QUESTO GIORNALE NON RICEVE ALCUN FINANZIAMENTO DA ENTI PUBBLICI
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Direttore Antonella Italiano
inAspromonte
Novembre 2013 numero 003
LIBERARE L’ASPROMONTE
DAL PARCO? A
La provocazione
24 anni dall’istutizione dell’Ente Parco sul massiccio aspromontano sono in molti coloro che nutrono seri dubbi sui benefici di questo compromesso. È giunta l’ora di valutare se, a conti fatti, sia un bene mantenere il Parco Nazionale o sia il caso di liberare la nostra montagna. pag. 2- 3
Approfondimento Tarantella. Il ballo fuorilegge
Autunno tra i boschi Gli occhi della notte
pag. 10
di Leo Criaco
pag. 18 - 19
La nostra storia La leggenda di Donna Candia
Aspromonte orientale
di Giuseppe Gangemi
di Mimmo Catanzariti
pag.16
I muletteri d’Aspromonte pag. 6
Cinema e cultura Ciak. “Girare” in Aspromonte
di Giovanni Scarfò
pag. 22
Ombre e luci Gli anni bui a Reggio Calabria
L’analisi Sant’Agata vs Caraffa
di Cosimo Sframeli
di Domenico Stranieri
pag. 15
pag. 4
La MONTAGNA va a SCUOLA Speciale scuola
Nasce un nostro nuovo progetto
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ulla scia del contributo regalato al nostro giornale dalla classe 5^C della scuola primaria di Bovalino capoluogo (nella foto a sinistra), lanciamo un progetto che ha l’obiettivo di avvicinare i più piccoli alla montagna. Lo speciale a colori, che troverete all’interno, è il primo passo di un percorso che ci auguriamo lungo e altrettanto intenso. Scriveteci al nostro indirizzo mail: info@inaspromonte.it pag. 11 - 12 - 13 - 14
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Copertina
inAspromonte Novembre 2013
I cittadini d’Aspromonte e le privazioni che impone l’Ente
SI Togliere il Parco dall’Aspromonte?
ilFatto
Roccaforte del Greco
gliEsclusi San Luca: 8809 ha
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Le idi di ottobre, giorni fatali per Mimmo Versaci La Comunità del Parco ha finalmente scelto i propri rappresentanti per il Consiglio Direttivo dell’Ente. Durante la riunione, che si è tenuta a Gerace lo scorso 14 ottobre, sono stati designati 4 degli 8 componenti del futuro organo di vertice dell’Ente. Dal 7 novembre 2012, infatti, il Parco non aveva un Consiglio Direttivo. Nel corso dell’Assemblea sono stati dunque designati: il sindaco di Santo Stefano in Aspromonte, Michele Zoccali, il sindaco di Bova, Santo Casile, il sindaco di Antonimina, Antonio Condelli, e il sindaco di Oppido Mamertina, Bruno Barillaro. Il Presidente della Comunità Giuseppe Zampogna ha commentato: «La riunione di questa sera è un esempio di buona politica. Quanto avvenuto dimostra alla nostra gente e alla Comunità che è possibile declamare un nuovo concetto di Aspromonte unito in cui le divisioni del passato lasciano il posto ad eccezionali opportunità di collaborazione per l’intero territorio». Ma l’Aspromonte “unito”, tanto decantato dal Presidente, non si è sentito ben rappresentato da queste scelte, che vedono fuori, invece, i Comuni che hanno offerto al Parco quasi un terzo del suo territorio. Escludendo per forza maggiore San Luca, Platì e Samo, commissariati in questi ultimi mesi, restava come valida rappresentanza dell’Aspromonte orientale il comune di Africo. Il sindaco Versaci, stupito per la sua esclusione, ha abbandonato il Consiglio e solo dopo l’intervento del Presidente Bombino è tornato in aula, facendo mettere a verbale, però, quanto accaduto.
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A SS I M
O AT I R
Ricopre una vasta area all’interno del Parco che comprende: il lago Costantino, Pietra Lunga, Pietra Castello, Pietra Cappa e il famoso Santuario di Polsi.
Africo: 5087 ha
Sorge sulla foce della fiumara La Verde, ma il suo territorio si estende nel cuore dell’Aspromonte, dove si trovano Africo Antico e Casalinuovo.
Samo: 4124 ha
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A S S I
Un furto alla gente e allo Stato. Ho sempre vissuto la montagna come un bene assoluto, da cui attingere in maniera rispettosa; sono agricoltore, allevatore e ormai ex-cacciatore. Come agricoltore e allevatore ho assistito all’abuso di agenti forestali che, senza distinguere tra aree b (agricole) e aree A (selvatiche) hanno fatto multe assurde. Come cacciatore invece è tutto finito: non esiste nel mio comune un’area venatoria da quando hanno istituito il Parco. Eppure la caccia è un’arte, si dice non più indispensabile, ma che contribuiva all’equilibrio delle specie. Oggi viviamo invasi dai cinghiali. Le conseguenze? Le reti per la raccolta delle olive vengono puntualmente dilaniate, gli orti vanno recintati peggio che se fossero dei bunker. I lupi entrano negli ovili adiacenti al paese. Sacrifici che costano parecchio alla mia comunità, che non ha mai avuto nemmeno un paesano impiegato nell’ente. Un anno fa bruciarono ettari di territorio ma nessuno ne parlò, poi bruciò una baita sul Pollino e lo si sentì per mesi. Questo è il Parco dell’Aspromonte.
Aspromon «I 4 Comuni della zona orientale, che forniscono al Parco quasi un terzo del suo territorio, non hanno rappresentati nel Consiglio Direttivo»
di Antonella Italiano
ilParco e i suoi Comuni
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O AT I R
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Situato sul versante sud-orientale dell’Aspromonte, a nord della fiumara La Verde, ha nel suo territorio il famoso Monte Perre e le suggestive cascate Forgiarelle.
Platì: 3168 ha
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A SS I MM
TO A I R
Caratterizzato da una suggestiva posizione geografica, è incastonato in una maestosa vallata dell’Aspromonte orientale, circondata da boschi incontaminati.
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Comune Territorio (ha) Platì 3168 S. Luca
8809
Samo
4124
Il Parco Nazionale d’Aspro4 Africo 5087 monte nasce nel 1989, rico21188 pre un’area di 65.647,46 ettari Tot e comprende 37 comuni in provincia di Reggio Calabria: Africo, Antonimina, Bagaladi, Bova, Bruzzano Z., Canolo, Cardeto, Careri, Ciminà, Cinquefrondi, Cittanova, Condofuri, Cosoleto, Delianuova, Gerace, Mammola, Molochio, Oppido Mamertina, Palizzi, Platì, Reggio Calabria, Roccaforte del Greco, Roghudi, Samo, S. Agata del Bianco, Santa Cristina d’Aspromonte, Sant’Eufemia d’Aspromonte, San Giorgio Morgeto, San Lorenzo, San Luca, San Roberto, S. Stefano in Aspromonte, Scido, Scilla, Sinopoli, Staiti, Varapodio. Montalto è la cima più alta con i suoi 1955 metri.
l rumore del fuoristrada copriva a tratti la voce del vento. Dovevamo evitare di viaggiare troppo rilassati perché le buche, improvvise e profonde, ci facevano sbattere gli uni contro gli altri. Quei solchi polverosi avevano ben poco delle strade sterrate di tanti anni fa, quando la mano dell’uomo si muoveva in sintonia con la natura. È vero, le alluvioni strapparono all’Aspromonte costruzioni, vite, resero inagibili autentici paradisi, ma il senso di appartenenza alla montagna fu distrutto solo in un secondo momento dall’acquisita “comodità” dello status di alluvionati. Così uomini, tutti di un pezzo, abituati al sacrificio e alla durezza dei boschi si ritrovarono
Copertina
NO
inAspromonte Novembre 2013
Il favore delle Associazioni di fotografi ed escursionisti L’Associazione Imagorà è assolutamente favorevole alla permanenza del parco nazionale sul territorio aspromontano, anche se la sua gestione e tutela andrebbero rinforzate. Si dovrebbero migliorare la gestione dei sentieri e aumentare i controlli sul territorio per prevenire le violazioni. Andrebbero organizzate maggiori attività di sensibilizzazione verso il patrimonio naturale, storico e culturale che risiedono all’interno della nostra Montagna. (L’Associazione, con sede a Palmi, vanta numerose escursioni tra i sentieri più suggestivi dell’Aspromonte. Imagorà vuole essere un punto di riferimento e un luogo di incontro per tutti coloro che amano la fotografia e la praticano con passione).
Associazione Imagorà
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nte, ti rialzerai a spasso lungo i paesi della costa, dalle baracche ai bar, lontano dai rumori e dagli odori in cui erano cresciuti. Non prestarono più attenzione alle lune, alle nuvole, alla pioggia o al sole, e l’avvicendarsi delle stagioni servì solo ad accentuare le privazioni della nuova vita, e mai più a sentire o a prevenire la montagna. A dare il colpo di grazia all’Aspromonte ci pensò poi il Parco, imponendo una pesante zonizzazione ai paesi ancora abitati dell’entroterra, por-
tando ben pochi vantaggi e numerose limitazioni. Oggi quelli che sono rimasti, loro malgrado, si ritrovano puntualmente multati per piccoli interventi di ordinaria manutenzione. Un fenomeno che, però, non ha colpito la nostra montagna in modo uniforme. Alle zone fortemente limitate, infatti, si affiancano quelle che, pur avendo caratteristiche simili, sono totalmente libere. E poi altre stranezze. I 4 Comuni della zona orientale, che forniscono al Parco quasi un terzo del
suo territorio, non hanno l’onore di avere nessun rappresentate nel Consiglio Direttivo. I Sindaci sono semplici spettatori senza potere decisionale, né di voto. I Comuni della zona reggina, al contrario, con pochissimi ettari all’interno della Comunità, risultano abbondantemente rappresentati. È il caso di Santo Stefano d’Aspromonte, sede ufficiale dell’Ente Parco, ma con pochissimi metri quadri di montagna all’interno di esso. Perché queste differenze? Raccogliendo gli sfoghi di tanti, ascoltando campane ufficiali, campane ufficiose, e campane che ufficialmente suonano in un modo e ufficiosamente in un altro, ci siamo dunque chiesti: e se si togliesse il Parco dall’Aspromonte cosa accadrebbe alla montagna?
Tornerebbe viva o resterebbe imprigionata nella sua agonia? I bracconieri riuscirebbero a distruggere la fauna? E i cercatori di funghi, i raccoglitori di fiori e frutta, i taglialegna distruggerebbero tutta la flora? Costruirsi una casa, gestire un
Nella foto sotto la statua del Cristo Redentore di Montalto, nella sequenza in basso stralci del bilancio di previsione 2013 dell’Ente Parco.
piccolo orto, riuscirebbe a impoverire il terreno delle zone A? E soprattutto terrazzare le fiancate, stendere le reti sotto gli ulivi, riassestare le strade, inchiodare un po’ di segnaletica, recuperare le fonti alle sorgenti, deturperebbe in modo irrimediabile la natura selvaggia dell’Aspromonte? Sono le domande a cui stiamo cercando risposta. Altra risposta che cerchiamo è su che fine abbiano fatto i milioni di euro in bilancio ogni anno. Perché voci come “monitoraggio della flora e della fauna” ci sembrano un po’ troppo generiche per giustificare una spesa da capogiro. Un Ente non dovrebbe avere scopi politici, né colore politico, né uomini politici alla sua guida. Eppure, nel complesso, sembra che sia oggetto di manovre “tecniche”, che poco sanno di montagna. E mentre a Roccaforte del Greco il contadino o l’allevatore vengono multati per aver costruito una recinzione o aver sparato ad un cinghiale, nelle zone turistiche il cinghiale si serve nei ristoranti. Del resto c’è montagna e montagna. E ci stanno montanari e montanari. Quelli brutti e sporchi dei boschi e quelli v i p degli hotel.
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Ombre e luci
inAspromonte Novembre 2013
L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri La mappa della città, così come nei paesi della provincia, era come un Risiko naturale, con i movimenti di truppe, gli spostamenti dei commandos, le strategie d'attacco, le battaglie e gli scontri armati
di Cosimo Sframeli
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Reggio, e nella provincia, le regole che dettavano legge erano quelle del codice mafioso. La 'ndrangheta si era spartita i territori comunali. Innumerevoli le cosche, i killer, i capibastone, i picciotti che terrorizzavano gli inermi abitanti. Erano i colpi di fucile e di pistola a scandire i ritmi della vita quotidiana. Ogni strada, ogni angolo portava i segni della morte e dell'agguato mafioso. Era una vera e propria guerra. Le famiglie malavitose ingaggiavano scontri armati sotto gli occhi impotenti dello Stato. Venerdì 21 ottobre 1988 veniva ucciso, a colpi di lupara, l'ambulante Pietro Barbieri di 35 anni, mentre stava sistemando il carico di tessuti del suo furgone, al mercatino di piazza del Popolo a Reggio Calabria.
GLI ANNI BUI
a Reggio Calabria
Il macabro conteggio Al Comando Gruppo Carabinieri si tenevano i conti della continua strage. Quando alle sei e mezzo del mattino di venerdì 21 arrivò la notizia dell'uccisione del Barbieri, il bollettino aggiornato parlava di 42 morti ammazzati nel solo comune di Reggio, di centoventidue in tutta la Provincia. La media dell'anno prima (153 omicidi) era quasi rispettata: una media da macello. Sui muri male intonacati della città, comparirono i primi manifesti di una coraggiosa iniziativa antimafia. Un appello ai cittadini di Reggio: “La nostra città vive una crisi profonda che non ha precedenti nella sua storia. Si leggeva a firma della Nuova Costituente Democratica per la salvezza e la rinascita di Reggio - La criminalità mafiosa, senza più freni, insanguina quotidianamente le nostre strade. Un degrado civile, sociale, economico, democratico ha ridotto Reggio in condizioni di autentica invivibilità. Le classi dirigenti della città ed i partiti di governo che la esprimono si dimostrano sempre più corrotti ed incapaci di dare risposte adeguate alla
crisi di Reggio”. Si trattava di un grave fallimento, di un autentico tradimento degli interessi veri della città. Qualcuno aveva strappato il manifesto. Erano gli anni in cui iniziavano i grossi traffici di droga con la Turchia e col Libano. L'omicidio era lo strumento usuale per la riaffermazione dei reali rapporti di forza, con la eliminazione degli avversari. La mappa della città, così come nei paesi della provincia, vista in controluce, era quella di un Risiko al
naturale, con i movimenti di truppe, gli spostamenti dei commandos, le strategie d'attacco, le battaglie e gli scontri armati. Operazioni militari dirette ad affermare la supremazia.
L’uccisione di Calofiore Francesco Calafiore gestiva, per conto di Giovanni Rosmini, un negozio di giocattoli. Dentro c'era un'innocente coppia con un figlio di 4 anni. Fecero in tempo a salvarsi nascondendosi dietro un mucchio di bambole e di trenini elettrici, mentre il killer entrava per eliminare gli eventuali testimoni. Quei secondi, con la mano che tappava la bocca del bambino, erano tutta una vita. Appesa ad un soffio. Appesa alla fortuna. La gente non parlava, taceva perché aveva paura. L'omertà, nel senso di obbligo al silenzio, “Non parrari, non t'impicciari, non t'intricari”, non riguardò soltanto i mafiosi. Fu duro e difficile vivere in quell’intricato universo della 'ndrangheta calabrese, con la paura e il rischio di non essere compresi: «Voi di fuori non potete comprendere che significa vivere con la mafia sotto casa, magari alla porta a fianco». Nella foto in alto il luogotenente Cosimo Sframeli, nella foto a sinistra le immagini di un omicidio
Ombre e luci
inAspromonte Novembre 2013
Ambienti e città. Opere incompiute, elementi distintivi del nostro territorio
I ferri della
speranza
Il “non-finito” caratterizza tutto il Sud, ma la provincia reggina in particolare di Federico Curatola
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i ho definiti i “ferri della speranza”. Sono le armature dei pilastri che sbucano dai solai e si stagliano al cielo come se volessero aggrapparvisi. Sono l’emblema del “non-finito” che caratterizza un po’ tutto il Meridione e che trova la sua sublimazione in Provincia di Reggio. Un “costume” ampiamente diffuso che dagli anni ‘70 ha trovato cittadinanza ovunque, salvo rare, rarissime eccezioni. Centri abitati come Melito di Porto Salvo hanno in qualche decennio quintuplicato la superficie edificata, ma non la propria popolazione, che è aumentata dal dopoguerra ad oggi di poco più di un terzo. Nel 1951 contava 8704 abitanti (dati Istat), oggi ne conta 11.706, solo 3.000 abitanti in più a dispetto di una proliferazione edilizia che ci consegna un agglomerato capace di ospitare, si stima, circa 45.000 abitanti. Basta confrontare le due carte (in basso) per rendersi conto come sia “cresciuta” la città e come siano andati perduti i caratteri insediativi impressi circa cento anni fa, all’espansione urbana. Dal confronto si riescono a riconoscere gli assi viari principali, quello parallelo alla costa ed i due perpendicolari nati per collegare il nucleo originario alla stazione ferroviaria. Ma il resto è caos. La forma urbana, ben riconoscibile nella prima immagine, seppure figlia di un’edilizia spontanea lungo un asse, mostra l’intenzione di uno sviluppo ra-
zionale dell’edificato e la presenza, voluta, di quelli che possiamo definire i “progenitori” della zonizzazione urbana per “funzioni”. Zona “direzionale” (uffici scuole e servizi), ospedale, sorto a pochi metri dalla stazione ferroviaria, quartiere popolare abitato dai pescatori, primi insediamenti produttivi per la trasformazione del bergamotto. Assi viari rettilinei, distanze tra i fabbricati, tipologie edilizie più o meno uniformi. Questo fino all’immediato dopoguerra, come si evince dall’aerofotogrammetria del 1954. Poi accade qualcosa. Una crescita sfrenata, l’avvento di nuovi materiali per l’edilizia, l’incontrollata proliferazione di nuove costruzioni che smettono di tenere conto di distanze, di allineamento con altri edifici, di altezze e anche di colore. Sono gli anni del boom economico. Ognuno ha un fazzoletto di terra e vi costruisce. Abbandona la propria abitazione nel Paese Vecchio, che una fuorviante parvenza di benessere ed una costante ricerca della “comodità” ormai classifica come inadeguata, e costruisce su quel fazzoletto di terra. Non importa come è orientato, non importa se è servito o meno da una strada pubblica, quello che conta è costruire. Ma non un piano o due (zona giorno e zona notte), almeno tre o quattro, a seconda del numero dei figli! Così sorgono questi enormi mostri, molti dei quali rimangono con le semplici strutture verticali ed orizzontali, senza tamponatura esterna e senza ovviamente nè tetto nè facciata. Famiglie che hanno dilapidato patrimoni per “fabbricare” e lasciare poi all'azione corrosiva degli agenti atmosferici il “frutto” dei loro sacrifici. Centinaia di famiglie. Centinaia di milioni di lire e mutui venten-
nali che hanno contribuito a dissanguare la già flebile economia e a ridurre alla stagnazione l’iniziativa privata. Se i milioni investiti in cemento e mattoni, fossero stati investiti infatti nella
creazione di imprese familiari e piccole attività produttive legate ai prodotti locali ed all’artigianato, oggi avremmo sicuramente un paesaggio meno agghiacciante ed un ben diverso indice di
L’EDITORIALE
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ricchezza ed occupazione. Tutto ciò, certo, è stato reso possibile anche dalle decisioni della politica. Da piani e programmi di dubbia validità, ai quali si è messo ripetutamente mano, anche se “la pezza”, molto spesso è risultata peggiore del “buco”. Parlo di Melito o dell'Area Grecanica perchè ci vivo ed opero, ma il fenomeno è diffuso e generalizzato e Reggio, Città Metropolitana, probabilmente ha, per dimensioni, il primato mondiale degli edifici non finiti e sorti in maniera disorganica ed incontrollata. Come possiamo “cancellare” gli sfregi che due generazioni precedenti alla nostra hanno inferto a questo territorio? È una sfida ardua ed è compito di chi ha i mezzi “culturali” per farlo combatterla, stimolando chi ha responsabilità istituzionali. Nell’attesa, magari, che le due figure combacino.
di Gioacchino Criaco
BRUTTA RAZZA ASPROMONTANA
N
e parlano in tanti d’Aspromonte, e fra essi i più ne discutono a sproposito, non avendone alcuna conoscenza reale. Pochi si sono spinti fra le sue vette, pochissimi si sono affacciati dall’orlo delle Rocche di Chora per vedere fra i suoi spaventosi precipizi le strade dell’acqua che gli aspromontani vi hanno costruito di traverso per rendere fertili i fazzoletti di terra che vi stavano oltre. Pochi conoscono la perfezione estrema dei muri a secco dell’Aspromonte, costruiti per strappare terra e vita al monte Lucente. Pochi sanno che negli anni quaranta una macina di mulino da una tonnellata costava al committente tre maialini e gli scalpellini aspromontani riuscivano a tirarne fuori dal granito una in tre mesi, con solo mazzuola e scalpello. Pochi hanno infilato la testa nel cavo dei pini larici millenari per sentire ancora l’odore di quella pece che gli aspromontani vendevano come oro ai costruttori di navi del Mediterraneo. E pochi hanno fumato il tabacco d’Aspromonte nel forno delle pipe d’erica aspromontane. E il sapore del vino e del miele d’Aspromonte, il profumo del suo olio, non li ricorda più nessuno. Di cosa è stato l’Aspromonte e la sua gente non se ne ricorda nessuno. Del massiccio calabrese si conoscono solo le orride, e vere, cronache nere degli anni settanta. E della Calabria si ha notizia solo per il suo passato più recente, quello crudo dei sequestri e della ‘ndrangheta. E non sto a parlarvi della gloria passata per coprire un presente infame. Vi narro delle fatiche che per millenni hanno mantenuto vivo l’Aspromonte e la Calabria. Non è stato un vivere facile, è stata una lotta a invasioni, epidemie, terremoti e alluvioni, carestie. E’ stato un continuare a vivere nonostante drammi di ogni tipo. Un sopravvivere doloroso, a tutto. Un passato duro, al limite della fatica umana. Un trascorso che al netto di fugaci glorie, è stato arduo ma dignitoso. Tanto dignitoso che pur non mettendo al centro del mondo l’Aspromonte come faro di cultura non ne ha fatto di esso un ricettacolo di reietti. E a chi parla di tare antropologiche che scrivo. Perché se la genetica c’entrasse, allora sarebbe più logico che le progenie dei vichinghi conti-
Nella foto Grace Portolesi, ministro australiano originario di Platì
nuassero a grassare, e noi che abbiamo tratto vita da greci, osci, e romani, e quant’altro, stessimo oggi a filosofeggiare e far sfoggio di alti ingegni. E invece le società scandinave si avvicinano per quanto possibile alla perfezione, mentre l’aggregato sociale calabrese, spesso, scavalca i millenni per rientrare negli antri dei primordi. Sono le condizioni sociali che rendono migliore o peggiore una società, non i geni. E sono i geni, inteso per uomini geniali, che danno lustro alle società. E il problema calabrese non è di dna, ma di geni, cervelli, che non ci sono, non in assoluto, mancano i molto intelligenti nelle classi sociali più elevate, che al miglioramento e al cambiamento preferiscono l’arretramento e l’immobilismo, più idonei al mantenimento delle differenze sociali che al loro superamento. Non vi parlo di grandezza dell’Aspromonte, vi spiego la tenacia della sua gente, la fatica di secoli per sopravvivere. Un popolo che per millenni ha buttato il proprio sangue per un pezzo di pane, se alla soglia degli anni settanta, in una sua parte minoritaria, si dedica a versare quello altrui, non per questo diventa antropologicamente criminale. E’ la politica che fa la differenza, quella buona da le condizioni, e rimuove gli ostacoli, per creare una società migliore. La cattiva politica forma le società peggiori. L’Aspromonte, e la Calabria, non hanno geni cattivi, mancano di una politica che, se non geniale, superi il limite della sufficienza.
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Aspromonte orientale
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PLATI’
IL TORO DI NASIDA di Antonio Perri
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ungo la statale che porta dalla costa ionica a Platì e all’Aspromonte, c’era una contrada che tutti conoscevano: la contrada di Nasida. Ben famosa in quegli anni di inizio secolo. La fama stava tutta in qualche metro quadro di stalla. Una fama possente, con quattro
zampe tarchiate e ben ancorate a terra e una schiena che si inarcava vicino alla testa: era il toro di Michele; una razza che traeva origini dalle Alpi, con una macchia stellata sulla fronte marrone. Michele lo aveva allevato da quand’era piccolo e, quando non stava nella stalla, il toro scorraz-
Un mestiere antico. Duro, riservato a chi aveva il coraggio di sfidare la montagna
I muletteri d’Aspromonte di Mimmo Catanzariti
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’avvento dei mezzi di trasporto moderni e la rete viaria, diventata capillare anche nei paesi interni, hanno causato la scomparsa di una delle figure più popolari della tradizione del sud Italia: u muletteri. Un tempo i proprietari terrieri non avevano silos o cisterne nei poderi e tutto il prodotto dei possedimenti, biade, vini, olio, veniva trasportato nei centri abitati dove, spesso, i locali a pianterreno delle case (i bassi) erano addetti all'uso di magazzini. Di solito i proprietari erano padroni di uno o più muli, quindi di più muletteri, che erano a loro totale carico; queste condizioni potevano variare di poco secondo le usanze dei paesi, ma era un mestiere che almeno garantiva uno stipendio e il vitto giornaliero per tutto l’anno. IL MULO, di costituzione forte e robusta, era preferito per la resistenza alle fatiche, per l’adattabilità ai percorsi impervi delle montagne, per la scarsa cura che richiedeva e, contrariamente a quanto si crede, per l’intelligenza superiore a quella del cavallo. Le dimensioni del mulo variano in base agli incroci a cui vengono sottoposti, un modo per creare una razza forte come gli asini e
veloce come i cavalli. I più ricercati e costosi erano i muli pugliesi, impiegati anche nelle ultime guerre mondiali proprio per le loro caratteristiche, e assegnati sempre a soldati calabresi sardi e siciliani che del temperamento dei muli si diceva avessero molto in comune. IL MULATTIERE aveva per il mulo molta cura, dato che rappresentava, spesso, l’unica fonte di sostentamento per il nucleo familiare: l’imbottitura di paglia era adeguatamente sistemata per evitare le piaghe che il carico provocava, il pelo era strigliato e ripulito ogni giorno, la criniera tagliata corta e gli zoccoli sempre ben ferrati. Il danno peggiore avveniva quando un mulo si azzoppava o si feriva con il basto: le piaghe venivano curate con un impiastro di olio bollito e cenere di paglia di avena bruciata, per cicatrizzare la ferita ed evitare l’infezione causata dalle mosche. I finimenti erano mantenuti efficienti: le parti in cuoio della cavezza e delle corde per il carico venivano trattate con grasso animale per ammorbidire la pelle. I muletteri rispecchiavano il vecchio detto «l’uomo si conforma alla vita che fa e al mestiere che svolge»; erano come l’asino e il mulo: forzuti, cocciuti, e a volte poco gestibili. Erano spesso di
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MULI E BARDOTTI? QUESTIONE DI GENITORI
Nascono dall’esigenza di avere animali più forti e resistenti alle malattie, soprattutto nelle zone di montagna. Dall’incrocio con mamma cavalla e papà asino nasce il mulo, da quello con mamma asina e papà cavallo nasce il bardotto. Il mulo ha dimensioni maggiori dell’asino, e zampe più grosse e orecchie più lunghe di quelle del cavallo. I maschi sono sempre sterili, le femmine possono essere fertili. Il bardotto è sempre stato poco considerato per la taglia inferiore rispetto al mulo. Il bardotto ha una folta criniera, orecchie piccole e nitrisce a differenza del mulo che raglia.
liberi costumi, di sfrontatezza e audacia incredibile come testimoniavano i canti popolari che si sentivano nei vari paesi della Calabria. Viaggiando da paese a paese acquisivano nuove esperienze, importavano canzoni, proverbi, consuetudini, e purtroppo anche malattie sconosciute. Dai vari punti di produzione delle materie da trasportare, dai frantoi, dai palmenti, dagli ovili e dalle case rurali, dai boschi e dalle carbonaie, il mulattiere caricava il sale, il vino, l’olio, la farina, i formaggi, la legna ed il carbone. Per essere adibiti ai diversi tipi di trasporti l’asino e il mulo venivano bardati con finimenti diversi, così come diversi erano i contenitori che venivano legati al basto. SEGUENDO stretti e ripidi percorsi, attraversando fiumare e valloni, valicando passi montani, il mulattiere con il suo animale arrivava praticamente dappertutto, scaricando un prodotto e caricandone al suo posto un altro, e non di rado per evitare di pagare i dazi sul grano o sull’olio, scantonava dalle mulattiere tradizionali e ne tracciava col suo mulo delle altre. Un modo per evitare gli esattori e i militi preposti al controllo delle strade. Quello del mulattiere fu, difatti, uno dei mestieri più duri, eppure tra i più entusiasmanti per lo spirito di libertà e le avventure che regalava. Non era per tutti. Era solo per gli uomini che avevano spirito e coraggio sufficiente per mettersi in viaggio, affrontare la testardaggine di un mulo, il freddo invernale e la calura estiva, i brutti incontri e la morte per un calcio improvviso o per la caduta in un burrone. I mulattieri passarono giorni, settimane, sulla strada, dormendo all’aperto in compagnia di muli, volpi, civette e lupi.
IMBASTIRE L’ASINO
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I fiscini
al latino "fiscus", sono due grossi cesti di vimini a forma di parallelepipedo che avevano nella parte superiore un foro rettangolare per il passaggio dei "carricaturi", ovvero le corde con le quali venivano assicurati al basto e servivano per trasportare ortaggi e frutta.
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I casci
ontenitori di legno con la parte inferiore mobile ruotante su due cerniere che permettevano l'apertura per scaricare i materiali trasportati senza scaricare la cavalcatura. Erano utilizzate soprattutto per il trasporto della sabbia, della ghiaia o della calce prodotta spesso nei dintorni dei paesi.
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I ganci
rano attrezzi di legno ricurvi che si legavano al basto ed erano utilizzati per il trasporto delle pietre squadrate ("cantunere") prodotte nelle cave, e che venivano utilizzate per la costruzione delle case del paese. Una pratica in vigore almeno fino alla metà del secolo scorso.
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L’utri
ecipienti di pelle di capra utilizzati assieme ai "bariji" (barili), recipienti di legno a doghe, simili a piccole botti oblunghe, di circa 25 litri, che venivano usati per trasportare l'acqua, l'olio e il vino, e che venivano assicurati al basto per mezzo delle solite funi ("carricaturi").
Aspromonte orientale zava libero nel campo. Nickel, così si chiamava, montava fino a 20 mucche al giorno con ottimi risultati. Michele si occupava del foraggio, procurandoglielo sempre fresco e buono: il toro era il business della fattoria, e questa campava grazie ai suoi servigi. Una mattina Michele, passeg-
giando nel campo, notò che c’era qualcosa che stonava. Quello che lo preoccupava era lo strapiombo che segnava la fine della sua terra, era pericoloso per Nickel. E se ci fosse caduto? Ma va, e quando sarebbe mai successo! Qualche mese dopo, come al solito, fece uscire l’animale per
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farlo sgranchire e in un attimo Nickel puntò lo strapiombo e, con un muggito terrificante, galoppò verso la morte. Quando Michele vide Nickel giù nel dirupo sentì una tenaglia alla gola, si portò le mani al collo e cadde spirando: il padrone non volle sopravvivere al suo amico animale.
POTAMIA
San Luca. Una storia custodita tra l’antico centro abitato e la suggestiva Pietra Castello
MEMORIA DI UN POPOLO «Purtroppo il sito non è mai stato oggetto di piani di recupero, che avrebbero donato alle nuove generazioni una testimonianza del loro passato» di Giancarlo Parisi
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isalendo il corso del torrente Buonamico, poco prima che le pareti della sua valle si restringano, è possibile scorgere in alto, seminascosti tra la vegetazione, alcuni ruderi. Si tratta dei resti di Potamìa, antico villaggio in cui vivevano gli avi dell’attuale paese di San Luca (RC). Il villaggio fu abbandonato ufficialmente il 18 ottobre 1592 a causa dei frequenti fenomeni franosi - l’ultimo dei quali (autunno 1590) lo distrusse quasi completamente - allorquando venne fondato l’attuale San Luca, su un sito più a valle e maggiormente sicuro dal punto di vista delle frane. Visitare luoghi simili a questo è un’esperienza affascinante e allo stesso tempo triste. Sebbene non sia distante dall’attuale centro abitato e nonostante a valle dello sperone roccioso su cui insiste (e sulla cui sommità si registra un’altitudine di 394 metri s.l.m.) si stendano numerosi campi coltivati ad olivo, Potamìa è ancora oggi densa dell’atmosfera di 400 anni or sono. Purtroppo il sito non è mai stato oggetto di studi archeologici e piani di recupero, che certamente avrebbero consentito di ricostruire la memoria storica e donare alle nuove generazioni una testimonianza del loro passato.
Tutto è abbandonato al lento sfacelo del tempo. La vegetazione sta pian piano fagocitando ogni cosa e le intemperie stanno minando pericolosamente alla stabilità delle ultime vestigia. Sul sito si contano i resti di una ventina di abitazioni (18, secondo i rilievi di S.M. Venoso), di circa tre metri per cinque di superficie e sul punto più alto era collocata una chiesa, della quale non restano che pochi muri portanti e le tracce di una scala sull’entrata principale. Facendo una comparazione con alcune immagini pubblicate su uno dei Quaderni della Fondazione Corrado Alvaro (La Valle del Buonamico, 2005 - a cura di
Potamìa, interno della chiesa. Foto di Giancarlo Parisi
COME ARRIVARCI Raggiungere Potamìa non è particolarmente difficile, ma richiede una buona preparazione fisica per via del notevole dislivello da superare per arrivare in cima al promontorio dove sorge (394 metri s.l.m.). Dall’abitato di San Luca si raggiunge con l’auto il letto del torrente; la strada che vi conduce èdapprima asfaltata, poi supera l’argine in cemento armato e per circa 200 metri si percorre direttamente il letto di ciottoli del Buonamico, per poi ritornare sull’argine e percorrere altri 300 metri circa. A questo punto la strada muore in un invaso in cemento che accede direttamente al torrente. Lasciare l’auto lì. Alzando lo sguardo è possibile scorgere in alto i resti di Potamìa. A questo punto percorrere a piedi la carrareccia che si dipana in linea retta dietro l’argine in cemento sulla sinistra idrografica e che giunge
A. Vottari e F. Nocera) è possibile rendersi conto dei danni che hanno subito i resti della chiesa negli ultimi anni. Sotto il pavimento, ormai sprofondato, dell’edificio religioso è probabile che venissero seppelliti i defunti, calati attraverso una botola, in ossequio alle antiche usanze precedenti la legge sui ci-
in un terreno privato ma non recintato; detto terreno è situato in un vallone, formato da un piccolo corso d’acqua che scende dalla parete montuosa. Potamìa èsopra la vostra testa, alla destra idrografica del corso d’acqua, ma per raggiungerla è necessario affrontare la salita dalla parte sinistra. Non esiste un vero e proprio sentiero da seguire; bisogna salire gradualmente di quota dal lato sinistro del ruscelletto, per poi attraversarlo e proseguire sulla destra dello stesso, continuando a salire disegnando delle “S” sul versante della montagna, fino a scorgere i primi ruderi di Potamìa. Sono d’aiuto i “sentieri” lasciati dal continuo passaggio delle capre. Dal momento che l’area sottostante ècoltivata, èbuona norma annunciare la propria presenza ai proprietari, se presenti.
miteri napoleonidi. Dal centro di quel che resta della Chiesa si scorge in lontananza la frana Costantino (che ha dato origine all’omonimo lago ormai quasi del tutto scomparso) ed il massiccio di Pietra Castello. Secondo Giuseppe Pontari - intervenuto nel convegno di studio tenutosi a San Luca tra il 16 e il 18 marzo 1990
Potamìa, resti con vista sul Buonamico. Foto di Giancarlo Parisi
in occasione del 400° anniversario dalla fondazione - Potamìa era un casale non fortificato, costituitosi sul finire del medioevo come propaggine del luogo per eccellenza fortificato ed assai più antico che era, appunto, Pietra Castello. L’Aspromonte cela fra i suoi boschi e i suoi costoni rocciosi, infiniti reperti e tracce della presenza umana. Soltanto pochi di questi sono stati oggetto di studio e portati a conoscenza del pubblico (e neanche in modo così capillare). Le amministrazioni, in primis, hanno storicamente dimostrato scarso interesse per il nostro passato e questo ha legittimato, nel corso del tempo, pratiche depredatorie su siti di estremo interesse storico. L’unico lato “positivo” di questo disinteresse consiste nell’atmosfera densa e incontaminata che è ancora possibile respirare in questi luoghi, ma la totale assenza di politiche di salvaguardia mina seriamente al perdurare di questo autentico patrimonio.
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Aspromonte greco
inAspromonte
GLI SCATTI PIU’ BELLI DALLA MONTAGNA
Novembre 2013
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iusciamo a fare molte cose fino a stupirci delle nostre stesse capacità. Ed è così che a una certa dose di lavoro ne aggiungiamo ancora un po'; di cibo, altrettanto; di un percorso in auto alla guida, finché non siamo sfiniti; al riposo notturno sottraiamo
qualche ora, sera e mattino, perché lo riteniamo tempo perso; a una escursione in montagna non poniamo limiti né di tempo, né di pericolo, né di età. Come se le energie fossero infinite, come se andassimo ad una festa, come se fossimo immortali. Cosimo Sframeli
Calabria greca. Il saggio sul tentativo di riscoperta delle nostre radici (prima parte)
Tin stòriama, te rrìzemma di Salvino Nucera
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entando di conoscere la nostra storia, le nostre radici, possiamo tentare di conoscere meglio noi stessi, la vita dei nostri paesi, il comportamento delle loro genti, nella realtà di ieri e di oggi. Gente umile e laboriosa ma piena di orgoglio e di dignità che ha sempre apprezzato ed apprezza, sopra ogni altro, il valore dell’ospitalità, dell’amicizia sincera. La cultura di questi nostri paesi della Calabria meridionale, abbarbicati sulle cime o sulle falde suggestive e rigogliose dell’Aspromonte, è nel suo nucleo spiritualmente e mentalmente greca. I paesi nei quali ancora oggi si può ascoltare dalla viva voce degli anziani la lingua greco-calabra sono: Roccaforte del Greco, Ghorio di Roghudi, Bova, Bova Marina, Gallicianò. Tutti eccetto Bova e Bova Marina, disposti lungo la vallata dell’Amendolea. Voler cimentarsi nella ricostruzione di un profilo storico di ogni singolo centro dell’Area è impresa ardua e difficoltosa per palese carenza di materiale storico da cui poter attingere. In Rovine di Calabria del condofurese Francesco Nucera si può leggere: “nessun altra regione d’Italia presta così vasto campo di ricerche e di studi quanto la Calabria. Ma purtroppo, queszta regione non è soltanto poco studiata, ma anche ignorata. Sicchè, la ricostruzione storica di questa terra non è soltanto difficile, ma anche impossibile. Mancano le fonti documentali, mancano le ricerche, mancano l’incentivazione e l’incoraggiamento degli organi responsabili. Ignoriamo così le vicende storiche di ciascun comune, i fiumi, la loro importanza idrica, l’estensione del suo territorio, il numero dei suoi abitanti, i suoi costumi, le sue miserie, i suoi valori. Se in un secolo di vita nazionale avessimo speso un po’ del nostro tempo a rovistare negli archivi, sia pubblici che privati, a ricercare nel sottosuolo, a studiare le cose nostre e a metterle in luce, forse oggi i legislatori ci conoscerebbero meglio e, conoscendoci meglio, avrebbero potuto creare, a tempo, le condizioni di sviluppo necessarie” (Rovine di Calabria, 1974).
Dopo molti anni dalla formulazione di tale giudizio poco è cambiato. Storici, filologi, glottologi, nel tempo, hanno dovuto far ricorso alla parlata greco-calabra dei paesi della Bovesia per tentare di stabilire l’epoca e la provenienza di quelle popolazioni in forma più esplicita, la costituzione e la nascita di quegli abitati. La documentazione disponibile sul grecismo calabrese è costituita più che da reperti archivistici recenti, da informazioni tramandate da corografi del tempo.
Nella loro successione cronologica codeste testimonianze storiche attestano “una sequenze di contrazioni”, afferma Benito Spano, attraverso le quali la Calabria greca finisce col restringersi dentro il perimetro dell’attuale isola alloglotta, imperniata sui due insediamenti più antichi, come ancora ci informa lo Spano, cioè Bova e Amendolea le cui origini risalgono, quasi certamente, al periodo bizantino. Lo Spano sostiene andando avanti che tutti gli altri abitati, compresi Roghudi e Roccaforte, per quel che è
dato di sapere sono di impianto meno antico. I nomi di Condofuri, Roccaforte del Greco e Roghudi non risultano documentati prima del tardo ‘500. Il Barrio ne parla della loro esistenza nel suo lavoro “De antiquitate et situ Calabriae” del 1571. Di formazione posteriore sembra essere la generalità dei più piccoli centro o frazioni. Per alcuni secoli, dunque, dopo la fondazione di Bova ed Amendolea, le valli dell’Amendolea, del resto non facilmente accessibili all’esterno, sarebbero rimaste in massima parte disabitate e fossero già di popolamento. Tali le avrebbero conosciute al loro arrivo, sul finire del Medioevo o agli inizi dell’Età Moderna, le popolazioni romaiche, greche per ascendenza o grecizzate, qui penetrate e confluite da un territorio di dispersione più vasto. Nel 1200 Amendolea era un villaggio più cospicuo di Bova per numero di abitanti e, nel tardo Settecento, ci informa ancora lo Spano, veniva designato come capoluogo di un “Stato di Amendolea”, per la sua importanza storica ed aveva i suo vertici estremi in Roghudi, Roccaforte, Palizzi. Tristemente famoso il despota dello Stato di Amendolea, denominato il “maddà”, oltre che per la durezza, nell’esercizio del suo potere nei riguardi dei “casali” come venivano definiti i vari villaggi (paesi), anche per la cosiddetta pratica del “Jus prime noctis” esercitato su tutto il suo territorio. Riprendendo il discorso sullo studio della parlata greco-calabra da parte filologi e glottologi, sempre secondo F. Nucera nell’o.c., tali studiosi hanno sufficientemente dimostrato la modernità della lingua greco-calabra parlata nella Bovesia. Tuttavia prosegue interrogandosi (il Nucera) ed affermando che si discute su come questa parlata abbia potuto evolversi da sé sul posto ovvero, come e da chi sia stata importata o ravvivata, forse, da un apporto dialettale di popolazioni greche immigrate. La prima ipotesi riportata è definita “neoellenica” o neogreca e sostiene che il grecismo in Calabria sia di epoca recente ed è un’importazione da parte dei coloni greci venuti a stanziarsi nei nostri territori nel XVI secolo, forse, sotto Carlo V. L’emigrazione sarebbe avvenuta dopo la caduta di Costantinopoli (1453).
Aspromonte greco
SUILLUS LUTEUS “BAVUSO” SI, MA PRELIBATO
inAspromonte Novembre 2013
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utunno ricco di funghi questo del 2013. Lo Zomaro ci regala invitanti Pinaroli, da tanti sottovalutati per il loro aspetto poco invitante. Funghi che, se raccolti ancora molto giovani, non hanno niente da invidiare ai più famosi (e ricercati) Boletus.
Reperto scheletrico di un cervide nano risalente al Pleistocene superiore (circa 100.000 anni fa)
Clypeastri (ricci di mare) esseri viventi che regnano nel Cenozoico (iniziato 65 milioni di anni fa)
IL MUSEO DELLA
CHORA GRECA
Milioni di anni di storia stanno racchiusi nel Museo civico di Paleontologia e Scienze naturali dell’Aspromonte Bova c’è un « amuseo la cui va-
lenza storica non è seconda a nessuno
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l’offerta rivolta alle scolaresche favorisce lo studio della Paleontologia museo ha una « ilsuperficie di 300 mq e 5 ampie sale espositive vetrine « nelle piccole forme animali e vegetali di 100 mila anni fa
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di Francesco Violi
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entre si è in trepidante attesa per la riapertura del Museo nazionale di Reggio Calabria, non tutti sanno che a Bova (la Chora) esiste un museo la cui valenza culturale e storica non è seconda a nessuno. Difatti il Museo civico di Paleontologia e Scienze naturali dell’Aspromonte ha un’importanza storica e culturale meritevole di attenzione. Spiega le ragioni e le origini del Museo, il vicesindaco di Bova Gianfranco Marino: «Il Museo di Paleontologia e Scienze naturali dell'Aspromonte è una realtà, su scala regionale, unica nel suo genere. È nato quasi trent’anni addietro ma solamente due anni fa la struttura è divenuta ufficiale. Attualmente è un fiore all’occhiello per il borgo. LA FRUIBILITA’ e le visite sono garantite dal personale del Comune e, da circa un anno, è partita l’attività riservata ai tanti turisti, studiosi, storici ed appassionati che durante l’arco dell’anno raggiungono Bova. Ma
l’offerta museale è rivolta soprattutto alle scolaresche per le quali l’Assessorato alla Cultura ed al Turismo ha progettato il percorso formativo “Paleontologo per un giorno”, mirato a favorire lo studio mediante un’attività didattica appropriata sul mondo della Paleontologia ed in un contesto nel quale le Scienze naturali dell’Aspromonte rappresentano la giusta cornice di apprendimento. Visti i risultati raggiunti durante questo biennio e l’alto gradimento riscontrato abbiamo deciso come Amministrazione comunale di potenziare l’offerta per la stagione culturale 2013/14, in un momento nel quale, Bova rappresenta l’oasi felice sia n e l comparto culturale che turistico». Chi volesse meglio comprendere le origini dell’Area grecanica non può non farsi coinvolgere dall’atmosfera che si respira all’interno delle sale espositive. IL MUSEO, ubicato nei locali della vecchia pretura, si estende su una superficie di circa 300mq
Bova, entrata del Museo civico di Paleontologia e Scienze naturali dell’Aspromonte
ed è articolato in cinque ampie sale, corredate da vetrine e da un ricco apparato iconografico, che rappresentano la linea del tempo che va dall’Era Primaria al Fanerozoico. Il viaggio nella Storia inizia nella prima sala, dove vengono illustrati i Primordi, ovvero i primi palpiti di vita nel nostro pianeta. Siamo nell’Era Paleozoica, defnita nella storia come il periodo che va da 542 milioni a 251 milioni di anni fa. Gli esseri viventi rappresentati in questa sala sono i Trilobiti, organismi che vivevano in mari poco profondi e le cui dimensioni variavano da 10 cm a qualche millimetro. La caratteristica principale di questi animali, a cui devono il nome, è la suddivisione in tre parti dell’esoscheletro, sia lungo l’asse cefalocaudale, sia lungo quello perilaterale: la testa, il torace e la coda. Completano la collezione i Graptoliti, veri e propri fossiliguida. L’ERA SECONDARIA, definita anche Mesozoica trova spazio nella seconda sala. Gli Ammoniti, esseri viventi il cui nome deriva dalla tipica forma a spirale della loro conchiglia che somiglia al corno del montone sacro a Giove Ammone, si alternano ai Belemniti, animaletti simili alle seppie ma con il guscio interno. Siamo nella storia che va da 251 milioni a circa 65 milioni di anni fa. Quando si entra nella terza sala si comprende meglio la magia dello spettacolo della natura:
l’Era Terziaria, ovvero il periodo Cenozoico che va dai 65 milioni fino ai due milioni di anni fa. La zolla africana viene a contatto con la zolla europea e da questa collisione nasce la prima catena alpina, della quale la Calabria rappresenta la punta avanzata. I Nummuliti, organismi microscopici dotati di guscio calcareo ed i Clypeastri, ricci di mare, sono gli esseri viventi che regnano in questo periodo. Continuando il viaggio nel tempo si accede alla quarta sala dove è rappresentata l’Era Quaternaria o Neozoica (1,8 milioni di anni fa fino ad oggi) dove compare l’uomo. Fossili climatici esprimono la vita del periodo: si va da ospiti caldi “senegalesi” a ospiti freddi “nordici”. Infine, si entra nel salone centrale, luogo e rappresentazione del Fanerozoico. PARTICOLARE attenzione va rivolta ad un frammento di osso mascellare destro, completo di denti, di un cervide nano risalente al Pleistocene superiore (circa 100.000 anni fa). Le vetrine espositive contengono piccole forme animali e vegetali del periodo: i Litotamni, alghe calcaree, impronte di fiori, Briozoi, Coralli, Vermi Tubicoli, Crostacei, Brachiopodi. Grandi pannelli illustrativi dell’Aspromonte e della Calabria, una biblioteca, un laboratorio adatto per il restauro completo di attrezzature per la microscopia ottica e una postazione multimediale ampliano l’offerta espositiva del Museo. Il futuro dell’Area grecanica passa necessariamente dalla conoscenza del territorio, della sua natura, delle sue risorse. A partire dalla storia.
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Approfondimento
inAspromonte Novembre 2013
Passu ill’adornu
A schermiata
U corteggiamentu
l ballerino segue un movimento circolare, stringendo sempre più verso il centro l'avversario. Per "'nnopiarlo" (stordirlo distraendolo) alza le braccia ripiegate al gomito sopra le spalle, facendole oscillare lentamente in senso verticale idealizzando il battito delle ali del falco.
contendenti si dispongono l'uno di fronte all'altro: la mano destra a dita unite raffigura il coltello e compie nell'aria movimenti ondeggianti, pronta al fendente o all'affondo. La sinistra, un po' più flessa, distrae l'attenzione dell'altro, ed è pronta a parare eventuali colpi.
ui fissa negli occhi lei, lei poggia sui fianchi le mani con le palme rivolte all'esterno; è un atteggiamento molto elegante che ricorda le sinuose forme delle anfore greche, ma è anche una posizione densa di civetteria per esaltare i fianchi e la formosità dei seni.
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FUORI
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PRIMO
MUSICHE D’ASPROMONTE RADICI E TRADIZIONE
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ra gli sguardi del pubblico il "mastru d'abballu" si dispone al centro del cerchio e, dopo i primi accenni di danza, si dirige verso gli spettatori fra i quali sceglie il compagno o la compagna. Lo fa con un gesto lento, gentile e spavaldo e, con un lieve inchino, li saluta toccandosi la fronte con le dita della mano destra. Dopo qualche giro invita un altro ballerino per poi reinserirsi nella danza, sostituendolo con la formula: «Fora 'u primu». Continua così alternandosi costantemente fino alla fine delle danze. Non ci si ribella alla direttive espresse del mastru d'abballu: se ne accettano umilmente le decisioni. Talora però questi abusa del suo potere, trascurando ostentatamente qualcuno. Il presunto offeso non si tiene lo sgarbo: sono coltellate o bastonate. A volte un dito viene puntato verso l'alto in segno di sfida, per "chiamarsi" il posto, cioè il diritto alla supremazia. Altre volte si cerca di impressionare e disorientare il compagno di ballo con il "soprapasso" (consiste nell'intrecciare i passi quasi mimando una veloce rincorsa battendo un piede all'esterno dell'altro alternativamente). Allorché uno dei contendenti riesce a conquistare il bordo del cerchio inizia il "passo 'ill'adornu", cioè il mimo
Tarantella. La simbologia nascosta nei suoi passi
IL BALLO FUORILEGGE
CONQUISTARE
LA ROTA Era lo spazio entro cui il ballo aveva luogo, una rievocazione del territorio di appartenenza tribale: il villaggio, il paese, il rione. Lo scopo era la simbolica conquista, il predominio. A dirigere le danze c’era l'uomo di maggior rispetto e di conclamata abilita. A costui era scontata la sudditanza degli astanti.
del volo del rapace quando questi cerca di "'nnopiare" la preda (affascinarla per poi piombarle addosso e ghermirla). L'avversario, se perdente o rassegnato, si riduce al centro dell'area e manifesta la sua rinuncia alla lotta rallentando stancamente il ritmo dei passi ed abbassando le braccia. È il momento della vittoria ed il "mastru d'abballu" interviene per rilevare il rinunciatario sostituendolo. Ma non sempre un contendente si lascia sopraffare dall'altro e cerca di interromperne l'itinerario operando il "tagghiapassu" (tagliapasso) tenendo testa con l'abilità e la ve-
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Chiara è la connessione della ritualità e della gestualità della "viddhaneddha" con quelle del codice della 'ndrangheta locità dei passi. A questo punto il contrastato, non riuscendo più a passare con le buone, mette in atto la "schermiata" (il duello). Rappresenta il mimo del duello rusticano. Un dito puntato prima verso l'avversario e poi verso il cielo è il segnale d'inizio. Anche
in questo caso lo sconfitto si ritirerà verso il centro lasciando il campo all'avversario. Evidenti sono, nel complesso di questi rituali, i richiami ai canoni mafiosi delle consorterie tribali: lo spazio, il predominio, il rispetto per il capo carismatico, il "mastru d'abballu" identificabile chiaramente con il "mastru 'i jurnata" della gerarchia 'ndranghetistica, etc. Nel ballo uomo-donna i primi passi di danza sono lenti: lui fissa negli occhi lei, per intuirne l'assenso; lei guarda basso: un po' per pudicizia, un po' per non farsi sorprendere dai passi dell'uomo, pronta a rispondere con altrettanta abilità. A volte lei
solleva un braccio al di sopra della testa scandendo il ritmo con lo schiocco della dita, talaltra gioca facendosi scorrere dietro il collo "u muccaturi" (il foulard) oppure agitandolo davanti al viso dell'avversario. È una sottile allusione all’offerta amorosa, un invito, un incoraggiamento. Molte volte la coppia danza spalla contro spalla esprimendo il massimo dell'erotismo attraverso il contatto diretto. Anche in questo caso il "mastru d'abballu" interviene, spesso su allarmata sollecitazione dei parenti della ragazza o di qualche altro interessato. A volte l'intervento non è gradito e si conclude successiva-
mente in forme cruente di scontro. Coloro che oggi danzano ripetono passi che hanno sempre visti durante i balli degli "antichi" e non sanno, in fondo, di fare cultura riproducendo aspetti di altre culture molto più profonde e nobili risalenti alle più antiche civiltà mediterranee di cui quella calabrese è discendente diretta. Anche gli strumenti si rifanno alla tradizione greca: la melodia è affidata all'organetto, che sostituisce ormai quasi sempre la "ciarameddha" (zampogna), a sua volta derivata dall'antico aulos (flauto) o diaulos (flauto a due canne) degli italioti.
Speciale scuola
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La
MONTAGNA
va a SCUOL A
«L’Aspromonte riparte dai bambini, ad essi si mostra, da essi trae nuova linfa vitale»
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a lettura in classe dell’articolo “L’esercito nascosto” di Rocco Mollace, pubblicato dal nostro giornale nel mese di ottobre 2013, è stata altamente motivante per gli alunni della 5^C della scuola primaria di Bovalino capoluogo. Memori di una bellissima escursione a Gambarie d’Aspromonte, realizzata qualche tempo fa, grazie alla preziosa collaborazione del dottor Rocco Mollace e del Corpo Forestale dello Stato, i bambini, sotto la guida attenta e sensibile delle loro insegnanti, hanno voluto contestualizzare le conoscenze apprese, integrandole nei loro insiemi. In un raccordo interdisciplinare sulla tematica “l’Aspromonte”, ne è nato un lavoro al di sopra di ogni nostra aspettativa, che troverete rappresentato nelle pagine seguenti. Un segnale forte per chi, come noi, ama la montagna: l’Aspromonte che riparte dai bambini, che ad essi si mostra, che da essi trae nuova linfa vitale. Il nostro giornale passa dunque il testimone alle scuole dei più piccoli, che invita a partecipare al progetto “La montagna va a scuola”, scrivendoci tramite posta elettronica, o chiamando ai numeri della redazione. La speranza è che il valido contributo dei bambini della scuola primaria di Bovalino sia per altri di esempio e, per noi tutti, l’inizio di un nuovo cammino che dal mare riporti tra i boschi che furono dei nostri avi. Ringraziamo dunque le docenti che per prime ci hanno seguito in questo iniziativa (ad esse vanno i nostri complimenti per l’incredibile risultato grafico ottenuto), e ringraziamo di già le scuole che vorranno abbracciare il progetto nei prossimi mesi.
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Speciale scuola
Da
«L’esercito nascosto» di Rocco Molla ce
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’humus, lo strato più importante del terreno, è formato da animali morti, foglie secche ed escrementi. Viene attaccato da microrganismi e piccoli animali come ragni, lombrichi, millepiedi che lo trasformano, gradatamente, in nutrimento e energia per le piante. Sotto questo profilo l’humus funziona come un distributore di fertilizzanti. Nelle zone calanchive, cioè dove manca la vegetazione e ci sono rocce, l’humus manca quasi completamente perché i microrganismi non si sviluppano. Questi cosiddetti “decompositori” sono importanti per la natura perché respirando mandano anidride carbonica che, viene a sua volta assorbita dalle piante attraverso le foglie; le piante la usano per la fotosintesi clorofilliana, indispensabile per la produzione di ossigeno necessario a tutti gli essere viventi. È molto importante salvaguardare il terreno perché così si protegge la flora, la fauna e la vita stessa degli uomini. Fumetti Francesco S. Benedetta B. Giorgia C. Aurora G. Katia P. Disegno Humus Giuseppe L. Giorgia C. Testo Emanuele A. Lorenzo C. Pasquale M. Domenico S.
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THE MOUNTAIN OF ASPROMONTE
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spromonte is a mountain in the province of Reggio Calabria, rich of trees and extraordinary natural places. The name means “bitter mountains”, because is difficult to cultivate. The Massif of the Aspromonte is situated between the Ionian an the Tyrrhenian Sea. The highest peak is the Montalto (1955 m); Aspromonte i salso an area rich of rivers. The climate of the Aspromonte (rainy and snowy in the winter and wet summer), favors the presence of a rich and various vegetation (beech, chestnut, pines and firs). Many animal species have found their ideal habitat in Aspromonte such as the different species of birds and the lovely squirrels. The mountains of Aspromonte offers also an ideal shelter for the wolfs. Aspromonte is famous for citrus fruits, vine, olives and also for the rare bergamot. Points of attraction is Gambarie (1311 m) and the Sanctuary of Polsi where thousands of pilgrims go there every yaer to prey the Madonna della Montagna. In the northern-western area of Aspromonte, the plains of Zervò and Zomaro are beautiful place to visit.
Testo inglese Domenico S.,Emanuele A., Marco M., Francesco R. Disegno albero Marco M., Francesco R.
La ricetta TORTA DI CASTAGNE Testo e disegni Angelica A. Laura C. Aurora G. Katia G.
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Ingredienti 600 g di castagne, 200 g di zucchero semolato, 100 g di burro, 100 g di mandorle, 3 uova, 1/2 limone grattugiato (scorza), sale quanto basta, farina quanto basta Sbucciate le castagne e fatele lessare in acqua leggermente salata, scolatele, togliete loro la pellicina e passatele fino ad ottenere una purea.
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I BRUZI
dalla Lucania all’Aspromonte
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Bruzi o Bruttii erano un popolo italico di pastori nomadi che hanno abitato l’Aspromonte in tempi antichissimi. Provenivano forse dall’Italia centrale. Prima di arrivare in Aspromonte furono schiavi dei Lucani, ma si ribellavano spesso perché volevano la libertà. Alla fine ci riuscirono, per questo motivo i Lucani li chiamarono “Bruzi” che vuol dire “ribelli”. Loro erano divisi in tribù e abitavano in tanti piccoli villaggi, ma poi, per essere più forti, si riunirono in una confederazione e formarono un potente esercito di guerrieri. Così cominciarono a conquistare i territori vicini. La loro città più importante fu Consentia
(l’attuale Cosenza). Loro non occuparono solo i territori della Sila, ma si spostarono ancora più a sud fino ad arrivare in Aspromonte. Poi, tra la metà del IV secolo e del III secolo a.C., i Bruzi attaccarono pure diverse città della Magna Grecia tirrenica e ionica. I Romani si preoccuparono di quello che stavano facendo i Bruzi e decisero di intervenire. Così i Bruzi per difendersi dai Romani, si allearono contro Roma prima con Pirro, re dell’Epiro,
poi con Annibale, generale di Cartagine; alla fine furono sconfitti e puniti da Roma: il loro territorio diventò una colonia romana.
Sbattete i tuorli e montate gli albumi a neve. Aggiungete ai tuorli il burro, la scorza di limone, le mandorle tritate e il passato di castagne, amalgamate bene il tutto con gli albumi montati a neve. Imburrate e infarinate una tortiera. Versate il composto e mettetelo in forno già caldo a 180° per 40 minuti circa.
Testo Lorenzo L. Vincenzo C. Katia P. Francesca R. Martina R. Cartina Francesca R. Antonella S. Guerriero bruzio Francesco S. Vincenzo C.
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Dialogo
L’albero e la foglia
E
ra arrivato l’autunno, ma solo un albero non se n’era accorto… tutto intorno era molto triste. Una mattina l’albero chiese alla foglia: «Come mai sei gialla?». La foglia gli rispose: «Perché è arrivato l’autunno!». «Hai ragione tu! Non me n’ero accorto! esclamò l’albero – E perché comincio ad avere freddo?» chiese alla foglia… e lei ribattè: «Perché le foglie in autunno cadono e lasciano i tuoi rami senza protezione… presto cadrò anch’io a terra, seccherò e i bambini si divertiranno a schiacciarmi e a sentire lo scricchiolio sotto le loro scarpe». «Dunque, mi lascerai nudo al freddo dell’inverno?» si lamentò l’albero. «Tu dovrai aspettare un po’ di tempo – rispose la foglia – in primavera ti rispunteranno le foglioline lucide e verdi e non sentirai più freddo…».
L’intervista
Dialogo Lorenzo L. Disegno albero Miriam G.
Intervista Francesca S. Antonella S. Miriam G. Benedetta B.
CICCIO GAGLIARDI e la sua Africo S
ignor Gagliardi, lei è nato ad Africo vecchio? Si, sono nato proprio in questo paese ormai disabitato.
munità lungo la costa. A molti chilometri di distanza da Africo vecchio sorse Africo nuovo, esattamente sulla costa ionica tra Bianco e Ferruzzano.
Ci racconta la storia? C’erano due paesi vicini: Africo e Casalinuovo di Africo. Nel mese di Ottobre del 1951 furono colpiti da una violenta alluvione che causò danni irreparabili. Così fu indetto un referendum per decidere se abbandonare il vecchio paese distrutto, oppure no. Si decise per lo spostamento delle due co-
Ha nostalgia del suo paese? Si, ho molta nostalgia del mio paese perché quelli erano bei tempi. Come si svolgeva la vita ad Africo vecchio? Gli uomini si alzavano presto e andavano a coltivare la terra, ma l’attività principale era la pastorizia: allevavano soprattutto gli
ovini. Le donne badavano alla casa e allevavano i bambini, li preparavano per farli andare a scuola, cucinavano e inoltre aiutavano i mariti a coltivare i campi. La sera d’estate si sedevano sull’uscio di casa ad aspettare i mariti che tornavano dal lavoro. C’era la scuola elementare? Com’era? Si, c’era ed era una scuola normale, solo che c’era un solo maestro per ogni classe e in ogni classe c’erano dieci o dodici bambini. Com’era la vita dei bambini? I bambini al mattino andavano a scuola per imparare a leggere e a scrivere; il pomeriggio prima studiavano e poi giocavano all’aria aperta. I maschi giocavano al campanaro con i sassolini e le femmine con le bambole di pezza oppure con la corda.
Le scuole di Africo
UNA TARGA PER ESSERE STATI DIMENTICATI
U
na frase, tratta dal libro Tra la perduta gente, è riportata sulla targa dedicata all’archeologo Zanotti Bianco e affissa sul muro delle scuole elementari di Africo Antico lo scorso 18 ottobre. Un modo per tenere viva la memoria dell’uomo che, nel 1928, fu in contatto con contadini, pastori, mugnai, vecchi e madri, raccogliendone sfoghi e invocazioni, affinché l’Italia contribuisse alla costruzione di strutture indispensabili per una condizione di vita dignitosa. L’iniziativa, autofinanziata dall’associazione Santu Leu Apricus e dal C.P.C. Mediterranea, è un messaggio forte alle Istituzioni territoriali, presenti al contrario solo al cospetto di mass-media e passerelle, per snocciolare l’elenco già pronto di buoni, almeno quanto inesistenti, propositi.
Nella foto sopra la scuola elementare di Africo Antica. Nella foto in alto la targa affissa su essa dall’Associazione Santu Leu Apricus e dal C.P.C. Mediterraneo
L’analisi di Domenico Stranieri
L
a rivalità è un sentimento antico quanto l’uomo. Può essere motivo di distruzione, di imprese leggendarie o racconti epici. Ciò nonostante non tutte le rivalità sono uguali. Ma la tensione tra gli opposti, che per Eraclito è il motore del mondo ("Polemos è signore di tutte le cose"), caratterizza da sempre anche la vita semplice dei paesi aspromontani. Secoli muti per la storia ufficiale quelli della “perduta gente” ma ricca di aneddoti e curiosità che ancora oggi gli anziani, con impeto vano, raccontano. Quando, poi, due borghi sono saldati a formare in pratica un solo paese la competizione inevitabilmente è più marcata. Il santagatese fantasioso e beffardo, il caraffese riservato e pratico. Perfino molti termini linguistici variano in modo sorprendente tra le due comunità. E se oggi alcuni pregiudizi sono stati superati (anche perché spopolamento fa rima con isolamento) e dei paesi di un tempo è rimasto solo l’involucro, una volta ogni occasione era buona per prendersi a pietrate. Era un continuo fronteggiarsi. Pure lo scrittore Saverio Strati ricorda le zuffe mitiche in
Novembre 2013
S.Agata vs Caraffa «Spesso la memoria ha due vincitori»
La dura convivenza di due paesi “troppo” vicini e la continua lotta per difendere ognuno la propria identità
«
il forestiero non percepisce che da Caraffa del Bianco sta entrando a Sant’Agata
«
è singolare come tra queste due popolazioni ci siano modus vivendi differenti contrada “Brunello” (così denominata dal nome del contadino che nel 1661 assassinò il duca Tranfo di Sant’Agata). “Legnate eretiche” erano poi quelle del venerdì santo. Ma quale era l’occasione dello scontro? Tuttora, durante la settimana santa le due processioni del venerdì si incontrano. Una, parte da Sant’Agata, arriva in chiesa a Caraffa e ritorna indietro. L’altra, in direzione opposta, da Caraffa giunge a Sant’Agata e rientra. Sia all’andata che al ritorno, dunque, le due code di fedeli si incrociano. Diciamo, più precisamente, che in passato “entravano in conflitto” poiché da sempre i più giovani, ben armati di “tocche” e “ciarnèca” (strumenti di legno che dimenandoli originano un particolare rumore), si azzuffa-
inAspromonte
vano come due piccoli eserciti. MA CHI VINCEVA in queste “guerre lampo”? A sentire le fonti storiche orali non si capisce bene. Succede come per la battaglia di Quadesh combattuta nel 1274 a.C. nell’odierna Siria tra Ittiti ed Egiziani. Secondo le fonti Ittite il loro esercito aveva riportato una chiara vittoria, per i testi egiziani, invece, il faraone Ramses II li aveva guidati verso un grande trionfo. Allo stesso modo, per i santagatesi erano
sempre loro a vincere. Cose dissimili si apprendono se si ascoltano i racconti caraffesi. Naturalmente la discordanza non muta se si parla con gli emigranti che si sono trasferiti in Nord Italia, Europa, Australia o Americhe. Ma in fondo cosa è la verità? Per il filosofo Gorgia “chi inganna è più giusto di chi è ingannato, e chi è ingannato è più saggio di chi non lo è”, un modo per dire che il linguaggio è sempre menzognero. Di certo la situazione non migliora nelle
Nella foto sopra la prima pagina de Il Giornale del 18 ottobre 2001, nella foto a sinistra (cerchio) il confine tra Sant'Agata e Caraffa, segnalato da una decorazione sul manto stradale, più in basso la targa in bronzo che rievoca la separazione tra le due comunità
rievocazioni calcistiche. “Non vincevano mai…” si sente dire nella piazza di Sant’Agata, “ma se Don Massimo Alvaro ha ancora le coppe che ci aggiudicavamo nei tornei...” replicano indispettiti i caraffesi. Per fortuna molti video delle partite sono stati preservati da Don Carlo Rossi, uno dei primi aspromontani dotati di cinepresa ed amore per il cinema. Emigrato a Torino, dove i figli custodiscono ancora il materiale del padre, Don Carlo, morto nel 2009, ogni anno faceva ritorno nella sua Calabria. E quando un bambino era il frutto di un matrimonio tra una santagatese ed un caraffese? Beh, se era intelligente era uno di loro, se aveva una “testa storta” era dell’altro centro abitato (e non importava dove risiedeva, era questione di “stirpe”). CARAFFA NASCE da uno scontro tra la famiglia Sotira e quella del barone di Sant’Agata, alla fine del 1500. Il trasferimento dei Sotira nel territorio del principe Fabrizio Carafa darà origine al nuovo borgo rivale. Ma c’è anche chi vive al confine tra i due paesi e non si capisce bene a quale Comune appartenga. Addirittura riguardo questa eccezionalità vi è un articolo, con richiamo in prima pagina, su Il Giornale del 18 ottobre 2001. Ecco come Massimiliano Lussana riporta la
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bizzarra congiuntura: “Dieci figli, e già questa non è proprio la norma. Cinque nati in un Comune e cinque in un altro, e siamo già oltre ogni regola. Se poi i due Comuni sono confinanti, il caso è più unico che raro. E visto che i genitori dei dieci pargoli non hanno mai cambiato casa, sembrerebbe di essere nei dintorni dell’impossibile e invece è vero, tutto vero. I paesi in questione sono Sant’Agata del Bianco e Caraffa del Bianco, in provincia di Reggio Calabria, e la storia è l’ennesimo capitolo di un libro di confini impazziti, di storie al di là di ogni storia. Soprattutto al di là di ogni geografia”. Il titolo dell’articolo è “Il confine sotto il letto matrimoniale: concepisce 10 figli in due paesi diversi”. Leggendo il pezzo si capisce meglio come un professore scopre nello stato di famiglia di uno studente “che il ragazzo ha nove fratelli, nati quasi alternativamente nei due centri reggini”. Il giornalista continua: «Il prof, che non vuole rinunciare al piacere delle domande e delle interrogazioni nemmeno di fronte alla sua curiosità, chiede: “Com’è che la tua famiglia si trasferisce continuamente da un paese a quello vicino?”. Meravigliosa la
ovviamente « pure le sfide
sportive tra le due squadre divenivano vere e proprie risse
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riti religiosi? Le “legnate eretiche” del venerdì santo, un unicum nella storia spiegazione di Francesco: “No prof, non è così. Deve sapere che i miei genitori, quando si sono fidanzati, abitavano in due case confinanti, una in un paese, una nell’altro. Quando si sono sposati, per avere una camera da letto più grande, hanno buttato giù una parete. Ma mio padre ha il difetto di litigare con gli amministratori comunali e quindi, se litiga con il Comune dov’è il letto di mamma, lui lo sposta dall’altro lato della camera e quando mamma partorisce è costretto a chiamare l’ostetrica del comune dove è il letto e, conseguentemente, dichiarare il figlio nato in quel municipio. Ecco perché siamo nati un po’ qua e un po’ là. Ma non siamo noi che ci trasferiamo, è il letto di mamma a passare il confine ”».
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La nostra storia
inAspromonte Novembre 2013
IL BRIGANTE FERDINANDO MITTIGA
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l nome del brigante comparve durante i moti liberali del 1848 sulla costa jonica, quando fu liberato dagli insorti. Era in galera perché accusato di “ferimento con coltello”. Si mise subito a capo di una banda composta, oltre che da briganti, anche da ragazzi che volevano sottrarsi
al servizio di leva: 120 uomini in totale, con i quali non esitò a rubare e a uccidere. È chiaro che tutti credevano di combattere una guerra giusta, essendo in parte solo degli avventurieri. I Savoia per catturarlo inviarono i bersaglieri del maggiore Rossi, che arrivati da Reggio, bruciarono
Calabri e Saraceni. Le antiche storie di donne e di tesori
DONNA CANDIA
Solo il suo sposo pagò il pesante riscatto imposto dai Saraceni: «Tri liuni, tri barcuni, tri culonni d’oru». È il trionfo dell’amore di Giuseppe Gangemi
I
racconti fantastici del periodo dei Saraceni, quelli che per un millennio hanno alimentato i miti della gente d’Aspromonte, sono spesso stati discorsi con donne protagoniste. Queste ultime, sempre meno viste come vergini o madonne e sempre più viste come donne vere che amano, che negoziano la loro vita o quella dei parenti, che pretendono, che combattono. È in questo contesto che nascono i miti letterari di Galiziella, vergine guerriera, sposa del prode Riccieri, ma anche la favola di Donna Canfora e quella di Donna Candia. Della prima si è già detto tutto il possibile. Della seconda si racconta che fu rapita, nel corso di una razzia saracena e che ha incantato, con la propria bellezza, il comandante della spedizione saracena. Forte di questa posizione, Gyné Kánefora negozia con il suo rapitore: “Sarò tua moglie, se lascerai salvi i miei genitori, i miei parenti e i miei cittadini. Ti seguirò docilmente sulla nave e da questa al tuo serraglio se li lascerai tornare alla città”. Il terribile saraceno, terrore dei mari, incantato della sua bellezza, per averla consenziente, lascia tornare alle loro case i Taureani. La nave salpa con solo Gyné Kánefora la quale, invece di cedere al desiderio del rapitore, una volta vista sparire all’orizzonte il profilo della terra calabra, si getta dalla nave e muore annegata. Secondo un’altra versione, Gyné Kánefora non muore, ma si trasforma in una sirena e lo sciacquio delle onde che si infrangono sulla costa di Taurianum, se si ascolta bene, in certi giorni, rimanda l’eco della sua voce che invoca e prega per tornare alla sua amata terra.
Più pratica e volitiva Donna Candia che appartiene a una ricca e nobile famiglia. Viene rapita in una razzia di Saraceni e promette ai rapitori un tesoro maggiore di quello che possono ottenere per lei in un porto saraceno. Basta, dice, che la riportino nella città dove vive suo padre che pagherà per lei. Ma siccome il padre non paga, si fa portare dalla madre, dal fratello e della sorella. E nessuno paga. Pagherà solo il fidanzato lo spropositato prezzo promesso come riscatto. È il trionfo dell’amore, tema presenta anche in Galiziella e, persino, nei Giganti di Palmi. Ma soffermiamoci sul riscatto: tre leoni, tre barconi, tre colonne d’oro. Non si tratta di tre animali, di tre navi e di tre vere colonne. Si tratta di nove preziosissime monete d’oro dell’Antica Roma. L’imperatore Filippo l’Arabo aveva fatto fare un numero enorme di festeggiamenti con gladiatori, animali, feste e cibo per tutti nel 248 d.C. in occasione della celebrazione del Millennio dalla fondazione di Roma, quando si pensava che la città sarebbe stata eterna e che mai nessuno ne avrebbe scalfito la gloria. Si è, da allora, favoleggiato delle monete commemorative che egli ha fatto coniare, alcune delle quali pesavano più libbre, erano d’oro e portavano sul retro l’immagine di animali, come il leone. Ed, infatti, il leone è una delle monete commemorative del Millennio. Barcone veniva invece chiamata la “moneta della prua”, con sul verso i due
volti di Giano Bifronte, coniata più volte in pezzo d’oro di 22,80 grammi e persino di 409 grammi. Colonna era detta la moneta con la Colonna Traiana. Coniata più volte in pezzi da 7,33 grammi o di peso diverso. La moneta più import a n t e sembra essere stata i l leone. Anche perché nessuno ricorda più il peso del conio e si può favoleggiare che pesasse molto più delle altre due. In altri termini, “tri liuni, tri barcuni, tri culonni d’oru” è il prezzo del riscatto pag a t o , riportato in ordine decrescente secondo il valore presunto delle monete.
La nostra storia come rappresaglia il convento di Bianco, dove “Caci”, così era soprannominato, trovava ospitalità quando scendeva dal monte Perre (all’epoca territorio di Africo), ed uccisero il Superiore. Poco dopo fucilarono sulla piazza di Ardore: il notaio Sculli di Natile, il barone Franco di Caraffa e France-
di Pino Macrì
L
a Calabria, si sa, non è e non è mai stata una nazione. L’illusione che al di sotto dalla cerniera del Pollino, possa esistere un territorio in possesso di una identità specifica, è, per l’appunto, solo un’illusione. Qualcuno disse, tempo fa, che una nazione comincia ad essere tale quando può basare la propria identità su una lingua “nazionale”: se guardiamo alla nostra terra, forse dovremmo proprio dargli ragione, almeno considerando le notevolissime distanze fra i dialetti cosentini e quelli catanzaresi e reggini. Ma la disunità linguistica non è l’unico indizio, ancorché eclatante, della non-nazione, della mancanza di calabresità dei calabresi, almeno di quella intesa in senso unitario. È proprio l’idem sentire che concorre, appunto, alla formazione dell’identità nazionale, presente, per intenderci, nel popolo campano, in quello pugliese e in quello siciliano, tanto per rimanere al Sud. Quanti e quali sono, ad oggi i punti di riferimento che possano definirsi “nazionali”, nel senso di unanimemente accettati e riconosciuti da tutti i calabresi come tali? Forse (e sottolineo il “forse”) soltanto due: San Francesco di Paola e Tommaso Campanella. Non Zaleuco o Pitagora, non Alvaro, La Cava, Perri, Padula, non Mattia Preti o Francesco Cozza, non Telesio o Galluppi, non Vigliarolo, Anania, Gemelli – Careri, non, infine, Mancini, Misasi, o Falcomatà, appena ieri, né Scopelliti, oggi. Al più, è la sola cerchia del circondario paesano, ristretta o allargata che sia, a coltivare la memoria del passato. Basta dare uno sguardo anche superficiale alla toponomastica cittadina: capiterebbe sicuramente che un reggino che si trovasse nel cosentino finisse col chiedersi chi mai possa essere stato quel Dramis (segretario-amico-interprete e poi avversario di Bakunin) o quel Pasquale Baffi (grande erudito alla corte dei Borbone, giustiziato nel 1799); o che un cosentino/catanzarese che si trovasse a passare da Siderno, si chiedesse cosa mai avesse potuto fare quel Michele Bello (uno dei Cinque Martiri di Gerace, fra i padri del Risorgimento italiano) la cui erma campeggia nel centro cittadino, eccetera, eccetera (ma, spesso, non se ne ha cognizione anche a soli pochi chilometri di distanza). Cosicché, un senso di inferiorità quasi patologico finisce col costringere il calabrese a guardare sempre altrove per tro-
sco Violi di Platì. Caci si diresse verso la periferia di Natile, riuscendo ad evitare gli agguati e gli scontri con i piemontesi. Fu un mugnaio a tradirlo e a consegnarlo con uno stratagemma alla Guardia Nazionale. Il tenente delle guardie di Galatro, Vincenzo Pisani, si appostò in un ca-
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solare che fronteggiava il mulino e lo riconobbe grazie ad una parola convenuta tra il Mittiga ed il mugnaio. Lo colpì con numerosi colpi di fucile. Il Mittiga e Luscrì, un ventitreenne di Cirella, si trascinarono in un vicino campo di granturco e, alle undici di sera del 28 settembre 1861, spirarono.
Da Bovalino Superiore al Giappone
ORGOGLIOSI DI
Camillo Costanzo La storia del martire beatificato da Pio IX nel 1857
“
Camillo Costanzo, a 21 anni, viene comandato missionario in Estremo Oriente, dove, fra Cina, Macao e Giappone, rimane ad esercitare la missione evangelizzatrice fino alla morte sul rogo (Tabira 1622)
vare un punto di riferimento accettabile: e via con dediche a questo a quel re piemontese (ancora! In piena repubblica da oltre sessant’anni!), a quel presidente americano, a quell’uomo politico sovietico (ora si dice “russo”…) ecc., ecc. È, la nostra, una forma di provincialismo? Può darsi. Siamo, noi calabresi, affetti da una sindrome xenofila? È un dato di fatto. Per certo, un calabrese, uomo, fatto, episodio o situazione che sia, è dai calabresi ritenuto grande ed importante solo quando ciò viene certificato da
Nelle foto varie prospettive del monumento dedicato al missionario calabrese nel parco di Tabira (Giappone)
terzi; altrimenti, rimane isolato, episodico, e spesso immeritatamente ed irrimediabilmente relegato nell’oblio. Navigavo tranquillo nel web, qualche tempo fa, quando mi sono imbattuto in alcune fotografie che mi hanno fatto letteralmente sobbalzare sulla sedia: a Tabira, municipalità di Hirado, prefettura di Nagasaki, nel lontanissimo (per cultura, oltre che per chilometri) Giappone, esiste un bellissimo parco (i giapponesi ne sono maestri) all’interno del quale sorge, maestoso, ma estremamente sobrio, un monumento dedicato a Camillo Costanzo, con tanto di lapide dedicatoria in giapponese e latino e di riferimento alla sua origine bovalinese. Molti, anche calabresi, probabilmente ricorrerebbero subito al “chi era costui?” di don Abbondio. Camillo Giovanni Battista Costanzo fu un gesuita, nato a Bovalino, nel cuore della Locride, nel 1571 e qui vissuto, fra studio e costante pericolo saraceno (l’ultimo saccheggio di Bovalino risale al 1594), fino alla decisione di arruolarsi, partecipando, al seguito del generale Spinola, all’assedio di Ostenda. Dopo la
morte sul rogo, forse anche a causa dei Borbone (è nota la profonda avversione di quella casa reale per i gesuiti), Camillo rimane nel limbo dell’ignoto fino alla sua beatificazione, operata da Pio IX nel 1857. Potrebbe anche sembrare, questa, una vicenda abbastanza “comune” nel folto martirologio cattolico, se non fosse per la constatazione che le sue numerose ed importanti opere (molte scritte in giapponese, altre, scritte in italiano e portoghese sono colate a picco con la nave che le portava in Occidente) di confutazione allo scintoismo devono aver inciso profondamente nella cultura di quell’estremo lembo di oriente: nella circoscrizione di Nagasaki si possono contare, oggi, a decine le chiese cattoliche e, ci riferisce Mr Remco Vrolijc, un olandese responsabile delle Public Relations della municipalità di Hirado con l’estero, si possono contare in centinaia di migliaia i pellegrini in visita ogni anno al Memorial Camillus Costanzo. Non siamo bigotti né particolarmente inclini all’esaltazione acritica del missionariato cattolico nel mondo, ma non ci sembra opportuno
nemmeno sottovalutare questo pezzetto di cultura occidentale reimpiantato in Giappone. Se, poi, si provasse a compiere un piccolo viaggio, anche virtuale (sul web), nei dintorni di Tabira, non ci si potrà non compiacere del mirabile esempio di coesistenza interreligiosa, con le decine di templi buddisti, scintoisti ecc., accanto alle citate chiese cattoliche, peraltro di gradevolissima architettura; né ci si può esimere dal rivolgere il pensiero all’immane tragedia che colpì oltre mezzo secolo fa questi luoghi (Nagasaki fu la seconda vittima, dopo Hiroshima, della follia atomica). In quest’ottica, ne siamo sicuri, non si potrà non essere orgogliosi della propria calabresità, tanto da ritenere che, proprio nella medesima ottica, una forma di gemellaggio tra la nostra Regione, magari pungolata da un’opportuna iniziativa della comunità bovalinese, e la municipalità di Hirado sia un obiettivo possibile, facilmente fattibile e, tra l’altro, foriera di impensabili sviluppi in termini di incanalamento di certi flussi turistici verso questa nostra terra ancora tutta da scoprire, specie per i “Figli del Sol Levante”.
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Tra i boschi d’Aspromonte
inAspromonte
RISPONDE L’ESPERTO SU
inaspromonte.it
miPiace
LE NOCI PECAN Nelle campagne di Bovalino, Benestare e Careri si coltivano, principalmente per consumo familiare, alcune centinaia di queste piante. La pecan ha caratteristiche botaniche simili alla noce comune: la pianta è più bassa e raramente supera i 20 metri di altezza e possiede fiori maschili e femminili. Una specie autofertile (si impollina da sola), ma siccome le fioriture (maschile e femminile) non sono contemporanee per avere la sicurezza dell’impollinazione conviene coltivare più di una pianta. I frutti si raccolgono per tutto novembre.
sulSito
LA PROCESSIONARIA In estate le femmine depongono le uova intorno alle foglie dei pini, normalmente sulle parti più soleggiate, scegliendo le piante ai bordi della pineta. Le larve nascono dopo un mese, e subito iniziano a rodere le foglie. In seguito si spostano su un altro punto della chioma e costruiscono un grosso nido avvolgendo numerosi aghi con fili sericei. Durante l’inverno l’attività delle larve è più o meno ridotta o completamente sospesa in funzione della temperatura. La lotta contro la processionaria consiste nel taglio e nella distruzione dei nidi nei mesi invernali.
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Il crescione
Il faggio
È detto “la verdura delle fiumare” perchè ricco di sali minerali (ferro) e vitamina (C, A, E, P). Ha proprietà espettoranti, diuretiche, depurative e vitaminizzanti. Viene consumato crudo e cotto, o macerato in erboristeria.
La radica è un ceppo legnoso che si ottiene dalla radice dell’erica arborea e utilizzata per la fabbricazione delle pipe. La raccolta avviene in primavera ogni 25-30 anni. Solo la parte più pregiata viene usata per la lavorazione.
I rapaci notturni. Gufo comune, assiolo, barbagianni, allocco e civetta
OCCHI ATTENTI NELLA N
di Leo Criaco
S
ulla terra vive più di un milione e mezzo di specie animali, molte delle quali in via di estinzione. Se l’uomo non limita tutte le forme di inquinamento, le deforestazioni selvagge (in Amazzonia negli ultimi decenni sono state abbattute centinaia di milioni di piante), gli incendi e la cementificazione, rischia di mettere in discussione la sopravvivenza dell’intero pianeta. Per scongiurare la catastrofe ambientale, infatti, si dovrebbero attuare politiche di sviluppo ecocompatibili. Gli animali occupano tutti gli spazi (cielo, terra, acqua) presenti sul nostro pianeta, si spostano utilizzando vari tipi di locomozione: camminano (mammiferi, insetti), nuotano (pesci), volano (uccelli, insetti) e strisciano (rettili). Alcune specie, pur appartenendo alla stessa classe, hanno tipi di locomozione diversi (es. il pipistrello e la balena sono mammiferi; il primo vola e il secondo nuota). Gli animali hanno abitudini notturne (es. il ghiro, i rapaci notturni, il gatto selvatico, il pipistrello ecc.) o diurne. L’uomo dopo aver alterato l’equilibrio biologico della grande madre natura, in base ai suoi interessi, distingue gli animali in utili, dannosi e indifferenti. LE SPECIE DANNOSE sono quelle che interferiscono con la salute e le attività dell’uomo. Tra queste le zecche, le pulci, i topi, le arvicole, le vipere, le caval-
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Questi rapaci cacciano normalmente di notte o al crepuscolo e hanno un volo basso e silenzioso. Il loro canto lamentoso e notturno è considerato dalle credenze popolari come portatore di sciagure, sventure e iettature. Per questo motivo sono perseguitati e uccisi lette, gli afidi ecc. Le specie utili, al contrario, sono quelle che portano vantaggi all’uomo, ad esempio gli animali allevati, le api che producono il miele, la cera e sono utili all’impollinazione, o quelli che distruggono le specie nocive (il riccio, le coccinelle, i rapaci notturni ecc). Il paradosso è che l’uomo nella sua lucida “follia” perseguita e uccide anche questi ultimi. Da tempi lontani, il riccio (mammifero) ottimo distruttore di vipere e di insetti, viene catturato e ucciso dai contadini per cibarsi delle sue carni.
I RAPACI NOTTURNI sono oggetto di persecuzioni e uccisioni nonostante siano tanto utili all’agricoltura in quanto si nutrono di topi, ratti, arvicole (piccoli topi di campagna), talpe e grossi insetti. Da quando i contadini hanno abbandonato le terre, nelle nostre campagne i topi e le arvicole (che si riproducono più volte all’anno) si sono moltiplicati a dismisura e solo la presenza di questi uccelli può limitare il proliferare di questi mammiferi. I rapaci notturni fanno parte della classe degli uc-
celli (in natura esistono circa 10.000 specie), i più comuni sono: il gufo comune, l’assiolo, il barbagianni, l’allocco, e la civetta. Questi rapaci cacciano normalmente di notte o al crepuscolo e hanno un volo basso e silenzioso. Il loro canto lamentoso e notturno è considerato dalle credenze popolari come portatore di sciagure, sventure e iettature. Per questo motivo sono perseguitati e uccisi. Se si vuole che i topi e i ratti spariscano dalle campagne e dalle città si lascino vivere questi magnifici e utili rapaci. Fino a pochi decenni fa anche i gatti erano formidabili cacciatori di topi, oggi, purtroppo preferiscono stare dentro casa e cibarsi di mangimi preconfezionati. Prima di passare a una breve descrizione di questi uccelli, ricordiamo che hanno forme somatiche simili: presentano lo stesso colore del piumaggio (fa eccezione il barbagianni), il becco è adunco, le unghie robuste e le zampe ricoperte di piume. IL GUFO COMUNE (Asio otus), come tutti gli altri gufi, ha due ciuffettini di penne sulla testa
che assomigliano a piccoli corni. È strettamente notturno e perciò è difficile osservarlo. Abita nei boschi di conifere e di latifoglie e si nutre quasi esclusivamente di topi, arvicole e ghiri. Nei nostri ambienti oltre al gufo comune vivono altri gufi: il gufo reale e l’assiolo. Il gufo reale (Bubo bubo), è in forte diminuzione, ha dimensioni maggiori (misura 70 cm) del comune e nidifica sul terreno, tra le rocce e negli alberi cavi. L’assiolo (Otus scops) è molto più piccolo (misura circa 20 cm) del gufo comune. Vive e nidifica negli alberi vicino alle abitazioni, nei giardini e nelle vecchie case. Il barbagianni (Tyto alba) è quasi uguale al gufo, ma è molto più bianco e senza ciuffetti ed ha occhi neri. Caccia verso il crepuscolo, vive in prossimità delle abitazioni e nidifica nelle case abbandonate di campagna. L’allocco (Strix aluco) è più piccolo e più tozzo del gufo comune, ha occhi neri e non ha i ciuffetti. L’allocco (nome locale: scrupiu) ama vivere nei vecchi boschi e nei parchi. Nidifica nei buchi degli alberi e nelle case abbandonate. La civetta (Athene noctua) è grande, più o meno, come l’assiolo, pesa 150-200 grammi, ha la testa appiattita e gli occhi gialli. La civetta (nome locale: pigula) è la specie più numerosa tra i rapaci notturni ed è l’unica che caccia anche di giorno. Si alimenta principalmente di uccellini, topi, talpe e cattura anche lucertole, rane e grossi insetti. Nidifica nelle cavità degli alberi, delle rocce e nei buchi dei muri di sostegno.
Tra i boschi d’Aspromonte
inAspromonte Novembre 2013
Diffidate dai funghi rosicchiati
P
Se hai domande da rivolgere ai nostri esperti scrivici su
er distinguere un fungo commestibile da uno velenoso bisogna affidarsi o alla certa e sicura conoscenza del fungo o a precisi esami di laboratorio. A tutt’oggi non si conoscono altri metodi. I metodi empirici utilizzati dalla fantasia popolare (aglio, cucchiaio d’argento, funghi mangiati ecc.) hanno causato, spesso, gravi e mortali avvelenamenti. Gli animali hanno un metabolismo diverso da quello umano per cui potrebbero consumare funghi tossici per l’uomo, senza subire nessun danno fisiologico. È noto che le renne, i caribù ed alcune specie di scoiattoli, sono abituali consumatori di funghi tossici. In Italia, da tempi lontani, le capre mangiano funghi della specie psilocybe semilanceata (tossico).
NOTTE
VITA IN COMUNITA’
loSapeviChe
Sono i vegetali e gli animali che abitano la montagna a garantirne la stabilità. È una magia detta “ecosistema”
L
a disciplina biologica che studia le popolazioni vegetali ed animali di un territorio e le relazioni fra loro e l’ambiente è detta ecologia delle comunità, o sinecologia.
CREDENZE. La civetta, da tempi lontani, fu considerata un uccello presago di morte. Tutto nacque dalla consuetudine di tenere dei ceri accesi nelle stanze dei moribondi. La luce, infatti, attirava le falene, e le civette entravano nelle abitazioni per catturarle. Per questo loro “peccato di gola” furono associate alla morte. Ma, nell’antica Grecia, era un uccello venerato in quanto caro alla dea Athena, protettrice delle scienze. Ed ancora oggi, in Grecia, la civetta è raffigurata nei portafortuna.
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Biodiversità. Un mondo in perfetto equilibrio
di Rocco Mollace
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LA BIOCENOSI è l’associazione di animali e vegetali che vivono in un determinato ambiente. In una biocenosi si stabilisce una catena o rete alimentare, cioè la successione e la dipendenza alimentare fra gli organismi. I primi anelli della rete alimentare sono gli organismi autotrofi che sono i produttori di sostanza organica, quelli che utilizzano per primi l’energia solare; sono cioè i vegetali. Gli organismi che si cibano direttamente di vegetali sono detti consumatori primari. Ne sono esempio certi protozoi, certi piccoli crostacei (Cladoceri, Copepodi) che si cibano di alghe unicellulari, così pure i molluschi terrestri, i mammiferi erbivori ecc. Gli animali che si cibano dei consumatori primari sono detti consumatori secondari (carnivori, predatori), poi i terziari e così via, e infine i degradatori (batteri). Complessivamente, in una biocenosi, si ha un’interdipendenza alimentare; in essa
sono presenti specie onnivore e una specie può essere predatrice e predata, può dunque essere limitata e nello stesso tempo limitante nei confronti di altre. Tutte queste interazioni portano ad una situazione di equilibrio globale. IL BIOTOPO è un luogo con specifiche caratteristiche geologiche, fisico-chimiche, climatiche. L’insieme della biocenosi e del biotopo forma l’ecosistema. Una biocenosi viene influenzata da un certo ambiente inorganico nel senso che per selezione naturale si conservano solo gli organismi idonei a quell’ambiente; questo però viene a sua volta modificato dalla presenza degli organismi stessi. Ad esempio, se in un certo versante montuoso è possibile la vita per un bosco, questo si sviluppa e subito si insediano le piante più idonee al suo terreno e clima; le piante permettono poi la vita agli animali. Questi organismi vegetali ed animali modificano le caratteristiche generali di quel versante, ne impediscono
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le frane, cambiano la composizione chimica del suolo, il tasso di umidità dell’aria, la temperatura. “Ecosistema” può essere una foresta, un lago, o l’intera superficie terrestre (biosfera). NICCHIA ECOLOGICA è lo spazio occupato da una specie nell’ecosistema, ognuna di in una situazione di stabilità. È possibile però che si trovino a convivere due specie nella stessa “nicchia” e, fra esse, si instaura una competizione che si conclude col sopravvento di una. L’HABITAT è il tipo di ambiente in riferimento alle specie che possono vivere in esso. Ad esempio l’habitat della Rana esculenta (la comune rana mangiata dall’uomo ) è la palude, l’acqua dolce stagnante o a lento scorrimento; quella della sogliola (Solea solea) è il fondo marino sabbioso poco profondo.
La mulattiera sull’Aposcipo
La mulattiera, oggi sempre meno presente, un tempo serviva sia come via di collegamento a cavallo tra i vari appezzamenti terrieri che al transito del bestiame (il termine deriva proprio da mulo). Quella nella foto, in particolare, era l’antico sentiero (la sua costruzione risale al periodo Normanno) che collegava Africo a Samo, a Sant’Agata del Bianco, e a Limenti, piccolo agglomerato di case segnato nelle mappe fino al 1700. Era inoltre la via che percorrevano gli Africoti per raggiungere i loro poderi situati nel territorio aldilà dell’Aposcipo, che all’epoca ricadeva interamente nel comune di Africo. Foto di Bruno Criaco
L’aquila reale è un rapace monogamo a vita e torna ogni anno nello stesso nido, che costruisce sulle rupi o sugli alberi. Ogni anno lo ingrandisce e può arrivare anche a 4 metri di profondità. Questo predatore, fulmineo e letale, può scendere in picchiata a velocità superiori ai 240 km/h, con un’apertura alare superiore ai 2 metri.
laDomanda
Che cosa rende alcune specie di legno morbide e altre dure? Gli alberi che producono resine viscose, anziché linfe fluide, hanno bisogno di floemi (strutture analoghe ai vasi sanguigni) più larghi per trasportarle lungo il tronco. Ciò lascia meno spazio per la cellulosa e la lignina, che conferiscono resistenza al legno. Questo è il caso delle conifere.
laCuriosità
La ghiandaia è un’abilissima imitatrice, oltre al suo verso (che è acuto) riesce a riprodurre molti versi di altri uccelli, in particolare della poiana ed è in alcuni casi in grado di riprodurre il miagolio del gatto. È specializzata nel difendere il nido dagli intrusi, dando l’allarme e sventando gli attacchi dei serpenti che cercano di rubarle le uova.
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Tra i boschi d’Aspromonte A U T U N N O
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Le domande
E il mosto
è vino S
an Giovese e Negramaro per gli impazienti di inizio settembre. Insolia, Nero D’Avola, Merlot per i ritardatari. Vigneti a spalliera, ad alberello e a tettoia. Un paio di giorni di sondaggi per controllare il grado di zuccherina, nella speranza che non piova mai troppo. E poi la gara coi torchi per misurare la resa: normale intorno al 70, superba vicino all’80. La vendemmia è da sempre una festa! E chi ripensa nostalgicamente ai grandi mastelli di legno, quando l’uva si spremeva coi piedi, non ha vissuto l’emozione dei nostri giorni. Roba da 007! Perché, affiancate alle normali attività in cui i venditori si premurano di raccogliere uve rigorosamente ‘originali’, ci stanno i taroccamenti. Non fidatevi dei venditori ambulanti! E che dire del bisolfito? Sotto accusa chi ne mette nel vino, comprensibile chi lo vuole nel mosto, intrepidi coloro che osano rischiare. Niente sostanze chimiche, solo dell’ottima uva per evitare fastidiosi capogiri. Punti di vista. Diatriba anche su mastelli e torchi perché, mentre i giovani preferiscono le tradizionali botti in rovere, i più anziani scelgono l’innovazione: meglio la resina. Quaranta giorni di fuoco. Tutti a testa in su per controllare il grado di maturazione dei preziosi grappoli. Ma attenti alla sorpresa: il furto dell’uva! Usuale a fine agosto. Per coloro che, al contrario dei ‘benefattori’, riescono a macinare qualche grappolo, resta solo una ‘questione di gusto’ il tempo di macerazione. Qualche uva se la passa peggio. Seviziata e smembrata nel paese reggino Bianco, prima della macinazione, viene stesa su ampi tavoli soleggiati per essiccare. Da qui nasce uno dei vini italiani più pregiati: il Greco di Biano Doc. Di matrice greca, sembra sia stato importato nell’VIII secolo a.C. Tipico è il colore giallooro, e il profumo intenso che ricorda i fiori d’arancio. E, dopo tanta fatica, eccolo! Se ne stà nei mastelli deridendo ingrato i suoi stessi artefici. Rilassato e immobile. Lui lo sa che loro aspettano le bolli-
Il vino peggiora con l’età?
Non è vero che il vino migliori con il passare del tempo: si limita a cambiare. Da un punto di vista chimico, quello che accade è che i tannini tendono a legarsi tra loro e, lentamente, a precipitare, mentre gli acidi e l’alcol reagiscono formando esteri, che introducono nuovi aromi. Se ciò abbia un sapore migliore o peggiore dipende dal vitigno e dalle intenzioni del vinificatore. Per la maggior parte dei vini si prevede che li si beva entro sei mesi e di lì in poi declinano.
11 novembre. L’estate di
SAN MARTINO
È il giorno delle leggende, tra santi, briganti, ricordi e vino. Persino l’autunno, oggi, ha un ritorno di caldo e bel tempo
I solfiti aggiunti al vino fanno male?
I solfiti sono composti contenti zolfo che si formano spontanemante nell’uva. Prevengono la crescita dei batteri che rendono torbida la bevamnda e che trasformano letteralemnte l’alcol in aceto. La maggior parte dei vini contiene solfiti aggiuntivi e alcuni affermano che ciò possa provocare mal di testa. Ma c’è più solfito in un’albicocca secca che in un bicchiere di vino bianco.
Mangiare uva nera fa bene quanto bere vino rosso?
No. I benefici del vino rosso sono dovuti in buona parte ai “flavonoidi”, la cui concentrazione nel vino è doppia rispetto al succo d’uva. Nella foto in alto un palmento vecchio centinaia di anni fa, ritrovato ad Africo. Nella foto sopra la pigiatura dell’uva
cine. Un avvicendarsi di visi turbati che si affacciano speranzosi dai bordi. Che sia intenso come l’oro, scuro e sanguigno, rosato o frizzante, è comunque tutto in mano sua, perché lui è… il mosto! Ma occorre pazienza, almeno fino a San Martino. E se ci stanno donne di mezzo preparate per loro dieci litri di mosto non fermentato: ne faranno vino cotto. E non chiedetevi dove stavano cugini e amici quando voi caricavate e scaricavate cassette, tanto… torneranno a San Martino!
Una storia del 1943. La fattoria di Gesualdo
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di Antonio Perri
l lavoro nella fattoria di Gesualdo non mancava mai, era passata un’estate rovente, e il caldo non voleva andarsene. All’afa si era sostituita l’aria umida e lui non si dava pace per le piogge che tardavano ad arrivare. «Questa è una brutta annata, tuttu sicca se non piove» diceva continuamente alla moglie Gloria, che non gli rispondeva ma lo guardava come si guardano gli iettatori. Era ormai l’inizio di novembre, e nemmeno un goccio d’acqua. Una sera, mentre Gesualdo era fuori col figlio e i buoi, arrivò il carretto del medico Giorgio, che soleva fare tappa nelle fattorie del circondario per informarsi dello stato di cose. La siccità
aveva reso anche il foraggio per le bestie scarso e c’era la bianchina che era in stato interessante, ma era molto debole e correva il rischio di non superare il parto. Tornato a casa, Gesualdo, dopo aver cenato, aveva invitato il dottore coi due massari e suo figlio ad assaggiare il primo vino. «Sedetevi dottore, assaggiate» e così mentre gli uomini bevevano, all’improvviso Gloria arrivò trafelata: «Presto dottore venite!». Il dottore degli uomini si improvvisò veterinario ritrovandosi un vitellino tra le mani. Poi un lampo squarciò il cielo e un mare d’acqua cominciò a cadere. «Gesuà, hai un nuovo vitellino» «Gloria guarda, piove. Piove!». Era la notte dell’11 novembre 1934. Era San Martino.
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Tra i boschi d’Aspromonte A U T U N N O
Corse Michele, e non gli importava se i sassi taglienti si conficcavano come lame nei suoi piedi. Corse e non permise al suo cuore di scoppiare. Corse ed arrivò prima dei suoi rivali. Il premio per la sua vittoria fu la certezza che, per quell’anno, la sua famiglia sarebbe sopravvissuta. Almeno alla fame di Bruno Criaco
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Maria dormi, ancora piove, e la fiumara di Cerasia a quest’ora è in piena, non ce la farai ad attraversarla» «No ma’ io vengo con voi». Bevvero nella stessa tazza un po’ di latte caldo e s’incamminarono verso il castagneto, dovevano raggiungerlo prima che facesse giorno o il loro viaggio sarebbe stato inutile. Non fu facile guadare la fiumara, la pioggia di scirocco che imperversava da tre giorni l’aveva ingrossata, e Michele dovette prendere sulle spalle la moglie e la figlioletta, ché da sole non ce l’avrebbero fatta. «Io vado avanti, devo
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Sopravvivere in montagna. Gli inverni, la fame, le privazioni del dopoguerra
La piccola Maria arrivare prima di quei maledetti, vi aspetto lì». Corse Michele, e non gli importava se i sassi taglienti si conficcavano come lame nei suoi piedi. Corse e non permise al suo cuore di scoppiare. Corse ed arrivò prima dei suoi rivali. Il premio per la sua vittoria fu la quasi certezza che anche per quell’anno la sua famiglia sarebbe sopravvissuta. Almeno alla fame. Da anni ormai gli erano stati assegnati pochi alberi di castagno nel castagneto comunale, e siccome il bosco non era recintato, era puntualmente invaso dai cinghiali: i “rivali” di Michele, che
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Montagne
Le Serre di Francesco Tassone
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inAspromonte
a castagna in passato, ha rappresentato una risorsa economica rilevante per i territori montani e soprattutto per gli altipiani delle serre calabre. La forte emigrazione e lo stato di abbandono dei castagneti, hanno contribuito all’indebolimento delle piante, infatti non sono rimaste immuni alle avversità che negli anni si sono avvicendate, agli attacchi di Phytophthora cambivora meglio conosciuta come “mal di inchiostro” a quelle della Cryphonectria parasitic, nota anche come “cancro della corteccia” e agli attacchi di Dryocosmus kuriphilus Yasumatsu conosciuta anche come “cinipide galligeno” del castagno. La lavorazione delle castagne inizia già dal mese di agosto con la pulitura dei castagneti, per consentire una raccolta più agevole poi in autunno. Il castagno (Castanea sativa) è originario dell’Europa meridionale, Nord Africa e Asia occidentale, ed ha conquistato gran parte del continente al seguito delle legioni romane. È una “pianta monoica”, cioè che possiede sia le infiorescenze maschili che quelle femminili. Le infiorescenze maschili sono
praticamente divoravano le castagne prima che arrivassero al suolo. Le “sue” donne arrivarono che ancora non aveva fatto giorno e già Michele aveva raccolto quasi tutte le castagne che il vento aveva buttato giù, poi con una lunga verga scosse i rami che riuscì a raggiungere e fece cadere la quantità che secondo lui sarebbero riusciti a trasportare in un viaggio. «Maria riposati un po’ che hai le mani piene di spine» «No pa’ stai tranquillo, li sto aprendo col bastone i ricci, guarda quante ne ho raccolte». Maria era stanca e infreddolita, ma era contenta di poter aiutare i
suoi genitori, e poi già pregustava la “cena” di quella sera: le caldarroste. Ella stessa qualche giorno prima aveva aiutato la madre a bucherellare con un chiodo una vecchia padella che sarebbe servita a cuocerle. La preparazione per lei rappresentava un piccolo rito, al quale con gioia partecipava attivamente nonostante avesse solo cinque anni. Con la madre sceglievano le castagne un po’ rovinate o bucate dal verme, e che quindi si deperivano rapidamente, e con un coltellino le incidevano per non farle scoppiare durante la cottura. Ed era lei che con un mestolo di
legno le mescolava ininterrottamente per non farle bruciare. Ogni volta aspettava impaziente che qualcuna si cuocesse per portarla a suo padre che, nell’attesa, intagliava la radica d’erica per ricavarne utensili per la cucina, e che doveva lottare per farne mangiare a lei almeno la metà. Questa cosa la rendeva semplicemente felice. Caldarroste a parte, le castagne per la famiglia di Maria e per la maggior parte dei suoi compaesani, erano la prima fonte di sostentamento. Appassite e poi infornate sarebbero diventate colazione, pranzo e cena per i duri mesi invernali.
LA CASTAGNA
una manna per i montanari delle spighe lunghe 10-20 cm di color giallo-verdastro. Quelle femminili sono costituite da fiori singoli o riuniti a gruppi di 2 o 3 posizionati alla base delle infiorescenze maschili. La fioritura si ha in piena estate, ed il frutto è una noce detta castagna, interamente rivestita da una cupola spinosa, detta riccio. L’impollinazione può essere “anemofila”, cioè quando il polline viene veicolato dal vento o “entomofila”, invece quando il polline viene veicolato dagli insetti, per cui fondamentale è la presenza delle api. La pianta di castagno ama i terreni profondi, leggeri, permeabili, ricchi di elementi nutritivi, tendenzialmente acidi e con assenza di calcare. Non sopporta terreni pesanti e mal drenati. È una pianta “eliofila”, cioè che predilige la luce diretta del sole, ama i climi temperati, pur sopportando freddi invernali anche molto intensi. Nel mese di ottobre i ricci, ormai completamente aperti, lasciano cadere il loro frutto: le castagne. La raccolta dura circa fino alla metà di novembre ma, in alcuni casi, piante un po’ più tardive concedono frutti anche in prossimità del Natale. La castagna è un alimento sano e nutriente ed in passato, in molte regioni italiane e in particolare in Calabria, quando l’economia non girava e la carestia si imponeva in maniera preponderante, la farina di castagna rappresentava un ottimo surrogato di quella di frumento. Fino a qualche decennio fa ricopriva un ruolo fondamentale nell’alimentazione delle popolazioni e le castagne venivano consumate sia fresche che secche, oppure trasformate in farina, per
la preparazione di pane o dolciumi. Per una corretta conservazione è necessaria l’asciugatura senza bucce, oppure la cottura in sciroppo di zucchero (marron glacè). Caratteristiche della zona sono le castagne al mosto cotto, oppure un dolce tipico, in dialetto chiamato graviuoli, fatto con farina di castagne impastata con vino e olio che, una volta cotta, viene cosparsa con miele di castagno. Le cultivar più diffuse sono: la Nserta, la Lucente, la Giacchettara e la Curcia, che hanno una forma più o meno rotondeggiante e sono di media grandezza. La Riggiola ha forma ovale ed è leggermente schiacciata, si presta bene per la canditura ma lo è altrettanto gustosa se cotta nel mosto di vino. Anche se non hanno una spiccata attitudine per il frutto, val la pena menzionare le cultivar la Mamma ed il Selvatico di Cenadi. Ottime varietà per la produzione di legname, forniscono comunque una discreta quantità di castagne che il più delle volte sfamano i selvatici.
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Cinema e cultura
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“Girare” in C Aspromonte I 2 N « E M A
Sulle strade di San Luca si spinsero per anni i registi, tentando di sfatare i misteri della “aspra montagna” di Giovanni Scarfò
«Con il suo film Elio Ruffo solleva il suo Paese [...] fissando l'attenzione su quell'aura autunnale di malinconia, con quei cieli nuvolosi, quella solitudine di campagne abbandonate, di fiumare deserte, quella desolazione di terre sconvolte, di mura cadenti, di povertà estrema» (M. La Cava)
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Nelle foto numerate 1. Locandina in francese de Il Brigante Musolino 2. Locandina in spagnolo de Il lupo della Sila 3. Una scena del film Il brigante di tacca del lupo 4. Ciccio Pelle, attore sanluchese nel film Tempo di amarsi (1954)
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II mio paese è cinema a sua insaputa. Ora che li ho visti i miei compaesani, davanti alla macchina da presa, mi sono accorto che sempre, quando si muovono, quando si fermano, quando si raccolgono a gruppi e dai gruppi si separano, fanno “inquadratura”, anche se non immaginano cosa essa sia. Tutto questo non è artificio loro né visione artificiosa in me che lo noto, ma deriva dalla naturale armonia di movimento e di atteggiamento di questa genie che ha alle spalle i greci antichi e gli arabi, cioè dei popoli armoniosi e ben proporzionati in ogni loro manifestazione di vita secondo una consimile proporzione morale che li regge». Sono parole che Corrado Alvaro scrive all'indomani della realizzazione del film Patto col diavolo, girato da Luigi Chiarini a San Luca nel 1949, tratto da un soggetto dello scrittore calabrese che torna così a parlare della “sua” Calabria vent’anni dopo Gente in Aspromonte. Il soggetto di Alvaro,
che racconta di due famiglie di boscaioli e pastori di S. Luca in lotta per il controllo del territorio, pone le premesse, con molti anni di anticipo sulla montante onda ecologica dell’ultimo scorcio del secolo scorso, per sviluppare le contraddizioni di ordine economico e sociale che si presentano quando occorre conciliare diverse e magari opposte esigenze economiche, sopratutto quando è in ballo lo sfruttamento delle risorse naturali. Invece Chiarini preferisce mettere l’accento cinematografico sulla storia d’amore contrastata di due giovani delle opposte famiglie, riducendo in tal modo una questione di vitale importanza economica e sociale, ambientata tra l’altro in una regione ad alto tasso di povertà, nella versione calabrese dei Capuleti e Montecchi, con la variante che a morire saranno i futuri suoceri e, alla fine, anche “Giulietta”, vittima sacrificale che riporta la pace fra le due famiglie.
IL FILM, INSIEME a Il lupo della Sila realizzato nello stesso periodo, può essere considerato il primo “vero” debutto della Calabria nel cinema […]. Nel 1950, mentre Corrado Alvaro attraverso le pagine di critica che scrive per la rubrica cinematografica del Mondo di Mario Pannunzio cerca di chiarire il rapporto che lo lega alla settima arte, il cinema italiano, sulla scia dell’enorme successo conseguito con Il lupo della Sila, ripropone con vari film l’ambientazione “fra i monti di Calabria” (titolo di un cortometraggio del 1912) riproponendo la storia de Il brigante Musolino (1950) di Mario Camerini. Interpretato da Amedeo Nazzari, Silvana Mangano e altri attori già presenti in Patto col diavolo (Guido Celano e Umberto Spadaro), il paese di San Luca viene citato nel finale del film quando
Musolino, decidendo di partire per l’America insieme a Mara per rifarsi una nuova vita, esprime il desiderio di recarsi prima a “San Luca, al Santuario, per pregare e confessarmi”. Una decisione però che costerà la vita a Mara, uccisa dal suo rivale, a sua volta ucciso da Musolino; e, per tale motivo, il brigante tornerà in prigione, costituendosi ai carabinieri di San Luca. CON QUESTO FILM si ripete lo stesso successo commerciale de Il lupo della Sila, e l’immagine della Calabria “bandita” diventa molto quotata nel borsino cinematografico italiano, grazie soprattutto al consenso di un pubblico popolare più degli altri legato alla nostalgia del passato, mosso e sconvolto da grandi passioni ed estraneo ad ogni complicazione intellettuale. In quegli stessi anni la realizzazione di altri film ad opera di alcuni registri calabresi, costituisce il timido tentativo di avviare una produzione cinematografica regionale con lo scopo di portare all’attenzione nazionale le condizioni di vita di una terra che vive da sempre in condizioni di grande disagio economico e sociale. Ma questo coraggioso tentativo autarchico non avrà sbocchi significativi, perché schiacciato anche, oltre che da ragioni soggettive, da una produzione cinematografica nazionale più propensa ad accordare la sua fiducia a registi già affermati a livello di film popolari, come avviene nel caso di Raffaelo Matarazzo autore del film Il tenente Giorgio (‘52), tratto dall'omonimo racconto dello scrittore calabrese Nicola Misasi. UNA DELLA VIE calabresi al cinema viene tracciata dal film Tempo di amarsi (Dopo l’alluvione) (‘54) girato tra San Luca e Bovalino dal regista calabrese Elio Ruffo; una via che il regista percorre seguendo i dettami del neorealismo cinematografico che aveva già caratterizzato il suo documentario d’esordio: SOS Africo (‘49), un’opera che convoglia verso l’autore le simpatie della critica italiana “perché – scrive Paladini su Cinema Nuovo –, la rappresentazione della miseria intende riassumere un più vasto abbandono e una pazienza che non può risolversi a diventare rassegnazione” [...]. Certo, «nel film non mancano asperità, disuguaglianze, una certa sommarietà di sviluppi e qualche ingenuo compiacimento formale – scrive Paladini – [... ] Ma sono difetti che non intaccano la sostanza del film, la sua serietà e il suo chiaro interesse umano». l’articolo integrale su inaspromonte.it
Cinema e cultura di Bruno S. Lucisano
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el pomeriggio di oggi 16 ottobre, sono stato ai funerali del Professore Giuseppe Landolfo a Bruzzano Zeffirio. Lui, il Maestro, se ne è andato in silenzio come, in silenzio, ha vissuto la sua vita, dedicandosi alla scrittura di racconti e di poesie, dopo aver insegnato per tantissimi anni. Della sua poesia hanno scritto in tanti, più autorevoli di me e sarà meglio che molti poeti di questa generazione che vogliono impegnarsi in questa avventura, vadano a leggere qualcosa dei suoi scritti. L’elogio funebre, mesto e sincero, è stato illuminato dalle splendide e puntuali parole della professoressa e scrittrice Rosa Marrapodi e della lettura di due poesie del Professore Landolfo, da parte della scrittrice Paola Crisapulli. Il Professore nel 1999, ha voluto, con la sua lucida penna, onorarmi con la prefazione al mio primo libro di poesie Na carizza na parolazza, dove, ad un certo punto, ha così scritto, riferendosi alla poesia in generale: «Si, grazie a Dio, la poesia è viva ancora e tutto, ancora e sempre, di poesia può illuminarsi perché essa è dappertutto, basta saperla cogliere: è nel fiore che profuma, nel vento che accarezza,nell’acqua che disseta, è nel pianto di un bambino, nel volo di una rondine, nel riso di una madre; è nella tempesta che sconvolge, nel dolore che redime, nel lavoro che purifica e innalza. Poesia è quell’anelito di bene che ci strazia dentro e che ci obbliga a farci tutto a tutti, e finalmente poesia è soprattutto l’amore…». Il Professore amava la poesia, così come amava Dio, così come amava la nostra terra, la Calabria e, per chi non ha la fortuna di avere questo libro che ho in mano in questo momento: Lungo l’arco del tempo e della vita, voglio dedicare un suo racconto, a voi che mi leggete, a lui che resta vivo, a me, che ho avuto la fortuna di conoscerlo e di discorrere con lui. Calabria, il tuo dolore viene da lontano! Ma da lontano viene anche il tuo valore: il tuo bagaglio enorme di sostanza umana… la tua storia fulgente e millenaria… il fulgore ammaliante delle tue leggende… il sortilegio della tua ventura! Coraggio! Ritornerai ad essere com’eri! Coraggio! Si vincerà questo stato di pena… quest’orrore di morte… Ritornerai a splendere nel sole, sotto il “tuo” abbagliante, straordinario sole, unico al mondo, ancora ammantata di verde, ancora radiosa di aranci e gelsomini, ancora fulgente di calda umanità… Coraggio! I tuoi campi ritorneranno ancora ad essere feraci, generosi di doni… L’amena selvaggia misteriosa bellezza delle tue colline, coperta di teorie interminabili di ulivi millenari che, come braccia protese di mistici oranti, elevano il loro cantico di fede al cielo, fidenti ascolteranno ancora, attendendo il giorno della resurrezione, gli struggenti canti d’amore – ave nella passione dell’ora – delle forosette che, con negli occhi l’arcano lirismo di Nosside sublime e con nel cuore il tesoro inestimabile delle loro virtù, la genuina disarmante semplicità della loro grazia, concilieranno agli
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Il mio saluto al Professore
Peppe Landolfo
«Lui, il Maestro, se n’è andato in silenzio come, in silenzio, ha vissuto la sua vita, dedicandosi alla scrittura di racconti e poesia»
Chi è l’autore IL POETA DIALETTALE Bruno Salvatore Lucisano è nato a Staiti nel 1952, oggi risiede a Brancaleone. Da sempre studioso delle tradizioni locali, si dedica da tempo alla composizione di poesie e commedie in dialetto calabrese, più volte rappresentate: Pipiromania, U batteru, U granatu, A segheria, Furtunatu?, Peppa a Molla. E i poemetti: A di vinu cummeddia, A purga i Toriu, U Paradisu?. Ha già pubblicato quattro libri di poesia: Na carizza na parolazza, I sumeri, Scutagangali, Jjanda mara, un primo volume di detti e proverbi I Melitu a Locri, e un quinto libro in formato ebook Politicuni.
Bruno Salvatore Lucisano (nella foto)
animi nuovi evi di civiltà e di progresso, oasi sublimi di pace desiata, fiumi inesausti di sapiente umanità. Coraggio! Del resto la tua sventura viene da lontano… come da lontano viene la gloria della tua avventurata storia millenaria. La leggenda dice che i tuoi primi abitatori, i tuoi figli primevi, i calabresi ancestrali, furono i figli del più ingegnoso uomo di tutti i tempi, il favoloso, mitico Dedalo che dal buio della notte dei tempi osò spiccare il volo verso il sole… Questo incredibile artiere pare abbia speso tutta la vita a trarre delle leggi, dal buio del caos, per domare e imbrigliare gli elementi furibondi della natura e piegarli al bene dell’uomo… Forse da lui deriva il tenace carattere dei calabresi. Da allora, dalla notte di Dedalo, la Calabria conobbe un solo, breve periodo di splendore… ma così luminoso, così fulgente da riverberare ancora luce imperitura sul mondo: fu il periodo della Magna Grecia! Il periodo in cui da ogni angolo della terra si peregrinava nelle nostre contrade per attingere civiltà e sapienza…per arricchire lo spirito, ancora impigliato nelle tenebre delle caverne, di splendori abbaglianti e inusitati. Dopo… Dopo la splendida, avventurata Calabria nostra, per oltre duemila anni, fu preda di
eserciti invasori…bersaglio di ingiustizie e di rapine, destinataria d’inganni e di promesse mai mantenute… Dopo…Dopo furono lacrime e sangue… tormento e miseria… tragedia e schianto per oltre duemila anni! La Calabria, la bella, rude e sventuratissima Calabria, fu preda ambita, altera e dolente Donna di pena, di tutte le orde barbariche! La gente calabra, la rude forte ferrigna gente di Calabria, la sana calda generosissima gente bruzia cominciò il suo peregrinare per le montagne abbandonando all’ugna di mille barbari, ispidi e torvi, ignoranti e crudeli, più delle calamità naturali che pur non l’hanno mai risparmiata, i piani aprichi, paradiso di zagara e gelsomini e i mari puri e innocenti come sortirono dal fiat di Dio… E là, sui picchi inaccessibili, sui cocuzzoli impervi, sui crinali sino allora rifugio inviolato di corvi e sparvieri, si ripiegò su se stessa a conservare la radice forte e sana della sua razza [...]. Ecco, quando avete tempo, letterati impellicciati e non di questa terra, trovate un posto al Professore Landolfo in mezzo a quanti, in questo racconto, ha lui stesso ricordato. E leggete questi racconti nelle scuole anziché libercoli di ndrangheta! Con stima, affetto e riconoscenza. Tanto vi dovevo, e non finisce qui.
Hanno scritto in questo numero Antonio Iulis, Cosimo Sframeli, Giuseppe Gangemi, Pino Macrì, Antonio Perri, Federico Curatola, Domenico Stranieri, Giovanni Scarfò Per l’Aspromonte orientale Mimmo Catanzariti, Bruno Salvatore Lucisano, Antonio Perri, Giancarlo Parisi Per l’Aspromonte grecanico Salvino Nucera, Francesco Violi Per le biodiversità Rocco Mollace, Leo Criaco, Francesco Tassone
Fotografi Leo Moio, Pasquale Criaco, Natale Nucera, Francesco Depretis, Paolo Scordo, Giancarlo Parisi
l’articolo integrale su inaspromonte.it
Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 10/11/2013 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.
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