"in Aspromonte" numero 6

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QUESTO GIORNALE NON RICEVE ALCUN FINANZIAMENTO DA ENTI PUBBLICI

10 mila copie

sempre on line

Direttore Antonella Italiano

Aspromonte orientale Storie di Polsi. Maria e la Sibilla di Ulderico Nisticò

pag. 7

Aspromonte greco Ta yortàde. Le farse in piazza di Salvino Nucera pag. 8

L’analisi Il Convento di Santa Maria del Gesù di Pino Macrì

pag. 11

Cinema d’Aspromonte Peppe Musolino e l’America

di Giovanni Scarfò

pag. 17

Arte e cultura La solitudine di Saverio Strati di Vincenzo Stranieri pag. 23

La provocazione

Estorsione a mezzo Stampa

COPIA GRATUITA

DIVIDE ET IMPERA

Un’antica strategia di guerra romana: dividere i popoli per poi dominarli. E se si stesse cercando di dividere gli Aspromontani per centralizzare il potere nelle mani di pochi? Naturalmente è solo una provocazione, ma il Governatore nelle vesti di Cesare (almeno a carnevale) è convincente...

inAspromonte

Febbraio 2014 numero 006

CARNEVALE Nicola, l’ultimo aedo servizio di Gianni Favasuli pag. 12-13

LA NOSTRA STORIA U monacu Jancu e il cimitero scomparso servizio di Domenico Stranieri e Francesco Misitano pag. 18-19

TRA I BOSCHI La ghiandaia un militare perfetto servizio di Leo Criaco

di Antonella Italiano

pag. 15

U

no scrittore, il più grande. Una montagna, l'Aspromonte. E una patria in cui non è profeta. Per questo abbiamo dedicato un po' di spazio a Saverio Strati, perché nessuno meglio dei nostri autori può parlarci di questa terra. Loro che dalla sua durezza sono stati temprati. Segnati a dismisura. Tanto da rimanere soli. Soli. Sono pagine pulite le sue: in esse vivono contadini, falegnami, pastori, carbonai. E portano vivo il colore di un Aspromonte incontaminato. Libero da alberghi e seggiovie, che puzza di capre e di maiali. E di timo, soprattutto a ottobre. pag. 2-3

pag. 3

Approfondimento Centuvinti e Trissetti. Le carte

Ombre e luci Anni ‘70. In lotta per un’idea di Cosimo Sframeli

di Tiziano Rossi pag. 5

Musica e tradizione La canna, un acciaio vegetale pag. 16

di Mimmo Catanzariti

pag. 20-21


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Copertina

inAspromonte Febbraio 2014

ESTORSIONE A MEZZO STAMPA segue dalla prima di Antonella Italiano

Il giorno in cui bussai alla porta di un amico con una bozza di menabò e tante cose da scrivere ancora in testa, questo mi rispose serio «Un giornale sulla montagna? Leggi questi versi». Me li lesse lui, subito dopo: «Restano gli zapponi dietro la porta, i cieli, i vigneti. La pietra di sale sulla tavola. I vecchi che non si muovono dalla sedia, soli con la peronospera nei pol-

moni. Le capre, la voce lunga degli ultimi maiali scannati. L'argento a forma di cuore, nella chiesa. Le ragnatele dietro i vetri, le madonne. La ragnatela del Carmine, la ragnatela di Portosalvo, la ragnatela della Quercia. Restano le donne consumate da nove a nove mesi con le macchie della denutrizione, della fame. Le addolorate. Le pietà di tutti gli ulivi.

Lavando, rattoppando, cucinando su due mattoni, raccogliendo spine e cicoria. Sono di Franco Costabile, parlano degli emigranti». Caspita, pensai. Quanto cose erano state già dette. Da questo, dunque, si doveva partire; da chi, prima di noi, aveva respirato l'aria della nostra regione, delle sue esagerate montagne. Ed era chiaro che, per non tradirne la

storia, parlando delle sue "luci" avremmo dovuto ricordare le sue "ombre". E di tutto fare tesoro: dello scatto, dell'oggetto, del mestiere, del ricordo. Dell'ingiuria al pari della poesia. Ed oggi, ogni volta che strappiamo qualcosa all'abbandono a cui è destinata, e la "stampiamo" su carta, sentiamo di aver aiutato la storia a sopravvivere. E di aver lasciato meno soli i nostri scrittori. Non credete,

È sufficiente andare un po’ in giro per i paesi arroccati sulla sommità delle montagne, o adagiati nei declivi, a ridosso delle fiumare, per rendersi conto del disastro sociale e ambientale causato dall’abbandono di Sandro Casile*

A

ccade spesso che, nel dibattito sul futuro dell’Aspromonte e sul suo percorso verso un concreto sviluppo sociale ed economico, si evochino i viaggiatori del Gran Tour, precursori del turismo moderno e postmoderno, che, in epoche ormai lontane, hanno percorso, a piedi o a dorso di mulo, l’estrema montagna meridionale, resocontando minuziosamente sulla loro avventurosa esperienza di viaggio. Tra i più citati, Norman Douglas e Edward Lear che hanno avuto il merito di “fotografare” e tramandare, grazie ai loro diari, un Aspromonte accattivante, popolato da un’umanità variegata che animava pittoreschi borghi e villaggi, ricco di storia e tradizioni, dalla natura aspra e incontaminata, dai panorami indimenticabili. Quella dei viaggiatori, tuttavia, è e rimane una preziosa testimonianza storica che potrà tornare utile se e quando saranno attivati processi di ricostruzione identitaria dell’Aspromonte. Oggi, realisticamente, dobbiamo convenire che quell’Aspromonte non c’è più e non potrà più esserci. ALTRI E PIU’ ATTUALI sono i dati e il contesto da cui partire per prefigurare il possibile sviluppo. È sufficiente andare un po’ in giro per i paesi arroccati sulla sommità delle montagne, o adagiati nei declivi, a ridosso delle fiumare, per rendersi conto del disastro sociale e ambientale causato dal fenomeno dell’abbandono delle aree rurali e montane. Sono molti i paesi totalmente disabitati e abbandonati al loro destino metamorfico, numerosi quelli che hanno poche centinaia di abitanti, per lo più anziani. La gran parte sono “paesi dormitorio”, che vedono,

Nella foto grande gli anziani di Pietrapennata, nelle foto piccole da sinistra a destra San Giorgio Morgeto, una masseria tra i boschi, gli escursionisti della G

L’ASPROMONTE CHE NO

Una proposta per recuperare le ricchezze della nostra montagna meglio le sue risorse e valorizzando i noti borghi abbandonati. U che arriva da chi la conosce bene e ne traccia i sentieri da più di a sera, il rientro della popolazione attiva occupata nelle vicine aree urbane, pochi sono i paesi che conservano i caratteri originari, pur avendo difficoltà ad adattarsi al mutato quadro del rapporto tra uomo e territorio. È da questa nuova realtà sociale, dalla significativa contrazione delle attività agro-silvo-pastorali, dall’aggressione alle risorse ambientali, dalle tristi vicende che hanno compromesso, per lunghi anni, l’immagine dell’Aspromonte, che bisogna muoversi per costruire nuovi percorsi di crescita che non possono prescindere dalla riscoperta e valorizzazione delle uniche risorse disponibili, siano esse le risorse considerate “povere” fino a non molti anni fa, come la natura, l’ambiente, il paesaggio, siano esse le risorse storiche e antropologiche. IL FENOMENO dell’abbandono delle aree interne, per mo-

tivi e con modalità diverse, ha interessato gran parte delle realtà rurali e montane, tanto da suscitare, in ambito europeo, una crescente attenzione verso le dinamiche delle aree svantaggiate. Con l’approccio “multifunzionale” all’agricoltura che prevede, in aggiunta alla tipica attività agricola, vari tipi di funzioni fornite dall’agricoltura e dagli agrosistemi, come la preservazione e la pratica delle tradizioni storiche e culturali, l’offerta agrituristica, la funzione ricreativa, è stata tracciata la via per un nuovo sviluppo economico e sociale. A tutto questo vanno ad aggiungersi gli interventi infrastrutturali, nei servizi, nell’ambiente e nel turismo rurale che ha acquisito, negli ultimi anni, un’importanza rilevante, portando un numero sempre maggiore di visitatori nelle aree che, per tempo, si sono attrezzate. I motivi della crescita di tale forma di turismo vanno ricercati

nella tendenza a spezzare il periodo della vacanza in più periodi di breve durata; nella ricerca di “diversità”, “identità” e “autenticità”; nel desiderio di esperienze ricreative a contatto con la natura, in un ambiente sano. LA RIVALUTAZIONE dello spazio rurale e montano, in tutte le sue componenti, è dunque la chiave di volta per lo sviluppo dell’Aspromonte laddove tale rivalutazione passi, prima di tutto, attraverso un laborioso percorso di riscoperta e ricostruzione, capace di coinvolgere attivamente le popolazioni locali che, generazione dopo generazione, sono state protagoniste, in positivo e negativo, del processo di continua trasformazione dell’estrema montagna meridionale. Per prima va riscoperta un’identità forte e peculiare, che proprio nelle aree interne e meno urbanizzate, ha lasciato tracce evidenti, per lungo tempo trascurate.

Oggi gli abitanti delle grandi aree urbane, che hanno sempre considerato con distacco la ruralità, guardano alla campagna e alla montagna come a un luogo privilegiato dove è possibile rintracciare valori importanti, essenziali, che altrove sono andati perduti. Questa inversione di tendenza fa sì che oggetti ed espressioni della vita quotidiana e del lavoro, si arricchiscano di valore culturale per diventare un “bene”. Ne sono prova la domanda di fattorie didattiche, la rivalutazione dei prodotti e della cucina tipica, la ricerca dei prodotti artigianali locali, il ritorno alla musica e agli strumenti musicali della tradizione, la rivisitazione degli scrittori e dei poeti che hanno illustrato l’Aspromonte e la sua gente. Va poi ricostruito il paesaggio rurale e montano che oggi appare disarticolato e impoverito dallo stato di generalizzato abbandono.


Copertina dunque, a chi non ha rispetto per la Stampa. A chi la usa come mezzo di estorsione personale. A chi raccoglie informazioni per poi lasciarle in bilico. In bilico fino al (suo) bisogno. E si rivela paparazzo, non fotografo. Bracconiere, non cacciatore. Boia, non giustiziere. Ho un ricordo solo in parte, l’altra parte è nei film, dei tempi in cui le estorsioni si facevano “porta a porta”, con

Gea. Tutti gli scatti sono di Sandro Casile

ON C’E’

a, sfruttando al Una proposta i trent’anni...

GLI ELEMENTI FISICI che caratterizzano il paesaggio, siano essi paesi, case sparse, fabbricati rurali, luoghi di culto, testimonianze di archeologia industriale, emergenze storiche e architettoniche, sono collegati tra loro secondo la logicità delle attività umane che nel tempo li hanno generati. Le aree rurali e montane sono ricche di antiche vie che si dipanano in ogni direzione, lungo valli e crinali, s’intersecano ai “passi” e alla pianura prima di divergere ancora per seguire un disegno di dominio del territorio sviluppatosi nei secoli. Quelle

due scagnozzi e una pistola. Si vendeva la “protezione”, che serviva a difendersi comunque da due scagnozzi e una pistola, ma del partito avverso. Ogni tanto ci scappava la saracinesca nuova. Questo ricordo, soprattutto. Invece neanche esistevo quando sull’Aspromonte vivevano i briganti. Di essi ho amato le storie, una in particolare. Parla di Nino Martino e di quando, una matvie raccontano di legnatico, pastorizia, transumanza, commerci, pellegrinaggi, difesa, fughe. Ridare un significato a queste tracce, nella maggior parte dei casi sentieri, spesso in stato di abbandono, è un passaggio obbligato nel processo di ricostruzione identitaria attraverso la conoscenza della propria storia e della propria cultura. Se un secolo fa il viaggio, l’escursione e la passeggiata ricreativa in montagna o in campagna rappresentavano uno svago concesso solo all’élite aristocratica, oggi è una pratica diffusa, considerate le migliorate condizioni di vita e culturali e la crescente sensibilità ambientale che le società occidentali hanno acquisito negli ultimi decenni. I nuovi modelli di fruizione dello spazio rurale e montano, come ad esempio l’escursionismo, si basano proprio sulla ricostruzione del paesaggio attraverso la riqualificazione ed il ripristino dei sentieri esistenti che diventano, così, infrastrutture territoriali, fisiche e culturali. I sentieri si configurano come mezzo di collegamento tra le risorse che compongono il patrimonio da valorizzare, e sono, essi stessi, patrimonio del territorio e segni tangibili della storia e delle vicende delle popolazioni che li hanno tracciati, percorsi, abbandonati. RIPRISTINARE le antiche vie di comunicazione, attraverso una loro rilettura storica e culturale, che si prefigga di recuperare i valori andati perduti nel corso del lungo periodo di smantellamento dell’Aspromonte, è la condizione indispensabile per l’accesso al patrimonio diffuso nel territorio, che così diventa agibile, leggibile, collegato e connesso. Ai sentieri e lungo i sentieri andranno poi ad aggiungersi strutture specifiche, concepite ex novo o riadattate a seconda delle esigenze, come musei, centri visita, punti interpretativi, funzionali alla creazione di itinerari tematici. Quando il processo di riscoperta identitaria e di ricostruzione del paesaggio, in senso fisico e culturale, sarà avviato, avremo finalmente elementi di concretezza su cui dibattere per immaginare il futuro dell’Aspromonte. *GEA, Gruppo Escursionisti d’Aspromonte

inAspromonte Febbraio 2014

tina, andò incontro al venditore di olio per derubarlo: «Scarica l'olio!» gli intimò. Ma il venditore scoppiò in lascrime: «Ho perso l'olio. Me meschino!». Il pover’uomo era stato già derubato da un assassino che terrorizzava tutto il paese. Nino Martino, che era un uomo regale, prese la borsa, tirò fuori uno zerbino. E glielo donò... Altre estorsioni. Altri tempi. Altro.

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professioneaspromontano «Io che conosco bene l'idee tue so' certo che quer pollo che te magni, se vengo giù, sarà diviso in due: mezzo a te, mezzo a me... Semo compagni «No, no - rispose er Gatto senza core -io non divido gnente co' nessuno: fo er socialista quanno sto a diggiuno, ma quanno magno so' conservatore» (Trilussa, Er compagno scompagno) di BRUNO CRIACO

DIVIDE ET IMPERA L

a serata autunnale non era calda, ma Mimmo Versaci sudava mentre parlava. Era amareggiato. Non tanto per la sua esclusione dal consiglio direttivo del Parco d’Aspromonte, quanto per la delusione di non essere stato votato da alcuni colleghi che lui considerava amici. E mentre questi si erano limitati a non votarlo, qualcuno aveva dissuaso quei pochi che lo volevano fare. Perché? Il Sindaco era amareggiato perché l’Aspromonte orientale, da Platì ad Africo, non aveva nessun rappresentante nel direttivo. Decisione scorretta oltremisura. Perché lui, che amministrava un comune con la totalità del territorio in montagna, non poteva che essere spettatore sulle eventuali decisioni che, su tale territorio, si sarebbero intraprese. E come lui altri Primi cittadini avrebbero pagato il prezzo dei giochi di potere. E con loro gli aspromontani. Un numero importante. Che cos’è quindi il Parco? Uno “strumento” per sottrarre ai legittimi amministratori il potere decisionale sulle loro terre? E in cambio di cosa? Forse del ripristino di qualche sentiero che i rovi e le ginestre spinose in pochi mesi si riprenderanno? Chi conosce l’Aspromonte, chi lo ama, sa bene che esso racchiude risorse immense che potrebbero, se sfruttate correttamente, dare opportunità occupazio-

nali a tante persone. Ma chi conosce l’Aspromonte sa anche che, da decenni, la politica che si è adottata va esattamente nel senso opposto; si è fatto di tutto per far si che queste risorse non fossero fruibili. E che di tutto si continua a fare per dividere gli aspromontani. Chi trae vantaggio da questo stato di cose? Qualche anno fa abbiamo creduto che qualcosa stesse cambiando, i segnali che si percepivano sembravano positivi, all’improvviso come per miracolo in tanti si stavano interessando alle sorti degli antichi borghi abbandonati nel cuore dellla montagna. Università, associazioni di volontariato, associazioni di escursionisti si stavano impegnando ognuno con le proprie forze, per fermare il declino al quale quei posti, sembravano ineluttabilmente condannati. Purtroppo l’illusione è durata poco, solo pochi “irriducibili” hanno ancora voglia di portare avanti la loro scommessa. E che qualcosa potesse cambiare l’abbiamo voluto credere pure quando sono state rinnovate le cariche all’Ente Parco. Abbiamo voluto credere che finalmente la politica aveva deciso di fare un passo indietro. Abbiamo voluto credere che la montagna lucente sarebbe stata trattata con il rispetto che meritava. Da allora è passato quasi un anno, dobbiamo prendere atto che è stata l’ennesima delusione?


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Ombre e luci

inAspromonte

IL 41 BIS BIS

Febbraio 2014

L’EDITORIALE

BIS

di BRUNO SALVATORE LUCISANO

IL CANE PIRUZZA

INCUBO DEI BAMBINI

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ascevano così sui monti, i bimbi la luce non la vedevano con la venuta al mondo, avevano gli occhi chiusi come i mici. E solo col tempo svanivano le nebbie degli occhi, ma a volte capitava che col passare degli anni a qualcuno restava in testa un po’ di fumo, la pietà popolare correva in soccorso e nessuno avrebbe osato dire di un bambino che fosse un po’ svanito. Si ricorreva al diavolo, il quale aveva un servo formidabile, un cane dal pelo lungo e bianco, Piruzza, che si appostava vicino all’uscio delle case e appena beccava un bimbo da solo, tirava fuori una voce melodiosa e convinceva il bimbo dell’esistenza di un mondo fantastico. Chi gli montava in groppa, tornava indietro dal viaggio con le nuvole in testa. E nessuno poteva dire che era matto. Ne si diceva di un monello che fosse un bimbo cattivo. Erano state le streghe. Le Narade, metà donne e metà asine, avevano un forte senso della maternità, ma nessuna voglia di fare le madri, così, dopo aver partorito cercavano puerpere umane, alle quali portavano via i figli sostituendoli con la loro prole. E i figli delle streghe non c’era modo di metterli in riga, diventavano pesti incorreggibili.

Ma non esistevano i bimbi cattivi, la colpa, per tutti, era delle streghe. E quelli scampati al diavolo e alle Narade a occhi chiusi o aperti filavano dritto, muti che bastava un fischio o un gesto, che la vita nei campi e negli ovili era dura e non si doveva dar fastidio ai genitori. Gli anni hanno mutato le cose, i neonati il primo respiro lo fanno a occhi aperti, ma guai ad aver troppa fantasia o eccessiva energia fisica, la pietà popolare è svanita, il cinismo impera e a mutare di una virgola dal dettato conforme si diventa malati, e per gli altri, i bimbi in regola con la grammatica canonica non gli si ordina nemmeno il silenzio. Non ci sono né campi né greggi e la melodia di Piruzza è stata fatta fuori da uno schermo, un display, una tastiera. I bambini non finiscono più nelle favole, né qualcuno più ci perde tempo a raccontargli le fiabe. Con gli occhi aperti i bambini non sognano più. Forse per questo il mondo si riempie via via di adulti che si comportano da bambini, quando, sarebbe importante recuperarlo il tempo degli occhi chiusi e tornare a dare un po’ di fantasia all’esistenza. Si i bambini non vivono più nelle favole, anzi si ritrovano sempre più spesso nelle tragedie di uomini che non sono mai diventati adulti.

N

on vorrei sbagliarmi ma mi pare che dal 1986, vige il Italia il sistema di carcere duro, denominato 41 bis. Legge “speciale” che doveva durare solo due anni e che, secondo il legislatore, serviva a ridurre la piaga della mafia nel nostro paese. Oggi a distanza di quasi trent’anni, i Governo decide di inasprire la su citata legge che, in un paese che si considera civile e democratico, non dovrebbe neanche essere presa in considerazione e forse manco pensata. La Costituzione italiana proibisce l’uso di pene animalesche. Qui, con questa nuova legge, siamo al limite della tortura. Eppure, se ce ne fosse bisogno, il 41 bis, nel corso degli anni, non è servito ad indebolire le mafie, anzi, nell’impoverimento culturale ed ambientale e forse anche di costume, l’ha irrobustita. Più c’è disagio, più c’è disoccupazione, più c’è fame, più c’è mafia. Il pensiero che l’inasprimento delle pene combatta la criminalità é una idea che non funziona e non ha mai funzionato. Queste cose le pensava Cesare Beccaria, più di due secoli addietro. «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo

cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è necessario neutralizzare l’«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi nella società del suo tempo. Siamo nel 1764, dopo due secoli e mezzo, la storia si ripete, irrimediabilmente. Ma a questo punto, se si pensa che le pene siano un deterrente, mettete la pena di morte, facciamo prima e forse e meno penosa di una condanna da sepolto vivo, perché questo è il 41 bis. Quando poi sentiremo il profumo dell’onestà nell’aria, e non vedremo interi Consigli Regionali che rubano, quando avremo il pane ed il lavoro tutti i giorni, quando possiamo curarci senza raccomandazioni, quando chi studia 20 anni avrà un lavoro, forse saremo tutti più buoni e forse, nasceranno meno Riina, meno Provenzano. La legge speciale per la Calabria, Signorina Bindi, è quella di portare lavoro non soldati. Mi scusi se non l’ho chiamata Onorevole ma, come ho scritto in una poesia dialettale, il termine di Onorevole, di questi tempi, sarà opportuno darlo, dopo cinquant’anni dalla morte, quando tutti i “documenti”, sono apposto.


Ombre e luci

inAspromonte Febbraio 2014

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I nostri anni Settanta. Gli studenti, gli scontri, i simboli, gli ideali, e qualcosa in cui credere

Quegli anni rimasero appiccicati addosso, come quel simbolo che si portava sempre al collo per ricordare, ogni giorno, che il sangue e le idee non furono in vendita. E, mentre i rivoluzionari, i socializzatori e i conservatori litigavano sulle scelte e prese di posizioni per la società, un gruppo di giovani spiritualisti accresceva il proprio consenso tra gli adolescenti... di Cosimo Sframeli

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li scontri fra rossi e neri erano sempre più frequenti. Nelle scuole, gli studenti che la pensavano in maniera diversa venivano schedati dagli avversari politici, per individuarli, identificarli, isolarli e colpirli. Si agiva e si rispondeva colpo su colpo. Talvolta in maniera gratuita. Campi scuola per temprare i ragazzi ed addestrarli alla resistenza fisica, al corpo a corpo, alla sopravvivenza in situazioni estreme. All’autodifesa ma anche all’offesa. Si diveniva in fretta appassionati di tattica militare e di guerriglia urbana. Furono gli anni del terrorismo diffuso, dell’innalzamento del livello di scontro, del passaggio dai bastoni alle armi da fuoco. Si attraversarono tanti mondi.

GLI ANNI ‘70 portarono a stagioni buie e a vite bruciate. Era un mondo che rispettava la sincerità e la lealtà. Quegli anni rimasero appiccicati addosso, come quel simbolo che si portava sempre al collo per ricordare, ogni giorno, che il sangue e le idee non furono in vendita. Famiglie intere furono severamente impegnate e provate, per generazioni, nel culto delle stesse idee, abituate a sacrificarsi di persona servendo la storia. E, mentre i rivoluzionari, i socializzatori e i conservatori litigavano sulle scelte e prese di posizioni per la società, un gruppo di giovani spiritualisti accresceva il proprio consenso tra gli adolescenti. Scopriva l’esistenza di un personaggio che avrebbe cambiato radicalmente i connotati alla cultura e all’idea politica. Invero, modificò profondamente determi-

Nella foto il luogotenente Cosimo Sframeli con un anziano di Bova, nella foto sotto dei giovani manifestanti negli anni ‘70

DOVE SI COMBATTE

per la nostra idea

nate convinzioni ed operò una rivoluzione in quel mondo. Aprì le porte della cultura internazionale e mondiale, indicando suggestioni fantastiche e leggendarie, di richiami a miti ed eroi fuori dal tempo. LA TRADIZIONE era tutto: fu l’adesione a uno stile di vita

c.d. guerriero, rigido, militare, metallico, fatto di autodisciplina, di durezza, di spiritualità, di eroismo, di gerarchia, di sacrificio, di fedeltà, di disinteresse per il proprio particulare, di odio per il materialismo e per il denaro, per il mondo mercantile e per quello borghese. Quel pen-

siero fu musica per i giovani alla ricerca di idee-forza più convincente di quello che poteva offrire l’armamentario ideologico-culturale della politica in voga troppo provinciale, asfittico e anacronistica con i suoi richiami alla retorica, alle marcette militari, agli slogan nazionalisti e risorgi-

mentali. Si aveva bisogno del mito dell’alternativa globale.

PARLARE DEL passato, a volte, è brutto come rivoltare la terra sulle tombe. Quegli anni furono raccontati con disprezzo, rimarcando il pesantissimo carico di violenza, odio e morte che portarono appresso e che scaricarono sugli anni a venire. Furono pure ricordati con enfasi, rivendicando le ragioni e minimizzando gli “effetti collaterali”, come li chiamerebbero i generali americani. Di quegli anni si conserva intatta la contrapposizione netta ad una società che aveva sperato di cambiare, ma che oggi appare indegna anche di un’attenzione distratta. NON SI VUOLE rincorrere verità o giustizia ma semplicemente rendere onore a un’epoca in cui la quotidianità era fatta di battaglie – per l’affermazione di un ideale, ma più spesso per la semplice sopravvivenza – delle quali si portano ancora nel cuore i segni. Si vorrebbe onorare il ricordo degli amici, dei compagni, con cui si divideva tutto. Mi ricordo, si viveva nella sfida e nel rischio. Si cresceva negli anni cupi del terrorismo e dell’ideologia ed esisteva soltanto il dovere di schierarsi da una parte, il dovere di cambiare il mondo.


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Aspromonte orientale

inAspromonte Febbraio 2014

IL RACCONTO

IL CARNEVALE DI ROBERTA

di Antonio Perri

L

’inverno quell’anno era arrivato tardi, solo da un mese, e da Gennaio faceva particolarmente freddo. Il giorno il sole splendeva riscaldando un poco la pelle ma, dalle cinque in poi, la Tramontana spazzava via l’aria tiepida che si respirava in paese. Un piccolo agglomerato di case in pietra, ai piedi della montagna aspromon-

tana. Era il febbraio del 1932, e Roberta era la marchesa Blefari, facente parte di una delle poche famiglie di sangue blu di Careri. Possedeva fattorie, acri e acri di terra a mezzadria, campi coltivati a non finire, ma non era felice. Il suo era stato un matrimonio combinato dalla madre, una ricca aristocratica caduta in disgrazia, con un certo Fran-

IN HOC SIGNO VINCES Ypopsi, località Nardello, 14 settembre 855 di GIUSEPPE GANGEMI

A

Nella foto sopra la croce di legno del Monte Perre (Samo). nella foto a destra un’elsa antica

lla presenza di Giorgio, Vescovo di Gerace, e di Pietro, vescovo di Taureanum, viene esposta per la prima volta la Croce miracolosa la cui scoperta, quello stesso anno, ha preceduto l’apparizione della Madonna. Una folla di chierici e di fedeli venuti dall’Aspromonte e dalle Planitiae è arrivata ad adorare la Santa Croce. C’è emozione e si è fatta molta discussione sul significato della Croce e dell’apparizione della Madonna. Ma adesso, dice Giorgio, si deve pensare a costruire al più presto una chiesa che diventerà un santuario in cui sarà esposta la Croce e l’immagine della Madonna. Un gruppo di giovani, appartenenti ai vari banda (unità di 300 uomini), discute ancora se si tratti di una Croce o di una spada, se altro sia il senso del miracolo e delle parole della Madonna che è, come tutti sanno, Mater Dei, ma anche Magistra Sapientiae. Di tutti i tipi di sapienza, anche di quella militare, osserva qualcuno di loro. Dai margini della folla, una lunga fila di giovani armati si fa largo tra i fedeli inginocchiati e si avvicina alla Croce. A voce alta, invocano: «Mater Dei et Magistra Militaris Sapientiae!» «Mater Dei et Magistra Militaris Sapientiae!». E quando i primi gio-

vani arrivano sotto la Croce, uno di essi prende la Croce e la rovescia alzandola al cielo all’incontrario. Quindi, urla ai fedeli inginocchiati e ai giovani in armi: «È una spada!» «È una spada!» ripetono i giovani armati. «È una Croce!» gridano, scandalizzati, i chierici. E si fanno avanti per strappare la Croce dalle mani del blasfemo. Comincia un tafferuglio, con spintoni e calci, e la stessa Croce, o spada che sia, viene messa a rischio. Finché non si fa avanti un chierico, dalla possente corporatura, ecatontarca (comandante di 100 uomini) di una bandon, ma anche rispettato dai chierici per la sua cultura. Si fa largo nella calca Fra Giovanni, detto Giovannone, e strappa brusco la Croce dalle mani del giovane che la ostenta e la innalza come una Spada. Grida: «È una Croce!» Alza forte la voce nel tumulto del tafferuglio e delle urla. Alza più in alto la Croce e grida ancora: «È il simbolo più potente che possa esistere e dà più forza di qualsiasi spada». Ottiene silenzio. E grida ancora: «In hoc signo vinces!» Si scatena, tra giovani, chierici e fedeli, l’entusiasmo. Da più parti si grida: «In hoc signo vinces!». Il Vescovo Giorgio si avvicina alla Croce, la raccoglie con dolcezza dalle mani di Giovannone. Il vescovo Pietro prende in mano la Bibbia e, senza consultarla, inizia a dare rapide istruzioni ai chierici. Questi si spargono tra la folla

dando rapide istruzioni: “Per i fedeli in coro! Salmo 83, 13”: «O Signor degli eserciti,/ beato l’uomo che spera in Te!». “Per i chierici, Salmo 26, 3”: «Anche se interi accampamenti mi stessero di fronte/ non temerebbe il mio cuore: se insorge contro di me la battaglia,/ cionondimeno confido». “Per i fedeli, Salmo 83, 13”: «O Signor degli eserciti,/ beato l’uomo che spera in Te!» “Per i chierici, Salmo 43, 5”: «Con Te sbaraglieremo i nostri nemici…». Mentre i chierici e i fedeli inginocchiati cominciano a pregare, ad un segnale del magister militum di tutte le banda, i giovani armati escono fuori dalla calca per mettersi a parlamento. Giunti al limitare della folla, chiede qualcuno al magister militum: «È una Croce o è una Spada?» «È una Croce ed è una Spada! È un miracolo che ci dice che è venuto il momento di buttare a mare i Saraceni e ci assicura che, sotto il segno della Croce, vinceremo». Ottiene la parola Giovannone e spiega: «Un esercito, inteso come somma di armi e armati, se segue una Croce, vale dieci volte di più dello stesso esercito che segue una spada». I giovani rimangono colpiti. Esultano ed estraggono le spade. Le innalzano al cielo tenendole per la punta: «È una Croce e una spada! Viva la santa Croce! Viva la santa spada!».

Una folla di « chierici e di fedeli venuti dalla Planitiae e

dall’Aspromonte è arrivata ad adorare la Santa Croce

«

Nella calca si fa largo Fra Giovanni e strappa brusco la Croce dalle mani del giovane che la ostenta e la innalza

«

E’ un miracolo che ci dice che è venuto il momento di buttare a mare i Saraceni e ci assicura che vinceremo


Aspromonte orientale cesco, il latifondista del paese. Roberta viveva tra la chiesa e la sua casa nobiliare, in quella quotidianità spinta solo dall’inerzia, finché, a dieci giorni dalle ceneri, un barlume di luce attraversò la sua triste esistenza. La luce si chiamava Giorgio Rasi. Giorgio era il fabbro del paese e un buon contadino, anche se di padre ignoto. La passione

cominciò a bruciare tra i due. Era ormai arrivato carnevale e i Blefari organizzarono, come di consueto, un ballo in maschera. Giorgio voleva vedere la sua amata e si mascherò da Pulcinella. Com’era strano e rischioso stare tra tutta quella gente altolocata ed essere l’amante della marchesa, il gioco durò poco, Francesco scoprì i due giovani baciarsi

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sul balcone. Prese lo spiedo del camino: «Vi ammazzo cani. Tu e il tuo bello!». Ma Giorgio fu più veloce e lo distese con un pugno. I due fuggirono nella parata del carnevale e si rifugiarono a casa del fabbro così, mentre la gente festeggiava, due cuori giovani si amavano, e un marchese senz’amore rimaneva col suo vuoto dominio.

Maria e la Sibilla

Paganesimo e cristianesimo: due mondi in antitesi, che si sovrappongono e si confondono

«La grotta è posta sopra il Santuario, e quando si tiene la grande processione, bisogna che la Sibilla non veda la Madonna. Se Polsi era un santuario pagano, ciò giustificherebbe l’esigenza di sacralizzarlo cristianamente con la presenza della Madonna e di una chiesa»

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LA STORIA DEL SANTUARIO DI POLSI

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ulla Madonna di Polsi si raccontano molte leggende. Una di queste vuole che nel IX secolo alcuni monaci bizantini, in fuga dalla vicina Sicilia a causa delle incursioni saracene, si spinsero nel cuore dell'Aspromonte, ai piedi di Montalto, dove fondarono una piccola colonia ed una chiesa. Un'altra leggenda, diffusissima, racconta che nell'XI secolo un pastore di nome Italiano, oriundo della cittadina di Santa Cristina d'Aspromonte, intento a cercare un toro smarrito in località Nardello, scorse l'animale che dissotterrava una croce di ferro; gli apparve quindi la Beata Vergine col Bambino che disse: «Voglio che si erga una chiesa per diffondere le mie grazie sopra tutti i devoti che qui verranno a visitarmi». Nella foto a sinistra la Madonna di Polsi (2006), a destra la Sibilla dipinta da Michelangelo

di Ulderico Nisticò

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redo che i lettori conoscano in qualche modo la leggenda della Sibilla di Polsi e dell’Aspromonte; e se no, la narriamo; e ne diamo un’interpretazione. La Sibilla (a Scibilia) è una donna bella e sapiente, che fa da maestra (maìstra) di ragazze, cui insegna cucito e altre arti femminili; sua allieva (discìpula) è la giovanissima Maria. Da profetessa, la Sibilla viene a sapere che Maria sarà Madre di Dio; mossa da invidia le muove ogni genere di ostilità: e qui s’innestano diversi miti eziologici di cose e usi. Sconfitta, la Sibilla si rifugia in una grotta, e attira con il suo fascino gli uomini: ma nessuno ne è mai uscito vivo. La grotta è posta sopra il Santuario, e quando si tiene la grande pro-

La festa il 2 settembre La processione della statua della Madonna comincia in piena notte, portata in spalla dai confratelli pescatori di Bagnara, che cantano inni alla Vergine cessione, bisogna che la Sibilla non veda la Madonna. Un evidente caso di sincretismo religioso: un culto pagano viene sostituito con la fede cristiana, ma non del tutto cancellato dalla memoria. Con questo procedimento il daimon è divenuto daemonius e demonio. Se Polsi era un santuario pagano, ciò giustificherebbe l’esigenza di sacralizzarlo cristianamente con la presenza della Madonna e una chiesa. Numerose sono le Sibille del

mito greco; si parlò, in seguito, anche di una Sibilla Locrese. Esse profetizzano, e sono tramite tra i mortali e l’oracolo degli dei. Questi si manifestano in molti luoghi, e certo quelli di più difficile accesso, e densi di alberi sacri come le querce, possono apparire più magici e misteriosi di altri. Gli oracoli e luoghi sacri sono meta di pellegrinaggi, e, di conseguenza, luoghi di raduno e occasioni di fiere. Pagano è un termine impreciso che abbiamo usato per brevità. Ma sappiamo da Plutarco e Polieno che i Locresi, quando giunsero sulle nostre coste, trovarono dei Siculi, che, secondo Tucidide, avevano ancora una coscienza etnica nel V secolo. Di loro diremo qualche altra volta. Questi, e altre popolazioni dell’interno, avevano credenze e riti diverse da quelli greci “apollinei”, e fondati, come il mito di Persefone, o Pro-

Rito dell’incubazione Usanza pagana che consiste nel coricarsi nel tempio di Dio e invocare il sogno o la sua visita rivelatrice. Proprio come avviene a Polsi l’ultimo giorno della festa serpina, sulla ciclicità della vita e della morte; e sulla trasmigrazione delle anime fino al raggiungimento della quiete nel lago ipoctonico di Mnemosine: così leggiamo nelle lamine orfiche ripiegate sui petti dei defunti. Persefone e i Dioscuri sono le due anime di Locri, quella olimpica (i Dioscuri sono figli di Zeus) e quella terrestre. In qualche modo derivano da queste antichissime premesse le credenze diffuse e nell’Aspromonte propriamente detto e nei suoi contrafforti: la

magia nera e i suoi amuleti e gioielli e, per il “contraffascinu” le “magare”, figlie di magare, e i cui poteri si ricevono in chiesa la Notte di Natale, ma non è buona magara se non quella cui non sono state dette tutte le parole del battesimo. Ecco un altro esempio di sincretismo. C’è una sorta di religione parallela con diverse manifestazioni: le ragazze hanno una sorta di comaraggio segreto, che si ottiene bruciando assieme il fiore di San Giovanni il 24 giugno: e si dice “cummari e hiuri”; molti luoghi sono abitati da morti e altri spiriti, e più d’uno giura di parlare con loro; e se una giovane vuole attirare a sé un uomo, si rivolge alla stella di Lucifero, e prega così: “O stella chi si’ la chiu’ lucenti, mandami lu demoniu chiù potenti”, e bisogna fare il nome della persona. Lucifero è il demonio, ma anche Afrodite Venere.


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Aspromonte greco

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Ta yortàde

GIANGURGOLO, UNA MASCHERA CALABRESE nche la Calabria ha la sua maschera: Giangurgolo. La sua origine sarebbe napoletana, i reggini la adottarono per poter prendere in giro i cavalieri siciliani filo spagnoli che approdarono nella loro città sfuggendo ai francesi che avevano occupato la Sicilia. A conferma di ciò le strisce gialle e rosse dei pantaloni, che la maschera indossava: erano i colori aragonesi. Il nome deriva da Gian ( che con la pronuncia diventava Zanni) e da Gurgolo (bocca grande). Dal “Zanni” deriva il modo di dire tuttora vivo nel nostro dialetto, “zanniari”: scherzare, prendere in giro.

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di Salvino Nucera

Nella foto a destra una cardara di maiale, a Roghudi Antico (foto di Bruno Criaco). Nelle foto a sinistra un uomo che allaccia le calandrelle, Africo Antica, e la sfilata carnevalesca dei pastori sardi

Carnulevari morìu di notti nci robbaru quattru rricotti: ddu frischi e ddu salati pe li poveri carcerati

Ghorìo di Roghùdi, la festa e i giochi nel Cinquanta

CARNEVALE

le farse nella piazza del paese

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cavando nella memoria vengono a galla ricordi labili, dai contorni sfocati, inerenti le tradizioni della festività del carnevale del mio paese, Ghorìo di Roghùdi, alla fine degli anni Cinquanta inizio anni Sessata del secolo scorso. Ricordo di aver sentito raccontare di due personaggi, registi-costumisti, che organizzavano gli scherzi da fare e decidevano a chi indirizzarli, e quali fossero le cose vietate, da non fare perché di cattivo gusto. I personaggi in questione erano un mio prozio, Don Giuvanni (Nucera), e il fabbro del paese, Mastru Giuvanni. Un omone alto e grosso, che sarebbe stato immediatamente riconoscibile se avesse partecipato direttamente alle mascherate. I due assegnavano anche i costumi, per lo più femminili, preparati molto tempo prima.

urante la macellazione dei maiali, tradizionalmente eseguita tra l’Immacolata e la Befana, si conservava lo scroto (muchìo) dei maiali che, esposto al fumo del focolare, unitamente al resto dei salumi, diventava una palla di grasso molto morbida. Il suo uso specifico era quello di ammorbidire e lucidare le scarpe, specie degli uomini e quindi le calandrelle, simili ai coturni degli antichi achei, ricavati da pelle bovina che richiedevano manutenzione costante di ammorbidimento ricorrendo al muchìo. Durante il carnevale il suo utilizzo, da parte dei più giovani, cambiava totalmente. Diveniva uno scherzo singolare: oggetto di nero e untuoso trattamento erano i volti di fanciulli, o degli adulti che accettavano senza fare storie l’ironai del carnevale.

secondo le caratteristiche dei partecipanti, come per gli attori di una commedia, venivano assegnati gli abiti da travestimento ed anche i compiti specifici (individuali) assegnati di volta in volta durante i festeggiamenti. I più giovani, quelli più scalmanati, si travestivano da pastori, con maschere raffiguranti animali aspromontani, e a tracolla legavano una serie di campanacci di varia grandezza e suono (mi pare di averli visti anche in Sardegna) che facevano vigorosamente tintinnare per spaventare in particolare i bambini.

gruppi in maschera si dividevano e si spostavano per il paese recandosi nelle abitazioni nelle quali erano quasi certi che avrebbero ricevuto in regalo dei salumi, del vino o altro. Il luogo deputato al raduno completo delle maschere era la piazza davanti la chiesa dove si suonava con organetto e tamburello e si ballava, si consumava anche, tutti insieme, quanto veniva racimolato durante le escursioni in paese. Si diceva, a proposito del Carnevale: “A Candilora cu non avi carni mpigna na figghiòla”.

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el cosiddetto “martedì grasso” in tutte le famiglie, o quasi, si faceva il sugo di carne, specie di maiale, con il quale, come da consuetudine, si condiva la pasta fresca fatta in casa, in particolare i maccheroni col buco realizzato con il cannìci. Si potevano usare, in alternativa, altri tipi di pasta come le cordelle o le tagliatelle (tagghiarìni). In piazza l’ultimo giorno della festa si preparava un letto di legna (una pira) e faceva la sua apparizione un manichino di paglia rappresentante il “Carnevale”. Si festeggiava per quasi tutto il giorno e, tra la piazza e il paese, si portava in giro il Carnevale accompagnato dal suono di organetto e tamburello.

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oi, quando il giorno incominciava a cedere il passo alla sera, andava in scena l’atto finale, sempre in piazza dove accorreva parecchia gente per assistere, commossa, all’accensione della pira con sopra il manichino di Carnevale, che lentamente si trasformava in cenere, non senza il pianto delle maschere presenti che cantavano con insistenza la seguente quartina: “Carnulevari morìu di notti/ nci robbaru quattru rricotti:/ ddu frischi e ddu salati/ pe li poveri carcerati”.


Aspromonte greco LE FRASI PIU’ BELLE DAL WEB. SFRAMELI

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iamo giunti ad un livello alto di informazione, tanto alto e intenso da non lasciare più spazio alla riflessione. Nel rincorrere le notizie, nella nostra mente si forma una sorta

di Francesco Violi

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hi visita la Calabria Greca resta estasiato dalla magia dei luoghi, così intrisi di cultura, tradizioni, arte. Essa è l’ultimo baluardo greco, e si oppone con forza alla completa latinizzazione della società occidentale. Fin quando la grecità avrà la forza di esistere, il turista potrà celebrare la sua liturgia di pellegrino e soddisfare la voglia di conoscere altri mondi. Ma per i residenti è possibile trarre vantaggio da questo micro-mondo? La soluzione è univoca: si, con il turismo. Ma quale tipo di turismo potrebbe interessare questa zona? LA SOLUZIONE può essere l’albergo diffuso: un’esperienza di vita all’interno di un centro storico, contando su servizi ricettivi di qualità e mantenendo i paradigmi di quella che era la vita di un tempo. In altre parole, si tratta di una nuovo modo di ospitare i turisti: il prezioso patrimonio edilizio dei borghi di Roghudi, Gallicianò, Bova, Roccaforte del Greco, Condofuri, Chorio di San Lorenzo, Bova Marina, Pentidattilo, Palizzi e Staiti, diventa un vero e proprio albergo al quale non dovranno mancare i servizi di qualità. Ogni casa disabitata è una risorsa capace di trasformarsi in ricettività turistica e dal punto di vista dell’impatto ambientale non occorre costruire nulla: si devono recuperare, ristrutturare e mettere in rete le strutture che già esistono. E gli arredamenti devono essere gli stessi di un tempo. In questo modo verranno restaurati e recu-

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di graduatoria in relazione alle gravità e alle sensazioni che, alla fine, producono indifferenza nel curarsi delle "piccole cose". L'assuefazione al peggio, ammorba il nostro vivere. Meno indignati e più indifferenti. Cosimo Sframeli

L’albergo diffuso, il miglior modo di “fare turismo” nella Calabria dei borghi abbandonati Nella foto la piazza di Gallicianò durante il Festival Paleariza (foto di Antonella Italiano)

IL BALUARDO DELLA GRECITA’

«Si tratta di una nuovo modo di ospitare i turisti: il prezioso patrimonio edilizio dei borghi di Roghudi, Gallicianò, Bova, Roccaforte del Greco, Condofuri, Chorio di San Lorenzo, Bova Marina, Pentidattilo, Palizzi e Staiti, diventa un vero e proprio albergo al quale non dovranno mancare i servizi di qualità»

perati mobili antichi ed ogni vano, ogni casa, avrà la stessa destinazione d’uso originaria.

LE ANTICHE fornacette, i bagni, i tavoli, le sedie, lo stipetto, le cristallere avranno una nuova vita. Anche il rapporto tra il centro abitato e le campagne sarà rivisitato: si avrà una riqualificazione del territorio e il paesaggio agrario, e montano, sarà il valore aggiunto alla proposta turistica che il centro urbano potrà e dovrà offrire. Dal punto di vista sociale, la memoria storica degli anziani e degli studiosi verrà proposta come modello culturale. In

questo contesto, il turista parteciperà alla vita quotidiana del borgo, assisterà all’opera degli antichi artigiani impegnati nella produzione di oggetti tradizionali della Bovèsia: coperte di lana di pecora tessute al telaio e panari realizzati con il legno delle canne e dello stinco. Anche la tradizione enogastronomica potrebbe essere rivalutata e finalmente collocata in un contesto turistico e culturale.

IL TURISTA sarà certo attratto dal lavoro incessante delle massaie, e dalla produzione di conserve, pietanze e dolci della

nostra tradizione: dalla bontà dei fichi secchi sistemati con cura nelle gonocchie alla squisitezza dei caccioffuli di campagna, prima ripuliti dalle spine e poi sistemati nei vasi come conserva; o dalla magia di una caddara di carne di capra e dei maccarruni filati a mano. Viene da sé che ogni prodotto sia esso enogastronomico che artigianale potrà essere oggetto di un’economia sostenibile capace di ridare respiro alle casse di aziende produttrici. Si creerà così un indotto reale e continuo, discreto e positivo, dove ognuno potrà contribuire nei modi e nelle capacità

opportune. Un nuovo modo di offrire turismo, quindi, rivolgendosi principalmente a soggetti sensibili ed amanti di una vacanza culturale e sociale lontana da quel tipo di turismo indiscriminato di cui giornali e televisioni elogiano vizi e difetti. QUESTA RISCOPERTA delle tracce storiche considerate povere sarà il lavoro mediante il quale l’Area Grecanica troverà il modo di fare un profitto ecosostenibile e di tutelare e di conservare la sua storia e le sue tradizioni. Questa è la sfida…


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Ambienti e città

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Secoli di inondazioni

VIVERE IN PERENNE ALLERTA

“Uno sfasciume pendulo sul mare” (Giustino Fortunato)

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l territorio calabrese ha forti dislivelli (in vari punti si passa in pochi chilometri dal mare alla montagna) e geologicamente "giovane", per cui la sua conformazione è soggetta a modifiche naturali. La vulnerabilità della Calabria è storicamente nota e numerosi sono gli eventi di dissesto idrogeologico che hanno provocato vittime e danni elevati alla già debole economia regionale. Basta ricordare le disastrose alluvioni del 1951, del 197273, e i recenti fenomeni alluvionali che hanno interessato Crotone nel 1996 e Soverato nel 2000. (protezionecivilecalabria.it)

Calabria, una terra dal forte dissesto idrogeologico

NOI, TERZA

“Sicurezza e territorio” La ricerca portata avanti in questo volume affronta un tema cruciale, destinato a montare nell'interesse, e nella preoccupazione dell'opinione pubblica: la sicurezza del territorio. Un tema non sufficientemente all'attenzione e all'azione concreta della classe politica. Un'impostazione innovativa, quella proposta dell'autore, che mira ad un'azione di prevenzione e governo del territorio in maniera risolutiva, superando la continua emergenza. Prefazione di Enrico Costa.

ISOLA ITALIANA di Federico Curatola*

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iò a cui di anno in anno assistiamo, il disastro ambientale causato dalle abbondanti e persistenti piogge su tutto il territorio regionale, è un classico indubbiamente preannunciato. Ma affinchè da preannunciato si trasformi in pedagogico e lasci a questa terra oltre al fango, ai morti ed al disagio dell’isolamento, anche qualche insegnamento su come vanno prevenuti eventi di questa natura e su quale debba essere il ruolo della “pianificazione” in Calabria, occorre mettere finalmente a nudo le cause oggettive del disastro che risiedono essenzialmente nella errata gestione delle trasformazioni territoriali. Il problema infatti ha origine proprio laddove si scavalca il piano per andare in deroga, laddove prescrizioni a monte, e controlli, in itinere ed a valle, non vengono attuati o rispettati. Se a questo si aggiunge la “pericolosità di base” che il territorio ha come sua disgraziata dote ecco che basta qualche giorno di pioggia a sconvolgerne il precario assetto. Si è edificato per decenni e si edifica ancora oggi senza tener conto dei criteri imposti dalle leggi nazionali. Nessuno protesta contro il fatto che il 95% dei progetti in Calabria non è sottoposto a controllo. Una situazione paradossale se si pensa che il Piano per

l'Assetto Idrogeologico (che si è limitato però ad analizzare) ha evidenziato che il 68% dei Comuni calabresi ha almeno un'area R4, cioè di alto rischio dove c'è pericolo di perdita di vite umane. Tuttavia si continua a edificare, mentre i piani urbanistici rimangono essenzialmente chimere. Ma non è tutto. Da anni assistiamo impotenti all’impietoso dramma estivo degli incendi boschivi. Migliaia di ettari di superficie boscata vengono divorati dal fuoco scoprendo così il terreno e consegnandolo alle intemperie senza alcuna protezione. Eppure a fronte di ciò e di una grande potenziale manodo-

Area comunale R4 Il 68% dei Comuni ha almeno un'area R4 (di alto rischio dove c'è pericolo di perdita di vite umane) ma il 95% dei progetti non è sottoposto a controllo pera (circa 10.000 operai idraulico-forestali), nel corso di questi anni la Regione non ha mai promosso una forte campagna di rimboschimento che invece rappresenterebbe un’ottima difesa dagli smottamenti, dalle frane e dai dilavamenti. Edificazione selvaggia, disboscamento, mancata manutenzione... di chi è la colpa? Cosa fare ora? Bisogna pianificare ed "attuare" una grande opera di risanamento idrogeo-

ACQUA E FUOCO

i due elementi che stanno sgretolando la montagna. Nella foto sopra la strada che collega il Monte Perre a Sant’Agata del Bianco, in quella a sinistra la fiumara Laverde, nella foto sotto alberi devastati dagli incendi estivi (Pesdavoli di Roghudi)

I CENTRI MONTANI SPESSO SONO ISOLATI

In Calabria continua a mancare una politica della prevenzione, strade bloccate, muri crollati, frane, smottamenti, sono destinati ad essere una costante

logico, uscendo dalla continua “emergenza” per entrare in una nuova visione basata sulla “pianificazione consapevole” che indichi con estrema chiarezza che la prevenzione dei rischi è la migliore risposta agli eventi catastrofici ed assumendo la sicurezza territoriale come condizione necessaria per ogni altra attività che si voglia realizzare. Deve nascere una rete stabile tra tutti i soggetti coinvolti nella sicurezza del territorio.

Il rimboschimento Ottima difesa dagli smottamenti. Gli alberi e le piante trattengono con le loro radici le strutture del terreno e aiutano il defluire delle acque piovane L’obiettivo di questa integrazione è il "riordino del sistema della sicurezza territoriale” da realizzare mediante un Piano Strategico che regoli in modo organico i settori della difesa del suolo (assetto idraulico/fiumi, assetto idrogeologico/ frane e difesa della costa) in una ricomposizione unitaria finalizzata a creare un “sistema” funzionale per la sicurezza territoriale. Non c’è più tempo, bisogna agire rapidamente e con la consapevo-

lezza che polverizzando ancora ingenti risorse da destinare per affrontare l’emergenza, invece di spenderle e spendersi per cambiare radicalmente il modello culturale vigente, non si uscirà mai dalla logica che ha assunto ad alibi il fatto che in Calabria “esiste” il dissesto e bisogna quasi farsene una ragione. Se ciò non avverrà non potrà esserci vero progresso e vero sviluppo. Si parla del Ponte sullo Stretto, del Porto di Gioia Tauro, della centralità della Calabria nel “sistema Mediterraneo” ma la realtà è che sul nostro territorio un qualsiasi evento meteorologico, intenso ma anche di breve durata, di fatto, fa della Calabria la terza isola italiana. *urbanista, autore del libro Sicurezza e Territorio (nota sopra)


L’analisi

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Bovalino e la devozione del capitano genovese

IL CONVENTO

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La foto sotto (del 1931) è tratta dal libro di Rocco La Cava

di Santa Maria del Gesù

“Dell’antico Convento, rimangono i resti di una cisterna e vaghe tracce murarie: Attila, almeno, quelle le avrebbe lasciate” di Pino Macrì

Nella foto sopra e nella foto a destra il Convento di Bovalino Superiore (foto di Pino Macrì). Nella foto in alto a destra sempre il Convento in uno scatto del 1931, la foto è di Rocco La Cava, tratta dal libro “Bovalino, foto storia per immagini”

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rano appena spuntati gli albori del XVI secolo e già da tempo la ferace terra calabra era entrata nelle mire dei mercanti genovesi, che avevano intravisto possibilità di grossi affari nell’approvvigionamento a buon mercato della seta grezza. La Calabria, si sa, a quell’epoca era tutto un brulicare di nutricate: pressoché ovunque, in ogni podere, c’era almeno un albero di gelso bianco, delle cui fronde erano golosissimi i bachi che, amorevolmente allevati, trasformavano poi le foglie in bozzoli di pregiatissima seta. Più della metà dell’intera produzione nazionale di seta grezza proveniva a quell’epoca dalla Calabria. Col tempo, le cose sarebbero pesantemente cambiate “grazie” alla rapacità degli arrendatori (i grossisti di allora) ed alle assurde politiche governative, ma in quei primi anni del ‘500 la nostra terra era quasi una meta obbligata per gli epigoni delle antiche Repubbliche marinare, con i genovesi a far da pionieri.

Il bastimento genovese

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, da abilissimi navigatori qual erano, essi non si facevano certo scoraggiare dalla cronica carenza di approdi sicuri, specie sulla costa jonica (da Reggio a Taranto, sul mare esistevano solo Roccella e Crotone) né dal sempre crescente pericolo della pirateria turca. Ma il nostro mare, e proprio in questi ultimi giorni ne abbiamo avuto tremenda riprova, quando ci si mette non fa sconti a nessuno. Fu così che, narrano le antiche leggende raccontate dagli anziani nelle lunghe serate attorno al braciere, un bastimento genovese incappò in una terribile tempesta proprio nelle acque antistanti Bovalino: tanta fu la paura di colare a picco e perdere, oltre che il carico, anche la vita, che il capitano si industriò a promettere al Padreterno l’edificazione di un’opera a Sua gloria se fosse riuscito a passarla liscia. Così avvenne e, da uomo d’onore qual era, messo piede a terra alla marina, si avviò al paese appollaiato su quell’altura così ben distinguibile dalla spiaggia,

per manifestare al Magnifico di Bovalino l’intenzione di erigervi un luogo pio a “ricompensa” della grazia ricevuta. Al Magnifico (era Tommaso Marulla, messinese) non deve esser parso vero: c’era, infatti, guarda caso, proprio poco distante da Bovalino, quasi a metà strada dal casale di Benestare, un antico monastero, la Badia de’ Camocissi, le cui strutture erano in totale rovina, ma, potente com’era di una dote di terreni estesissima, necessitava proprio di risorgere, se non altro per amministrare adeguatamente tanta ricchezza. Fu così che domanda ed offerta trovarono immediatamente un punto di incontro, e si pose immediatamente mano ai lavori. Edificare in terra di Calabria, però, a quei tempi non era cosa facile, e le cose iniziarono subito ad andare per le lunghe, tanto che il capitano, che non poteva abbandonare del tutto i suoi affari per così lungo tempo, propose al Magnifico di lasciargli il denaro necessario affinché provvedesse lui a portare a compimento l’opera. Il che fu debitamente fatto, ma, alla fine, una lapide fu apposta per ricordare ai posteri che il luogo pio era stato eretto da “Don Tomasius Merula, comes Condojannis et eius uxor d.nna Dianora Staiti in anno1512”. Ovviamente non sapremo mai come andarono veramente i fatti, ma quel che interessa è che il luogo divenne il Convento di Santa Maria del Gesù, retto dai frati francescani Osservanti, prima, e dai Riformati, sempre francescani, poi. Anzi, narrano sempre le antiche “cronache del braciere”, che, quando i Riformati giunsero per prendere il posto degli Osservanti, non volendo questi abbandonare il cenobio, i conti furono regolati con una memorabile rissa a suon di reciproche legnate. Per le cronache “ufficiali”, invece, la storia del Convento ebbe modo di conoscere sia le alte vette dell’importanza religiosa e culturale che la miseria umana della ignominiosa fine. Le prime, ci sono illustrate dalle antiche cronache che narrano di un Beato, Francesco Matacarà (o Mazzacara), bovalinese, uomo piissimo e, addirittura, responsabile di vari miracoli (con tutte le riserve del caso per questi ul-

timi), ma, soprattutto di un valentissimo scultore (di cui magari parleremo in una prossima puntata), molte delle cui opere fanno tuttora bella mostra di sé anche a Napoli, Roma, Lecco e perfino in Svizzera: fra’ Diego Giurato, da Careri, cresciuto e consacratosi, appunto, fra le mura del cenobio bovalinese. Terminata, dopo la deleteria incursione piratesca del 1594, il periodo d’oro di Bovalino, anche il Convento cadde progressivamente in disgrazia e, gravemente danneggiato dal Grande Tremuoto del 1783, fu chiuso, e le sue terre, confiscate, finirono nel giro molto poco virtuoso della Cassa Sacra (altra edificante storia, prima o poi da raccontare...) e vendute. In verità, ci fu poi un tentativo di riportarlo in vita, ma a metà del XIX secolo, fu definitivamente abbandonato.

Monumenti da cancellare

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e imponenti, e cadenti, strutture rimasero ancora lì per oltre un secolo, preda di saccheggi (pare certo che vi fossero almeno due tele di buon valore e di considerevoli dimensioni, e chissà quante sculture in legno di Fra’ Diego), fino a quando, negli anni ’60, nel pieno di quel “boom economico” che tanti benefici portò, ma accompagnati da incommensurabili danni al “vecchiume senza valore” del patrimonio archeologico ed artistico, si decise che era giunta l’ora di cancellarlo anche dalla memoria collettiva. Per far posto ad una fabbrichetta. Ed ad un campetto di calcio “di cui tanto sentivano la necessità dei giovani del luogo, privi di qualsiasi struttura per lo sport ed il tempo libero”. Il campo di calcio non fu mai realizzato. La fabbrichetta, dopo alterne vicissitudini, non riuscì più nemmeno a galleggiare ed affondò miseramente, lasciando ai posteri l’inutile e orribile monumento, tanto simile ai barconi dei disperati che ornano qua e là le nostre marine. Dell’antico Convento, rimangono i resti di una cisterna e vaghe tracce murarie: Attila, almeno, quelle le avrebbe lasciate.


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Montagne

Speciale carnevale

SAN BIAGIO e l’abbaculu degli innamorati

Le Serre

«Nel giorno di san Biagio, il fidanzato donava all’amata un “abbaculu” decorato, con mandorle e confetti» di Mirko Tassone

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l ricco e variegato calendario liturgico serrese non sfugge febbraio. Il terzo giorno del secondo mese dell’anno, il mese del carnevale e della quaresima, nella cittadina della Certosa porta con sé le celebrazioni in onore di san Biagio. Una festa singolare quella in onore del vescovo di Sebaste (Armenia), così come singolare era il fatto che, fino a qualche anno addietro, il santo fosse il patrono del paese di san Bruno. Una singolarità sulla cui origine non v’è certezza. Mentre è acclarato il legame, di origine bizantina, tra la Calabria e ed il santo protettore della gola, assai incerto è, invece, quello con la cittadina delle Serre dove, il culto, potrebbe essere arrivato in maniera casuale e rocambolesca. Secondo, il resoconto, fatto per la “Platea”, nella prima metà dell’Ottocento, da don Domenico Pisani, «venendo qui al di loro travaglio degli uomini, e passando per le vie della Lacina, ove vi era una chiesetta diruta dedicata a S. Blasi, vi tolsero il quadro ivi inculto, che portarono nella di loro chiesetta, ove non sappiamo se dalla pubblica devozione, o d’altro fu dichiarato Protettore e Patrono». Il culto, arrivato lungo le tortuose strade della fede, deve essersi diffuso con una certa rapidità al punto tale che la chiesa Matrice è vocata, proprio, a san Biagio. Ciò che, invece, non nasconde misteri e la lunga tradizione, tutta serrese, sviluppatasi attorno alla festa del Santo. Alle manifestazioni liturgiche, caratterizzate da una processione molto partecipata che per tre volte faceva il periplo della chiesa Matrice, si associavano e si associa, tutt’ora, una gustosa tradizione dolciaria. Ieri, come oggi, infatti, uomini e donne, armati di cesti, si recano in chiesa per la benedizione dei biscotti dall’inconfondibile forma del pastorale, il tipico bastone usato dai vescovi durante le funzioni. Gli “abbaculi”, il nome con cui i serresi chiamano il tipico dolce, un tempo costituivano una sorta di suggello amoroso. La tradizione, infatti, imponeva che nel giorno dedicato a san Biagio, il fidanzato donasse alla fidanzata un “abbaculu” riccamente decorato, con mandorle e confetti. Una volta benedetto, il biscotto veniva spezzato in due, la parte diritta rimaneva alla rappresentante del gentil sesso, mentre quella ricurva veniva restituita al futuro sposo. Una sorta di san Valentino in salsa serrese, caratterizzato dal riferimento, neppure troppo velato, alla sessualità ed alla fecondità della coppia. Passati gli anni in cui la statua del Santo, durante la terza domenica d’agosto, veniva

condotto al calvario, i serresi, nella giornata del tre febbraio non si sottraggono alla benedizione della gola attraverso l’imposizione di due candele incrociate. Le due candele, rimandano al rito della Candelora, che, secondo Cattabiani, avrebbe mutuato dalla festa in onore della dea Februa, ovvero Giunone, l’abitudine dei pagani di percorrere le strade impugnando fiaccole accese, in segno di purificazione. Tutto cristiano, invece, il culto di San Biagio protettore della gola. Secondo la tradizione, infatti, mentre veniva condotto a Sebaste per essere processato e poi condannato a morte, durante una persecuzione del IV secolo, san Biagio avrebbe salvato da morte certa un bambino che stava soffocando a causa di una lisca che gli si era conficcata in gola. Un episodio dal quale sarebbe nata la tradizione che, ancora oggi, vede il sacerdote impartire la benedizione per mezzo delle due candele incrociate.

NICOL

di GIANNI FAVASULI

Depositario di un mondo spazzato via da una rovinosa alluvione, Nicola insegnava che bisogna sempre ritrovare in una celia, in una burla, la voglia di vivere...

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arnevale impazzava e, per le strade, gli scherzi, compresi anche quelli di pessimo gusto, si susseguivano a catena. Il vecchio e macilento asino di Vincenzo Altomonte fu legato al furgone d'Ignazio Futia e quando questi, ignaro, vi montò sopra e partì sgommando, la povera bestia che non aveva più neanche la forza di ragliare, dopo un'estenuante corsa, ansimando affannosamente, tirò le cuoia. Rocco Caminiti e Francesco Borghi, due grandi mattacchioni, d'intesa con Edoardo Serra, il postino, fecero recapitare a Giovanni Nisticò, l'aggiusta ossa famoso in paese per la sua patologica tirchieria, una lettera dove


Speciale carnevale

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Nelle foto a pagina 12: a sinistra in basso, San Biagio, a sinistra in alto i dolci tipici delle Serre, gli abbaculi. Nelle foto a pagine 12 e 13: momenti del carnevale sardo

*I VERSI DI TEBALDI Vidìti si ‘nc’è postu pe’ dormìri pe’ mmia, ‘u cavàgliu e lu cucchjéri; vidìti si ‘nc’è ‘Ntoni Favasuli, sinnò cu' mi portàu mi torna arredi. No ‘nci dicìti ca esti ‘u settùri, ca p’â Batìa si menti a fujîri comu gurpi ssicutàta d’î cani e ad Africu non lu viditi cchjùni! Non mi ti pari ca ‘ndaju pagùra! Di nenti si spàgnanu li massàri! Tu ‘ndai ‘a bucca chjîna di sarmùra ed eû li burgi chjîni di dinàri! ‘U sàcciu ca dinàri vu’ ‘ndavìti, siti riccu di vacchi e di crapi, ma ‘nta Micu Romeu spissu trasìti, tabaccu a la cridénza mî pigghjàti!

LA, L’ULTIMO AEDO si leggeva che il suo nome era stato estratto a sorte fra gli abbonati alla televisione. Per tanto, aveva vinto un milione di lire.

IL TACCAGNO abboccò come un pesce all'amo e dalla gioia non stava più nella pelle. Così, quando gli artefici della burla qualche sera dopo andarono a trovarlo - adducendo Rocco la scusa che una malconcia, dolorante caviglia gli faceva vedere i sorci verdi - lui se ne stava beatamente spaparacchiato davanti al caminetto. «Esimio signor compare - esordì Francesco Borghi – questa sera mi sembrate più vispo, più allegro del solito! A vedervi, uno giurerebbe che abbiate fatto, come minimo, un terno al lotto! Mi sbaglio? È una mia impressione?». «Non vi sbagliate affatto! Sono diventato milionario! Milionario! Cari miei, dovete sapere che giorni fa il postino mi ha consegnato una lettera della raitivù dove m'informano che ho vinto un milione di lire!

sione non l'avrei vista manco con il binocolo! Non l'avrei comprata manco se mi fucilavano! Credetemi, mai e poi mai avrei sperperato il denaro per acquistare quest'inutile apparecchio... questa diavoleria!» gli rispose raggiante Giovanni mentre s'apprestava a massaggiare, a torturare, la caviglia di Rocco. «Complimenti! Complimenti!» cinguettarono, all'unisono, i due mattacchioni. «Esimio signor compare siete stato baciato letteralmente in fronte dalla buona sorte! La fortuna, come ben sapete, dalle nostre parti passa ad ogni morte di Papa! Bisognerebbe, a questo punto, festeggiare alla grande questo lieto avvenimento, questo vostro gran colpo di... culo!» azzardò Francesco facendo l'occhiolino al socio che, sdraiato sopra un divano, si contorceva come un'anguilla per il dolore che il vigoroso massaggio gli procurava e malediceva il momento in cui gli era balenata l'infelice idea, l'infelice trovata.

E PENSARE che se non fosse stato per mia moglie, per le sue continue insistenze, io la televi-

POI, CON UNA SMORFIA di dolore, mellifluo, ammonì Francesco: «Bello mio, per tua norma

e regola, tieni ben presente che don Giovannino Nisticò, sia nella buona che nella cattiva sorte, è stato e sempre sarà uno scialone! Un galantuomo! Uno che, cadesse il mondo, in qualsiasi situazione non si tira mai indietro!». Al che, l'aggiusta ossa, anche per avvalorare quella tesi, quei complimenti che lo riempivano d'orgoglio, dopo avere spalmato sulla caviglia tutta rossa, già gonfia e dolorante, questa volta, per davvero, una strana, nauseante mistura, si precipitò in cucina. Quando fece ritorno, in una mano reggeva un capiente fiasco di vino e nell'altra due lunghe ed invitanti salsicce. Era fatta! Per la prima volta, a memoria d'uomo, don Giovannino Nisticò, l'esimio signor compare, era stato magistralmente gabbato!

IL PAESE, quindi, in quei giorni dismise il vecchio e sdrucito abito della noia e scese in strada con un abbigliamento più variopinto, più consono allo spirito della festa. Nicola Tebaldi, con la faccia nera di carbone, l'ultimo aedo, l'unico sopravvissuto di una folta schiera di analfabeti poeti vernacolari -

che lì al vecchio paese, ormai irrimediabilmente perduto e lontano, sepolto dalle frane sui selvaggi versanti dell'Aspromonte, nei giorni di carnevale, nella piazza antistante la chiesa con dei campanacci appesi al collo, vestiti con velli di pecora e con pantaloni di lana grezza, d'orbace; con le calandrelle ai piedi, con le loro farse, con la loro garbata, pungente, feroce ironia, prendendo in giro i notabili, i decurioni, facevano ridere a crepapelle la gente che tra mille difficoltà e privazioni tirava a campare.

NICOLA TEBALDI, spavaldo e malandrino Carnilevari dei tempi che furono, sempre pronto a fregare ricchi massari e non sprovveduti locanderi, recitava ancora, gesticolando in modo vivace ed eccessivo, con i lucciconi agli occhi, in ogni bettola ed in ogni via, tra i lazzi dei monelli, i versi mai scritti di quei certami, di quei cimenti di cui lui solo, ormai, aveva memoria*(v.sopra). Nicola Tebaldi, l'ultimo scampolo d'anima di un popolo ormai alla deriva, raccontava ancora quando la notte del martedì

grasso, dopo giorni di sciali e di baldoria, Carnilevàri, ormai moribondo, al lume della teda, adagiato sopra una lettiga approntata alla men peggio con delle assi di legno, veniva portato in processione per le anguste vie del paese, accompagnato dagli schiamazzi dei ragazzi e dal pianto a dirotto d'improvvisate, improbabili prefiche che si battevano il petto e si scarmigliavano i capelli per l'imminente e prematura dipartita di chi aveva portato la festa, una ventata di gioia. Nicola Tebaldi, l'ultimo depositario di un mondo spazzato via da una rovinosa alluvione, insegnava che oggi come allora, bisogna sapersi districare con abilità nel ginepraio della vita; insegnava che bisogna sapere cogliere al volo l'attimo propizio per gabbare, minchionare il prossimo; insegnava che bisogna mettere una maschera al banale e all'abitudinario e vestire in modo bizzarro i giorni che, come la teda, si consumano lenti, senza sussulti. Nicola Tebaldi, analfabeta, insegnava che bisogna sempre ritrovare in una celia, in una burla, la voglia di vivere.


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Tra i boschi d’Aspromonte

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Sport in montagna, boschi e torrenti sono una palestra a cielo aperto adatta a tutte le stagioni

SFIDARE IL GIGANTE

Gli amanti di piccozze e scarponi, se esperti, possono vivere la magia dell’arrampicata

Nella foto sopra una scena di rafting sul fiume Lao (foto di Antonella Italiano). Nella foto a destra la famosa seggiovia di Gambarie (foto di Enzo Penna)

Nordik Walking, bob, canoa, pesca, canyoning, rafting, trekking, golf, mountain bike sono solo alcune delle attività che offre l’alta quota di Federico Falsetto

L

a montagna, sia d'inverno che d’estate, offre scenari di bellezza unici al mondo e oltre ad essere un’oasi di relax, è anche il luogo ideale per gli appassionati di sport e attività all'aria aperta. Durante la stagione invernale sciare non rappresenta l’unico divertimento. È possibile, infatti, cimentarsi in molte altre discipline sportive. Il “Nordic Walking”, la camminata con i bastoncini, nata in Finlandia, praticabile anche d’estate, sta coinvolgendo sempre più appassionati che, con essa, possono migliorare le performances anche della parte superiore del corpo. I numerosi sentieri di montagna, immersi in panorami mozzafiato, tra vette imponenti e immense vallate, rendono questo sport ancora più interessante. Numerosi e spesso molto lunghi, sono i percorsi per “bob” e “slittini” che offrono emozioni uniche a grandi e piccoli. Piste da pattinaggio

sono presenti in moltissime località, mentre gli amanti di piccozze e scarponi, se esperti, possono vivere la magia e il rischio delle arrampicate considerate uno sport estremo. Se si ama “surfare” anche quando non ci sono le onde dell’oceano, una

buona alternativa è lo snowboard praticabile in tutte i luoghi di montagna. Laghetti romantici con acqua limpida, circondati da altipiani verdeggianti e paesaggi fiabeschi, permettono di praticare sport in un’atmosfera magica:

anche questo vuol dire estate in montagna. Trekking, escursioni, tour in mountain bike, equitazione, golf, arrampicata o semplici ma rigeneranti passeggiate nel verde, sono solo alcune discipline “offerte” dai siti montani. Appassionati e sportivi esperti possono cimentarsi nell’alpinismo. I torrenti che corrono impetuosi a valle e le acque tranquille dei laghi, sono il luogo ideale per praticare sia sport avventurosi come il “canyoning” e il “rafting”, sia sport più tranquilli e rilassanti come la canoa e la pesca. Arrampicarsi sulla nuda roccia è la sfida che la montagna lancia a chi vuole esercitare il fisico e la mente e cerca sempre nuove difficoltà con le quali confrontarsi. La montagna, quindi, oltre ad essere luogo contraddistinto da maestosità e bellezza, rappresenta anche un’ottima palestra a cielo aperto che ci permette di rendere indimenticabili le nostre giornate, mantenendo in forma il nostro corpo a contatto con la natura.

di ROCCO MOLLACE

MAIALE SELVATICO, IL NECROFAGO DEI BOSCHI

L’

Nella foto maialini alla stato brado. Africo Antica, Aspromonte orientale (foto di Leo Moio)

addomesticazione dei suini selvatici ha comportato negli animali alcune modificazioni, sia scheletriche che morfologiche. Con il passare del tempo, infatti, l’animale selvatico cambia radicalmente le sue abitudini, sia sotto il profilo alimentare che sociale (comportamento, performances riproduttive, dimensione e forma del corpo, colorazione della pelle), instaurando con l’uomo un legame socio-affettivo. L’uomo intuisce che incrociando animali con specifiche caratteristiche riesce ad ottenere più carne. Inizia così l’era della suinicoltura intensiva, con animali geneticamente perfetti. I suini sono i cugini stretti dei cinghiali occidentali, comprendente le sottospecie ufficiali algira, attila, lybicus, majori, meridionalis, nigripes e scrofa e quelle ufficiose baeticus e castilianus, oltre alla sottospecie estinta sennaarensis. Questa nuova classificazione è tuttavia lungi dal chiarire le idee, in quanto si hanno differenze anche a livello cromosomico fra le varie razze: parrebbe infatti che i cinghiali di razza occidentale (fra i quali sono compresi quelli diffusi in Europa, ad eccezione del cinghiale sardo) posseggano 36 cromosomi, mentre i cinghiali delle altre razze ne possiedono 38. Gli esemplari con 36 e 38 cromosomi possono tuttavia accoppiarsi fra loro senza problemi, dando prole fertile con 37 cromosomi. Studiando la sequenza del genoma nel cinghiale si può affermare che le popo-

lazioni europee persero molta diversità genetica circa 20.000 anni fa, probabilmente come conseguenza del raffreddamento globale durante l’ultima era glaciale. Dei dati in nostro possesso sul cinghiale presente sul massiccio aspromontano si può affermare che esistono due ceppi: europei e autoctoni, ancora per fortuna in purezza con entrambi i numeri dei cromosomi (37-38). Questo patrimonio genetico spiega gli incroci con i maiali presenti sul territorio. Dall’incrocio tra cinghiale e maiale si ha un ibrido che possiede caratteristiche di entrambi i genitori. Cinghiale e maiale hanno fisiologia diversa (con l’addomesticazione il suino perde parte del suo essere selvatico); basti pensare che la gestazione nella scrofa di suino dura in media tre mesi tre settimane tre giorni (114 giorni), mentre nella scrofa di cinghiale dura dai 110 ai 140 giorni. L’abituale periodo di calore nella scrofa di cinghiale si colloca in novembre/dicembre, mentre nella scrofa di maiale per le diverse abitudini alimentari i calori avvengono ogni 21 giorni. Il numero dei nati nel cinghiale è proporzionale alle cinque paia di mammelle disponibili, nel suino i nati per parto sono superiori e arrivano anche a 15/16 per parto. Lo spiccato nomadismo aumenta le occasioni di incontro con gli agenti nocivi e porta il cinghiale ad aggirarsi anche in luoghi frequentati dall’uomo, questo accresce le possibilità di infezioni tra il cinghiale e gli animali domestici.


Tra i boschi d’Aspromonte

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Per quanti km volano gli uccelli migratori?

F

ino a non molto tempo fa gli ornitologi credevano che gli uccelli rimanessero senza energie dopo aver volato ininterrottamente per 5000 chilometri. Ma nel 2009 una squadra internazionale di ricercatori ha riferito che una femmina di pittima minore, seguita via satellite, aveva volato direttamente dall’Alaska alla Nuova Zelanda, percorrendo gli 11680 chilometri di distanza in 8 giorni. Secondo Anders Hedenstrom dell’Università di Lund, in Svezia, la pittima vola in modo efficientissimo, consumando meno di 1/200 della massa corporea per ore di volo, la metà di molti altri uccelli acquatici. Anche le ali e la forma del corpo sono ottimizzati per voli lunghi. Ma come fanno a non perdersi?

Se hai domande da rivolgere ai nostri esperti scrivici su

info@inaspromonte.it

loSapeviChe

La ghiandaia, di sentinella tra i boschi

UN MILITARE PERFETTO

QUESTO CORVIDE, GRANDE STRATEGA, E’ CAPACE DI “FARE IL VERSO” A TUTTI, PERSINO ALL’UOMO

di Leo Criaco

S

ulla terra si conoscono circa 10 mila specie di uccelli. Si sono sviluppati dai rettili più di 100 milioni di anni fa: è per questo motivo che hanno molti caratteri in comune (es. per riprodursi entrambi depongono le uova con guscio). Gli uccelli popolano tutti i cinque continenti del nostro pianeta e occupano tutti gli ambienti presenti nelle regioni più remote (deserti, foreste tropicali, ghiacciai ecc.) e in quelle abitate. Sono provvisti di due paia di arti, quelli anteriori, trasformati in ali, servono per il volo, quelli posteriori, utilizzati per camminare, nuotare e aggrapparsi sui tronchi e i rami degli alberi. Alcune specie di uccelli, nel tempo, hanno perso le capacità di volo, tra queste

ricordiamo gli “uccelli corridori” (struzzi, casuari, kiwi, mandù e emù) e i pinguini (abili nuotatori). Gli uccelli si distinguono in stanziali e migratori. I primi vengono chiamati così perché nascono, vivono e si riproducono in uno stesso luogo, senza spostarsi da una regione all’altra o da un continente all’altro, come fanno gli uccelli migratori. NEI NOSTRI TERRITORI, grazie all’esistenza di habitat (ambienti) adatti (ancora per quanto tempo?), ogni anno, sostano milioni di uccelli migratori (tordi, fringuelli, stormi, rondini, quaglie, tortore, allodole, ana-

tre ecc.). Le specie stanziali che popolano l’Aspromonte per fortuna sono ancora molto numerose, tra queste ricordiamo il gufo comune, la civetta, il picchio, la gazza, il corvo, la pernice, e la ghiandaia. Quest’ultima è presente su tutto il territorio del nostro massiccio montano fino alle sommità più alte, predilige però le campagne e i boschi di media e bassa collina. La ghiandaia (garrulus glandarius) appartiene alla classe degli uccelli, all’ordine dei passeriformi e alla famiglia dei corvidi (fanno parte di questa famiglia la gazza, il corvo, la cornacchia ecc.). LA GHIANDAIA (nome locale: pica) ha la testa grossa e un piumaggio soffice e variopinto. La coda lunga e larga è di colore nero, le ali presentano una macchia bianca centrale con le penne barrate di blu e nero. Ai lati del becco, sotto gli occhi, ha due mustacchi neri. Quando è irritata o spaventata sul capo e sulla fronte si rizzano le piume formando un caratteristico e grazioso ciuffetto. La pica è lunga circa 35 cm con una apertura alare di 55 cm, e pesa 150-200 grammi. È un uccello chiassoso, intelligente e irrequieto, sempre in movimento tra i rami degli alberi. Quando i serpenti o altri animali tentano

di depredare la sua covata, la ghiandaia cerca di difenderla lasciando cadere piccole pietre e rametti addosso agli aggressori per farli allontanare. Da adulta conduce vita solitaria; è considerata la sentinella dei boschi, poiché segnala, aglòi altri animali con alte grida, qualsiasi presenza di intrusi. EMETTE OLTRE al suo verso, tipico dei corvidi, altri suoni e riesce a imitare i versi di altri uccelli(rapaci notturni e diurni) o di altri animali (gatto). Come tutti i corvidi, si addomestica facilmente ed impara, in poco tempo, a ripetere suoni e parole. Si nutre di frutti (mele, pere, pesche, susine, ciliegie ecc.) e soprattutto di ghiande (per questo motivo è così chiamata), arricchisce la sua dieta, anche, con grossi insetti, lumache, uova, uccellini, arvicole, lucertole e piccoli serpenti. La ghiandaia ha l’abitudine di nascondere le ghiande sottoterra utilizzandole in caso di bisogno. Molto spesso non riesce a dissotterrare tutte le ghiande che ha nascosto, consentendo così la diffusione delle querce in luoghi distanti dai querceti, per questo motivo è molto utile alla natura e quindi all’uomo. PECCATO CHE, ogni anno, nonostante sia in forte diminuzione, venga inserita nel calendario venatorio. I nemici più temibili della “pica” sono i rapaci notturni e diurni, il gatto selvatico, i serpenti e i cacciatori.

Le chiocciole nascono con la conchiglia, ma all’inizio questa è trasparente e morbida. Per indurirla le chiocciole, appena nate, mangiano il guscio del proprio uovo e ne assorbono il calcio. Alcune cannibalizzano anche i gusci delle uova non schiuse. Nel corso dei tre mesi successivi la conchiglia diviene più spessa e acquisisce la tipica colorazione.

laDomanda

Perché le mucche guardano tutte nella stessa direzione? Le mucche sono animali gregari e si tengono vicine per ridurre la minaccia di un predatore. In generale, ha senso pascolare rivolte tutte nella stessa direzione, così la mandria si mantiene unita. Ciò diminuisce, inoltre, i conflitti all’interno del gruppo perché evita i confronti diretti.

laCuriosità

Le ossa degli animali sono costituite da una matrice fibrosa di fibre di collagene impregnate di fosfato di calcio. In ambienti caldi e umidi batteri e funghi attaccano il collagene, una proteina, e lo scheletro si disgrega nel corso di pochi anni. Il fosfato di calcio non viene attaccato dai microrganismi ma reagisce rapidamente agli acidi.


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Approfondimento

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Servizio tratto dal sito lagrandegioiosa.it, a cura di Tiziano Rossi (info e foto)

A GARA C’U ROJU

U

roju consisteva in un cerchione di bicicletta che veniva spinto a colpi di mazzuola lungo le vie del paese. Un gruppo di ragazzi, partendo da un certo rione, doveva tagliare un traguardo generalmente situato in altro rione. Vinceva chi arrivava per primo.

U SCHJAFFU

U SPACCAMATTUNI

stratto a sorte un penitente, questo si disponeva in una posizione particolare per ricevere lo schiaffo, cercando di indovinare da quale mano la pacca era partita. Se indovinava (caso improbabile perchè si tendeva a barare) il "picchiatore" prendeva il posto del penitente.

l gioco si svolgeva tra due concorrenti, ciascuno dei quali lanciava in aria la propria moneta cercando di farla cadere il più vicino possibile alla giuntura tra due mattoni adiacenti (del pavimento). Il giocatore che si avvicinava di più al bersaglio vinceva la moneta. (foto ilnoceto.eu)

E

GIOCHI

e

I

GIOCATTOLI

I QUARANTA DIAVOLI NAPOLETANI REGOLE E RISSE

S

i Si tratta del passatempo più praticato e, forse, più amato dai calabresi. Non a caso "briscola", "scopa" e "tressette" hanno divertito e, sicuramente, continueranno a divertire intere generazioni di giovani e anziani. Gente che di buon mattino s'insedia nei bar e, tra una mano e l'altra, ragiona, medita, riflette, discute, litiga e non sono sporadici i casi in cui fa pure a botte. Fino a qualche anno fa il gioco più praticato era quello del patruni e ssutta (o "gioco della legge"): tra i sei giocatori che prendevano parte al singolare divertimento, veniva stabilito chi doveva essere il "padrone" (o conduttore del gioco) e chi il "sotto" (sotto-padrone o servo). La posta in palio, generalmente costituita da una dozzina di birre, doveva essere distribuita tra i vari partecipanti al gioco, seguendo un rigido protocollo di regole, talmente irritanti, che molto spesso sfociavano in veri e propri rancori. Questo perché, il più delle volte, il "padrone" e il "sotto" si accordavano (in precedenza e all'insaputa degli altri) circa la persona che bisognava ubriacare o quella che bisognava lasciare all'urmu (così era detto il giocatore che si alzava dal "tavolo" senza avere assaggiato neppure un goccino di birra). Si capirà bene come, questo modo di divertirsi, molto spesso, dava

Carte, vino e bottega. I passatempi dei nostri nonni

CENTUVINTI E TRISSETTI

luogo a risse. È inutile soffermarsi sulle regole e sulle modalità dei vari giochi a carte che, come si sa, in linea di massima sono simili e non differiscono di molto da un paese all'altro. Ci riesce gradito, in questa sede, mettere, invece, in risalto alcuni aspetti peculiari del gioco della "briscola" ('u centuvinti), delle sue regole e del quanto mai caratteristico e nutrito glossario usato dai calabresi durante lo svolgimento del gioco. Cominciamo col dire che, le dieci briscole contenute nelle carte (napoletane), si dividono in due categorie: brìsculi vestuti (briscole grosse) e brìsculi spogghjati (briscole piccole), a ciascuna delle quali è associata una 'nzinga (segno particolare generalmente fatto con un movimento del viso, delle labbra, degli occhi, ecc.). Ve le riportiamo così come le abbiamo viste fare e, forse (a furia di vederle), anche imparate. SEGNI PER LE BRISCOLE Asso: si arriccia il naso. Tre: si strizza l'occhio. Re: si gonfiano ambedue le gote. Cavallo: si gonfia una sola gota. Donna: si mostra la punta della lingua (chiaro riferimento alla lingua delle donne che parlano troppo). Le briscole piccole sono tutte le altre (due, quattro, cinque, sei e

sette). Per chiarire meglio le idee, entriamo in un bar e avviciniamoci a un tavolo da gioco per seguire una divertentissima briscola a quattro. Prima che "la partita" si inizi, i due compagni stabiliscono una carta convenzionale cui fare riferimento durante il gioco. Se, ad esempio, si sceglie come carta di riferimento il "quattro" e un giocatore in mano ha il "sei" di briscola, si dice che egli è "sopra di due" rispetto alla "carta d'intesa". In tal caso tra i due potrebbe intercorrere il seguente dialogo: «Aundi si'?» «'Nchjanu ddu'» («Dove sei rispetto al segno?» «Sono sopra di due»). I calabresi in questo tipo di attività si sono rivelati dei veri e propri maestri e ne sanno sempre una più del diavolo.

CONO DI LEGNO E SPAGO

ECCO U PIROCI

Veniva disegnato un cerchio per terra e i ragazzi, a turno, lanciavano 'u piroci dalla distanza di tre o quattro metri, cercando di colpire la trottola dell’avversario, che, in tal caso, smetteva di roteare perché messa fuori combattimento. Non erano rari i casi in cui, i giocatori più abili, allargando le dita della mano, riuscivano a prendere la trottola da terra (senza interrompere la sua rotazione) per farla roteare nel palmo della propria mano e poi liberarla di peso sulla trottola dell'avversario, che ancora stentava a roteare.

Le frasi tipiche della briscola in quattro - 'Ndaj'u ddu' (Ho una briscola piccola) - Scindu unu (Sono giù di uno: il tre) - T'ha guard'a manu? (Ce l'hai una briscoletta?) - Sugnu jà (Sono al segno: il quattro)
 - Sugnu sulu (In mano ho solo una briscola o niente del tutto) - Mi rimovu (Ho un'altra briscoletta) - U 'nda' un'i undici? (Hai un carico da undici?) - 'Nd'haju 'na piccirija (Ho una briscola piccola)

- Pass'a piccirìja (Gioca la briscola piccola) - A 'mmazzi? (La superi la briscola dell'avversario?) - Fatt'i fatti to'! (Non mettere nè briscole nè punti)
 - 'Nda 'u so'? (Hai il carico dello stesso seme giocato dall'avversario?) - Va' lisciu petra! (Gioca una carta che non sia né carico nè briscola nè punti)


Cinema d’Aspromonte

Musolino e l’America di GIOVANNI SCARFO’

T

ra il ‘49 e il ‘54, la Calabria è un pullulare di set cinematografici: Patto col diavolo, Il lupo della Sila, Terra senza tempo, Carne inquieta, Il sentiero dell’odio, Il brigante Musolino, Il brigante di Tacca del lupo, Il Tenente Giorgio, Tempo d’amarsi. Qualche altro film progettato, come quello di Giuseppe De Santis sui “fatti di Melissa”, non è stato realizzato per “motivazioni politiche”. Sulla scia del grande successo europeo de Il lupo della Sila di Duilio Coletti e della strada aperta dal successo del film Il bandito (‘46) di Alberto Lattuada, che proponeva - “all’italiana” - la figura dell’outlaw “all’americana”, la Lux di Gualino pensa di ripetere l’exploit con un film sulla storia vera de Il brigante Musolino (‘50) riproponendo, per la regia di Mario Camerini, lo stesso cast: gli attori Amedeo Nazzari e Silvana Mangano; gli sceneggiatori Steno, Monicelli, Talarico; il direttore delle fotografia Aldo Tonti e, per le musiche, Enzo Masetti.

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O T A R U S N E C THE ITALIAN BANDIT

A WASHINGTON

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La strage di Melissa

Il 29 ottobre del ‘49 i contadini di Melissa (KR), guidati dal missino Francesco Nigro, occuparono delle terre incolte in contrada Fragalà. I militi fecero fuoco sui manifestanti, uccidendo Nigro, di 29 anni, e Giovanni Zito, di 19 anni, oltre a 14 feriti tra i quali due donne. Una di queste, Angelina Mauro, di 23 anni, morirà per le ferite riportate. I funerali si tennero il 2 novembre a Catanzaro, partecipati da oltre diecimila braccianti.

La protesta

IL BRIGANTE NON APPREZZA IL FILM

Musolino non si riconosce nella vicenda raccontata nel film e, per tale motivo, affida la difesa della sua vera storia agli avvocati. A questo proposito lo stesso Camerini, in una intervista ad Epoca, dichiara: «Musolino forse ha torto perché ha venduto la sua storia al cinema. Ma da un punto di vista umano ha ragione, perché il film non corrisponde alla sua realtà». I livelli di ambiguità, purtroppo, sono alti e denotano la volontà di catturare, ad ogni costo, il consenso del pubblico popolare.

La storia di Musolino poteva “far luce” su fatti di ordine politico-giudiziario e di costume che, ancora oggi, fanno da sfondo a molte vicende calabresi

pericolo che incombe sulla diligenza (L’America). Al contrario, con In nome della legge (1948) Germi sembra riconoscere alla mafia uno “status” IL BRIGANTE MUSOLINO sociale per un patto di non agsegna una svolta nella filmogra- gressione con lo Stato: mentre fia del regista, che si era contrad- Camerini sembra adattarsi alle indicazioni politiche del periodo. distinto per lo Sotto queste stile dimesso, “direttive”, crepuscolare, «In quegli anni la attento alle politica raccomanda alla affrontare tepiccole cose cinematografia italiana m a t i c h e come quelle della vita quotidiana in una adeguata scelta dei sul briganforma antie- soggetti al fine di non taggio “politico” pre e roica, ma non rendere un cattivo post unitario superficiali; servizio all’Italia» o “individuaanzi, in certi listico” alla casi, rivelatori del vero costume dell’epoca. Musolino, significa, in quegli I padri putativi di un film come Il anni, fare di tutto affinché la “vibrigante Musolino vanno ricer- sione” del personaggio del macati nel western, in una variante fioso o del brigante non che Ennio Flaiano ha definito oltrepassi i confini della politica, southern. Prima di Camerini già mantenendolo, nello stesso Pietro Germi non fa mistero dei tempo, in assonanza con il sentisuoi modelli western, un “mito” mento melodrammatico poporiconosciuto da tutti gli ameri- lare. cani. Perché quando il Mito è in pericolo, assalito dagli indiani - È DIFFICILE PENSARE, vedi Ombre Rosse (‘39) di J. negli anni ‘50, alla possibilità di Ford - tutti i personaggi, pur di- “proiettare” personaggi che rapvisi dai giudizi sulla guerra di se- presentino l’altra faccia della mecessione, ritrovano l’entusiasmo daglia di una determinata realtà di combattere insieme contro il politico-sociale. Del resto, il neo-

Nella foto in alto il manifesto che ricorda la strage di Melissa, nella foto sopra i cittadini di Washington nel 1930

realismo “prima maniera” stava perdendo l’appoggio del pubblico e le motivazioni “impegnate” degli autori, peraltro molto diverse tra di loro. Infatti l’avvenimento storico è ridotto a semplice pretesto per imbastire una vicenda romanzesca, dalla quale è bandita ogni seria ricerca dei fatti, per – almeno tentare di rappresentare le cause storiche, psicologiche e sociali che tali fatti avevano causato. Un fatto comunque è certo: la vicenda Musolino, con tutti i suoi risvolti, si poteva prestare a “far luce” su vicende di ordine politico-giudiziario e di costume che, ancora oggi, fanno da sfondo a

molte vicende calabresi. Ma la connotazione southern dà tutto per scontato, anche attraverso dialoghi tagliati con l’accetta. IN DEFINITIVA MUSOLINO e Onorata Società sembrano “entità” sospese nel tempo e nello spazio di “sentimenti immutabili nel mutare dei secoli e dei luoghi”, come scrive Luigi Chiarini a proposto del suo film Patto col diavolo, e come tali da accettati come inevitabili. Bisogna dare atto a Camerini che, se da una parte ha sfiorato il bozzettismo, dall’altra ha impreziosito il film con una sequenza di alta densità drammatica, in particolar modo

la sequenza della processione, durante la quale si consuma la prima vendetta di Musolino: un omicidio scandito a ritmo di preghiere e canti religiosi, con molte inquadrature alternate dei due protagonisti, che sembra precedere soluzioni che avremmo ammirato in Sergio Leone (assistente alla regia) e nella sequenza della cerimonia del battesimo & delitti del Padrino. Il film è stato distribuito anche negli Stati Uniti nel 1955, come già il film di Elvira Notari, di cui abbiamo scritto: “Le geste del Brigante Musolino” the famous italian bandit. Prima proiezione: Washington, 20 agosto 1931.


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La nostra storia

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La “storia tradita” del Convento di Contrada Crocefisso di Bianco. Aspromonte orientale

“Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l’ebulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso? Tutti, tutti, dormono sulla collina…”

Il cimitero scomparso

«Il Convento risale al 1622 e già dal 1678 era rinomato per le due “Fiere della Croce” che si svolgevano a maggio. Da qui passarono i viaggiatori del ‘700 e dell’800, che trovarono ospitalità e si rinfrescarono nel suo pozzo (vedi E. Lear)» SERVIZIO E FOTO DI

Domenico Stranieri

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EDWARD LEAR in Diario di un viaggio a piedi (Ed. Rubbettino), descrive il suo arrivo al Convento

«

Infine eccoci arrivati alla porta del monastero. Oh speranza fallace! Tutti i monaci dormivano tranquillamente; così potemmo penetrare solo da un cortile, dove, infatti, c'era un pozzo di acqua pura, e un secchio di ferro incatenato ad esso, che né Proby né io dimenticheremo mai [...]. Quando i monaci si sono alzati, noi, che non avevamo provviste, siamo rimasti sbigottiti davanti alle poche croste di pane che, scusandosi, ci offrivano mentre il superiore soggiungeva che erano senza provviste; così ci siamo allontanati.siamo saliti fra vigneti e boschi per un'altra ora di cammino, fino al villaggio, che ardentemente speravamo fosse Sant'Agata!».

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l’ebulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso? Tutti, tutti, dormono sulla collina…”. Inizia così l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, un libro di poesia pubblicato in America nel 1915. In Italia l’opera arrivò solo nel 1943 grazie alla traduzione di Fernanda Pivano che ricorda come da ragazzina chiese a Cesare Pavese, suo insegnante, la differenza tra la letteratura americana e quella inglese ed egli le regalò quattro volumi tra i quali c’era pure l’Antologia di Spoon River. Il libro (che ispirò a Fabrizio De Andrè brani come La collina, Il suonatore Jones e tutto l’album Non al denaro non all'amore né al cielo) è ordinato per epitaffi che narrano la storia di ciascun abitante di Spoon River sepolto nel leggendario cimitero. Eppure anche l’Aspromonte ha la sua collina e la sua Spoon River con “la consapevolezza austera e fraterna del dolore di tutti, della vanità di tutti”. Solo che nessuno più la ricorda. In contrada Crocefisso, difatti, nel comune di Bianco, un vecchio cimitero ab-

bandonato, contiguo ai ruderi del Convento di S. Maria della Vittoria, è interamente scomparso, coperto dalla vegetazione circostante. Il Convento risale al 1622 e già dal 1678 era rinomato per le due “Fiere della Croce”

suo confessore questo monaco calabrese rimane un mistero. Successivamente anche il Convento di Contrada Crocefisso subì le violenze dei soldati piemontesi che, arrivati qui per unificare l’Italia, lo incendiarono e

anche l’Aspromonte ha la sua collina e la sua Spoon River, solo che nessuno più la ricorda. In contrada Crocefisso, nel comune di Bianco, un vecchio cimitero è interamente scomparso, coperto dalla vegetazione che si svolgevano a maggio. Da qui passarono i viaggiatori del ‘700 e dell’800, che trovarono ospitalità e si rinfrescarono nel suo pozzo (vedi E. Lear). Sempre in questo luogo partivano ed arrivavano le lettere fra Padre Bonaventura e Maria Cristina di Savoia, regina delle Due Sicilie, la quale, prima di sposare Ferdinando II, aveva scelto di farsi monaca. Maria Cristina fu sempre considerata una “Regina Santa” ed il 25 gennaio del 2014, a Napoli, è stata proclamata beata. Perché predilesse come

fucilarono i religiosi. Il “cimitero scomparso”, invece, con le sue storie, i suoi personaggi e le sue lapidi fu costruito agli inizi del ‘900 per i paesi di Sant’Agata, Caraffa e Casignana ed iniziò ad espandersi quando le fosse comuni, ove venivano seppelliti quasi tutti (eccetto i nobili), erano oramai sature. Addentrandosi a fatica tra i rovi si riesce ancora a leggere l’epigrafe di un sepolcro ove riposa un ventenne di Sant’Agata del Bianco “assassinato inopinatamente”, il 25 agosto del 1931,

dalla sua fidanzata. Un caso unico per i paesi della Vallata Laverde. Oppure si possono scorgere i nomi e le date incise sulla pietra resa nera dall’umidità. E chissà dove si trovano i resti del monaco Giuseppe Lucà, detto “u Jancu” (per il colore chiaro della sua pelle), che si innamorò di una ragazza del luogo e la sera, nel Convento, le offriva un’accoglienza non proprio religiosa. Oltre a ciò, si narra che il monaco, considerato una sorta di stregone, dopo la morte e poco prima di essere seppellito si svegliò. Così un prete di Bianco, per non consentirgli di “resuscitare”, lo colpì con una grossa croce di legno. Tuttavia, adesso, il cimitero quasi non esiste. Si intuisce appena un cipresso che si erge solitario sopra un muretto di pietra. Tutto il resto giace sotto l’ombra, sospesa nel tempo, delle piante e degli arbusti. Eppure se questa collina non si trovasse in Aspromonte forse un Edgar Lee Masters ci avrebbe persino scritto un libro. Invece, alle persone interrate nel cimitero, ed ai loro nomi, pure l’altra vita gli ha reso soltanto il loro destino di affanno e miseria.


La nostra storia

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Nella foto grande i ruderi del Convento di Santa Maria della Vittoria, in contrada Crocefisso, Bianco (RC), foto di Domenico Stranieri. Sotto un’immagine del film Il Codice Da Vinci, a scopo illustrativo. A sinistra la copertina del libro La mia Calabria di Francesco Misitano, da cui è tratto l’articolo U monacu jancu

La storia sul monaco “bianco” di Francesco Misitano è stata pubblicata sulla rivista Calabria Sconosciuta (1994) e adesso riproposta nel libro La mia Calabria (ed. Marna)

I

l monaco Jancu era da poco arrivato al Convento del Crocefisso che s’invaghì d’una ragazza della borgata antistante il sacro edificio, Ciccilla Macrì, che lui nella sua parlata di Polistena chiamava Ciccira, e la notte se la portava nel convento. Padre Bernardino e padre Giacomo, scandalizzati, gli imposero o di smetterla con quella tresca o di lasciare il convento. Ma lui non si scompose e continuò imperterrito nella sua relazione. Allora i due monaci si rivolsero al procuratore del convento, ch’era allora un Marchese (cognome) di Bianco, chiedendo l’allontanamento immediato di quell’indegno confratello. Ma il Marchese non si mosse per paura che il monaco Jancu poi, per vendicarsi, lo spedisse all’altro mondo con qualche magia. Così i monaci, per non vivere nello scandalo, abbandonarono il Convento del Crocefisso, lasciando il monaco Jancu padrone e domino dell’edificio. Mancando i padri, il monaco Jancu si assunse tutte le loro funzioni,

tranne quella di dir la messa. Quando moriva qualcuno dei paesi vicini e la salma veniva portata al convento per essere calata nella fossa comune, lui andava incontro al corteo, in cotta e stola, benediva la salma e l’accompagnava alla fossa [...]. I COMUNI DI CARAFFA, S. Agata, Casignana e Bianco non disponevano a quei tempi di propri cimiteri. Nelle loro chiese parrocchiali c’erano sì delle tombe scavate nel pavimento, ma queste, pochissime, erano riservate ai sacerdoti ed alle famiglie più illustri del paese. Il popolo portava i suoi morti alla fossa comune scavata nell’atrio del Convento del Crocefisso, dentro cui questi venivano calati avvolti in un lenzuolo. Per il trasporto si serviva del catalettu, una specie di barella. Quando la fossa comune si riempiva, venivano da lontano due becchini che, come raccontava mia madre, avevano il viso giallo come il limone. Questi tiravano con carrucole le ossa e le seppellivano in

un’altra fossa comune, che di volta in volta scavavano nella pianura antistante il convento. Fino a qualche tempo fa si potevano ancora vedere i crateri che si erano formati in queste fosse con l’assestamento del materiale riportato a copertura delle ossa [...]. INTORNO AL 1895 moriva a Bianco il sacerdote Giulio Medici. Nel pomeriggio del giorno dopo la sua salma fu portata nella cappella del Convento del Crocefisso e lì lasciata l’intera notte per essere sepolta l’indomani, dopo i funerali, nella tomba di famiglia all’interno della stessa cappella. Il dì seguente, quando i parenti, gli amici ed i conoscenti arrivarono al convento per partecipare al rito funebre, trovarono il corpo dell’estinto tutto sfregiato in viso e con le braccia e le gambe spezzate. Tutti si domandarono attoniti ed inorriditi che cosa fosse successo durante la notte. Era stato il monaco Jancu a ridurre in tale stato il corpo esanime del sacerdote Medici per vendicarsi di un’offesa ricevuta da quegli, anni prima. Era infatti successo questo: il monaco Jancu s’era recato un giorno a Bianco, dove per caso incontrò il sacerdote Giulio Medici, il quale, appena lo vide, lo chiamò a sé e, quando gli fu a tiro di bastone, alzò il suo, sul quale si appoggiava nei suoi movimenti, e gliene

diede più che poté. Motivo di questa sfuriata del Medici era stato il fatto che alcuni giorni prima un suo colono aveva portato al monaco Jancu, anziché a lui che ne era il proprietario, le primizie di un frutteto quale disobbligo per averlo il monaco Jancu liberato dagli effetti malefici di una magia, ed il sacerdote Medici se n’era risentito. Il monaco Jancu ingoiò per il momento il rospo, cioè incassò le botte senza reagire, in attesa, però, dell’ora della vendetta [...]. IL SACERDOTE MEDICI, alcuni anni prima, aveva iniziato la costruzione di un palazzo a Bianco, in quel locale d’angolo tra le odierne v i e

Garibaldi e Salvadori. Ma quando i muri perimetrali e quelli divisori interni erano pronti – mancavano ancora il tetto, i pavimenti e le imposte -, fu colto da malore e morì. I suoi eredi tentarono a più riprese di continuare i lavori di completamento della casa, ma ogni volta che questi iniziavano, in casa Medici moriva qualcuno. Per cui gli eredi, considerando questi decessi come un monito divino, desistettero dall’impresa, onde evitare che la loro famiglia si sterminasse [...]. Il monaco Jancu avrà lasciato il suo regno terreno – il Convento del Crocefisso – per quello dell’aldilà qualche tempo dopo il febbraio del 1908. Con la sua scomparsa il convento fu chiuso al culto divino e trasformato in cimitero, un cimitero monumentale per i paesi di Caraffa, S. Agata e C a s i gnana.

U monacu Jancu


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Musica e tradizione

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LA CANNA

un acciaio vegeta

Dagli utensili dei massari a q dei contadini. Dai giochi per alla medicina popolare. Dall all’ingegneria civile. I mille m utilizzare la piante delle fium Nella foto grande una parete divisoria di canne, realizzata in un’abitazione di Campusa (Africo Antica). Nella foto a pag. 21 suonatori di zampogna a Monteporo (monteporo.it)

laLeggenda Pan e il pianto di Siringa

S

econdo la mitologia Pan, figlio di Ermes e di Driope, era metà uomo e metà caprone. Era il dio che amava i boschi. Scherzoso e giocherellone, era descritto come un grande seduttore. Non riuscì però a conquistare le grazie di Siringa, figlia di Ladone Dio dei fiumi. La ninfa terrorizzata dal suo aspetto tentò di scappare, ma non riuscendoci, quando capì di non avere scampo, pregò il padre affinchè la trasformasse in una canna. Quando però si alzò il vento, si sentì una melodia lamentosa provenire dal canneto, tanto soave da affascinare il dio Pan. Questo non riuscì a capire da quale canna provenisse il suono e ne tagliò sette (o secondo alcuni nove). Le unì e nacque così il flauto di Pan.

di Mimmo Catanzariti

C

osteggiando il litorale marino, o salendo per le stradine ai bordi delle nostre fiumare, o ai margini dei campi coltivati, quasi a delimitarne il confine, o a protezione delle colture a mo’ di frangivento, si trovano i canneti. La canna comune (Arundo donax) o canna domestica è una pianta erbacea perenne, con foglie lunghe e strette. Il suo fusto, flessibile e resistente, contiene silice e forse questa è la principale ragione per la sua resistenza e durabilità. Si prestava, fino a non molto tempo addietro, alla lavorazione per ottenere svariati oggetti e utensili di uso agricolo, pastorale, domestico, artigianale e ludico. LA CANNA VIENE raccolta recidendola alla base e il periodo migliore è quello invernale, quando il ciclo vegetativo è fermo. I vecchi panarari esperti consigliavano di raccoglierla con la luna calante, per evitare che si tarlasse, e indicavano febbraio come il momento migliore. Le canne buone per l'intreccio sono quelle che hanno almeno un anno, risultano infatti più legnose e più forti. I fusti duri trovano impiego come supporto per piante rampicanti, come la vite

“Chista figghiola è fatta cu la pinna, e misurata cu la menza canna, la menza canna veni di la Sardegna, lu calamaru d’oru veni di la Spagna”

(canni pe 'mpalari), i La canna veniva utilizzata pomodori, i fagioli e nella vita di tutti i giorni: si come tutori costruivano bastoni da nella crescita delle piante passeggio, canne da pesca, arnie, giovani. Nel pennini; si impagliavano bottiglie, settore artigianale, con damigiane e bottiglioni. Era usata la canna, si persino nella medicina popolare fabbricavano una serie di oggetti, frutto dell'arte dell'intrec- vano le tegole per il tetto. La cio: le fasceddhe per la ricotta, canna veniva utilizzata nelle più realizzate con listelli di canna, at- svariate applicazioni della vita di torno a una base circolare di tutti i giorni: si costruivano canne legno di olivastro, i panara, i co- da pesca, bastoni da passeggio, fini per il trasporto a spalla di ma- pennini per scrivere, addirittura teriali pesanti, per vendemmiare anticamente le arnie per le api e per le olive, il cannizzu che ser- avevano una forma arcaica e veviva (ed è ancora utilizzato) per nivano costruite con la canna, la essiccare fichi e pomodori, il ma- si usava anche per impagliare datassaru per raccogliere il filato di migiane, bottiglie e bottiglioni. lana o di lino, i cannola, una spe- Erano pregiati i fichi secchi imcie di ditali che usavano i conta- bottiti con mandorle, noci e dini per proteggere le dita scorza di limone o di cedro, che venivano venduti infilati in un lidurante la mietitura. stello di canna ricurvo, o in altre LA ‘NCANNICCIATA si co- composizioni geometriche su imstruiva nel seguente modo: si po- palcature di canna anche esse. savano per traverso fasci di canne, ripulite delle foglie e ta- QUESTO ANTICO mestiere gliate a misura, e venivano legate oggi è quasi scomparso, perché fra loro con spago o fil di ferro. non è più in grado di competere Su questa intelaiatura si stendeva con la funzionalità e la praticità uno strato di calce e, oltre a ser- dei contenitori di uso comune, vire da parete divisoria, si usava completamente diversi nella anche come base dove si poggia- forma e nella materia. Quando

vediamo una cesta o un panaru, ci vengono subito in mente le atmosfere perdute. L'uso della plastica ha escluso questa pianta quasi del tutto dalla vita quotidiana. La canna è stata utilizzata anche nella medicina popolare, infatti tagliando trasversalmente una canna all'altezza dei nodi, vi si trova una leggera membrana bianca (velu), che in caso di necessità, si può usare per fare coagulare il sangue (stagnari 'u sangu) appoggiandola sulla ferita. LA CANNA, COME recita questo antico strambottu, è stata usata anche come una unità di misura per stoffe, tele, pietre, legname, e si utilizzava prevalentemente nel sud Italia. Misurava comunemente da 8 a 10 palmi, equivalenti da 2 metri fino a 2,15 ed era l'unità di misura più usata; il suo sottomultiplo era la “mezza canna”. Il materiale che costituisce il fusto è molto flessibile e abbastanza resistente, ed è considerato come il migliore per il confezionamento di ance di strumenti musicali a fiato come oboe, fagotto, clarinetto e sassofono. Le canne provenienti dalla Provenza sono celebri per il loro impiego nella produzione di ance. In questi strumenti, la vibrazione è provocata da una lamella elastica di canna o di


Musica e tradizione

ale

quelli r bambini la musica modi di mare

«

I fichi secchi imbottiti con mandorle, noci e limone, erano infilati in listelli di canna

«

U velu, una membrana bianca, si poggia sulla ferita per far coagulare il sangue

«

Le Pupazze di Bova, la Chora grecanica, sono figure femminili fatte di ulivo e canna

metallo, fissata ad una estremità sopra un foro rettangolare delle sue stesse dimensioni, nel quale viene spinta l'aria. La lamella vibra, bloccando periodicamente il flusso dell'aria generando così il suono. Ogni ancia può emettere una sola nota che dipende dalle sue dimensioni. I culmi di Arundo donax vengono inoltre impiegati per realizzare le canne di molti tipi di cornamuse. La canna domestica è stata usata per oltre 5000 anni nella produzione di strumenti a fiato; uno dei più famosi era l'Aulos della Grecia antica. Era costituito da un tubo di canna lungo fino a 40 cm con fori variabili da 5 a 8, spesso anche doppio, cioè formato da due tubi spesso dritti e uguali, ed è lo strumento a fiato che per primo è stato rappresentato nelle ceramiche greche. I FRISCHJOTTI e il flauto di Pan formato da 10 o più canne di diverse dimensioni legate o incollate fra loro, e infine le launeddas della Sardegna, ne sono gli eredi diretti. Notizie che ho avuto da un musicista e costruttore di questi strumenti, Mimmo Morello di Palizzi Superiore, vero depositario e archivista dei suoni e del repertorio tradizionale calabrese. La canna è presente anche nelle manifestazioni religiose in Calabria, infatti a Bova, la Chora dei grecanici, la domenica delle Palme, si tramanda il mito di Persefone che si perpetua attraverso la costruzione di figure femminili vestite d’ulivo su una struttura di canna. Le Pupazze sono addobbate con fiori e frutta di stagione, con i prodotti che la natura offre al suo risveglio, portate in processione e benedette, poi smembrate e distribuite ai partecipanti. Il mestiere del panararu, va pian piano scomparendo, e quelli che lavorano la canna sono rimasti ormai davvero in pochi. QUEST’ARTE ANTICA oggi sopravvive solo per finalità folkloristiche, e molti dei prodotti spesso fanno bella mostra nei salotti moderni o nei locali alla moda, banalizzando una delle espressioni più belle del nostro pregevole artigianato. Professioni che meriterebbero un’adeguata valorizzazione e un’attenta politica d’inserimento di giovani artigiani. Una scommessa sul possibile recupero degli antichi saperi, anche in termini produttivi e occupazionali, che può essere una speranza per questo mondo rurale e artigiano. Un mondo che ancora resiste alla globalizzazione e che conserva quanto più possibile del nostro passato.

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U frischjottu Tipico della tradizione è usato sempre in coppia. Ha tre varianti: a paru, a moderna e reggina.

Il flauto di Pan Costruito con più canne di diverse dimensioni e legate tra loro, si suona a fiato dal di sopra.

La zampogna a chiave

delle Serre calabresi

Uno strumento che fece gola alle celebrità: persino l’imperatore Nerone fu un celebre zampognaro di Francesco Tassone

I fichi secchi I fichi, fatti seccare su stuole di canne, vengono infilzati in listelli fatti sempre con canne palustri.

A pupazza Le pupazze vengono costruite intrecciando dei rami di ulivo intorno ad una canna e sono addobbate con fiori e frutta.

C

onsiderata nell’antichità classica l’evoluzione del flauto, la zampogna è un aerofono a sacco costituita da quattro o cinque canne, innestate alla testata che si abbocca poi, dalla parte opposta, all’otre. Delle quattro o cinque canne, solo due sono strumento di canto, mentre tutte le altre fanno da bordone, cioè emettono un’unica nota che è fissa. Sulle canne, nella parte apicale, sono inserite le ance, che possono essere singole o doppie e sono realizzate in canna. Mentre nella parte distale si trovano le campane che amplificano il suono emesso dalle ance. Le canne strumento, invece, accordano le note e quindi la melodia. Vi è poi la sacca di accumulo dell’aria, chiamata comunemente otre, nella quale attraverso la canna o il soffietto viene immessa l’aria. L’otre è realizzato con la pelle di capra o di pecora. La zampogna è uno strumento antichissimo e fra i suonatori più celebri viene an-

noverato l’imperatore romano Nerone. Sin dal Medioevo questo strumento ha assunto diverse tipologie territoriali così, la cornamusa in Irlanda e in Scozia, la musetta in Francia, la piva nell’Appennino settentrionale italiano, la ciaramella in quello centrale e la zampogna in quello meridionale. Sull’altopiano delle Serre calabresi, viene costruita la zampogna a chiave delle Serre. Nata nell’Ottocento si è diffusa in buona parte della Calabria, quindi nella Provincia di Vibo Valentia, in gran parte di quella di Catanzaro, nella parte confinante della Provincia di Reggio Calabria e in un’area ben precisa intorno al comune di Rogliano in Provincia di Cosenza. I modelli sono fondamentalmente due: romani e menzietti. Entrambi i modelli hanno cinque canne, con nomi ben precisi: “la destra”, “la manca”, “lu masculu”, “lu cardidiu” quella più piccola e “lu trumbuni” per le note basse e per dare la tonica della scala. Possiede una chiave che permette di raggiungere una nota che col dito non riuscirebbe.


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Arte e cultura

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Il caso Opere vere, opere presunte

L

Lo stesso clamoroso errore si è avuto per la statua del Ss.Salvatore nella chiesa di Gallicianò (attribuita poi ad un artista locale) che presenta, soprattutto nel basamento, richiami analoghi alla scultura del Gagini. Vale anche per la Madonna col Bambino nella chiesa parrocchiale di Roccaforte del Greco, caratterizzata da lacune stilistiche che si discostano molto dall’opera della bottega Gagini. Molte altre opere disseminate nei santuari della Locride e dell’area Grecanica, nascoste, spesso sconosciute, attendono di essere studiate. Quel che certo è che Gagini lascia in Calabria una traccia indelebile.

a scuola gaginiana doveva essere molto famosa in Calabria, tanto da vedersi attribuire la quasi totalità delle sculture sacre, che poi si sono rivelate essere di altri. La Madonna col Bambino di Staiti (Chiesa S. Maria delle Vittorie) si è scoperto essere opera di Martino Regi 1622. La Madonna di Monte Stella, che si pensò gaginiana, è opera di Bottega siciliana, ovvero realizzata da “Gagini e Bonanno”. Altro esempio è la Madonna dell’Isodìa venerata nella Concattedrale a Bova che recenti studi attribuiscono a Rinaldo Bonanno, scultore messinese.

Gli angeli di Bombile

S

econdo la leggenda la statua fu scolpita da mani angeliche, che trasformarono il modello in gesso non ancora terminato dallo scultore, nel marmo d’alabastro che è oggi. Un prodigio che portò alla sua collocazione in un Santuario scavato nella roccia tufacea. Il 28 maggio 2004 alle ore 12,30, a seguito di una frana, il Santuario venne sepolto da tonnellate di roccia, cancellando così secoli di storia. Il questa triste occasione la statua rimase illesa.Oggi si trova nella chiesa dello Spirito Santo di Bombile.

Nella foto in alto, la Madonna di Monte Stella, nelle Serre calabresi. Nella foto a destra (in piccolo) la Madonna della Grotta di Bombile. Nella foto in basso la Madonna della Catena di Bruzzano Zeffirio (foto di Carmine Verduci). Nella foto al centro della pagina la Madonna della Neve (foto di Pino Macrì)

di Carmine Verduci

I

n Calabria non è difficile trovarsi di fronte ad un’opera gaginiana, ciò equivale a fare un tuffo nella storia dell’arte e nella storia del meridione d’Italia. Antonello Gagini è figlio d’arte, allievo del padre Domenico, scultore ticinese che operò specialmente in Sicilia. Molte sono le opere incompiute che vennero completate da Antonello dopo la sua morte. La scultura di Antonello, il tocco del suo scalpello, la ricerca dei particolari e dei volumi delle figure rappresentate, sono una firma inconfondibile, ed è difficile non rendersi conto di avere di fronte “un Gagini”. La voluminosità delle stoffe che ricoprono il corpo delle Madonne è l’espressione tangibile delle tecniche rinascimentali nel Meridione d’Italia. Sembra che l’artista, con il suo tocco, voglia far vivere il marmo bianco, in cui ama plasmare i corpi delle figure. Le opere gli vennero commissionate da alti prelati o da nobili famiglie di tutta Italia. Sculture che oggi si trovano in numerosi santuari e chiese del Sud, nell’area della bassa Calabria. Antonello Gaggini lascia un patrimonio di inestimabile valore

“Il Palermitano” che, nel Rinascimento, firmò le sculture più belle della Calabria. Un artista da portare nelle scuole

LE MAMME

DEL GAGINI

storico e di immane bellezza, spesso al centro di numerose diatribe sull’attribuzione della Scuola gaginesca. Nel gruppo marmoreo dell'Annunciazione, venerata nella Chiesa di S. Teodoro a Bagaladi “le figure sembrano dialogare fra di loro con una naturalezza tale che le loro espressioni rievocano il momento, con un gioco di sguardi ed espressioni che disarmano lo spettatore”. Come non stupirsi delle fattezze materne della Madonna della Neve, venerata nella Chiesa Matrice a Bovalino Superiore, o della Madonna col Bambino a Roccaforte del Greco. A Staiti, piccolo borgo medievale alle

propaggini sud orientali dell’Aspromonte, vi è all’interno della chiesa dedicata a S. Maria delle Vittori, e una Statua della Vergine col Bambino che viene

attribuita allo scultore, ma la statua se ben diversa e di fattura più arcaica è datata 1622 opera di Martino Regi (fonte: Hanno Walter Kruft - Francesco Caglioti, e Mimmo Pisani). Non possiamo dimenticare il mezzobusto di S. Maria della Lica, o dell’Alìca (attualmente custodito nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo a Pietrapennata, suggestiva frazione di Palizzi), anticamente venerata in un monastero dedicato alla stessa, che oggi, ridotto in rudere, è diventato meta di studiosi ed escursionisti. Ma l’esempio degli esempi, che rende l’opera di Antonello Gaggini eccelsa, è sicuramente la

Madonna dell Grotta di Bombile “dalle fattezze sovraumane, è forse una delle opere più belle dell’artista e che più rappresenta la Bottega gaginiana in Calabria”. C’è da dire che in tutta l’Area grecanica vi sono numerose opere del Palermitano e, tra queste, alune non ancora riconosciute, o recentemente attribuite ad altri scultori del tempo: è il caso delle Vergine col Bambino a Bova (RC) custodita nella concattedrale dell’Isodia (o della Presentazione), collocata sull’altare principale. Il mezzobusto in marmo bianco, che fino a qualche tempo fa si pesava fosse opera di Antonello Gagini, secondo recenti studi, si è rilevato essere opera dello scultore siciliano Rinaldo Bonanno. La bottega gaginiana, per la sua maestranza, lascia a noi, popolo calabrese, una ricchezza di inestimabile valore, da custodire, ammirare e far conoscere nelle scuole, che spesso rilanciano altri straordinari esempi dell’arte italiana dimenticando il grande patrimonio artistico che la Calabria e la Sicilia possiedono. È impensabile omettere tali esempi del Sud Italia, che portarono la scultura ad alti livelli, spesso vicini alla perfezione, al pari dei grandi maestri.


Arte e cultura di Vincenzo Stranieri*

S

averio Strati versa in condizioni di salute pessime. Non si fa trovare da nessuno, ha staccato il telefono, non comunica più con l’esterno. Probabilmente la caduta dalle scale (abita in Toscana, precisamente a Scandicci, al IV piano di un palazzo privo di ascensore), avvenuta tempo addietro, l’ha debilitato nel fisico e nel morale. Spiace sapere di questo suo isolamento. Anche se ha quasi novant’anni, è ancora lucido, ma forse non è più curioso, è depresso. Da circa quattro anni usufruisce della Legge Bacchelli, un sussidio che gli consente di continuare a vivere dignitosamente. Non lo incontro da molto tempo, ormai. Ho avuto la fortuna e il privilegio di confrontarmi con lui quando ancora faceva ritorno a S.Agata del Bianco, suo amato paese natìo, precisamente in contrada Cola. Incontri che mi hanno fatto capire tante cose, in particolar modo l’urgenza di adoperarsi in difesa della nostra memoria storica, del nostro passato/presente. Una lezione di vita importante che rammento ancora con riconoscenza. Ha lottato tanto, Saverio Strati. Da semplice apprendista-muratore è divenuto “glossa” della sua gente, si è trasformato in cantore del bene e del male del Meridione, non facendo sconti a nessuno, nemmeno a se stesso. Narra dal di dentro, conosce profondamente, infatti, la materia della sua scrittura, il suo stile cesella le forme della civiltà contadina, ne delinea le fattezze più remote, ne sollecita la vera conoscenza. È tanto grande e appassionato il suo amore per i poveri, i diseredati al punto da estremizzare al massimo il suo linguaggio, il suo stile iper-realista. È proprio tutto vero quello che narra Strati, spesso anche i nomi, le contrade. La sua mente conserva una galassia sterminata di personaggi, le vicende familiari, gli esiti di una semina, i tomoli di grano prodotti, le cattive annate dovute alla siccità o qualche improvvida alluvione.

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«C'è sempre stato in Calabria uno spirito feroce di autodistruzione; la storia stessa della nostra regione ha questa terribile impronta» Saverio Strati

Nella foto la casa di Saverio Strati in contrada Cola (Sant’Agata del Bianco), foto di Domenico Stranieri. Nella foto sotto lo scrittore calabrese

Uno scrittore, il più grande. La sua montagna, l’Aspromonte. E una patria in cui non è propheta

Un amore viscerale profondo, quasi una ossessione implacabile. In quasi tutti i suoi romanzi, però, Strati denuncia il nostro cattivo modo di essere, la nostra cattiva voglia di migliorare le sorti socio-economiche della nostra terra. Prima di fermarsi a Scandicci, egli ha conosciuto altre nazioni (Germania, Svizzera), altre usanze. Ha fotografato realtà in crescita, rispettose delle regole, attaccate alle loro identità. Per questo egli esprime rabbia per il lassismo della sua gente, per la imperante rassegnazione che anima il popolo calabrese. Sono pagine di profonda denuncia sociale, costringono alla riflessione, fanno arrossire anche le menti più recalcitranti, specie quando lo scrittore indica le soluzioni per un riscatto non impossibile. “Quando mi trovo a S.Agata e guardo dall’alto verso il mare sento l’animo che mi si apre; se invece osservo ciò che mi circonda, se entro nelle case del paese, la sensazione è terribile. Mi prende un’angoscia davvero infernale. Non è sufficiente guardare le cose dall’esterno, come ha fatto Carlo Levi per la Lucania: il vero dramma è guar-

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darle quelle cose, quelle situazioni dal di dentro[…] Altro che Calabria pittoresca, altro che odori, colori, silenzi poetici!…”. Sono “arrabbiature” sincere, non vogliono accusare nessuno, tendono a spronare chi è immerso nel fatalismo, quanti non vogliono lottare contro lo status quo. Mentre il mondo cambia, si evolve, il meridione appare pietrificato. Mentre in altri lidi è giunta la primavera, nel Sud regna un inverno fitto, un modello sociale che intende perpetrare le antiche regole. “Il calabrese è terribilmente geloso: guai se un altro fa un passo più avanti di lui [...] anche il paesaggio risente di questa indifferenza […]”. Strati (è possibile immaginare la sua profonda amarezza) di certo si sarà molte volte sentito sconfitto, avrà pensato che le sue opere non siano servite ad aiutare il suo popolo. Così non è stato, per fortuna. Ma l’amarezza (quella che angustia l’animo ed il cuore) di certo l’ha debilitato nel fisico e nel morale. La speranza è che Strati torni a parlare alla sua gente e al mondo, che continui a battere, con forza creativa, sui tasti della sua vecchia macchina per scrivere. *Cultore di Etnologia presso l’Unical

La

SOLITUDINE di STRATI

Hanno scritto in questo numero Antonio Iulis, Sandro Casile, Cosimo Sframeli, Bruno Salvatore Lucisano, Federico Curatola, Giovanni Scarfò, Carmine Verduci, Tiziano Rossi, Pino Macrì, Domenico Stranieri, Francesco Misitano, Mimmo Catanzariti, Francesco Tassone, Vincenzo Stranieri Per l’Aspromonte orientale Giuseppe Gangemi, Antonio Perri, Ulderico Nisticò Per l’Aspromonte greco Salvino Nucera, Francesco Violi Per le biodiversità Rocco Mollace, Leo Criaco, Federico Falsetto

Per lo speciale “Carnevale in Aspromonte” Mirko Tassone, Gianni Favasuli Fotografi Enzo Penna,Tiziano Rossi, Carmine Verduci, Leo Moio, Pasquale Criaco, Natale Nucera, Paolo Scordo,Francesco Depretis, Rocco La Cava, Francesco Criaco, Domenico Stranieri Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 10/02/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.


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inAspromonte Febbraio 2014

www.inaspromonte.it

Dinnanzi al dilagare degli scempi sociali ed ecologici prodotti dalla società della merce e dell’autorità, le montagne della terra tornano ad essere lo spazio della resistenza e della libertà. Affiché una vita meno alienata e meno contaminata possa, giorno dopo giorno, scendere sempre più a valle...

Nella foto tori selvatici (Aspromonte orientale). Foto di Gioacchino Mollica

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