo materiale raccolto nel corso del lungo periodo di attesa della partenza per la crociata, egli avrebbe selezionato solo ciò che poteva essere utile ai Normanni e ha inserito al posto dei personaggi locali Carlo Magno, i paladini e i suoi alleati. Dopo quella prima trascrizione dell’opera, ce ne sono state delle altre che hanno lavorato sulla prima versione manoscritta. Fin quando non sono entrati in

I Normanni divennero i padroni del Meridione, scacciarono i Saraceni dalla Sicilia e presto si resero conto che dovevano imporre un’unica lingua: la loro. Per le popolazioni assoggettate salvaguardare la propria lingua significava mantenere la propria identità e la coscienza della propria storia. I Cantari d’Aspramonte di autore ignoto e il romanzo Aspramonte di Andrea da Barberino intervennero al momento opportuno a far vincere la battaglia. campo gli Italiani che hanno recuperato anche alcune parti trascurate della Chanson (l’assedio di Risa e la figura di Galiziella). L’ipotesi è che queste nuove parti (un terzo dell’opera completa) siano state raccolte direttamente da cantastorie calabresi che, ancora tra la fine del secoli XIV e l’inizio del XV, cantavano e rappresentavano la resistenza ai Saraceni con personaggi calabresi. Tanto è vero che, nella resistenza di Risa e nelle vicende legate a Galiziella, i protagonisti sono esclusivamente Calabresi. La resistenza di Risa e Galiziella, che si trovano per la prima volta in questo cantare italiano, nascono quindi in territorio calabrese e vengono portati in Toscana da trovatori calabresi [...]. Una prova del fatto che i Toscani attingono a una versione trecentesca calabrese si trova nell’affermazione (ripetuta in Cantare VIII, Ottava 55; Cantare IX, Ottava 2; Cantare XIX, Ottava 49), che la torre saracena di cui si parla esiste realmente ed è ancora visibile alla fine del XIV secolo. Come ho detto in altre occasioni, credo che questa torre saracena si trovi a Oppido Vecchio.

la versione integrale su inaspromonte.it

IL DOCU-FILM DI SCARFO’

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i è tenuta lo scorso 26 settembre, al Palazzo della Provincia, la presentazione del libro La Canzone d’Aspromonte, della docente Carmelina Sicari, e del docu-film ad esso allegato del regista Giovanni Scarfò (Città del Sole Edizioni). Il nuovo progetto editoriale vedrà la collaborazione dell’Ente Parco Nazionale d’Aspromonte e già si vocifera su una probabile distribuzione nelle scuole. Così, dopo il tentativo operato dall’assessore regionale Caligiuri di avventurarsi nella redazione di una versione a fumetti della Chanson, ci riprovano la Sicari e Scarfò con il docu-film. Un’ora e mezza di Aspromonte dove improbabili guerrieri crociati e ruspanti Galizielle over 40 fanno da padroni. Resistono solo le vallate mozzafiato della nostra montagna, anche se le mura cadenti di Casalinuovo, se pur affascinanti nella veste di “paese abbandonato”, nulla hanno a che fare con le fortezze medievali. Speriamo che al convegno internazionale, annunciato dal presidente Bombino, l’opera più importante dell’Apromonte sia ricollocata dove merita: un ruolo di primo piano nella cultura calabrese, essendo essa stessa il simbolo e il collante del nostro popolo. A ulteriori violenze preferiremmo l’oblio che l’ha protetta in questi secoli. La Chanson è una cosa seria.


20 RISPONDE L’ESPERTO SU

inaspromonte.it

di Rocco Mollace

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i parla della struttura del terreno e delle sue componenti fisiche soprattutto in relazione all’acqua. Nel terreno vi è un’altra componente che può assumere un peso notevole e soprattutto gioca un ruolo fondamentale nella fertilità del terreno stesso: l’humus. Con questo termine si intendono l’insieme delle molecole organiche in via di decomposizione. Tutto ciò che cade sul terreno, dalle foglie ai rami secchi, dagli insetti morti agli escrementi degli animali, è costituito da materiale organico che, non essendo più vivo e avendo perciò perduto ogni difesa, viene attaccato e decomposto da una miriade di organismi che ne traggono nutrimento ed energia. La massa di questi organismi è incredibile. È un esercito che si nutre di sostanza morta e smonta le complesse molecole organiche di cui sono composte le foglie secche, i rami morti, i cadaveri di

un insieme di microrganismi che con il loro lavoro daranno la possibilità ai semi caduti di dare origine ad una nuova pianta

Ottobre 2013

Il giglio rosso

L’erica: oro verde

È il Lilium Croceum, cresce negli Appennini, ad un altezza che varia dai 400 ai 1900 metri, e quindi lo troviamo anche in Aspromonte. È tra i fiori più belli della montagna. Forse il più bello in assoluto.

La radica è un ceppo legnoso che si ottiene dalla radice dell’erica arborea e utilizzata per la fabbricazione delle pipe. La raccolta avviene in primavera ogni 25-30 anni. Solo la parte più pregiata viene usata per la lavorazione.

Biodiversità. Humus, la vita dalla morte

L’esercito nascosto

Ogni cosa sulla terra ha una funzione: anche i rami secchi, gli insetti morti, gli escrementi. È un delicato equilibrio

altri organismi (topi, uccelli, insetti), gli escrementi eccetera, sino a ridurle ad acqua, anidride carbonica e pochi altri sali minerali. Quest’opera di smontaggio avviene gradatamente e l’insieme delle molecole aggredite costituisce l’humus. Non si può certo parlare di una sostanza, né di un gruppo di sostanze ben definite perché la composizione dell’humus continua a variare nel tempo e con una velocità che dipende da numerosi fattori (temperatura, acqua disponibile, quantità di sostanza morta presente). L’humus è un gel, e questo suo stato fisico fa sì che assorba una notevole quantità di acqua (oltre 80% del suo peso secco). Ma es-

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Montagne

Le Serre

Il vino proibito di Francesco Tassone

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Tra i boschi d’Aspromonte

inAspromonte

trano a dirsi ma è proprio vero. Si tratta dell’uva fragola, detta anche uva americana. Isabella, Raisin de Cassis, introdotta in Europa dal Nord America, verso i primi dell’Ottocento. È un vitigno poco resistente alle malattie, ma sopporta bene il freddo, per questo ha allignato a simili alture. Dalla sua vinificazione si ottiene una bevanda a bassa gradazione alcolica, detta vino fragola o Fragolino per il particolare aroma di fragola che i francesi chiamano framboisier o cassis

sendo una sostanza in continua trasformazione chimica che tende a divenire sempre più semplice sino a ridursi alle componenti fondamentali (H2O, CO2 e sali minerali) rilascia nel tempo tutta l’acqua assorbita. L’importanza dell’humus e di tutti gli organismi che se ne nutrono è spesso ignorata e non si esita a immettere nel terreno sostanze tossiche. Basti pensare ai pesticidi, buste in plastica, vetro che possono non solo alterare, ma falcidiare in modo drammatico il popolamento del suolo. L’humus, sotto questo profilo, funziona perciò come un distributore continuo di fertilizzante. Più microrganismi sono presenti

nel terreno più il suolo è fertile. Invece nelle zone calanchive (terreni privi di vegetazione oppure che sono stati attraversati da incendi) la presenza di humus è scarsa o nulla. Questo succede perché in queste aree brulle senza copertura arborea i microrganismi non si sviluppano, oppure si possono sviluppare ma non si possono nutrire in quanto manca la materia prima. L’humus deriva dalla completa mineralizzazione di sostanze organiche e contiene oltre agli elementi principali, anche tutta quella serie di altri elementi, a volte valutabili quantitativamente solo in tracce, ma che sono indispensabili per una crescita armonica delle piante,

e gli inglesi foxy (volpino). In passato, nelle zone delle Serre, questa bevanda poteva essere consumata sia calda che fredda ed il suo aroma era molto apprezzato dai pastori nelle giornate fredde d’inverno e dai mietitori in quelle calde d’estate. Oggi il Fragolino trova sempre più estimatori nella gente comune, è bene sottolineare però che, secondo il nostro ordinamento giuridico, il fragolino non può essere commercializzato come vino ma solo come bevanda a base di uva fragola. Anche se però viene consentita la distillazione che permette di ricavarne acquavite. Il perché di questa condizione sta nella storia dell'uva fragola, poiché all’inizio dell’ottocento la “vitis vinifera” fu colpita da un parassita, “la fillossera”, che minacciava la sua estinzione. Venne così adottata, come soluzione in extremis per salvare i vitigni autoctoni, l’impiego di un portainnesti dei vitigni americani, divenuti resistenti al parassita. Tra i tanti vitigni importati dal nuovo continente vi era anche l’uva fragola, varietà della “ vitis lambrusca”. Il diffondersi in modo spropositato di questi ibridi produttori diretti, ha portato ad una iperproduzione di uve, dalle quali si ottenevano vini di scarsa qualità. Così una serie di leggi e normative, in questi due secoli, hanno regolamentato la coltivazione dell'uva fragola, consentendo la produzione di uva da destinare al consumo diretto, la commercializzazione come uva da tavola e la vinificazione solo per il consumo domestico. Quindi il vino fragola rimane un vino proibito. Basti leggere l’etichetta di una qualsiasi bottiglia venduta come Fragolino, per

Un terreno ricco di humus ospita un numero incredibile di microrganismi che si nutrono delle sostanze provenienti dalla decomposizione del materiale organico essi sono: batteri, funghi (muffe), protozoi, vermi, collemboli, acari, ragni ed insetti proprio perché contenuti nei tessuti degli organismi morti da cui esso deriva. Infine, ma non ultimo come importanza, una ricca presenza di humus nel terreno significa una ricca presenza di organismi che respirano e che producono anidride carbonica. Quest’ultima, fluendo dal suolo all’atmosfera, viene a contatto con le foglie che l’assorbono favorendo la fotosintesi. In questo senso l’humus può essere considerato una concimazione carbonica tanto più importante in quanto proprio la bassa concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è considerata uno dei fattori limitanti della crescita delle piante. Salvaguardando il suolo, salvaguarderemo la flora e la fauna presenti, ogni cambiamento apportato dall’uomo modificherà quell’insieme di microrganismi che con il loro lavoro silenzioso e continuo daranno la possibilità ai semi caduti di dare origine ad una nuova pianta. E la natura salvaguarderà la specie e seguirà il suo corso.

rendersi conto che, quest’ultima, del Fragolino autentico ha solo il nome. Queste bottiglie sono semplici mosti totalmente insipidi, miscelati con sciroppi e altre sostanze aromatizzati al gusto di fragola. Oggigiorno, con le conoscenze e le tecnologie a disposizione, questa proibizione risulta alquanto anacronistica anche perché il problema dell’afide è stato risolto. Che dire del vino fragola? Se non che il bouquet è gradevole già al primo approccio, per morbidezza, abboccatura e leggerezza. Che la franchezza del suo profumo spicca nella sfumatura odorosa della fragola, rispetto a tutte le altre e si collega anche alla sua tipicità, riscontrando la netta impronta olfattiva del vitigno e tutto ciò che è legato al territorio di origine.


Tra i boschi d’Aspromonte

laCuriosità

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Cinipide. L’insetto che distrugge le castagne

FEMMINE PERICOLOSE

Dal 2002 ha messo in ginocchio la produzione dei castagneti. I cali registrati hanno costretto gli esperti a cercare una soluzione I lupi cacciano in branco e la comunicazione a lunga distanza è fondamentale per la riuscita della caccia. Dato che essi cacciano in zone di montagna dove gli ululati sarebbero vulnerabili alle distorsioni dell’eco, ululano a una frequenza che non ha eco. Riescono così a localizzare esattamente i loro compagni di caccia e a stanare le prede colte di sorpresa.

miPiace

L’ACROBATA NERO Lo scoiattolo nero meridionale lo troviamo nelle alture, tra i boschi di pino. Le sue corse diventano vere acrobazie durante il periodo dell’accoppiamento. Non è impaurito dalla presenza dell’uomo, anzi ne sembra incuriosito. Ha l’abitudine di conservarsi il cibo.

sulSito

di Leo Criaco

N

ei nostri territori, nel mese di ottobre, si completa la vendemmia e inizia la raccolta delle noci e delle castagne. Nelle caratteristiche e belle viuzze di alcuni paesi dell’entroterra aspromontano il profumo del mosto, spesso, si mescola piacevolmente con quello delle caldarroste. Mentre la produzione di uva da mosto è in continua crescita, con produzione di vini di alta qualità come il greco DOC di Bianco e il rosso di Palizzi, la raccolta delle castagne tende a diminuire sensibilmente. Fino a pochi anni fa nei nostri castagneti (l’Aspromonte conta più di 1000 Ha) il raccolto era abbondante e di buona qualità: oggi purtroppo la produzione è calata drasticamente a causa della comparsa di un insetto, chiamato “cinipide del castagno”. Per chi non conosce le nostre montagne, e negli ultimi anni non si è mai recato in un castagneto, questo insetto è sicuramente sconosciuto; per chi ama e frequenta il nostro massiccio montano è un nemico temibile in quanto sono gravi e vistosi i danni che procura alle chiome delle piante, con conseguente calo della produzione (del 6080%). Nel 2012 nei castagneti di alcuni paesi dell’area grecanica, la produzione è diminuita del 95%. Il tracollo della raccolta ha interessato quasi tutte le regioni italiane, mettendo in ginocchio l’intero comparto; per i raccoglitori e i produttori di castagne è stato un vero e proprio disastro. Il cinipide del castagno (dryocosmus kuriphulus) appartiene all’ordine degli imenotteri e alla famiglia dei cinipidi, è un insetto simile ad una piccola vespa lunga circa 3 mm. È originario della

Cina e per questo motivo viene chiamato “vespa cinese del castagno”. È comparso in Italia (Piemonte) nel 2002 e in pochi anni si è diffuso in tutte le regioni. L’infestazione si è propagata rapidamente attraverso il volo dell’insetto. Le piante attaccate dal cinipide presentano sulle foglie e, principalmente sui germogli, delle galle (ingrossamenti di colore verde o rossastro, tondeggianti, formatisi a seguito di modificazioni dei tessuti, causati dalle larve dell’insetto). Le galle sui germogli causano danni più gravi rispetto a quelle che si sviluppano sulle foglie, in quanto viene compromessa la crescita delle giovani foglie e delle inflorescenze maschili e femminili. A seguito di forti attacchi la vitalità della pianta si riduce al punto da causare un calo

vistoso nella produzione. Il cinipide compie una sola generazione all’anno. Le femmine adulte (esistono solo le femmine e quindi per la fecondazione delle uova non hanno bisogno degli individui maschili), si riproducono per partenogenesi. Il ciclo biologico del cinipide inizia quando la femmina adulta, da fine giugno a tutto luglio, depone le uova (circa 200) a gruppetti di 3-5, all’interno delle gemme e delle foglie. Dopo 40 giorni (tra agosto e settembre) dalla deposizione delle uova l’insetto raggiunge il suo primo stadio larvale. Per tutti i mesi invernali e l’inizio della primavera, non si notano segni della sua presenza, che si nota invece ad aprile e maggio, quando in seguito all’attività delle larve si formano le

Le immagini più belle da www.inaspromonte.it IL PORCINO ROSA È un fungo “strano” in quanto alterna annate con copiose nascite con annate di scarsa presenza. La “stranezza” è confermata dal fatto che in presenza di condizioni climatiche e di essenze forestali uguali in alcuni boschi è presente e in altri è quasi inesistente.

Se hai domande da rivolgere ai nostri esperti scrivici su

info@inaspromonte.it

RECUPERARE I RICORDI La ricordano in tanti, perché tanti sono gli africoti che non hanno abbandonato la montagna. La ricordano perché ci andavano a bere da bambini, quando nell’Aspromonte si camminava scalzi, sulle mulattiere per nulla intaccate dal tempo. Leo, Francesco, Antonio e Sebastiano hanno lavorato due giorni, costruendo un nuovo sentiero per raggiungere la vecchia sorgente. Lo hanno fatto perchè amano la montagna.

galle. Le larve attraverso diversi stadi di sviluppo evolvono in pupe, e dopo varie trasformazioni somatiche diventano insetti adulti e fuoriescono dalle galle. Le galle con i buchi causati dalla fuoriuscita dell’insetto restano sulla pianta, seccandosi, per l’autunno, l’inverno e per l’anno successivo. La lotta a questo insetto è quasi all’anno zero. I trattamenti con gli insetticidi, da fare prima della deposizione delle uova sono difficoltosi (per la grandezza delle piante e l’inaccessibilità del territorio); poco efficaci (perché è impossibile trattare la totalità delle piante) e inaccettabili (i trattamenti chimici sarebbero devastanti, col rischio di alterare l’equilibrio biologico dei boschi). A livello nazionale alcuni entomologi hanno iniziato a combattere il cinipide con l’introduzione di un altro insetto: il torymus sinesis. Questo insetto appartiene allo stesso ordine del cinipide ed è in grado di uccidere le sue larve. Depone le uova all’interno delle galle e quando nascono le larve, per crescere, uccidono e divorano quelle del cinipide. Ma l’introduzione di questo insetto presenta delle difficoltà in quanto non è possibile riprodurlo in laboratorio. Sulle piante di 2-3 metri le galle si potrebbero asportare manualmente, oppure trattandole in giugno con prodotti a base di caolino (polvere di argilla) e rame. Questi prodotti hanno una funzione di tipo repellente. Il cinipide, come tutti gli altri imenotteri, prima di deporre le uova tasta i tessuti delle foglie e delle gemme e se nota la presenza di sostanze estranee non le depone. L’azione residuale di questi prodotti dura pochi giorni e quindi si pone il problema di ripetere più volte il trattamento.

la vecchia fontana “Marcello”

Tutte le foto di questa pagina sono di Francesco Depretis


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Cultura

inAspromonte Ottobre 2013

Domenico Stranieri racconta il “paese”e la resistenza eroica dei nostri scrittori

Chi di noi farà ritorno? C

’è un aspetto che bisognerebbe analizzare con più franchezza e meno “amor di patria” ed è il rapporto tra gli scrittori del nostro territorio e i loro paesi d’origine. Perché se c’è una cosa che la gente “perdona” con più difficoltà è appunto il fatto di scrivere. Di un abile falegname tutti, in una piccola comunità, non hanno problemi a dire che è un artista, la stessa cosa succede con un bravo muratore e nessuno si sogna di osservare che nel quadro di un pittore manca il senso della profondità. Di uno scrittore, invece, non solo non viene dimenticata una virgola fuori posto o un pensiero inatteso ma verrà sempre rimarcato un difetto caratteriale o un eccessivo individualismo, magari con frasi come: “ma che ha fatto per il paese?”. Lo hanno vissuto pure i nostri grandi scrittori, oggi pressoché sconosciuti ai giovani, questo clima poco favorevole, anche se non si sono lasciati atterrire dal fuoco incrociato del “sospetto”. Eppure traspare sempre qualcosa, da una frase come da un silenzio. In una corrispondenza del 7 aprile del 1955 Mario La Cava scrive: «La provincia calabrese è troppo provincia, ecco tutto. Mancano per altro le città accentratrici, come potrebbero essere quelle siciliane, e che lo sono purtroppo in minima parte, mancano tante di quelle condizioni obbiettive per cui la resistenza dell’intellettuale, nel suo

paese nativo, riveste spesso il carattere di un eroismo disperato». Tuttavia, se non fossero nati a San Luca, Bovalino, Careri, San Nicola di Ardore e Sant’Agata del Bianco (o in altri paesi con l’Aspromonte dietro le spalle ed il mar Jonio davanti agli occhi) quasi certamente Corrado Alvaro, Mario La Cava, Francesco Perri, Saverio Montalto e Saverio Strati non sarebbero stati gli scrittori che conosciamo. Quel Sud che secondo Quasimodo è “dolore attivo” si è fatto parola, e ciò è stato possibile solo in alcuni luoghi precisi. PER QUESTO DOPO la morte del padre, Alvaro non tornerà più a San Luca. Non aveva bisogno di rinnovare antiche inquietudini, ormai il paese lo aveva dentro. Aveva stabilito definitivamente una sorta di legame silente con le sue radici che molti, però, non riuscivano a giustificare. Perché quella fuga? Vi era in Alvaro qualche intimo risentimento verso qualcuno? Di certo non tutti compresero il suo reale valore. Dopo la morte dello scrittore, ad esempio, la moglie Laura aveva pensato di donare al Comune di San Luca gli arredi, i tappeti, i quadri, i documenti e i libri dello studio del marito ma le era stato risposto che non c’erano i locali adeguati. Così, oggi, tutto questo si trova a Reggio Calabria, nella Biblioteca De Nava e precisamente nella Sala Alvaro. Forse ogni tempo per uno scrittore è un tempo mancato, poiché egli non pensa in tempi “economici” ma poetici. Ne deriva che la solitudine è la fatale conseguenza del suo modo di essere. Questa percezione è stata bene espressa, insieme alla “paura di essere scoperto poeta”, da Giuseppe Melina (di Sant’agata del Bianco): «il paese lievita e si espande in un tempo sbagliato, forse anche la mia casa nasce in un tempo sbagliato. È un errore la sua stessa forma (il salone, ampio, la veranda, i castagni in giardino, il portico). Doveva accogliere amici. Ma sono solo». Ed a proposito di Sant’Agata del Bianco, come non menzionare Saverio Strati, il più grande scrittore calabrese vivente. Soprattutto perché Strati grande lo è davvero, anche se con il suo paese ha sempre avuto un rapporto conflittuale.

Gli anziani gli rimproverano di essersi dimenticato delle sue origini, di non aver aiutato la sua gente sul piano socio-politico. MA LO SCRITTORE, ben consapevole che “ il Sud te lo porti dentro come una maledizione”, ha sempre narrato nelle sue opere profumi, atmosfere e personaggi aspromontani, per di più in movimento, in un continuo divenire “che riempiva le città e svuotava le campagne”. E se è vero che nella sua ultima intervista non ha mai menzionato il nome di S.Agata del Bianco, limitandosi a dire che appena arrivato a Firenze si sentiva “prigioniero delle case” poiché il suo paese è in collina e per ventuno anni ha avuto il mare davanti, è altrettanto vero che Sant’Agata è rimasta muta quando nel 1977 Strati vinceva il Premio Campiello con il “Selvaggio di Santa Venere”. Persino uomini equilibrati non hanno risparmiato critiche a Strati, menzionato addirittura nei versi di qualche poesia dialettale come “uomo irriconoscente e superbo”. Eppure su una cosa mi piacerebbe scommettere. Secondo me, fra qualche decennio ci sarà una presumibile Fondazione Culturale intitolata a Saverio Strati, ed allora, finalmente, lo scrittore, che oggi è ancora in vita, da morto sarà ricordato come un eroe.

Nella foto in alto lo scrittore Giuseppe Melina, S.Agata del Bianco (1920 -2001), in quella sopra lo scrittore Corrado Alvaro (San Luca). Nelle foto a sinistra: la porta con il volto di Strati nel Borgo di S.Agata del Bianco e la scrivania di Melina, sempre a Sant'Agata, rimasta ìnalterata dopo la sua morte (foto di Simona Marfia).


Cultura

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BOVA

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A colloquio con il vicesindaco di Bova Gianfranco Marino, delegato al turismo e alla cultura

Un centro che, ormai da anni, si propone come modello di sviluppo locale per l’intera provincia reggina, Bova, si presenta oggi come realtà geografica e umana che, dal cuore del Parco Nazionale dell’Aspromonte, si proietta sui palcoscenici regionali e nazionali. Un percorso che parte da lontano

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inAspromonte

i concentra ormai da anni l’attenzione di addetti ai lavori e semplici appassionati che vedono in Bova un polo culturale d’eccellenza cui fare riferimento. Per questo abbiamo incontrato Gianfranco Marino (nella foto in alto a destra), attuale Vicesindaco del centro aspromontano con delega proprio al turismo ed alla cultura, comparti che stanno offrendo di Bova un’immagine unica anche oltre i confini regionali. Tracciamo con Gianfranco un bilancio sulla stagione estiva appena conclusa, una parentesi ricca di eventi culturali, rassegne artistiche e iniziative di diversa natura che, come accade ormai da anni, ha regalato tante occasioni per vivere il borgo. «Ormai da anni - spiega Marino - Bova è nell’immaginario collettivo di turisti e visitatori uno dei luoghi simbolo non solo dell’Area grecanica ma certamente dell’intera provincia reggina. Natura, ambiente, bellezze architettoniche, storia, cultura e antiche tradizioni, fanno di questo centro, tra i 9 borghi calabresi inseriti nel Club dei Borghi più Belli d’Italia e dallo scorso mese di febbraio, unico in Calabria, tra i 21 Gioielli d’Italia individuati dal Ministero per gli Affari Regionali ed

il Turismo, un indiscusso punto di riferimento per chi vuole coniugare la riscoperta di un centro storico di assoluto pregio architettonico, l’eno-gastronomia e una vacanza rilassante lontana dal caos della costa. La ricetta fino ad ora proposta - prosegue Marino - ha garantito un riscontro estremamente positivo, ed è costituita da uno straordinario connubio tra iniziative di diverso genere. Rassegne musicali come il Palearìza e il Peperoncino Jazz Festival, serate di musica tradizionale e di musica d’autore, appuntamenti eno-gastronomici, iniziative per i più piccoli, ma oltre alla parte squisitamente riservata agli spettacoli, ampio spazio è stato dedicato alla programmazione culturale, una scommessa lanciata poco più di due anni addietro e per la quale stiamo raccogliendo ottimi frutti testimoniati dall’enorme cassa di risonanza registrata all’esterno tra addetti ai lavori e gente comune. Un fitto calendario di eventi che, com’era nel nostro intento sta facendo diventare il nostro centro, punto di riferimento culturale in provincia. La colla-

DIRETTORE RESPONSABILE Antonella Italiano antonella@inaspromonte.it

DIRETTORE EDITORIALE Bruno Criaco inaspromonte@gmail.com

EDITORIALISTA Gioacchino Criaco

gioacchino@inaspromonte.it

Redazione Via Garibaldi 83, Bovalino 89034 (RC) Tel. 096466485 – Cell. 3497551442 sul web: www.inaspromonte.it info@inaspromonte.it

IL GIOIELLO DELL’ASPROMONTE

borazione con alcune case editrici locali - prosegue Marino ha portato all’inaugurazione di un book-shop, il primo in provincia nato dalla collaborazione tra una casa editrice e l’Assessorato alla Cultura di un Comune, collocato all’interno del info point comunale, dove i tantissimi turisti che giungono quotidianamente, oltre a reperire tutte le notizie utili, possono acquistare una vasta gamma di testi di diverso genere. Unisci a tutto ciò un tour culturale, costituito dall’ideale viaggio nella storia offerto dal Museo fotografico di arte contadina dedicato al glottologo tedesco Gherard Rholfs ubicato nei suggestivi locali di Palazzo Mesiani Mazzacuva, e un interessante visita al Museo di Paleontologia e Scienze naturali dell’Aspromonte visitabile nei locali dell’ex Pretura ed ecco servita la ricetta del successo, un successo che a certamente radici profonde, figlio, di un’inversione di tendenza partita nel lontano 1995 e della quale ora raccogliamo i frutti. Ormai da tempo partecipiamo, in molti centri della regione a convegni, dibattiti culturali, workshop e seminari dove siamo chiamati a testimoniare l’espe-

rienza di Bova come modello di sviluppo, di recupero delle aree interne e di valorizzazione dei centri storici d’eccellenza. Questo ci riempie di orgoglio e ci consegna una realtà che ci vede protagonisti e in continua controtendenza rispetto ad un trend ne-

gativo che non coinvolge solo le aree interne ma le coste e le aree una volta maggiormente sviluppate. Da Bova parte dunque un messaggio di speranza e un esempio positivo dal quale molti stanno già prendendo spunto con incoraggianti risultati».

Gli scatti più belli Siamo ad un passo dal paradiso se anche monsignore Morosini legge il nostro giornale

Hanno scritto in questo numero Antonio Iulis, Cosimo Sframeli, Giuseppe Gangemi, Pino Macrì, Antonio Perri, Federico Curatola, Carmine Verduci, Domenico Stranieri Per l’Aspromonte orientale Mimmo Catanzariti, Bruno Salvatore Lucisano Per l’Aspromonte grecanico Salvino Nucera, Francesco Violi Per la Vallata del Gallico Maurizio Malaspina Per l’Aspromonte occidentale Giancarlo Parisi, Ulderico Nisticò

Per le biodiversità Rocco Mollace, Leo Criaco, Francesco Tassone Fotografi Leo Moio, Pasquale Criaco, Natale Nucera, Francesco Depretis, Paolo Scordo, Giancarlo Parisi, Simona Marfia Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 07/10/2013 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.


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inAspromonte Ottobre 2013

www.inaspromonte.it

In montagna si è piÚ vicini al Cielo...

ogni giorno siamo on line su www.inaspromonte.it


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