"in Aspromonte" numero 7

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Direttore Antonella Italiano

P A E S I

ANTICHI MESTIERI Giuseppe Sicari, il custode delle arti

2014

2010

servizio e foto di Domenico Stranieri

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pag. 18-19

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IL RE DEL LEGNO Frà Diego da Careri servizio e foto di Pino Macrì

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pag. 17

VOLTE ABBANDONATI

La riflessione

La stanza delle ombre di Antonella Italiano

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inAspromonte

Marzo 2014 numero 007

opo tanti anni riapro questa porta, e nella stanza dal tepore invitante ritrovo le mie dolcissime ombre. È un buio che rasserena, come quello della montagna: le luci si spengono per nascondere le tracce del nostro passaggio. Sono vie, queste, in cui si cammina soli, e si cammina tanto, e tanto si sbaglia, che il ricordo di alcune tappe resta confuso. Struggente e malinconico al contempo. E sembra molto più semplice abbandonarlo che portarselo dietro, come una zavorra che si taglia per spiccare il volo. Ma non è per sempre: giusto il tempo che basta a dimenticare. pag. 2-3

Ogni anno si spendono migliaia di euro per interventi dalla dubbia utilità, si “monitora” la fauna e la flora, si “contano” i lupi e le aquile reali. Un po’ come chiamare l’appello negli abissi! Mentre, sotto i rovi, muoiono per la seconda volta i paesi “abbandonati”... pag. 3

Ombre e luci

Aspromonte greco

Ritratti. Damiano Caruso

Ta draku nell’orizzonte

di Gianni Favasuli

di Salvino Nucera pag. 4

Artisti e artigiani Rocco, mastru pettinaru di Tiziano Rossi pag. 16

Miele. Oro impuro?

servizio e foto di Leo Criaco

pag. 13

pag. 11

La nostra storia La montagna dei Siculi

di Ulderico Nisticò

pag. 21

pag. 5

Tricolore come l’Italia

di Angelo Canale pag. 8

Ombre e luci Don Carlo, la sua rivoluzione di Cosimo Sframeli

Tra i boschi

IL CORBEZZOLO

Cinema e cultura La sfida di Elio Ruffo

di Giovanni Scarfò

pag. 22

Aspromonte orientale Il Brigante don Mico “barbazza”

Aspromonte occidentale Barlaam di Seminara

di Mimmo Catanzariti

di Giuseppe Gangemi

pag. 7

pag. 10


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Copertina

inAspromonte Marzo 2014

LA STANZA DELLE OMBRE segue dalla prima di Antonella Italiano

Così, ora, che vorrei disegnare con le ombre delle dita dei curiosi animaletti sul muro, e cantare la filastrocca del topo che perse la sua coda poco prima di sposarsi, e raccogliere le foglie di menta per tenerle sotto il naso e respirarle, mi sforzo con rabbia di ricordare. E faccio luce sulle ombre, le mie, dolcissime, che mi parlano in questo silenzio fatto di alberi, e terra, e rocce, e vuoti

profondi, e profili rassicuranti. E il tempo si accartoccia e un po' mi aiuta, e la vita riprende là dove l'ho lasciata quando chiusi quella porta. Un ulteriore sforzo per restare immobile, per non turbare l'equilibrio perfetto col passato, e già sono chiari i suoni e le voci, i colori dei vestiti, le rughe sul viso, il senso di insegnamenti camuffati da favole, il sapore di pomo-

doro e olio. E già rincorro, col cuore gonfio di certezze, gli obiettivi che non ho mai raggiunti, le passioni che sono rimaste inascoltate. E la strada torna dritta, regolare; che fine hanno fatto i suoi bivi, le sue deviazioni? Semplice, tutto semplice, dannazione! Ancora silenzio. E nel silenzio l'odore del mirto, il bosco che respira lento, la luna che si accende

con tatto e colora di grigio i vecchi muri del paese. Le ombre, le mie, dolcissime, e gli spettri di questo borgo abbandonato, divengono un tutt'uno. Dove sono dunque? Persa nell’introspezione della mia mente, tra le strutture morenti del paese, o in un misterioso borgo infestato da fantasmi? Tutte anime, mi suggerisce l'ombra. Siamo tutte anime, in diverse forme.

I crocchi du paisi

L’EDITORIALE

di BRUNO SALVATORE LUCISANO

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LA MONTAGNA

DI ZUCCHERO FILATO

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e si è stati poveri da bambini si può capire il perché del fascino di una nuvola bianca di zucchero filato. Di quel batuffolo di cotone bianco che come per miracolo cresce intorno a un bastoncino di legno, in un’aria impregnata di un profumo dolciastro, indefinito. Se si è stati bambini, e non a tutti è capitato, lo si capisce con quanta forza si possa difendere un sogno conquistato. E se ci si è seduti anche solo per un attimo in cima a Montalto si comprende bene perché i montanari odiano il mare. A voler tornare bambini questo è il periodo giusto per andare in Aspromonte. Le ginestre spinose aprono i fiori gialli al cielo riempiendo i monti di un sapore che sa di limone, liquirizia, vaniglia e caramello. I perastri si imbiancano a neve e tra profumi e colori l’isola che sta fra lo Jonio e il Tirreno diventa davvero la più gustosa fra le leccornie creata da Dio o dagli dei. Basta levarsi insieme al sole, salire insieme a lui, illuminando pian piano i tornanti che portano

in alto, ad avvicinarsi al cielo, fin quando è possibile guardare giù e vedere le meraviglie che stanno ai lati e di fronte al Monte, per scoprire quanto sia possibile odiare il mare che ciocca a ciocca strappa i capelli bianchi al nostro sogno infantile. Si, questo è il tempo giusto per scalare l’Aspromonte, ora che nebbie e nuvole sono finite in soffitta, in attesa del prossimo inverno, e per le voraci cavallette non esiste un riparo. Più si sale e più si può vedere l’esercito di voraci insetti che ogni mattina si sveglia presto per divorare lo zucchero filato. La primavera accende il mondo e mostra il peccato. E i monti sono il palcoscenico adatto per capire che i bambini non odiano il mare, che i montanari non ce l’hanno con lo Jonio o col Tirreno. Solo che, stando in alto, appare chiaro che chi vive troppo in basso il paradiso non l’ha mai visto e non è mai andato dietro al bambino che il suo trofeo bianco non lo andava a divorare ma semplicemente a nasconderlo, per proteggerlo dagli insetti.

el paese si cominciano a notare i primi crocchi, che non sono segnale dell’inizio della primavera, bensì dell’avvicinarsi delle elezioni comunali. Un aspirante sindaco di qua, uno di là, un assessore sopra ed uno sotto. Un buon numero di persone che non vede l’ora di gareggiare per poter dare un contributo al paese, per risolvere tutti problemi e migliorare la vita dei cittadini. Gli aspiranti sindaci, in cerca di candidati, per mettere su una lista che sia forte e che possa contribuire alla vittoria finale. La scelta, o meglio la tecnica della scelta, è comune a tutti gli aspiranti sindaci. Vediamo come funziona. Prima di tutto la divisione del territorio in quattro piccoli “cantoni”: Razzà, Paese Nuovo, Spartivento, Brancaleone; e la successiva individuazione dei candidati che possono coprire queste fette di territorio comunale. Dopo di che, la scelta vera e propria che ha come peculiarità principale la individuazione della famiglia numerosa. Altri titoli sono essere Medici (con libretti), essere Ditta (con operai), essere Furbi (con cretini), essere Ricchi (con poveri), essere Famiglia (numerosissima), essere Nomadi (compatti), da non confondere con Patti, cognome! Nell’ultima tornata elettorale gli assessori sono stati scelti in base ad una regola non scritta, ma

orale ed in vigore, che è stata quella del numero delle preferenze ottenute. Quindi gli assessori dell’ultima tornata elettorale sono venuti fuori grazie alle categorie sopraelencate. Se ciò è, e ciò è, i conti son presto fatti e sono precisi. Ogni Municipio ha l’Amministrazione che si merita e soprattutto che ha scelto. Ma quello che più conta, ha gli Assessori, non già in base a meriti specifici, ma in virtù di famiglia numerosa o beneficiari delle categorie sopraelencate. Quindi un Capo (il Sindaco) i Capi Tribù (gli Assessori), i quali daranno conto, meriti e provvigioni bell’appunto, alle tribù di appartenenza. Questo vale per tutte le Amministrazioni fin qui succedutesi e per quelle che verranno. Da parte mia, appartenendo anch’io a una Tribù, spero di non dover votare per l’ennesima volta un cognato, e già vent’anni di fila che lo faccio, senza alcun beneficio o miglioramento della mia classe sociale. Meno male che non avendo la famiglia numerosa, non mi cerca nessuno! In conclusione se si fa parte di una grande Tribù si può essere eletti assessori, anche se cretini. Questo non toglie che appartenendo a una grande Tribù, si può essere anche intelligenti… aspettiamo con ansia di verificarlo in campo (Municipio), aperto. Buona Fortuna ed un consiglio: non vi fate trasportare dal “gurru”!

Cardeto Nord, il paese “fantasma”. Foto di Antonella Italiano

Casalinuovo visto dall’alto. Foto di Enzo Penna


Copertina Ora, la luna trasforma la mia mano sul muro in un simpatico leprotto che muove le orecchie divertito. Ventiquattro sono le penne “in coppa alla gallina”. E se il topo si sposò o no, ora ricordo, non l'ho mai saputo. Si, le foglie di menta stava davanti alla porta della nonna, ed io sullo scalino, nei pomeriggi estivi, cercavo di strapparle tutte. La luce è piena in questa piccola

stanza, che non dimenticherò una seconda volta. Ora è tutto spoglio dal peccato che anche gli uomini più buoni si trascinano dietro. Come i rovi, quando pietosamente ricoprono paesi in principio poveri e pieni di sofferenza. Ma, una volta tolti, mostrano realtà senza più macchie. Ripulite. Straordinarie. Lasciarle nude sotto le intemperie, dimenticarle ancora, sarebbe una bestemmia.

inAspromonte Marzo 2014

Come potresti raccontare anche tu la favola del topo se, oggi, io non l'avessi ritrovata? E non credere che non sia importante. Neanche quando, per volare, taglierai la zavorra e chiuderai la porta: su alcune strade si va via da soli. Per un po'. Poi si torna, a curiosare dentro una stanza dal tepore invitante, dove delle piccole ombre stanno ad aspettare. Saranno le tue. Dolcissime.

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«Il colonnello segnò su una mappa militare un triangolo: poche decine di km quadrati considerati inaccessibili per chi non era nato in quelle zone» di BRUNO CRIACO

Una veduta di Roghudi Antica. Foto di Bruno Criaco

La campana della chiesa di Casalinuovo. Foto di Enzo Penna

Mucche nella chiesa di Africo Antica. Foto di Pasquale Criaco

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alle prime luci dell’alba l’elicottero dei carabinieri volteggiava sopra le gole dell’Aposcipo, e solo poco prima di mezzogiorno una cinquantina di militari in mimetica arrivarono al casello di Spanò, sulle montagne di Africo. Quelli che giunsero per primi avevano il viso coperto dai passamontagna e ai nostri occhi, il più grande di noi aveva meno di diciotto anni, sembrarono giganti, poi si scoprirono il viso e tornarono ad essere solo uomini. Qualcuno di loro si pose in modo eccessivamente autoritario, ma il comandante, un anziano tenente colonnello siciliano, solo con lo sguardo li mise subito a posto, e iniziò a parlare con noi. Ammise che lui e i suoi uomini avevano fatto l’ennesima inutile battuta, e soprattutto ammise che senza l’aiuto degli aspromontani mai sarebbero riusciti ad ottenere risultati positivi in quella parte della montagna. Segnò su di una mappa militare un triangolo, poche decine di km quadrati che erano considerati

inaccessibili per chi non era nato in quelle zone. I militari erano convinti che lì stavano i sequestrati, ed erano consapevoli che non li avrebbero mai liberati. Era l’inizio degli anni Ottanta, sono passati oltre trenta anni e quel triangolo è rimasto off-limits. Di “abissi” così nell’Aspromonte ce ne sono parecchi, gli uomini ormai rinunciano ad entrarci, e solo poche specie di animali osano sfidarli. Il cinghiale, la volpe, e pochi altri. Il lupo sicuramente è uno di loro. Il lupo autoctono dell’Aspromonte è il re incontrastato di queste aree, e non esiste telecamera o altro marchingegno elettronico che riesca a catturarne il profilo. Dal suo regno si sposta solo per cacciare le prede, di esso si possono vedere le orme nella neve. Di esso si può sentire l’ululato nelle notti di luna piena. Incontrarlo è quasi impossibile. I lupi che si vedono sempre “piedi piedi” sono altra cosa, non sono nativi della nostra montagna. Monitorare la fauna di alcune aree dell’Aspromonte è impossibile oltre che inutile. A questa montagna i nostri antenati, nel corso dei millenni, sono riusciti a strappare una buona parte del ter-

ritorio, e per tantissimo tempo lo hanno curato con il rispetto che si deve ad un Dio. Resero coltivabili, terrazzandoli, e portandoci l’acqua con condutture (le mastre) scavate nel granito e sospese su burroni profondissimi, migliaia di ettari di terreno roccioso. Con l’esodo forzato verso le marine, tutte le “conquiste” sono andate perse, e le aree inaccessibili diventano ogni giorno più vaste, ci sono intere foreste di lecci e di castagni che sono soffocate dai rovi e dalla ginestra spinosa. E i rovi soffocano e divorano i paesi fantasma dell’Aspromonte senza che nessuno muova un dito. In alcuni casi basterebbe davvero poco per fermarne il declino, ed il tutto spendendo meno soldi di quanti se ne spendono per cose per nulla necessarie. Ma far rivivere i paesini della montagna, creare qualche posto di lavoro, e farci tornare quei pochi che ancora lo desiderano, è cosa impossibile. Anzi, negli ultimi cinquant’anni si è fatto e si sta facendo di tutto per allontanarli. Il dramma, la triste verità, è che ancora oggi, agli aspromontani, è concessa una sola alternativa: l’emigrazione.


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ritratti

Ombre e luci

DAMIANO CARUSO Società violente. Da un lato gli onesti, dall’altro gli uomini “d’onore” nel racconto di Gianni Favasuli

Un uomo, un “fesso”, umile impiegato. Un uomo, come tanti, vittima dei soprusi di cani feroci e prepotenti. Dinnanzi a lui l’eterno dramma: soccombere o difendersi?

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amiano Caruso, un travet, un umile impiegato municipale, era un “fesso”, un uomo che non poteva essere considerato, assolutamente, d’alto rango, di nobile lignaggio. Era una specie di don Abbondio in abiti civili: un recipiente di terra cotta. Tanto, per intenderci meglio. Nel paese, purtroppo, chi aveva un’indole mite come la sua e, quindi, non era capace, all’occasione, di sfoderare gli artigli e di mostrare le zanne per farsi rispettare, era proprio un uomo spacciato. Al primo sobbalzo del carro, veniva frantumato da chi aveva ben altra natura, ben altra indole: veniva frantumato dai recipienti di coccio. Recipienti di coccio che, a seconda del loro spessore, del loro calibro, occupavano, nella scala sociale, nella scala della durezza dei materiali, ruoli e posti diversi. AL PRIMO POSTO, gli omicidi, i brutali, gli arroganti; coloro che, sprezzantemente, facevano il bello ed il cattivo tempo. I vecchi uomini d’onore, quelli che al vecchio paese dicono fossero riveriti e rispettati per il loro “carisma”, per la loro non comune “caratura morale”, per lo stile “innato” con cui risolvevano i problemi di una certa delicatezza, avevano dovuto cedere il passo, loro malgrado, ad una muta di cani feroci. Cani feroci che, non avendo rispetto, affezione, neanche nei confronti di chi li aveva messi al mondo, erano capacissimi, alla minima occasione, pur di accaparrarsi qualche osso, qualche misero pezzo di lardo, di azzannarsi tra di loro. Almeno i vecchi, con la loro “canuta saggezza”, erano stati sempre in grado di appianare liti e i rancori; erano stati sempre in grado di evitare frettolosi ed inutili spargimenti di sangue. Questi ultimi, invece, con la loro pochezza, con la loro assoluta mancanza di stile, istigando, fomentando il disordine, facevano precipitare il paese in un profondo baratro: nella geenna. AL SECONDO POSTO, i “tragediatori”, quelli che con le loro biforcute lingue, con le loro sottili, velenosissime insinuazioni, potevano accendere la miccia da un momento all’altro. Essendo questi molto pericolosi, va da sé che erano rispettati al solo scopo di accattivarsi le loro simpatie. Proporzionatamente al danno che potevano arrecare. AL TERZO POSTO, i delinquenti generici, la manovalanza: ladruncoli e spacciatori. I rampolli, in pratica, di quelli che occupavano i primi posti della classifica, della scala di Mohs. Quelli che, sotto la guida illuminata dei

padri, dal limbo dell'apprendistato, per gradi, fisiologicamente, per osmosi, una volta ben temprati, si sarebbero poi succeduti ai posti di comando. ALL’ULTIMO POSTO, i materiali più scadenti: i “fessi”, gli onesti; coloro che si facevano sempre ed esclusivamente i fatti propri senza mai ficcare il naso in quelli degli altri; coloro che per buon senso, per rispetto verso sé stessi e verso il prossimo, non avrebbero mai e poi mai indossato la pelle del lupo; coloro che, in definitiva, vivevano tranquilli nel loro cantuccio, fuori da tutte le beghe e da tutti gli intrallazzi. DAMIANO CARUSO, quindi, oltre a rappresentare l’agnello di quella famosissima favola di Fedro, rappresentava, nella suddetta scala di valori, anche il talco, l’elemento meno consistente. Continuamente, quindi, veniva scalfito, vessato, triturato da tutti gli altri materiali più duri, più tosti. Damiano Caruso, quindi, doveva subire sempre le angherie, gli umori delle punte di diamante, di quelli che stavano sopra, di quelli che regolavano, senza scrupoli, il destino della comunità. Una sera, dopo la solita partita a carte con alcuni suoi amici, con altri “fessi” come lui, Damiano se ne ritornava tranquillamente a casa, quando un giovanotto, con il volto

coperto da un passamontagna, gli si parò davanti e, puntandogli contro una pistola, gli intimò di non fare mosse false e di consegnargli il portafoglio. Il pover’uomo, per evitare il peggio, eseguì quello che il malvivente gli aveva ordinato; poi, mogio mogio, con la coda tra le gambe, sotto shock, ripigliò il cammino verso casa. Damiano, quella sera, non riusciva a darsi pace. Febbricitante, tremante, riverso sopra il lettino si lamentava: «Io che in tutta la mia vita non ho mai fatto del male neanche ad una mosca; io un povero uomo, cui quelle settantamila lire sarebbero dovute bastare fino alla fine del mese, che devo fare a questo punto? Denunciare il fatto ai carabinieri? No! Neanche per scherzo! Neanche per sogno! No! Non voglio grattacapi! Sono un uomo tranquillo io! Quelli, poi, non riuscendo a cavare un ragno dal buco, agirebbero nei miei confronti come agirono nei confronti di Rosario Spanò quando ignoti gli svaligiarono la casa. Interroga qua, interroga là, e a momenti finiva che arrestavano lo stesso Rosario con il pretesto che non voleva collaborare; con l'accusa che non voleva spifferare i nomi degli artefici del misfatto per paura di ritorsioni. No! I carabinieri non fanno al mio caso... Poi, anche volendo, come faccio ad incolpare qualcuno se non sono sicuro al cento per cento? E se poi dovesse pagare un giusto per un peccatore? Uno che c’entra come i cavoli a merenda? No! Devo trovare un’altra soluzione, un’altra via d'uscita... Ma quella voce, quella stramaledettissima voce, dove diavolo l’ho sentita prima di questa sera? Anche se il ragazzo l’ha alterata ad arte, quella voce, quella cadenza, ha un qualcosa di familiare, di noto. Quella voce, maledizione, adesso mi ronza nelle orecchie come uno sciame di api che non si ferma un solo istante! Adesso, però, come devo regolarmi su quanto è accaduto? Cosa mi conviene fare? Mi copro anch’io il volto con un passamontagna ed esco per strada a rapinare la gente? No! Neanche per scherzo! Neanche per sogno! Per fare determinate azioni bisogna essere tagliati; bisogna non avere un grammo di rispetto né verso sé stessi né verso gli altri! Solo i vigliacchi, quelli che non riescono ad affrontare la vita con dignità, si coprono il volto con una calzamaglia! Solo i vigliacchi ricorrono a questi meschini espedienti! Il coraggio, la forza di un uomo, invece, sta nel sapere rinunciare sempre, costi quel che costi, al crimine e a tutte le malvagie azioni che arrecano nocumento alla società». Così diceva. E, INTANTO, gli rodeva il fegato il pensiero di non essere stato rispettato come uomo da quel ragazzotto che, anche se non gli aveva sparato, lo aveva colpito lo stesso. Profondamente. Poi, più afflitto di prima: «Conviene, a questo punto, rivolgermi ai mafiosi? A quelli dell’Onorata? No! Neanche per scherzo! Neanche per sogno! Il giovanotto, ormai, i soldi non me li restituirà più e quelli, anche volendo, non verranno mai a dirmi che l’autore del misfatto è un loro accolito, un loro solidale, un loro rampollo! Tergiverseranno, faranno finta di darsi un sacco da fare, mi terranno a bagnomaria chissà per quanto tempo e poi lasceranno cadere la cosa nel dimenticatoio. A questo punto, al danno, si aggiungerebbe, inevitabilmente, anche la beffa perché io, obbligato, dovrei tenermi pronto e mettermi a loro disposizione, per contraccambiare un favore che in fin dei conti non mi faranno mai!». Dopo avere scartato quest’ultima possibilità, Damiano, finalmente, si convinse, trovò la soluzione giusta. Si alzò dal lettino, andò a sedersi davanti al braciere, si accese una nazionale e tra una boccata e l’altra di fumo, esclamò: "Ecco, ecco! L’unica cosa da fare, ormai, è non fare nulla! Un bel niente! Non voglio grattacapi! Sono un uomo tranquillo io!». Detto questo, se ne andò a dormire, se ne andò a cuccia.


Ombre e luci

inAspromonte

ritratti

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L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri Don Carlo avrebbe voluto che quella gente, che già aveva tanti motivi di sofferenza, vedesse Dio nell’amore per gli altri, nella bellezza del Creato, negli alberi in fiore, nel sorriso dei bambini, piuttosto che nel terrore dell’Inferno, nella paura paranoica del peccato di Cosimo Sframeli

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DON CARLO

ll’interno della Chiesa Madre, costruita circa mille anni fa, su di ogni colonna era collocato un quadro raffigurante una scena della passione di Cristo. Su di un lato, una statua con le anime nelle fiamme del Purgatorio, in attesa di essere salvate e, bene in vista, l’Hecce Homo, con la corona di spine e grondante sangue. Ed ancora, il Cristo Morto che era necessario per la “chiamata della Madonna” durante la funzione solenne del Venerdì Santo, quando dal pulpito l’Arciprete chiamava la Vergine, dopo una lunga attesa dietro la porta della Chiesa, e le consegnava, simbolicamente, il corpo di Gesù crocefisso, invitandola a guardare quel corpo flagellato, quelle mani trapassate dai chiodi, quella testa con la corona di spine! In maniera provocatoria, chiedeva ai presenti chi lo avesse ucciso ed il perché? Egli era morto per tutti. E per tutti era stato crocefisso. Proprio per salvare le anime dalle fiamme dell’Inferno, dalla dannazione eterna! Ciò nonostante, il mondo ugualmente stava andando verso la perdizione e la colpa era da ricercare proprio in quelle persone che si erano allontanate dalla Chiesa e che avrebbero pagato con le fiamme eterne. Irrobustendo, quindi, la voce e rivolgendosi verso la porta, gridava a Maria di entrare per prendere il Figlio.

Nella foto un particolare della Pietà di Michelangelo

LA SUA RIVOLUZIONE La storia di un prete allontanato brutalmente dalla parrocchia. Un uomo dalle idee pulite e la fede verace; un uomo pericoloso

Un pastore in missione

del Purgatorio e, quanto più impegno i sacerdoti mettevano nel celebrare, tanto maggiori erano le possibilità di abbreviare la pena. Di conseguenza, la sofferenza era la giusta espiazione del peccato e le privazioni una specie di cura preventiva per ottenere Grazia. Don Carlo indicò un’altra via per raggiungere Dio: la via semplice dell’Amore. Dio era libertà, gioia di vivere, speranza e soprattutto amore. Avrebbe voluto che quella gente, che già aveva tanti motivi di sofferenza e di patimenti, vedesse Dio nell’amore per gli altri, nella bellezza del Creato, negli alberi in fiore, nel canto degli uccelli, nel sorriso dei bambini, piuttosto che nel terrore dell’Inferno, nella paura paranoica del peccato. Così, un popolo curvo su se stesso, che aveva subito

guerre, epidemie, alluvioni, innumerevoli carestie, rovinosi terremoti, la tubercolosi, incominciò a volere bene questo prete che, come una leggera brezza, soffiava sulla polvere secolare, svecchiando un modo di essere della Comunità cristiana incapace di aprirsi alla Speranza. Uomini e donne affollavano la Chiesa. E intanto, in paese i notabili diffondevano, ad arte, storie di impossibili avventure amorose e di improbabili collusioni con la mafia locale da parte del Sacerdote. Una parte del clero e dei politici lo ritenne un affronto intollerabile, un’intrusione inaccettabile e mosse i passi necessari per rimuovere la causa dello scandalo.

Rimuovere lo scandalo

La statua della Madonna, perciò, si immetteva tra i singhiozzi delle donne ed il silenzio degli uomini che rivolgevano lo sguardo a terra. In verità, non si piangeva per Cristo ma per i propri morti, per le proprie sofferenze, per i propri dolori. Finita la celebrazione, si lasciava la Chiesa terrorizzati dalle fiamme eterne; ognuno guardava con sospetto il vicino, potenziale responsabile della morte di Gesù e dei mali del mondo. In quel periodo, un Sacerdote venne mandato in “missione” al paese. Si chiamava don Carlo. Era un giovane di buona famiglia che, anni prima, appena laureato in Lettere, folgorato dalla vocazione, aveva lasciato la propria famiglia, la fidanzata, tutto quel mondo brillante e gaudente, per farsi prete. Non era molto alto né molto bello, ma aveva i tratti fini e gentili, era di modi raffinati. Parlava in maniera semplice e sciolta. La gente lo guardava e lo seguiva estasiata. Un popolo piegato ed impaurito aveva trovato il suo pastore e il religioso aveva trovato la sua gente. Ogni giorno, ogni sera vi era un’iniziativa e la Chiesa scoppiava di fedeli; tutti si riavvicinarono ai Sacramenti. Padre Carlo aveva capovolto il rapporto tra i cittadini e la religione. Aveva dichiarato guerra a certe usanze e credenze, tentando di liberare il credente dalla paura. Il legame tra Chiesa e popolo era stato il timore dell’Inferno, la vendetta di un Dio trascurato o dei Santi. Le Messe venivano celebrate per liberare dal fuoco Nella foto la Madonna Addolorata, foto di Francesco Stanzione

Dopo qualche mese lo straniero prelato fu richiamato in Diocesi. Dapprima oppose una qualche resistenza, ma poi decise di sottomettersi alla gerarchia. L’ultima Messa e arrivò il giorno dell’allontanamento. Egli, in grande obbedienza, si lasciò andare alle lacrime e alla commozione. Una folla enorme si riunì nella piazza; tentarono di impedirne la partenza; si attaccarono a lui come ci si attaccava alla speranza. Partì lo stesso e una folla di persone si posizionò su un promontorio per guardarlo andar via. In ognuno di loro continuerà a battere il suo cuore. La rivoluzione di don Carlo fu, per il paese, la più sentita e la più profonda rivolta sociale, una lezione universale di grande rispetto umano. Erano state le profonde radici cristiane a germogliare, ad indicare una strada di speranza, di gioia, di salvezza. Il suo volto, il suo sorriso avevano dato tanto. Era stato uno di loro nelle preghiere, era stato in piazza con loro, aveva affrontato varie situazioni difficili, aveva difeso i deboli e i poveri aiutandoli con tutte le sue forze. Dopo qualche settimana la gente era di nuovo in Chiesa ad ascoltare le storie terribili dei dannati alle fiamme eterne. Padre Carlo, uomo dal cuore grande, difficile da sostituire, passò come un’allegra folata di vento, che sembrava annunciare una primavera ma che presto passò la mano ad un malinconico autunno.


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Aspromonte orientale

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IL RACCONTO

MARIO, UOMO ONORATO

di Antonio Perri

M

ario Giutti, un facoltoso capocantiere bovese, era famoso in paese per il suo carattere: trattava i suoi dipendenti come animali, non lesinando di alzare la voce e le mani. E chi lavorava per lui subiva in silenzio per il solo fatto che a quei tempi, negli anni Venti, la

fame era tanta e il lavoro poco. L’unica che lo sopportava era Adele, la moglie, una ragazza mora e lentigginosa dal carattere dolcissimo. Ogni due giorni il bestione tornava a casa e rompeva piatti e sedie e lei lo calmava solo dopo aver subito una bella razione di bastonate.

Il pastore di Pietra Cappa

I

l sole si leva dal fondo del mare, piano piano, rosso rosso. Con la sua luce accarezza le montagne e il mare, insieme, come un padre che accarezza la sua figlia più bella. L’aria che arriva fresca sveglia Fortunato, che si alza dal letto stiracchiandosi. Lui dorme in cucina, nella stanza da letto riposano la madre e la sorella. Le campane della chiesa suona sei tocchi e si rende conto che è tardi: alle dieci e mezza compare Bruno sarebbe passato a prenderlo per andare a Marina, per la fiera del Purgatorio. Si veste e parte per raggiungere le stalle. Deve arrivare sotto Pietra Cappa e ci vuole quasi un’ora di cammino. Fortunato sale per la strada che porta a Pressimici, come tutti i giorni, ma oggi la montagna gli appare diversa. La fiumara serpeggia e si tuffa nel mare di Marina, la sua pelle è squamata di pietre bianche che, nel primo raggio luccicano di più. Dietro di lui c’è Pietra Cappa, una roccia gigantesca che non si sa come sia arrivata fin lassù. Arrivato a Pressimici, apre la rudimentale chiusura fatta di legni e filo di ferro, e controlla che tutto sia in ordine, non si sa mai che il lupo non abbia fatto visita. Entra nella capanna e conta le capre. Ci stanno tutte: dieci capre maltesi di razza. Come ogni pastore, anche lui ha la sua bestia preferita, la chiama Minda, beve solo il suo latte. Poi passa alle altre e, una alla volta, le munge. Finita la mungitura alimenta gli animali con la biada e un pò di fieno, va al focolare e accende il fuoco. Su un treppiedi mette la caldaia e dentro il latte che ha munto in tre giorni, filtrandolo con una pezza di stoffa, affinchè siano tolte i peli e le impurità dal latte. Taglia tre rametti di fico e li getta nel latte con una buona manciata di sale. Appena bolle il latte, Fortunato toglie la caldaia dal fuoco ed aspetta fin quando la caiata non viene a galla.

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ette le mani nella caldaia, muove le braccia come a raccogliere e sente che nelle sue mani, laggiù, si sta formando una palla, compatta la toma che esce bianca come la luna. Fortunato mette la toma nella fascella e la stringe per farle perdere il siero. Prima da un lato poi dall’altro. Dopo un’ora e mezza, le forme di formaggio sono pronte e anche le tre ricotte, che mette nella tracolla insieme alle altre forme. Il vento di tramontana porta fin lassù il suono delle campane di Paisi. Sono le nove. Manca un’ora prima che arrivi compare Bruno. Si guarda intorno, sente la voce della montagna ululare, come un lupo quando il vento forte soffia in mezzo alla valle di Bagnao. Vorebbe essere una piuma di colomba, per lasciarsi portare per il mondo dalla Tramontana. Quel mondo che c’è oltre Marina, quel mondo che per colpa della sfortuna non ha mai visto. In quest’attimo i pensieri si bloccano. Sente un rumore che viene dalla montagna. Sente sonagli suonare proprio da sopra le eriche. Un baio bardato con finimenti di lusso, sonagli e fiocco rosso sulla cavezza, trasporta un carretto pieno di carbone. È arrivato compare Bruno.

RITUALI ANTICHI

L’ovile di Fortunato. Una mattina con i pastori aspromontani, raccontata da Filippo Musitano

U pecuraru i Petra Cappa

U

suli si staci levandu du fundu du mari, chianu chianu, russu russu. Ca luci sua accarizza i muntagni e u mari, tuttu a na vota, comu a nu patri chi accarizza a figghjia sua chjiù bella. L’aria chi arriva frisca risbigghjia Furtunatu, chi si arza du lettu e si stendicchia. Igliu dormi ‘nta cucina, ‘nta stanza i lettu staci mammisa cu sorisa. A campana da chiesa sona sei tocchi e si rendi cuntu ca esti tardu: e deci e menza cumpari Brunu passa mu pigghjia i vannu a Marina pa fera du Prigatoriu. Si vesti, e parti pa via du jiazzu. Ndavi i rriva sutta Petra Cappa, e si voli quasi na urata i caminu. Furtunatu ‘nchiana a strata chi leva a Pressimici, comu tutti i jiorna, ma oi a muntagna si pari diversa. A jiumara serpia e si tuffa ‘nto mari i Marina, ‘ndavi a pegli squamata i petri ianchi chi ‘ntò primu iornu luccicavano i chiù. D’arretu d’igliu c’esti Petra Cappa, na rocca gigantesca chi non si sapi comu fici i rriva finu a glià supa. Arrivatu a Pressimici, l’apri u passu fattu cu ligni e ferru filatu, e controlla se esti tuttu a postu, nommu ‘ndavia ricevutu a visita du lupu. Trasiu ‘nta capanna e cuntau i crapi. C’eranu tutti: deci crapi martisi i lussu. Comu ogni craparu, puru igliu ndavi a bestia sua preferita, a chiama Minda, mbivi sulu u latti soi. Apoi passa a l’attri e, ad una a vota, i mungi. Finuta a mungitura si jietta nu pocu i biava e fenu ‘nta mangiatura, vai gliò focularu e accendi u luci. Supa a nu tripodi menti a cardareglia e inta u latti chi mungiu nta tri iorna, firtratu cu na pezza,modacchè si caccianu pili e attri lordii. Tagghjia tri ramistegli i ficara,e i ietta nto latti cu na bona manata i sali. Ampena gugghji u latti Furtunatu caccia a cardara du focu e a faci i si riposa finu a quandu u latti non veni a galla quagghjiatu.

M

enti i mani nta cardara, faci a cogghjìri chi mani e senti ca, glià sutta, si staci formandu na palla, chianu chianu, compatta a tuma chi nesci jianca comu a luna. Furtunatu menti a tuma nta fasceglia e a stringi i scula u seru. Prima i nu latu e poi i l’attru. Dopu na ura e menza i pezzotti i casu sunnu pronti e i tri ricotti puru, i menti nta vertula insemi ad attri pezzotti. U ventu i tramuntana portau finu a glià supa u sonu di tocchi da campana i Paisi. Eranu i novi. Mancava na ura prima i veni cumpari Brunu. I nimali eranu conzati e puru u casu era fattu. Si guardava ‘ntornu, sentìa a vuci da muntagna gridari comu u lupu quandu u ventu forti passava nto menzu da valli i Bagnanu. Volìa m’esti na pinna i palumba i si faci levari pò mundu da tramuntana. Chigliu mundu chi c’esti dopu Marina, chigliu mundu ca pa curpa da sportuna non potti vidiri mai. Nta stu mentri, i penseri si bloccanu. Senti nu scrusciu veniri da muntagna. Senti cianciani e ciancianegli sonari propriu supa di briveri. Nu baiu ‘mbardatu cu finimenti i lussu,cianciani e nu noccu russu supa a capizza, carriava u carrettu chinu i carbuni. Arrivau cumpari Brunu.


Aspromonte orientale Non avevano avuto figli, meno male pensava Adele, chissà che avrebbe fatto ad una bambina una bestia di tal fatta! Oltre a quanto detto, Mario era scontento della consorte e si era invaghito di una megera di nome Lia, la locandiera del paese, e cercava il modo di liberarsi della moglie. Un

giorno scoprì che un giovane aiutante, Riccardo, aveva un debole per Adele. Perfetto! La bestia avrebbe spinto i due uno nelle braccia dell’altra e poi, davanti a Lia, li avrebbe uccisi invocando il delitto d’onore. Una sera di aprile il piano si realizzò, ma quando i due vennero colti e uccisi

inAspromonte Marzo 2014

nella fattoria del Mario, Lia si portò le mani alla gola mentre una fitta le lancinava il petto: «Muoio, muoio» disse e stramazzò. Rimasto solo, Mario si chiuse nel recinto dei porci… a riflettere, e vi passò molto tempo. In paese era un uomo dei più onorati.

Segnali nel cielo

"Tu si’ lu giudici di li mei signuri, eu sugnu ‘u capo di li foraleggi; tu scrivi cu’ la pinna e dai doluri, eu vaiu pe’ lu mundu senza leggi. Tu teni carta, pinna e calamaru pe’ castiari a sti poviri pizzenti, eu tegnu purvari e chiumbu, quandu sparu: giustizia fazzu a cui no ‘ndavi nenti”

Don Mico “barbazza”

C

Gli antichi carbonai sistemavano la legna, preferibilmente di faggio, in montagnole coniche, formate da un camino centrale e cunicoli di sfogo laterali, usati con lo scopo di regolare il tiraggio dell’aria. Era un modo per sfruttare la combustione imperfetta del legno, che avveniva in condizioni di scarsa ossigenazione.

Il personaggio FERDINANDO MITTIGA DETTO “CACI” Nella foto la costa jonica vista dallo Zomero. L’immagine a sinistra è tratta dalla copertina del libro di Antonella Musitano Sud. Tutta un'altra storia. Platì 1861: un caso emblematico di «brigantaggio» edizioni Laruffa Editore

di MIMMO CATANZARITI

orreva ormai già da più di mezz’ora, passando attraverso fitti faggi e radi agglomerati di pini loricati che ricoprivano quella vasta area dell’Aspromonte meridionale. Aveva perso di vista Petru e ‘Ntoni u gucceri, saltati come lui nel vajuni i maru ‘Ndria per cercare di sfuggire ai Piemontesi che avevano attaccato, senza farsi sentire, lo sparuto gruppo di briganti accampati nei piani di Juncu. «Tradimento!» aveva subito pensato Mico barbazza, nei momenti successivi alla scarica di fucileria annunciata dal grido di «Morte ai briganti!» venuto paesi vicini. dalle gole dei circa 50 soldati re- L’eco di qualche colpo isolato si golari dell’esercito piemontese. sentiva ormai attutito dalla diNella fretta il corno di vacca, che stanza che aveva percorso, e che conteneva la polvere e le palle gli ispirava una rinnovata fiducia del fucile, era caduto, sgancian- nella possibilità di scamparla andosi dalla mazza dell’arma. cora una volta. Come avevano Nella spalla fatto i Pieun dolore «Dopo aver sparato il montesi a sordo, contiraggiungerli solo colpo disponibile nuo; la ferita sui piani così di punta, ri- contro le sagome dei in fretta? Sicevuta du- bersaglieri, si era curamente rante una precipitato alla cieca nel q u a l c u n o scorreria di della Guardia q u a l c h e dirupo che costeggiava Nazionale giorno prima il rigagnolo d’acqua» conosceva le e curata alla mulattiere e i meno peggio dalla compagna di sentieri che portavano in montaCiccio Pugliese, con un intruglio gna, dal paese dove erano stati il di bianco d’uovo sbattuto mi- giorno prima, e sicuramente i solschiato a olio d’oliva ed erbe dati Piemontesi non erano stanstrane, aveva ripreso a sangui- chi abbastanza per rinunciare a nare copiosamente. dare la caccia alla loro banda che sapevano rimaneggiata dopo la SE NON SI FERMAVA a cer- morte di Don Ferdinando Mitcare di tamponare il sangue con tiga, il loro capo indiscusso. Non dell’altra stoffa, non ce l’avrebbe voleva fare anche lui la stessa fatta a raggiungere i "piani di Mi- fine, visto che ormai era già stato safumera", dove avrebbe sicura- associato in carcere ad Ardore asmente trovato aiuto nei vari sieme al Mittiga, accusato di pagghiari sparpagliati in tutta la furto e di ribellione armata in zona, abitati dai carbonai dei compagnia di altre persone, e dal

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100 LIRE PER LA TESTA

DEL BRIGANTE

Il triste epilogo delle bande dei briganti. Traditi e uccisi, dopo l’Unità d’Italia, dai loro stessi camerati aspromontani quale carcere erano stati fatti evadere da un gruppo di insorti nei moti del 1847 che avevano interessato la parte jonica della provincia. GIA’ SI VEDEVANO alcune colonne di fumo che salivano al cielo, chiaro indizio delle presenza dei carbonari. «Sono ormai salvo» pensò Mico, e affrettò la ormai stanca andatura per raggiungere la più vicina delle carbonaie, dove si notavano dei movimenti di persone, che lui identificò come carbonari, visto che si trovavano a ridosso delle piramidi di legna. All’improvviso vide un lampo, sentì un dolore sordo nel petto, le gambe persero l’appoggio e stramazzò a terra senza più vita! Da dietro un faggio, Gianni carzetta e Carmelo u scurzuni, uscirono allo scoperto, si avvicinarono con cautela al corpo di Mico, e dopo essersi accertati che non respirava più, preso un coltellaccio si accinsero a tagliare la testa al poveraccio. Macabro trofeo da consegnare al comandante del manipolo di soldati piemontesi, come prova tan-

Il Generale aveva raccolto nelle sue fila circa 200 uomini, quasi tutti provenienti da Platì e dai paesi vicini, nella più temuta e numerosa banda armata della provincia reggina. Povero Don Ferdinando. Lo avevano ammazzato come un cane, giù verso Natile, al Mulino nuovo. Tradito dallo stesso mulinaro, che complice lo aveva consegnato ai soldati. E, dopo averlo ucciso a tradimento, gli avevano tagliato la testa ed erano sfilati per le strade del paese con il macabro trofeo conficcato su di un palo.

gibile per poter ottenere la taglia equipaggiati, più di 100.000 soldi ben cento lire promessa nel dati dell’esercito regolare Savoproclama del colonnello Fumel, iardo ebbero facilmente la che i due compari conservavano meglio, grazie sopratutto alle ben ripiegato nella vertula e che molte leggi inumane emanate per recitava testualmente «Io sotto- risolvere con l’arma del terrore scritto, avendo avuto la missione una resistenza che in molti casi di distrugera dovuta a gere il bri- «Ai figli di Mico, Gianni delinquenti g a n t a g g i o , e Carmelo, dopo essere comuni, ma prometto una in molti altri ricompensa stati briganti nella loro a veri e prodi cento lire terra, non rimase altro pri "partiper ogni bri- che scappare via in giani" che gante, vivo o combattecerca di altri luoghi morto, che vano per un mi sarà por- dove vivere e lavorare » ideale e una tato. Questa bandiera. ricompensa sarà data ad ogni bri- Nacque anche così quella che si gante che ucciderà un suo came- sarebbe chiamata Unità d’Italia, rata; gli sarà inoltre risparmiata e dopo le mancate promesse sulla la vita». concessione delle terre ai contadini, quella che sarebbe diventata QUESTO ERA L’EPILOGO di poi la "Questione Meridionale". uno dei tanti episodi che si svol- Ai figli di Mico, Gianni e Carsero in quella che sarebbe passata melo e di molti altri meridionali, alla storia come la guerra al bri- dopo essere stati briganti, nella gantaggio post-unitario, e che propria terra, spesso per miseria vide atrocità commesse spesso da estrema e disperata, non rimase ambedue le parti, anche se le altro che scappare via in cerca di forze in campo non erano equili- altri luoghi dove poter vivere e brate. Contro una accozzaglia di lavorare. disperati male armati e peggio Diventarono emigranti.


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Aspromonte greco

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Ta Draku

di Salvino Nucera

I MONOLITI DELL’ASPROMONTE SONO OPERA DELL’UOMO Per quanto i blocchi dei triliti possano presentare facce piane derivanti da attività tettoniche preesistenti che hanno agevolato la loro estrazione dalla cava, vi sono diversi indizi dell’intervento umano per la loro erezione: la cura nell’assemblaggio dei blocchi; la grande attenzione agli incastri fra gli elementi contigui, che, nel caso degli ‘architravi’ era agevolata da geometrie ‘a conca’ prodotte da lavorazioni con lo scalpello; la loro disposizione geometrica a rappresentare una vera e propria ‘architettura’, con piani o basi di appoggio squadrate su cui gravano i ‘pilastri’ costituiti a loro volta da blocchi di aspetto più o meno geometrico (cubico o parallelepipedo). Questi ultimi recano, talora, incisi ‘pittogrammi; la presenza di ‘piste’ di ampiezza variabile da 1,5 a 4 m, e generalmente disposte lungo i crinali montuosi, delimitate da blocchi squadrati e ben allineati”. Alessandro Guerricchio

Fu una leggerezza non chiedere il parere di qualche abitante di Ghorìo, una leggerezza che ha portato negli anni ad una banale storpiatura nel nome delle Caldaie del Drako

Ghorìo di Roghùdi e il tesoro dei briganti

IL PUNTO GRIGIO del mio orizzonte

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Nelle foto da sinistra a destra le Caldaie del Drako e la Rocca del Drako a Roghudi Antico. Foto dell’Ente Parco d’Aspromonte

Q

È

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C

in dalla tenera età ero venuto a conoscenza, guardando dal balcone di casa mia o da qualsiasi altro punto del mio paese natìo Ghorìo di Roghùdi (Chorìo tu Richudìu), dell’esistenza, in un vallone prospiciente il paese, di qualcosa di imponente nonostante la distanza, di favoloso, di fiabesco a sentire i racconti dei familiari, dei conoscenti e di tutti i paesani. Un punto grigio che si stagliava nel costone dominante la vallata del Furrìa, affluente primario del torrente Amendolea e che aveva per nome “La Rocca del Drako” (I Rocca tu Draku). Quando la gente ne parlava, l’ho capito quand’ero un po’ cresciuto, si coglieva nelle loro voci un filo di timore, un tono reverenziale, apparentemente inspiegabile.

uando ho raggiunto l’età di otto, nove anni mio padre ha incominciato ha condurmi con sé nelle proprietà di Cugnùso, località sita nel comune di Africo Vecchio. La strada mulattiera che conduceva a Bova, Africo Vecchio e Cugnùso, il trivio di “Pedimpìso”, passando per il torrente Apòscipo (“metto al coperto dal vento del nord”, Epìtteto, Rocci) che forniva l’acqua per irrigare tutte le proprietà, passava a fianco al grande masso che tante volte avevo visto solo da lontano. La Rocca si ergeva, imponente, su un tripode ed aveva intagliati tre cerchi (impossibile che siano stati il frutto delle azioni degli agenti atmosferici, solo quello guardante a sud è stato eroso, in parte, da tali azioni) che guardano a est.

i si raccontava anche che nelle vicinanze della Rocca si trovavano sette caldaiette, “Le caldaiette del Drako” (Ta vrastarùcia tu Draku), in pietra arenaria, sicuramente scolpite dagli agenti atmosferici. Nelle sette (numero magico) caldaie il Drako, di notte, consumava la sua cena consistente in carne ovina e caprina, ma anche in polenta con ricotta. Mi veniva raccontato che il Drako era un omone grande e grosso, provvisto di grande forza, erculea, invincibile che dimorava dentro il monolite per custodire un inestimabile tesoro raccolto dai briganti, perciò non si allontanava mai dalla sua dimora se non per consumare il suo lauto pasto.

o avuto modo di visitare dei luoghi sacri di età minoica o pre-minoica nell’isola di Creta (Are) dove erano conficcate delle lastre di pietra che guardavano ad oriente. Sicuramente la Rocca è opera della natura, ma per la posizione, e per la conformazione, probabilmente è stata scelta in epoca molto antica come oggetto di culto da chissà quali popolazioni. Le voci popolari, confermate anche da mio padre, sostenevano che, chiunque si fosse avvicinato per colpire la Rocca in qualsiasi modo, un forte vento lo avrebbe sbattuto giù per la vallata uccidendolo. E gli anziani ricordavano persino il nome di qualche compaesano, nativo di Ghorìo dunque, a cui ciò era successo.

M

da ritenere che un pastore, mentre accudiva il suo gregge, sia scivolato ed abbia perso la vita, lì nelle vicinanze della Rocca del Drako. Drako in lingua ellenistica significa “occhio”. Chissà se ha qualche relazione con il fatto che le caratteristiche del personaggio dei “cunti” siano quasi identiche a quelle dei Ciclopi, ai quali subito l’ho associato dopo i primi miei studi dell’Odissea di Omero. Quando il C.F. dello Stato ha fatto realizzare la strada rotabile che porta a Pedimpìso, una via che passa da Bova e conduce sull’Aspromonte, qualcuno degli operai, memore della leggenda del Drako, ha pensato bene di rompere una forma rocciosa di piccola caldaia per vedere come potesse essere fatta all’interno.

osì le sette (numero ricorrente in molte fiabe sul Drako) “caldaie del Drako”, questo il loro nome vero e non “Caldaie del latte” (non avrebbe senso logico), sono rimaste soltanto sei. L’errore sul nome è nato negli anni ‘80 del secolo scorso, quando la Comunità Montana Versante Ionico Meridionale ha deciso di mettere dei segnali di indicazione nei comuni compresi nell’Ente. Una leggerezza non aver chiesto il parere di qualche abitante di Ghorìo, una leggerezza che ha portato negli anni ad una banale storpiatura del nome. Concludo, confermando la mia modesta opinione da profano, che il monolite sia stato un oggetto sacro di culto per popolazioni forse preistoriche.


Aspromonte greco DAL WEB: SFRAMELI

A

inAspromonte Marzo 2014

chi ha dimostrato senza

male, morte e vita, passato e fu-

bile vivere, e vivere in

comunitario e sul coraggio di ve-

grandi gesti che è possi-

piedi, anche nei momenti peggiori. A chi resiste con le ragioni della giustizia, della legalità,

turo, e punta sul discernimento

rifiche. A chi ha grande amore

per la vita, per le persone con-

crete, per la loro dignità, per la

della equità, della dignità perso-

poesia che non è calcolo, per la

sapientemente riconosce bene e

il bene, per la bellezza.

nale, sociale e istituzionale. A chi

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forza di chi risponde al male con

Bova. Il rito delle Pupazze, nella domenica delle Palme, fa rivivere il mito. Mischia sacro e profano

LE PERSEFONI DI FIORI

Le statue rappresentano la donna e vengono realizzate intrecciando ramoscelli di ulivo (Steddhe), ben saldati ad un telaio di canne. Sono poi decorate con fiori, foglie e frutti di FRANCESCO VIOLI

?

L’antico rito della fertilità dei campi

Diverse sono le ipotesi sull’origine di questo rito. Sicuramente le Pupazze servivano al culto per richiedere la fertilità dei campi, infatti esse possono tranquillamente essere paragonate a delle Persefoni, in allusione al mito della dea del grano Demetra, a cui Ade rapì la figlia Kore, facendo calare sulla terra un rigido inverno. Questo rito, oltre a significare il passaggio dalla morte alla vita, dalla Quaresima alla Resurrezione, assume un significato che va oltre le semplici credenze o i dogmi della fede.

N

ella Calabria Greca la figura della donna ha avuto ed ha, tuttora, un ruolo fondamentale, sia dal punto di vista sociale che antropologico. In ogni periodo dell’anno riti e simboli si rifanno al mito femminile, ma è in primavera che arte e cucina, musica e religione, costumi e tradizioni, in una dinamica che coinvolge un po’ tutti, raggiungono il massimo della loro espressione. L’attenzione di chi vuole rivivere l’antico, l’essenza di un’identità che spinge il grecofono oltre il confine della storia, fino alla notte dei tempi, si concentra in primavera, come una continua ricerca della proprie origini, della proprie radici, in un passaggio che coinvolge sia il periodo quaresimale sia il periodo pasquale, un connubio tra sacro e profano. Da circa un decennio, le tradizioni popolari della Calabria greca in questo particolare periodo dell’anno si sono arricchite di un nuovo rito, frutto di un percorso di recupero delle tradizioni che ha suscitato l'interesse persino della comunità scientifica.

A BOVA, la Chora, capitale della Calabria greca, la volontà dei suoi cittadini di tutelare la propria cultura ha reso possibile il ritorno alla commemorazione della domenica delle Palme con la tradizionale “processione delle Pupazze”. Statue che rappresentano la donna e che vengono realizzate mediante l’intreccio di ramoscelli di ulivo chiamati Steddhe, ben saldati ad un telaio fatto di canne e decorati con fiori,

Le Pupazze all’uscita della chiesa di Bova. Foto di Pasquale Faenza

Ed è così che cudduraci (ciambelle decorate con uova, simbolo di fertilità e rinascita), musulupi (particolare tipo di formaggio), pupe (bamboline fatte di pasta di pane o di strati di fichi secchi) assumono le sembianze di donne a testimonianza che l’origine della vita si deve esclusivamente a questa figura collane, acconciature ed orli. Si realizzano pupazze di diverse dimensioni e si attribuisce loro il carattere di mamma oppure di figlia. Il rito inizia la settimana precedente la domenica delle

Palme, quando le famiglie si riuniscono per iniziare l’opera di realizzazione di questi suggestivi manichini di foglie, fiori e frutti. Si lavora soprattutto la sera: ogni componente della famiglia con-

tribuisce secondo la propria capacità mentre vengono ricordati aneddoti, storie, ricordi di un passato che, grazie a queste Maddamme, continua a vivere. Viene così garantito il rimando della tradizione che da padre in figlio passa attraverso la costruzione delle Pupazze. Solo al mattino della domenica delle Palme, queste particolari figure femminili vengono abbellite con fiori, frutta e primizie al fine di garantire loro la freschezza degli elementi decorativi. Adesso tutto è pronto per la solenne processione. L’appuntamento è nella Chiesa di San Leo, da dove inizia la processione per le vie di Bova fino a raggiungere la Cattedrale dell’ Isodia. Qui, dopo la solenne Celebrazione Eucaristica, davanti al sagrato, avviene la benedizione delle pupazze e subito dopo si riprende il cammino verso la piazza principale del paese, dove avviene il momento culminante del rituale: le sculture vegetali vengono smembrate e ogni steddha, viene distribuita ai presenti, affinché diventi testimone di benedizione all’interno di ogni casa, oppure venga collocata nei campi per rendere fertile i terreni da coltivare. LE PUPAZZE non rappresentano solamente una simbologia ma acquisiscono valore storico e sociale che cattura l’attenzione e lo studio di esperti ed appassionati. Tutto il borgo di Bova viene riqualificato grazie al recupero di questa antica tradizione. Ed ogni anno il mito rivive attraverso Storia.


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Aspromonte occidentale

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Il maestro Barlaam di Seminara B

arlaam di Seminara fu matematico, filosofo, vescovo , teologo e studioso di musica. Si formò nel Monastero greco ortodosso di S. Elia (Galatro) e dopo essere stato ordinato sacerdote, lasciò la Calabria alla volta di Bisanzio, dove finì gli studi. Il suo successo come filosofo fu la causa della gelosia dell'umanista bizantino Niceforo Gregorio. Nel 1333, nell'ambito delle trattative per la riunificazione tra le due chiese di oriente e di occidente, venne destinato a difendere le ragioni greche. Barlaam fu protagonista di una violenta polemica contro i metodi ascetici e mistici di alcuni monaci dell'Athos e del loro sostenitore Gregorio Palamas.

Nel 1342 conobbe Petrarca ad Avignone a cui iniziò ad insegnare il greco. Il Petrarca si adoperò per fargli assegnare la diocesi di Gerace, così Barlaam fu nominato vescovo di Gerace da papa Clemente VI il 2 ottobre dello stesso 1342. La Bolla relativa alla sua elezione al vescovato di Gerace riporta: "Monachus monasteri Sancti Heliae de Capasino Ordinis Sancti Basilii Militensis Diocesis, in sacerdotio constitutum". Barlaam fu maestro di greco anche di Giovanni Boccaccio e diede un importante contributo, attraverso la riscoperta dei testi greci, anche a tutto ciò che non molto tempo dopo svilupperà il movimento umanista.

Nella foto a destra Dante Alighieri in una rappresentazione di Agnolo Bronzino (1530). Nella foto al centro Barlaam di Seminara, nella foto sopra Giovanni Boccaccio, nella foto sotto lo stemma dell’attuale vescovo di Gerace

Fu “Divina” per Boccaccio

S

crittore toscano vissuto tra 1313 e 1375, Boccaccio nacque probabilmente a Firenze e fu autore del Decameron e di altre opere in volgare e in latino. Non conobbe mai direttamente Dante, ma ne ammirò l'opera e scrisse su di lui un Trattatello in laude di Dante che ne è anche una biografia. Curò un'edizione manoscritta della Commedia, correggendone il testo e aggiungendo al titolo l'aggettivo Divina, poi rimasto nelle edizioni a stampa del Cinquecento.

di Giuseppe Gangemi

«

E se fosse Crotona?». Barlaam di Seminara, amante dei viaggi e di una vita che richiede entrate consistenti, si trova nella città di Gerace dove è stato da poco nominato vescovo e dove ha trovato, finalmente, una rendita adeguata ai propri bisogni. Nella nuova sede è tormentato dai seguaci del vecchio vescovo Nicola, morto pochi mesi dopo la nomina, prima di riuscire a compensare quanti lo avevano aiutato ad occupare la carica. Non hanno gradito l’arrivo da fuori di questo erudito che ha ricevuto la nomina da Papa Clemente VI solo perché amico e protetto di Francesco Petrarca, magnus poeta et historicus. I soli momenti in cui Barlaam si sente in pace sono quelle poche ore che riesce a ritagliarsi per gli studi. QUELLA LUNGA SERA di domenica 26 gennaio 1343, non se l’è sentita di dedicarsi ai suoi raffinati, e pesanti, studi teologici o matematici e si sta rilassando con la lettura della Commedia, dal manoscritto regalategli da Giovanni Boccaccio, conosciuto a Napoli qualche anno prima. Deve a Boccaccio se è stato introdotto al Petrarca e, quindi, lo considera la fonte primigenia della sua attuale posizione. In segno di rispetto per il giovane toscano, ha iniziato a leggiucchiare la Commedia. Poi, si è innamorato del testo e quella poesia lo ha preso. A Gerace, legge il testo ogniqualvolta il suo animo è più preso e appesantito dalle polemiche e dai dispetti di chi dovrebbe collaborare alla gestione della diocesi. NEL CANTO OTTAVO del Paradiso, versi 61-63, si imbatte in un riferimento ai confini dei pos-

Vescovo di Gerace dal 1342, Barlaam insegnò il greco a Boccaccio e Petrarca e diede un importante contributo al movimento umanista che si sviluppò poco tempo dopo

E SE FOSSE

CROTONA!

sedimenti italiani di Carlo Martello d’Angiò, re d’Ungheria, morto giovane senza aver preso possesso delle terre meridionali della penisola: “... e quel corso d’Ausonia che s’imborga di Bari, di Gaeta e di Catona da dove Tronto e Verde in mare sgorga”. Disturba la mente matematica di Barlaam il fatto che Dante citi tre città posizionate su due dei principali mari e non su tutti i tre che bagnano le terre una volta di Carlo Martello: «Bari è sul mar Adriatico, Gaeta è sul mar Tirreno e Catona è sullo stretto di Messina, nel braccio di mare che mette in comunicazione Tirreno e Ionio, senza appartenere a nessuno dei due». GLI E’ VENUTO subito in mente, leggendo. Ed è stato a questo punto che si è chiesto: «E se fosse Crotona?». Ha quindi proseguito nell’argomentare: «Crotona, o Crotone, sarebbe

sullo Ionio e i tre più importanti mari che bagnano le terre di Carlo Martello sarebbero tutti rappresentati. Con Catona, invece, manca all’appello lo Ionio». A Barlaam sembra che manchi la simmetria, la completezza, la geometrica potenza della rappresentazione geografica completa. Poi, in parte, concede: «Vero che Catona è notissima come porto più comodo per arrivare in Sicilia e, in questo senso, è la punta estrema dei territori di Carlo Martello. Il che completerebbe il riferimento ai due fiumi: il Verde che sfocia nel Tirreno, non lontano da Gaeta, esattamente a Minturnae, e il Tronto che segna il confine adriatico dei possedimenti di Carlo Martello». Non è ancora convinto. Prosegue a pensare: «Il verso centrale fa tre riferimenti a città sui confini di acqua salata e, quindi, simmetria vorrebbe che, essendo tre i mari principali, ogni città sia su un mare diverso. L’ultimo verso segna i confini di

acqua dolce e qui è giusto che ce ne siano solo due». Rimane ancora dubbioso e, quasi senza deciderlo, si alza a cercare tra i volumi della biblioteca della diocesi, i pochi rimasti dalle razzie dei religiosi delusi dalla sua elezione.

CERCA QUALCHE opera di Polibio. Si ricorda che Polibio elencava addirittura tre mari tra Scilla e Venezia: Siculo fino a Stilo, Ionio fino a Otranto e Adriatico fino a Venezia. Con il mar Tirreno, diventavano quattro. Rimane deluso. Pochissimi insignificanti libri in greco sono rimasti negli scaffali. E Polibio non c’è. Troppo prezioso! Motivo per cui non lo ha mai avuto nemmeno tra i suoi libri personali. Trova, in uno scaffale mezzo vuoto, una copia dell’Eneide, salvatasi dal saccheggio dei religiosi greci di Gerace, forse perché in latino. Si ricorda della descrizione di un incontro dei fuggiaschi di Troia,

guidati da Enea, con Poliphemus, già accecato da Ulisse, come cantato nell’Odissea. La sua mente si illumina ad una nuova ipotesi. Grida: «È Virgilio che guida Dante nella Commedia! Cosa dice Virgilio?». Prende l’Eneide in mano e va a cercare i passi in cui viene descritto il tentato superamento dello Stretto che, con mare forte, implica il rischio di finire su Scilla o Cariddi. Legge le prime frasi di ogni libro e passa oltre. Arriva al quarto libro e trova che narra già dell’innamoramento di Didone per Enea. Si tratta, quindi, del libro terzo. SCORRE LE PAGINE andando in cerca del nome di Poliphemus. Ne individua il primo e prosegue verso la conclusione scorrendo riga per riga con il dito, alla ricerca di parole, ma senza leggere. Trova, infine, la parola ionios (verso 671) e legge prima e dopo. Virgilio racconta di un tentativo di passare attraverso lo stretto, andando verso Scilla e Cariddi, per poi rinunciare e tornare indietro per circumnavigare la Sicilia. Enea racconta, con le parole messegli in bocca da Virgilio, che, andando verso Scilla, si trova nel mare Ionio. «Per Virgilio, la guida di Dante, il Tirreno finisce a Scilla e lo Ionio comincia da Scilla. Quindi tre sono i mari corrispondenti alle tre città: Gaeta per il Tirreno, Bari per l’Adriatico e Catona per lo Ionio». Soddisfatto il proprio bisogno di simmetria, e ancora più ammirato per l’opera e il Poeta, il vescovo Barlaam ritorna alla scrivania e ricomincia a leggere.


Tra i boschi d’Aspromonte

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L’apicoltura calabrese e le regole di autocontrollo del prodotto

MIELE, ORO IMPURO?

Frammenti di insetti, acari, peli di roditori, particelle di origine carboniosa, filamenti di tessuto. L’inquinamento è causato da semplici errori commessi dall’apicoltore durante la smielatura di ANGELO CANALE*

Dal miele di « arancio a quello di castagno, ai quali si aggiungono eucalipto e sulla Tale alimento è « sempre più

utilizzato da anziani, bambini, sportivi e diabetici

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a Calabria è terra d’eccellenza per la produzione di noti ed apprezzati mieli monoflorali di qualità, dal miele d’arancio a quello di castagno, ai quali si aggiungono pregiati mieli di eucalipto e sulla. Il massiccio aspromontano, con le sua imponenti vette a relativa poca distanza dalla costa, determina situazioni microclimatiche diametralmente apposte sui versanti tirrenico e ionico, le quali influiscono direttamente sulle dinamiche di sviluppo delle famiglie di api, con frequenti blocchi invernali di covata sul Tirreno che si contrappongono a presenza di covata per tutto l’anno nelle più miti condizioni ambientali delle aree ioniche. In queste ultime, è possibile passare nel giro di pochi chilometri da produzioni tipicamente costiere (arancio) a fioriture tipiche di aree collinari e pedemontane (sulla, eucalipto, castagno), situazione quasi unica nel panorama nazionale. LA QUALITA’ del miele è un concetto molto più esteso rispetto al semplice connotato di tipicità determinata dal luogo di produzione. Tale alimento nutraceutico è infatti oggi sempre più utilizzato da tutte le fasce d’età della popolazione e da diverse categorie di persone (bambini, anziani, sportivi, diabetici). Per questo motivo, è necessario assicurare al consumatore, oltre che la neces-

saria denominazione d’origine, elevati standard di sicurezza igienico-sanitaria. Lo stesso decreto legislativo n. 179 del 2004 concernente la produzione e la commercializzazione del miele recita che “nel limite del possibile il miele deve essere privo di sostanze organiche ed inorganiche estranee alla sua composizione”. Tuttavia, è noto che sottoponendo il miele a filth test - una

Il filth test è un metodo analitico semplice ed economico, che permette di separare per filtrazione le impurità solide

semplice ed economica metodica analitica che permette di separare per filtrazione le impurità solide in esso presenti - possono essere ritrovate diverse impurità solide di origine esogena: frammenti di insetti, acari, peli di roditori, particelle di origine carboniosa, filamenti di tessuto. Frequentemente, l’inquinamento è da mettere in relazione a semplici errori commessi dall’apicoltore nelle diverse fasi del processo produttivo, in particolare nei locali di smielatura. Gli acari, ad esempio, si sviluppano

in contenitori per miele mal lavati, nei quali successivamente proliferano alcune specie fungine delle quali alcuni di essi si nutrono. SEMPLICI accorgimenti, come quello di utilizzare recipienti nuovi o accuratamente lavati e ridurre al minimo l’umidità del locale di lavorazione, possono mitigare significativamente l’insorgenza di questa problematica. Per quanto riguarda la presenza di insetti (o loro frammenti) all’interno del miele, il posizionamento alle finestre e agli ingressi del locale di smielatura di reti anti-insetto associate alla presenza di dispositivi di cattura di tipo cromo-tattico, rappresentano utili ed efficaci strumenti di controllo della contaminazione. L’eventuale rinvenimento di peli di topo e/o ratto rappresenta un rischio biologico non trascurabile e obbliga a rivedere le procedure aziendali in merito alla efficacia del piano di monitoraggio e di controllo della loro presenza, dato che non è da escludersi che essi possano fungere da vettori di microrganismi patogeni. Infine, un eccessivo uso dell’affumicatore o l’uso di combustibili non idonei sono responsabili della frequente contaminazione del prodotto da parte di particelle carboniose, che può essere ridotta utilizzando come combustibile sacchi di juta pulita.

LE AZIENDE apistiche rispondono della qualità e della sicurezza del miele che producono. L’apicoltore, anche se dispensato dall’avere un piano di autocontrollo aziendale redatto secondo il sistema HACCP, è tenuto a conoscere le caratteristiche del processo produttivo e del prodotto (in apiario e in mieleria), a individuare i pericoli che potrebbero determinare la produzione di

L’apicoltore è tenuto a attuare le misure preventive e di controllo atte a eliminare le contaminazioni miele non idoneo al consumo e, di conseguenza, attuare le misure preventive o di controllo atte a ridurre o eliminare le contaminazioni. Operando in tal senso, possiamo portare l’apicoltura calabrese verso l’eccellenza.

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Università di Pisa Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali E-mail acanale@agr.unipi.it


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Tra i boschi d’Aspromonte

inAspromonte Marzo 2014

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Montagne

Le Serre

SERRESI?

Nelle foto il Parco Naturale delle Serre

SAUVAGES D’EUROPE di MIRKO TASSONE

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l “decennio francese”, il periodo storico iniziato, nel 1806, con l’invasione napoleonica del regno di Napoli e concluso, nel 1815, con la cattura e la fucilazione di Gioacchino Murat, rappresenta, anche per la Calabria, un’epoca particolarmente densa di avvenimenti. Ogni angolo della regione venne investito da un generale stato di agitazione. Ad esacerbare gli animi, da una parte, l’oro inglese, dall’altra, gli agenti borbonici che dalla Sicilia alimentavano l’ansia di rivincita di re Ferdinando e della regina Carolina. A fare il resto lo sprezzante atteggiamento della soldataglia francese che, come ricorda Sharo Gambino, arrivava «in Calabria convinta di essere giunta tra i “savauges d’Europe”». Le continue vessazioni e gli oltraggi subiti scatenarono il risentimento di una popolazione destinata ad alimentare il fenomeno del brigantaggio. In mezzo rimase la “zona grigia” quella che più di ogni altra subì gli effetti nefasti di una lotta senza quartiere.

IL BRIGANTAGGIO e le ribalderie dei francesi non risparmiarono neppure Serra San Bruno, la cittadina della certosa, brutalmente saccheggiata nel 1807. Sotto l’incalzare del comandante della gendarmeria, il “crudele” Voster, per utilizzare la definizione usata ne La platea, la cronistoria cittadina redatta dai cappellani della chiesa Matrice, la guardia civica si spingeva ripetutamente nei boschi a dare la

«Il generale Manhes, il 10 marzo 1811, oltre che l’impiccagione di Timpano, dispose l’esilio dei preti e la chiusura delle chiese»

caccia ai briganti. A causa dell’impari lotta il loro numero andava assottigliandosi. Il 2 marzo 1811, tre briganti, nella speranza di ottenere un salvacondotto, si rivolsero a tale “Raffele Timpano del Paparello”. In assenza del Voster il comando della piazza era stato affidato al tenete di gendarmeria, Gerard ed al maresciallo Ravier. Il Paparello, accompagnato dal giudice di pace, Bruno Chimirri, dal comandante della guardia civica, Domenico Peronacci e dal civico Giuseppe Amato, recatosi presso l’alloggio dei due comandanti francesi li trovò completamente ebbri. Consegnata una pistola ciascuno al Peronacci ed al Chimici, si misero in marcia. Giunti presso la baracca in cui si trovavano i briganti, vennero freddati nel tentativo di fare irruzione. Insieme ai due gendarmi trovò la morte il serrese Domenico Iorfida. Gli altri, rimasti incolumi, attesero l’arrivo della guardia civica che uccise i malfattori. In seguito all’accaduto un gendarme si recò Nicastro per informare il generale Manhes. I SERRESI inviarono una loro delegazione incaricata di presentare un circostanziato rapporto. «Ricevuta una lettera stilata dall’intendente – si legge ne La platea - il generale che “ non era un uomo ma un diavolo vestito di carne umana”, strappò la missiva senza neppure leggerla». Trascorsi un paio di giorni accompagnato da una ventina di dragoni, giunse a Serra il generale Man-

hes. Prima di partire, il 10 marzo 1811, oltre l’impiccagione di Raffele Timpano, dispose l’esilio dei preti e la chiusura delle chiese. Il bando con il quale venivano preclusi i luoghi di culto stabiliva: «Le chiese tutte del comune di Serra saranno serrate, e le campane legate, poiché il culto sarà sospeso in esso comune fino alla distruzione del brigantaggio. In conseguenza non vi sarà amministrazione di sacramenti, e perciò i preti tutti del comune di Serra si porteranno a Maida finché i loro briganti saranno distrutti». IL PROCLAMA, nel paese definito da Norman Douglas “il più bigotto della Calabria”, non tardò a manifestare gli effetti sperati. Alla partenza di Manhes i serresi si misero sulle tracce dei briganti i quali, a corto di vettovaglie, furono costretti a divorare i loro compagni morti. “Venne rinvenuto il cadavere di un capo brigante al quale era stata asportata la carne delle cosce”. A fine marzo 1811 dei briganti alla macchia ne erano rimasti solamente due, Pasquale Ariganello e Pasquale Catroppa, detti i due Pasquali. Grazie ad una taglia di 200 ducati la loro avventura si concluse il 12 aprile 1811, quando vennero uccisi nel sonno da due pastori di Pazzano. I serresi, informati dell’accaduto il 14 aprile, reclamarono immediatamente le chiavi delle chiese ed il ritorno di tutti i sacerdoti allontanati dal Manhes.

I boschi dei Certosini

di FRANCESCO TASSONE

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l Parco Naturale Regionale delle Serre è stato istituito con la legge regionale n° 48 del 5 maggio 1990; insiste su un vasto territorio che si estende per ben 17.687 ettari, all’interno del quale sono inclusi anche i 900 ettari circa della zona umida del Lago Angitola. Le conche di Serra San Bruno e di numerosi altri comuni dove si sono insediate le civiltà, il versante ionico delle Serre, si caratterizza per i “tagli” delle fiumare: ampi alvei ghiaiosi ed asciutti per gran parte dell’anno, che si aprono a ventaglio verso la foce, sulla costa. Il paesaggio delle Serre è caratterizzato da pendici e rilievi coperti da vaste estensioni di bosco, che rappresentano le essenze forestali più importanti della Calabria: la macchia mediterranea a quota bassa, i castagneti a quota medio alta e le faggete e gli abeti a quote che superano i 1000 metri. Nel Parco delle Serre, sono state individuate aree di interesse Comunitario “SIC”: Bosco Santa Maria, la piana della Lacina, Stilo-Archiforo e Lago Angitola. Il Bosco Santa Maria prende il nome dalla chiesa che si erge al centro di maestosi abeti bianchi, dove Bruno di Colonia, fondatore dell’ordine certosino, faceva penitenza e dove ancora si trovano le spoglie. La Pianura della Lacina, nasce dal bacino del torrente Alaco. Molto importante dal punto di vista naturalistico per la presenza di fitocenosi igrofile rare, ricche di specie

infoCome

ad areale relitto, rare o endemiche. Il bosco Stilo-Archiforo rappresenta una delle più significative testimonianze dell’originario paesaggio. È un raro esempio di formazione praticamente pura (abete bianco, associato al faggio nelle zone più elevate). L'Oasi Lago dell’Angitola, una delle riserve più importanti del mediterraneo, è stato creato artificialmente nel 1966 sul vecchio alveo del fiume Angitola. Attualmente la gestione dell'oasi è affidata al WWF Italia. È circondato da declivi ricoperti da uliveti, da macchia mediterranea ed una fascia di rimboschimento, con predominanza di pino d’Aleppo, mentre pioppi neri, cannucce tife, salice bianco, ontani neri, mazze sorde crescono sulla riva, con gli eucalipti e le querce da sughero. Per le sue particolari condizioni climatiche e l’abbondanza di cibo, attrae una grande quantità di uccelli (più di 100 specie). Le specie faunistiche più rappresentativi sono: il lupo; l'istrice, la martora, il gatto selvatico, la faina, il cinghiale, il tasso, la lepre, la volpe, la donnola, la puzzola, il riccio, il ghiro, lo scoiattolo, il quercino, il moscardino e altri piccoli roditori. Molto ricca anche l'avifauna: tra i rapaci che frequentano l'area troviamo l'astore, lo sparviero, il falco pellegrino, il nibbio, la poiana, il gheppio, il gufo reale, l'allocco, il barbagianni, la civetta, l'assiolo.

arrivarci in auto

Autostrada da nord: uscita Pizzo Calabro, quindi SS 110; Autostrada da sud: uscita Serre, quindi SS 182; Dalla costa Ionica: Da Soverato percorrendo la SS 182; da Monasterace SS 110 passando da Stilo e Bivongi; da Marina di Gioiosa Ionica percorrendo la strada provinciale 501


Tra i boschi d’Aspromonte

inAspromonte Marzo 2014

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Il corbezzolo, un albero inattaccabile. I suoi frutti, un dono da troppo tempo assente sulle nostre tavole

TRICOLORE

COME L’ITALIA di LEO CRIACO

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ino agli anni settanta del secolo scorso, le campagne e le montagne del nostro Aspromonte erano ancora popolate, e i contadini e i pastori utilizzavano la terra, i pascoli e i boschi con perizia e sapienza nel pieno rispetto della natura. I terreni venivano coltivati a legumi, cereali, ortaggi, vigneti, frutteti e uliveti; i boschi erano “governati” come preziosa riserva di legna e frutta da mangiare (noci, castagne, sorbe, corbezzole, ecc.) o da usare come mangime per gli animali (ghiande, castagne, faggiola, ecc.). Mentre le noci e le castagne, continuano, ancora oggi, ad arrivare

«O verde albero italico, il tuo maggio è nella bruma: s’anche tutto muora, tu il giovanile gonfalon selvaggio spieghi alla bora» Pascoli

sulle nostre tavole, le sorbe (vedi articolo su in Aspromonte del mese di gennaio) e le corbezzole sono “doni” che, purtroppo, le popolazioni non raccolgono più da molti anni. Il corbezzolo o albatro (arbutus unedo) è un arbusto spontaneo tipico delle regioni mediterranee. Appartiene alla famiglia delle ericacee (fanno parte di questa famiglia il mirtillo e l’erica) e contribuisce a formare la macchia mediterranea. IL CORBEZZOLO (nome locale: cucummaru) è un arbusto sempreverde, alto, normalmente, 3-4 metri. In alcuni boschi del versante orientale aspromontano vegetano molti esemplari che raggiungono i 10 metri di altezza. Cresce molto bene dalla fascia collinare (300-400 metri) fino a 800-1000 metri slm. Ha foglie consistenti di colore verde intenso con margine seghettato. I fiori, di colore bianco, sono riuniti a grappolo e compaiono quando maturano i frutti (novembre-dicembre). I frutti, le corbezzole, sono delle bacche dapprima verdi

poi giallastre e a maturazione rosse. Hanno forma tondeggiante e sono grossi come una ciliegia. LA BUCCIA delle corbezzole è rugosa ed è ricoperta di numerosi e piccoli tubercoli. La polpa, gommosa, di colore giallo arancione contiene un gran numero di piccoli semi ed ha un caratteristico sapore tendente al dolciastro. È una pianta autofertile, piuttosto rustica e si adatta molto bene a estati calde e con poche precipitazioni. Predilige i terreni sciolti a reazione acida o neutra, ma vegeta anche su terreni leggermente argillosi purché ben drenati. È una pianta resistente alle malattie e raramente attaccata da insetti dannosi. Le corbezzole non sono idonee alla lunga conservazione in quanto sono molto morbide e delicate e quando sono troppo mature tendono facilmente a fermentare, e il sapore diventa poco gradevole. I nostri antenati usavano conservare questi frutti trasformandoli in marmellata. In erboristeria le giovani foglie, ricche di una sostanza detta arbutina, una volta essiccate all’ombra, vengono utilizzate sotto forma di infuso, come astringente, diuretico e antisettico.

Nelle foto in alto, e nel particolare sotto, le corbezzole. Foto di Leo Criaco

Vita di coppia

di ROCCO MOLLACE on l’avvento della primavera quello stesso atavico istinto di conservazione della specie, che già aveva spinto i migratori ad abbandonare i luoghi dove avevano svernato per tornare verso le zone di origine, li spinge ora ad accoppiarsi e a costruire il nido per deporre le uova. Nella scelta del periodo di accoppiamento giocano un ruolo importante fattori strettamente ambientali e climatici: la natura si risveglia dal lungo sonno invernale, e con essa si risvegliano tutte le forme di vita, vegetale e animale, le giornate si fanno più lunghe e aumentano le ore di sole, la temperatura diviene più mite, tutti fattori questi che contribuiscono a formare un insieme di condizioni ottimali per il primo incontro dei nuovi nati con il mondo esterno. Il primo atto del lungo processo della nidificazione e dell’allevamento dei piccoli è la formazione delle coppie. Il periodo pre-nuziale è uno dei più faticosi della vita dei maschi; il maschio infatti non solo deve combattere con gli altri maschi per la supremazia su un dato territorio, ma deve anche impegnarsi in un lungo corteggiamento, con danze estenuanti e lunghi canti melodiosi, per ottenere la grazia e la preferenza della femmina. Gli uccelli sono per lo più monogami; tuttavia non sono rari i casi di poligamia, come ad esempio il gallo cedrone e il gallo forcello, che nel periodo pre-nuziale riuniscono intorno a sé un vero e proprio harem di galline. Una volta formatesi le coppie, il problema più urgente è quello della scelta del luogo dove costruire il nido. Una cavità nel tronco di un albero, una biforcazione dei rami di una pianta di alto fusto, una macchia di rovi, un canneto, un

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ciuffo di erbe palustri, una buca naturale. A questo delicato incarico molte volte provvede la sola femmina come nei fringuelli dove è appunto la femmina che si addossa tutta la fatica e la responsabilità di costruire il nido, mentre il maschio, in preda ancora a una violenta eccitazione, postumo del periodo pre-nuziale, non sa far altro che stare tutto il giorno a cantare su di un ramo vicino. Altre volte sono maschio e femmina di comune accordo a intrecciare rametti, fili d’erba e pagliuzze e a comprimere con il petto i materiali da costruzione preventivamente lavorati con le zampe. Costruita la casa e deposte le uova comincia il delicato periodo della cova. Nelle specie poligame, è la femmina che provvede a questo importante incarico: nelle specie monogame vario è il comportamento del maschio durante il periodo di cova: alcuni si alternano regolarmente con la propria compagna, altri, come il merlo, la sostituiscono solamente quando questa si reca a mangiare. La cova dura circa 15 giorni, i nuovi nati vengono alla luce. Il misterioso processo della conservazione della specie si è concluso.


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inAspromonte

escursioni

Marzo 2014

Tra i boschi d’Aspromonte

In cammino con l’associazione A “Gente in Aspromonte” bbiamo fatto dell'escursionismo un'attività per tutti, basta scegliere e modulare i percorsi sulla base delle proprie capacità fisiche e psichiche; la soddisfazione di una gita non si misura con le ore di cammino o con la quota raggiunta! Ognuno seguendo senza forzature le proprie inclinazioni ed esigenze, cerca le proprie soddisfazioni, uniche e irripetibili: il tramonto, un prato in fiore, l'albero secolare, il sommesso rumoreggiare del torrente, il fragoroso ruggire della cascata, la baita; passare la notte in un rifugio, avvicinarsi agli animali selvatici e fotografarli, il grandioso panorama di una vetta, la frescura un po' cupa di una foresta oppure l'ultima neve di primavera...

16 marzo 30 marzo 13 aprile Tempo: ore 5.00 Dislivello: 55 slm 365 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Razza (Brancaleone) Comuni int.: Brancaleone - Staiti

Brancaleone

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artendo da Razzà si percorrerà un selciato che condurrà sul colle dove sorge Brancaleone vecchio che, con i suoi 300 metri, offre un panorama di incredibile bellezza che abbraccia il mare, le fiumare, e i vicini paesi di Bruzzano, Ferruzzano e Staiti e i contrafforti dell’Aspromonte. Le origini di Brancaleone sono legate al vasto movimento monastico basiliano che interessò in particolare l’area jonica, a partire dal V-VI sec. d.C. Il suo antico nome “Sperlinga” o “Sperlonga” dal latino spelonca o dal greco spileos è legato alla presenza nel nucleo rupestre di diverse “chiese-grotte” scavate nel tufo, centri di preghiera di monaci di rito orientale. Il percorso giungerà all’abbazia basiliana di Santa Maria di Tridetti. Tridetti deriverebbe da tridente, con chiara allusione alla divinità del mare, o invece potrebbe derivare dal greco tridactilon per indicare il Bambino benedicente in braccio alla Vergine.

Tempo: ore 6.00 Dislivello: 650 slm 1126 Difficoltà: E.E. Escursionisti esperti 14 Località: Gallicianò Comuni int.: Condofuri

Gallicianò

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allicianò, sede municipale sin dal ‘700, è una delle frazioni del comune di Condofuri, è posto a 621 m slm su di uno sperone roccioso del versante destro dell’Amendolea. Si pensa sia stato fondato proprio dagli abitanti di Amendolea, desiderosi di un luogo più interno ed isolato che li avrebbe protetti dalle continue incursioni turchesche. Con un’escursione di grande fascino si raggiunge questo paese ricco di storia; lungo le strade si resta affascinati per gli odori e per i panorami mozzafiato che offrono sia le vallate che le montagne. Un’icona raffigurante Santa Maria della Grecia è stata donata alla comunità di Gallicianò dal Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, in occasione della sua visita in Calabria. Santa Maria guarda verso la Grecia, madrepatria, con la speranza che essa risorga, al pari della civiltà della Calabria, che sta languendo.

Tempo: ore 6.00 Dislivello: 315 slm 780 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Natile vecchio Comuni int.: Careri - San Luca

Pietra Cappa

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l suggestivo itinerario si articolerà in due tratti: la zona della vallata delle pietre e il suo sviluppo. Si avrà così la possibilità di visitare dei siti di particolare interesse ambientale, storico e religioso. La modesta difficoltà del percorso e gli agevoli sentieri permetteranno di ammirare da vicino le bellezze dei Giganti di San Giorgio, ossia i castagni, eredità dei monaci basiliani. La visita si concluderà ai resti del monastero bizantino di San Giorgio non distante da Pietra Cappa. Questa struttura fu edificata come punto di riferimento per i monaci che vivevano nei tanti romitori presenti in tali luoghi. Un tempo aveva un pavimento in marmo policromi rimosso nel 1936 e conservato nel museo nazionale di Reggio Calabria, ma non esposto. Le colonne che abbellivano la navata sono state in parte rimosse e portate al Santuario di Polsi altre, invece, sono visibili tra i ruderi.

info

Associazione escursionistica Gente in Aspromonte via Fontanella, 2 89030 Careri (RC) Tel. 348/8134091

www.genteinaspromonte.it info@genteinaspromonte.it

Chiesa di Santa Maria della Grecia

L’abbazia basiliana di Santa Maria di Tridetti

Il monastero bizantino di San Giorgio


L’opinione Chi è?

GIAN ANTONIO STELLA, LO ZIO GAS

inAspromonte Marzo 2014

GIORNALISTA E SCRITTORE

Inviato ed editorialista del Corriere della Sera, dopo essersi occupato di cronaca romana ed interni ed essere stato a lungo inviato nel Nord Est, da molti anni scrive di politica, cronaca e costume. Nel 2005 ha esordito nella narrativa con il romanzo Il maestro magro. Il suo ultimo saggio è I misteri di via dell'Amorino pubblicato da Rizzoli nel 2012. Nell'ambiente giornalistico è soprannominato "Zio Gas", dalle iniziali del nome e cognome. Ha condotto alcune puntate di Faccia a faccia, trasmissione di Radio3.

Gian Antonio Stella, nel libro la sua crudele verità

“SE MUORE IL SUD”

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La recensione

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n’inchiesta serrata, appassionata, contundente. Con fatti, numeri, storie e aneddoti irresistibili, Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella denunciano una situazione insopportabile: senza fare sconti ai corsari politici e imprenditoriali del Nord, ma inchiodando alle sue responsabilità una classe politica ingorda e inconcludente che pare quasi non accorgersi che il Mezzogiorno rischia la catastrofe. Due giovani su tre affogano senza lavoro e la Regione Sicilia butta 15 milioni per 18 apprendisti fantasma. Ci sono treni che marciano a 14 km l'ora e i fondi Ue vanno a sagre, sale bingo e trattorie "da Ciccio". La Calabria ricava in un anno da tutti i suoi beni culturali 27.046 euro ma i Bronzi di Riace restano per anni sdraiati nell'androne del Consiglio regionale.

LA DENUNCIA DI STELLA di Federico Curatola

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a produzione letteraria che ha come argomento il "Sud" è in crescente aumento. Certamente le immagini che, soprattutto in questi ultimi mesi, stanno passando i media nazionali sono delle immagini drammatiche, segno inequivocabile che molte cose qui non funzionano. Una classe dirigente in larghissima parte corrotta ed incapace, un territorio devastato ed invaso dai rifiuti, un'economia emersa asfittica e di contro una fiorente economia sommersa ed illegale. Sono delle verità inconfutabili, inutile ragionarci. Ma il resto del Paese ha gli stessi problemi. In modo meno pervasivo, in modo meno diffuso, ma grosso modo siamo lì. Il giornalismo di denuncia però si occupa solo del Sud. L'ultimo lavoro di Stella (nella foto grande a destra) e Rizzo Se muore il Sud mi aveva dato una speranza. Sarà stato quel "se" inserito nel titolo che, pensavo, significasse finalmente che qualcuno si interrogava sugli effetti nazionali di un'eventuale "morte" del Sud. Ero andato speranzoso alla presentazione del libro, che si è tenuta presso la sala reggina della Confindustria. Ma come fu per La casta e La deriva, anche quest'ultimo lavoro dei due bravissimi giornalisti è un manifesto che denuncia la cialtroneria, la corruzione, il malcostume, le tante troppe storture ed i misfatti compiuti negli anni e perpetrati ancor oggi dalle classi dirigenti del meridione d'Italia. Solo la denuncia, che pure serve, non basta. E questo libro è solo denuncia. Cose che in linea di

SERGIO RIZZO (nella foto

massima sappiamo. Quello che mi aspettavo era un suggerimento, un'indicazione su come uscire dal pantano, su come tentare di risollevare le sorti di un Meridione che chiaramente soffre di un ritardo enorme nei confronti del resto del Paese e smisurato rispetto al resto dell'Europa ed invece ecco l'ennesimo mattone scritto per dirci quanto sono ladri i nostri politici, su quanto sono corrotti i funzionari, su quanto sono incapaci i medici, insipienti i docenti universitari, sfaccendati gli uscieri, lavativi i netturbini ed in generale "incivili" i cittadini tutti. Bravi, grazie dell'informazione. Quindi? Cosa fare? Siamo certi che basti "votare" diversamente per salvare il Sud?

Un peso per l’Italia Al Sud ormai è stato universalmente riconosciuto il ruolo di "zavorra" che frena lo sviluppo di un'Italia che potrebbe decollare. Niente di più falso.

Siamo certi che basti arrestare centinaia di presunti boss, bossucci e bosserellini vari per arrestare la caduta del Mezzogiorno? Mi è piaciuto solo un passaggio iniziale della presentazione di Gian Antonio Stella, quello in cui parla di un certo Ferdinando Mittiga, di Platì, "brigante" perché voleva sottrarsi, appena dopo l'unità d'Italia nel 1861, al servizio di leva dell'esercito savoiardo. Fu ucciso e decapitato e la sua testa portata in giro per Platì come un trofeo. Questo fu il

sotto) è responsabile della redazione economica del Corriere della Sera; ha lavorato per Milano Finanza, Il Mondo e Il Giornale.

ATTENTI A QUEI DUE Un libro-inchiesta, uscito nel 2007, che riporta sprechi e privilegi ingiustificati dei partiti politici italiani. Ha ottenuto un successo notevole superando il tetto di 1,2 milioni di copie vendute

primo atto dopo l'annessione del Mezzogiorno al Regno d'Italia. I bambini di allora, come potevano vedere in quelle divise un "amico"? Oggi non è molto diverso, fatta eccezione per la decapitazione o l'uccisione. Ma in un territorio in cui lo "Stato" è solo in divisa, ma non è "scuola", non è "guardia medica", non è "tribunale", perchè questi presìdi vengono chiusi e negati alla popolazione, come può vincere lo "Stato" la sua lotta contro il male? Lo so, sto divagando, ma

Il dramma del Sud L'ipertrofia degli apparati politici, i bilanci infinitesimali del turismo, lo sversamento dei rifiuti, le università scadenti ed altro ancora

è quello che pensavo mentre Stella e Rizzo parlavano del loro libro; mentre scorrevano le impietose statistiche che vedono la Calabria penultima negli indicatori socio-economici tra le 271 regioni europee! Mentre vedevo i veleni dell'Ilva o di Giugliano, mentre ci veniva detto che per andare in treno da Potenza a Matera (100 km circa) bisogna arrivare fino a Foggia e cambiare e ci si impiegano 7 ore! Mentre vedevo i dati sul porto di Gioia Tauro, in costante decre-

scita perchè non esistono collegamenti rapidi ed intensi in treno. Mentre vedevo che la Sicilia ha meno turisti delle Baleari pur essendo molto più grande, più bella e più colma di storia e di cultura. Mentre vedevo infine i 170.000 laureati che hanno lasciato il Mezzogiorno per cercare lavoro perchè qui il pubblico impiego è stato piegato alle volontà ed agli interessi di lobbies ristrette ed ingorde. Perchè qui l'iniziativa privata è mortificata perchè non contano le "idee", conta se "conosci qualcuno". C'è un barlume di speranza per il Mezzogiorno? Chi credeva nel riscatto di questa terra ed ha dato la vita per il futuro dei propri figli merita rispetto, merita che si tuteli questa fiammella, che si tenga accesa e si corrobori attraverso il costante lavoro di demolizione dei pregiudizi e di costruzione di un nuovo "costume".


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Artisti e artigiani

inAspromonte Marzo 2014

Servizio tratto dal sito lagrandegioiosa.it, a cura di Tiziano Rossi

BARVARUSSA

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ilippu Totinu friggeva e offriva, per qualche soldo, il sangue degli animali macellati. Due fette di pane casereccio, farcite con una frittura di sangue animale, costituiva la colazione della Gioiosa operaia che affrontava i duri momenti della vita con rabbia e con fame.

ROCCU D'A VENNA

ROCCU L'OVARU

endeva fichi d'India, che lui stesso sbucciava sul posto, per la gioia del palato dei buongustai più esigenti. Decine di persone attorno alla còfina (cesta) colma dei gustosi frutti e lui col coltello a sbucciare e offrire il sapore spinoso della Gioiosa di una volta.

irovagava per le case di Gioiosa a comprare uova che poi rivendeva in altri posti. Le massaie gioiosane lo ricordano per il fatto che, bussando alla loro porta, ripeteva sempre e a tutte la stessa frase: «Cummari, 'ndaviti ova? Nchjanu, scindu o mi 'ndi vaju?».

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GENIO

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MAESTRANZE

UOMINI LABORIOSI IL RITRATTO

T

ra le centinaia e centinaia di mestieri che i gioiosani di una volta si inventavano per sostenere la famiglia, quello di Rocco Mazzone è insolito davvero: riciclando le corna di montone, che i gucceri (macellai) gettavano nel torrente Gallizzi, riusciva, infatti, a fabbricare dei pettini di qualità davvero eccellente. Nell’arco dei difficilissimi anni di fame e miseria, che vanno dal 1944 al 1947, Rocco Mazzone, affidandosi solamente alle sue mani e ad un minuscolo seghetto - cosa da non credere! - riuscì a produrre circa 8000 pettini, per una media di 6-7 pezzi al giorno. Ma come faceva? La prima fase della produzione - ci ha raccontato il bravissimo Rocco, prima di lasciare questa vita -, riguardava l’approvvigionamento della materia prima. Operazione, questa, affidata ai due figli Mela e Totò che si recavano continuamente nel greto del torrente Gallizzi a raccogliere le corna di montone gettate (come dicevamo) dai macellai del luogo. Dopo averle faticosamente sfaldate con un seghetto, le corna dei poveri animali venivano messe a bollire, per ore e ore, alla temperatura di 100 gradi centigradi. Tolte dall’acqua, venivano aperte con un coltello e collocate sotto una pressa rudimentale (generalmente sotto il peso di una cassapanca contenente biancheria) per

POI LA PRIMAVERA DEL ‘71

L’arte di arrangiarsi nei tempi grigi del dopoguerra

U MASTRU PETTINARU

MIO PADRE

Ha sputato l'anima voltando e rivoltando le insanguinate divise militari che la guerra aveva abbandonato nei mercati di Napoli. Lui a stirare, mia madre a cucire e noi figli a mettere continuamente carbone nei vecchi ferri da stiro e soffiarli, per evitare che si spegnessero o si rafreddassero. Era quella la nostra vita. Una vita vissuta più di notte che di giorno. Una vita della vecchia Gioiosa. La miseria cadeva sulle case da ogni parte del cielo e tu, padre mio, a girovagare con la bicicletta per vendere il frutto del tuo sudore.

appiattirle. Dopo qualche giorno, finalmente, venivano fuori le tavolette di osso alle quali, il nostro bravissimo artigiano, con infinita pazienza e, ancora, facendo uso del seghetto, praticava la dentatura.

UNA PULITINA, una mano di lucido, un po’ di sudore e il pettine marcato “RoMa” (Rocco Mazzone: “marchio di fabbrica” usato dal signor Mazzone) era pronto a prendere posto tra gli attrezzi dei barbieri di Gioiosa, che molto apprezzavano il prodotto, facendone largo uso. Il più delle volte il signor Mazzone si recava a Crotone o a Fabrizia, dove scambiava il frutto del suo lavoro con farina, castagne, noci, ceci e altri prodotti che, grazie al buon Dio, abbondavano durante qualche annata particolare. Ma, oltre alle corna di montone, il nostro laborioso concittadino lavorava anche il legno di nespolo e di arancio, che veniva trasformato in pettini dalla dentatura molto fitta e sottile: i pettina ‘i lignu, usati per separare i fili della "trama" durante la tessitura al telaio (ma venivano usati anche per debellare i pidocchi che tormentavano la testa dei poveri gioiosani provati dalla guerra). Nel dopoguerra, abbandonato il difficile mestiere di mastru pettinaru, Rocco Mazzone trovò lavoro presso gli uffici della locale Pretura. Ma, visti i

tanti problemi della sua famiglia che cresceva continuamente nelle spese, il nostro instancabile concittadino si diede anche alla legatoria di libri: mestiere che praticò con sacrificio e impegno nei ritagli di tempo libero di cui disponeva. E POI L’ETA’ veneranda. Il tempo cosparse il suo viso di rughe. Le sue mani cominciarono a solcarsi di grosse vene, dentro cui pulsava il sangue di un onesto lavoratore di Gioiosa. Anno dopo anno si fece il 27 aprile del 1997. Rocco Mazzone, stanco dei rumori implacabili del tempo, sul far della sera, si accasciò tra gli affetti dei suoi cari e si addormentò per sempre nella sua casa antica di Largo Palestro.

Il poeta contadino Nicola Papandrea detto Giandò

Eccezionale poeta contadino, pur essendo analfabeta, aveva la capacità di tradurre in versi ogni avvenimento della vita paesana, servendosi di fervido estro e magistrale ironia. Unica pecca del Giandò era quella di non sapere usare la penna per appuntarsi la miriade di versi che scaturivano dalla sua mente. Per cui, oggi, nulla ci rimane dei suoi componimenti. L'opera principale di Nicola Papandrea rimane la tanto famosa Farza 'i

Roccu Vicenzu, dove si vogliono rappresentare le peripezie di Carnevale, arrestato e processato per aver rubato un maiale al porcàro. La diatriba si risolve in un'insalatiera colma fino all'orlo di maccheroni e carne di maiale (un tentativo di corruzione della legge da parte di un cittadino...). A capodanno Giandò, accompagnandosi con la lira, cantava Li bboni festi: stornellata di origine seicentesca che raccontava tutto di tutti senza mezzi termini.


Artisti e artigiani

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Con la magnifica colorazione delle vesti aveva contribuito ad avvicinare alla cultura popolare la figura della Madre, senza scadere mai nell’opulenza, irritante ed eccessiva, del barocco in voga all’epoca di Pino Macrì

«

Non merita morte colui che ha per fratello un uomo così virtuoso cha ha dato quasi la vita ad una morta figura», a parlare era stato il Vicerè di Napoli, Don Juan Alfonso Enriquez de Cabrera, più conosciuto come Duca di Medina. Davanti a lui, Padre Giovanni Mazzara, Ministro Generale dell’Ordine dei Francescani e grande appassionato d’arte, e l’autore del mirabile disegno, un puttino vergato con semplicità da mano veloce e sicura, che di nome faceva Giovanni Leonardo Giurato, al secolo Fra’ Diego, nato a Careri il 15 aprile del 1606. Era avvenuto che, forse nel corso di disordini avvenuti a Careri, il fratello di Diego, Michele, era stato coinvolto in un fatto di sangue, culminato con l’omicidio di un compaesano, e, per questo, tradotto in catene a Napoli, velocemente processato e condannato a morte. Fra’ Diego, che si trovava a Napoli, dove lo aveva voluto proprio Padre Giovanni che aveva intuito le mirabili potenzialità artistiche del fraticello calabrese, si era rivolto al suo Superiore affinchè intercedesse presso il Vicerè per avere il permesso di vedere il fratello un’ultima volta prima dell’esecuzione. PADRE GIOVANNI, che conosceva bene la sensibilità artistica del Duca di Medina, pensò bene di accompagnare la richiesta con quel “biglietto da visita”, e la felice intuizione, oltre alla piena fiducia nelle capacità artistiche di Fra’ Diego, fecero il miracolo, e Michele fu graziato. A Napoli fra’ Diego era arrivato un anno prima, preceduto ed ac-

FRA’ DIEGO DA CARERI Padre Giovanni Giurato nacque a Careri nel 1606, ma la sua carriera da artista del legno iniziò nel Convento di S. Maria del Gesù a Bovalino. Con le sue opere incantò il Vicerè di Napoli e riscattò il fratello condannato a morte compagnato da lodi appassionate sulle sue capacità di scultore del legno e sull’onda delle emozioni suscitate in Calabria da tutta una serie di sculture lignee realizzate a Bovalino prima, dove, nel Convento di S. Maria del Gesù, aveva ricevuto l’ordinazione e le prime ispirazioni artistiche nella modellazione del legno, poi a Gerace, a Monteleone, a Catanzaro ed a Badolato. Qui, in particolare, nell’ascesi e nel silenzio, che Diego tanto amava, del Convento di S. Maria degli Angeli, aveva realizzato tutta una serie di statue a grandezza naturale (un Cristo crocifisso, un S. Francesco, un S. Ludovico e, soprattutto, una stupenda Madonna degli Angeli) che avevano contribuito non poco a far nascere la voce sull’abilità artistica non comune del fraticello di Careri. In particolare, si diceva, la Madonna degli Angeli che sovrasta l’altare della chiesa del Convento in un tripudio di colori e di puttini anche cantori e musicisti, aveva rivelato, sì, le influenze contemporanee barocche e delle Madonne marmoree del Gagini, ma, soprattutto con la magnifica

ANIME NEL LEGNO

colorazione delle vesti aveva contribuito ad avvicinare alla cultura popolare la figura della Madre per antonomasia senza scadere mai nell’opulenza, a volte irritante ed eccessiva, del barocco in voga all’epoca. QUELLO DELLE vesti dei Santi di Fra’ Diego è, insomma, una vera e propria antologia della raffinatezza che mai scade nell’ostentazione, lasciando sempre strettamente legati i propri personaggi al sentimento popolare, prima ancora che a quello di una Chiesa spesso votata allo sfarzo ed alla trasfigurazione in senso edonistico dei propri simulacri. Era, insomma, un artista schivo, Fra’ Diego, e umile, molto umile. Ed obbediente: quando, nel 1648, fu nominato Padre Generale dell’Ordine Daniele Cossonio da Dongo, non esitò a sottomettersi al comando di trasferirsi nel profondo Nord, stabilendosi a Lecco, da dove iniziò a fare la spola per Dongo e Como, e fino a Stabio e Capolago, in Svizzera. A Napoli ed a Somma Vesuviana aveva già lasciato tutta una serie di opere, in parte andate perdute ed in parte ancora esistenti (un

Sant’Innocenzo, trafugato da Napoli è stato da poco rinvenuto in America) come la Madonna degli Angeli nell’omonima Chiesa partenopea, ma è proprio in quel profondo nord, che peraltro gli fiaccò la salute con il clima freddo delle Alpi, che Fra’ Diego diede vita ai suoi più intensi capolavori, tanto da far dire a Daniele Pescarmona, critico d’arte e Soprintendente ai BB.AA. della Lombardia, che “la sensibilità di Fra’ Diego, sostenuta da una maggiore e notevole capacità tecnica di intaglio [rispetto a fra’ Giovanni da Reggio, suo allievo ed aiutante e autore di altre opere lignee in Nord Italia], appare più complessa, privilegiando soprattutto modi di estatico coinvolgimento sentimentale, aggraziato anche in ragione del palese compiacimento per l’affabile esteriorità decorativa. Le statue già in Santa Croce di Boscaglia di Como si segnalano, a ben considerare, come il suo capolavoro”. A COMO, Diego stette per anni che debbono essergli sembrati lunghissimi; poi, forse a causa delle sempre più precarie condi-

zioni di salute, fu chiamato a Roma (1654), dove lasciò traccia della sua arte nella bellissima statua di S. Francesco che sovrasta tuttora l’altare della Chiesa di S. Francesco a Ripa, che tra l’altro annovera anche, in una cappella laterale, la Beata Ludovica Albertoni del Bernini. Appena quattro anni nell’Urbe, e poi Diego viene ancora inviato dal nuovo Ministro dell’Ordine, Padre Michelangelo Bongiorno, a Sambuca in Lucina, nel profondo Sud siciliano, sua patria d’origine. DI QUESTO PERIODO, dice Giulia Francesca Perri, (Il saio e lo scalpello – vita ed opere di Frate Diego da Careri, scultore francescano del XVII, Laruffa, 2009), “molte delle opere realizzate da Diego sono andate perdute o sono disperse, anonime, nelle chiese di Sicilia; un crocefisso, che originariamente era nel Convento di S. Maria del Gesù, è stato trasferito nella Chiesa di S. Michele, nel centro storico di Sambuca. Erano i suoi ultimi anni: Diego spirò serenamente il 15 agosto 1661, volando in cielo leggero come un angelo, così come era arrivato in terra”. Nella foto in alto Gli Angeli cantori e musici, part. alt., (Badolato, Convento di S. Maria degli Angeli). Nelle foto da sx a dx: Maddalena e Madonna sorretta da due angeli (Como, Congregazione delle suore Infermiere dell’Addolorata); Madonna degli Angeli e Cristo crocifisso (Badolato, Convento di S. Maria degli Angeli)


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Antichi mestieri

inAspromonte Marzo 2014

IL CUSTODE DEGLI ANTICHI

Gli uomini e le donne delle foto sono persone quasi tutte scomparse, ultimi eredi della maestranza santagatese, rinomata in tutta la Regione

Servizio di Domenico Stranieri

C

’è un monito in Gente d’Aspromonte di Corrado Alvaro che tanti amano ripetere e che riferendosi alla civiltà contadina raccomanda: “ È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci

è nato, il maggior numero di memorie”. Al di là del grande merito degli scrittori, che hanno narrato storie e paesaggi della nostra terra e della nostra cultura, c’è ancora qualche persona che custodisce i segni, o meglio le immagini, di un mondo che si è trasformato senza progresso, caratterizzato solamente dalla “diaspora” di gran parte della sua popolazione. A Sant’Agata del Bianco (RC), ad esempio, Giuseppe Sicari, fotografo autodidatta in pensione, negli anni ‘70 ha iniziato un lavoro immenso che oggi rappresenta qualcosa di unico nel suo genere.

SICARI, DIFATTI, ha realizzato 582 fotografie e circa 700 diapositive che ripercorrono, passo dopo passo, tutte le fasi di lavorazione di attività manuali che oggi non esistono più. Le immagini sono sistemate, in modo preciso e sistematico, in pannelli da 70x100 e già nel 1988 erano state esposte in una mostra a Villaggio Palumbo, in Sila, suscitando molto interesse. Ma non solo. Sicari ha anche vinto premi nazionali di fotografia e di lui si sono occupate

importanti riviste. Ma egli è un uomo riservato e parla poco di questi riconoscimenti, quasi con discrezione. La luce del suo sguardo si accende, invece, quando ci porta nella stanza dove conserva i suoi lavori. Tutto è catalogato alla perfezione e quella che potrebbe essere una splendida esposizione fotografica, soprattutto per le nuove generazioni ma anche per studiosi o appassionati, è già suddivisa in: Mestieri (Arrotino, Bastaio, Calzolaio,Carbonaio, Fabbro, Falegname, Lavandaia, Maniscalco, Ombrellaio, Ricamatrice, Spaccapietra, Scarpellino, Stagnino, Vasaio e Zampognaio); Oggetti (Chitarra, Cucchiaio, Forno, Paniere, Scopa, Sedia); Prodotti (Maialatura, Miele, Olio, Sapone di casa); Cicli Produttivi (Fiscella, Formaggio, Vendemmia, Bottaio, Semina, Pane di Casa). Particolarmente dettagliata è anche la lavorazione della Lana (Tosatura, Cardatura, Filatura, Orditura e Telaio) e della Seta (Maciulla e Baco da seta).

ALCUNE DI QUESTE attività sono state seguite da Sicari anche per un anno intero, con la pasNella foto in alto Giuseppe Sicari espone a Sant’Agata del Bianco una delle sue preziose immagini. Foto di Domenico Stranieri. A sinistra un massaru aspromontano, immortalato da Enzo Penna. Nelle foto a pag. 19: in alto, donne presso sorgente Matartaci Casignana, 1924 (ach. M.Leone); in basso Donna Rosina con la sua asina, Casignana.


Antichi mestieri

inAspromonte Marzo 2014

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GIUSEPPE SICARI

Ha fotografato tutte le fasi di un’arte perduta «“Ma per voi sì” dicono ai giovani. “Per voi, se avete testa, ci sarà un'altra via. Partite anche voi come gli altri. Tanto a fare il carbonaio non vale la pena. Non ti dà niente; e fra pochi anni, con tutte queste diavolerie che inventano e che portano anche qui, nessuno comprerà il carbone”. E i giovani, i più bravi, i più intelligenti e desiderosi di conoscere il mondo, non si fanno pregare, non se lo lasciano ripetere due volte. Anzi non aspettano il consiglio dei padri: partono, lasciandosi dietro le spalle, senza rimpianti, un mondo assurdo, impossibile ai tempi nostri.». Saverio Strati da Vie d’Italia, settembre 1961

I MESTIERI sione di chi sa che ogni tempo ha una sua bellezza passeggera, delle tracce inconfondibili che bisogna cogliere. Difatti, gli uomini e le donne delle foto sono persone quasi tutte scomparse, ultimi eredi di una “maestranza”, quella santagatese, rinomata nell’intera provincia di Reggio Calabria.

LE SCENE si susseguono come in un film, ripercorrendo le operazioni di trasformazione di un oggetto o di un prodotto. E la tecnica dei vari “mastri” non può che affascinare. Essi, difatti, esprimono la stessa naturalezza degli artisti. In ogni pannello, per di più, vi è una precisa didascalia scritta dal fratello di Giuseppe Sicari: Rosario. Quest’ultimo, scrittore e saggista nonché studioso attento della questione meridionale, è autore di apprezzabili romanzi. Così, seguendo parole e immagini, si penetra nel tempo dei nostri padri e dei nostri nonni, in un mondo ove qualsiasi oggetto era essenziale e non si buttava quasi nulla (poiché tutto poteva servire e ogni cosa si poteva aggiustare). VARIE FOTOGRAFIE fanno persino tornare in mente le parole

di Saverio Strati, che in Mani vuote (Mondadori, 1960) racconta: “Scendemmo soli in fondo alla valle scura e umida, a circa mezz’ora dalla carbonaia. C’era fumo e odore di legno verde che bruciava; e si udivano rumori e voci. La gente lavorava, lavorava in quell’angolo di terra lontana dal resto degli uomini. Nessuno può sapere queste cose, se non ci vive, nessuno può crederci se non le vede”. Ecco, il lavoro di Sicari ci dà la possibilità di vedere cose che altrimenti potremmo solo leggere ed immaginare, come le scene delle varie fasi per mettere su le “carbonaie” descritte da Strati, che partono da un solo legno posizionato al centro di un cerchio e finiscono con l’opera completa (quasi splendidi igloo costruiti da migliaia di pezzi di legname che, per produrre il carbone, devono bruciare per più di trenta ore). Non so se in Calabria esista un simile lavoro, così particolareggiato e specialistico. Di certo, Sicari, negli anni ‘70, aveva capito che le cose stavano cambiando ed un mondo stava per finire. Per questo, oggi, è custode attento di un patrimonio che solo l’ottusità dei nostri tempi può portarci a trascurare.

Massare e contadine. La tenacia delle figlie della montagna

LE DONNE D’ASPROMONTE di Vincenzo Stranieri*

N

el mondo rurale del secolo scorso la donna calabrese lavora nei campi, cucina, bada agli animali domestici, cresce i figli. Così è stato per secoli, le donne d’Aspromonte lavorano senza sosta, sudano copiosamente nel mentre trasportano pietre e calce da utilizzare per la costruzione delle loro piccole case, sfidano le fiumare alle cui rive lavano e fanno asciugare i panni, mettono a bagno la ginestra da cui ricaveranno grezzi vestiti e larghi mantelli da offrire ai propri sposi. Mentre il massaro/pastore, specie quello di lattare (pecore e capre), pascola per un’intera annata il suo gregge, la donna massara lo sostituisce nella cura e custodia dei prodotti (lana, formaggi, cereali etc). Un po’ meno disagiata era la vita della massare, mogli di contadini benestanti, chiamati massari perché possedevano terreni che venivano lavorati con l’aratro tirato da una paricchia di buoi. La minore povertà consentiva loro di condurre una

vita meno insicura. Molti dei lavori domestici, però, richiedevano l’aiuto di più donne della ruga, con le quali, nel tempo libero, collaboravano nelle faccende domestiche. Al nome proprio della moglie del massaro, si andava ad aggiungere l’appellativo di “donna”, indicante, per la gente del luogo, il ceto sociale di appartenenza della donna e quindi della famiglia. Come ci ricorda Emanuela Chiarantano, l’abitazione della massara era sempre aperta a tutti e le donne andavano a farle visita volentieri, in quanto donna saggia e di cuore. Infatti le famiglie bisognose del paese si rivolgevano a lei per avere un lavoro. In determinate periodi dell’anno una delle mansioni svolte dalle massaie era di preparare e poi recapitare u marzegliu, la prima colazione, e u mangiari, il pranzo, al marito e ai suoi uomini che si trovavano a lavorare nei campi. Il marzegliu, indicava la colazione delle otto durante il mese di marzo, in quanto le giornate erano più lunghe. La massaia raggiungeva con a cofina n’testa (cesto in castagno) il marito che si trovava nei campi con un gruppo di altri uomini che lavoravano per lui nel suo podere, in questa cesta portava pani, livi (o vvrivi) e fica sicchi. Alle volte il marzegliu lo portava la figlia maggiore, poiché la moglie rimaneva a casa a preparare il pranzo che successivamente sarebbe andata lei a consegnare. Era tradizione che gli uomini al servizio del massaru mangiassero tre volte a sue spese, così la moglie doveva preparare anche la cena, attendendo e poi servendo i lavoratori. Tutta la ricchezza della famiglia si basava sui frutti che dava la terra, molto spesso gli uomini al servizio del massaru ricevevano, in cambio del lavoro prestato, parte del raccolto. Vi era una sorta di economia del baratto tra il lavoro svolto sia dagli uomini che dalle donne, ed i beni che si producevano. Durante i momenti vuoti della giornata, la donna si sedeva sul mignanu, davanti la porta di casa, insieme con le altre vicine di ruga, a ripezzari trusci i rrobbi, rammendare mucchi di indumenti della famiglia, o ricamare le tele precedentemente tessute. La giornata lavorativa delle massare, come quella delle contadine, iniziava prima di quella degli uomini e terminava sempre dopo. Anche alla sera seppur stanca, con la luce debole della lumera, filava col suo fusu. Ora la lumera si è spenta da un pezzo, a noi il compito di non disperdere la sua preziosa luce. *Cultore di Etnologia all’Unical


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La nostra storia

inAspromonte Marzo 2014

Una terra ricca di buoi

Altra ipotesi è la derivazione del nome dall’osco Vitelìu, e la forma “Italia” sarebbe dovuta alla caduta della “V” nella pronuncia dei Greci

di FRANCESCO MARRAPODI

Italia, figlia

La leggenda RE ITALO

del Sud

P

otrebbe sembrare una delle tante burle correnti, o, tutt’al più, un curioso gioco di parole: l’Italia figlia (anche) dell’Aspromonte! Si tratta, tuttavia, di un dato certo; anzi storico. L’Italia prende il proprio nome, appunto, dalla Calabria; per essere maggiormente precisi, dall’area calabra meridionale. Secondo Tucidide, l’attuale Calabria meridionale, in epoca arcaica “Enotria”, fu consacrata con il nome di “Italia” in onore del re Italo. Diverse le fonti storiche che lo attestano.

TUTTO NASCE IN

ASPROMONTE

STIAMO PARLANDO di 16 generazioni antecedenti alla guerra di Troia, quando Italo divenne re di quasi tutta la Calabria ad eccezione della zona settentrionale. A dare supporto all’affermazione di Tucidide c’è anche Aristotele (Aristotele, Politica, VII, 9, 2): «Divenne re dell’Enotria un certo Italo, dal quale si sarebbero chiamati, cambiando nome, Itali invece che Enotri. Di- l’andare del tempo, in civiltà secono anche che questo Italo dentarie, fornendo loro persino di abbia trasformato gli Enotri, da un codice di leggi. La stessa cinomadi che erano, in agricoltori viltà che popolò la bassa Calabria e che abbia anche dato ad essi e che riuscì ad assoggettare a sé altre leggi, e per primo istituito i le altre popolazioni indigene, sissizi. Per questa ragione ancora estendendo, così, la zona d’influenza oggi alcune molto più a delle popolanord. zioni che di- «Quando giunsero i P e r c i ò , scendono da coloni greci, questo quando giunlui praticano i fascio territoriale, con sero i primi sissizi e osparticolarità la zona coloni greci, servano alquesto fascio cune sue aspromontana, si territoriale, l e g g i » . L o presentava con il nome con particostesso conti- di Italia» larità la zona nua dicendo: aspromon«Italo, re degli Enotri, da lui in seguito pre- tana, si presentava con il nome di sero il nome di Itali e Italia Italia. In seguito, nel corso dell’estrema propaggine delle coste l’estensione coloniale da sud a europee delimitata a Nord dai nord (La Magna Graecia), gli golfi [di Squillace e di S.Eufe- stessi greci avrebbero applicato il nome “Italia” a un più vasto termia]». ritorio. Ci penseranno i romani, EBBENE, ARISTOTELE ci successivamente alle loro conparla di Italo come un re saggio quiste, ad estenderlo all’intera ed equilibrato, da cui dipesero le penisola, e cioè fino ai territori sorti degli Enotri, popolo trasfor- comprendenti le Alpi, la Liguria matosi più tardi in itali o italioti. e l’Istria. Una realtà che racNella realtà, si trattava di tribù chiude a sé una ancor più grande primitive adattate a una forma di verità: il risultato dei popoli ancultura nomade, che lo stesso tenati di questa terra che si laItalo ottenne di convertire, con sciano assorbire dalle nuove

La leggenda vuole che i primi abitanti della Magna Grecia conducessero una vita errante e selvaggia. Essi vivevano nelle caverne, lottavano con gli animali e si cibavano miseramente. Non sapevano coltivare la terra, né allevare il bestiame, né esercitare arti e mestieri. Ecco perché la regione, che era florida e bella, rimaneva in uno stato selvaggio. Fu così che i nostri vecchi padri proclamarono Italo loro re e ne seguirono gli ammaestramenti. Da parte sua, Italo, insegnò loro come coltivare la terra, come trarre profitto dagli animali e come utilizzarne i prodotti; dettò leggi savie, decretò il culto di Cerere, la dea delle biade, di Fauno, genio benefico dei monti, della campagna e del bestiame, e di Fauna, la dea che aumentava i prodotti della terra. (webcalabria.it)

Fu in onore di Re Italo che l’antica Enotria, l’attuale Calabria meridionale, prese il nome di Italia. Qui, dunque, nacque il nome della nostra nazione culture, come quella dei greci per prima; o come quella dei romani, cioè il frutto di un impasto che vide i discendenti di Enea congiungere con i latini e, successivamente, con le civiltà etrusche del tempo; che vengono soppiantate (in epoche più recenti) dalle civiltà spagnole e francesi. Ebbene, tutte queste promiscuità di razze e di culture, hanno dato origine al popolo italiano. Ma il nome – almeno quello! – s’imbeve, anzi getta le sue prime radici nelle nostre remote terre, e più precisamente in quelle calabre meridionali.

NEL V SECOLO a.C. Antioco di Siracusa ci forniva questo quadro della situazione: «L’intera terra fra i due golfi di mari, il Nepetinico e lo Scilletinico, fu ridotta sotto il potere di un uomo buono e saggio, che convinse i vicini, gli uni con le parole, gli altri con la forza. Questo uomo si chiamò Italo che denominò per primo questa terra Italia. E quando Italo si fu impadronito di questa terra dell’istmo, ed aveva molte genti che gli erano sottomesse, subito pretese anche i territori confinanti e pose sotto la sua dominazione molte città».

Nella foto in alto l’Aspromonte visto dal Monte Cozzi; sopra un sissizio

I

I Sissizi, antichi banchetti

Sissizi erano una specie di banchetti collettivi che si svolgevano tra alcuni popoli antichi. La comunità era divisa in vari gruppi (per lo più facente parte dello stesso nucleo famigliare) formati da almeno 15 persone, che puntualmente si riunivano per il pasto. I costi erano divisi in parti uguali tra i partecipanti; gli stessi che mensilmente avevano l’impegno di corrispondere con la propria quota; altrimenti erano estromessi dal gruppo. La quota, generalmente, corrispondeva in almeno 3 kg di formaggio, 1,5 kg di

fichi, 35 litri di vino e altro. Se un membro moriva era rimpiazzato (chiaramente con il consenso di tutti i partecipanti) con un nuovo componente dello stesso gruppo. Con ogni probabilità lo scopo di questo meccanismo, all’apparenza così insolito, era di consolidare il senso di appartenenza a quella parte di società (o rango) più elevato, dove primeggiavano i membri più anziani, esperti in politica, e dove competevano decisioni di massima importanza e responsabilità.


La nostra storia

inAspromonte Marzo 2014

?

di ULDERICO NISTICO’

Le vie di miti oscuri

CACCIATI DAL Lazio per mano degli Enotri, infine minacciati dagli Osci, i Siculi passarono lo Stretto, vinsero i Sicani e, ancora nel IV secolo, erano in qualche modo identitari e autonomi rispetto a Greci e Cartaginesi che combattevano per il dominio dell’isola. Tra il 488 e il 440 visse il re Ducezio, che, contro Siracusa e i Cartaginesi, rivendicò l’autonomia sicula. E chissà se “ducezio”, se ci lasciamo condurre dalle sensazioni di Varrone, non fosse un titolo come il latino dux. Gli storici greci non parlano più dei Siculi nell’isola dopo le vicende dei due Dionisio e di Dione; ma la testimonianza varroniana farebbe supporre che anche in età romana si riscontrasse qualche popolazione di lingua sicula. Ancora nel V secolo a. C., secondo Tucidide, c’erano nella nostra regione, poi detta Calabria, dei Siculi consapevoli di esserlo; e in Sicilia costituivano un’entità politica e militare. Lo stesso re Italo sarebbe stato un siculo; un enotrio, affermano però Aristotele e Dio-

L’inganno

dei Locresi

Storici tragediatori

I

Siculi sono una popolazione indoeuropea che, attorno al II millennio, attraversò la Penisola italiana, lasciando tracce del suo passaggio e nelle memorie degli storici e nella toponomastica, in specie nella radice alb, su cui torneremo; e che troviamo frequentissima nelle fonti antiche e nella continuità moderna. È nota la presenza sicula nel Lazio prima di Roma; e l’antico nome del Tevere, come attestano Virgilio e Plinio il Vecchio, era Albula; e capitale dei Latini, prima che Roma crescesse con le sue rovine, è Alba detta Longa. Varrone Erudito è colpito da un accusativo leporim quasi identico a leporem latino. Le poche attestazioni soccorrono a far parlare di un gruppo linguistico latino – siculo, cui si aggiungono il falisco e forse il veneto; e che si distinguerebbe sostanzialmente dai gruppi oscoumbri. Dionigi di Alicarnasso ritiene i Siculi “aborigeni” del Lazio; ed è opportuno ricordare qui che Esiodo accenna a un re Latino “che regna sui Tirreni”.

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La montagna dei Siculi

ALBUS MONS

“Monte arduo” per i Latini, “Monte bianco” per i Greci; e se la storia delle nostre genti fosse un’altra ancora?

Nella foto in alto il Monte Giove visto dalla chiesa di San Leo, Africo Antica. Nella foto sopra i Dioscuri

nigi di Alicarnasso. Sulla spiaggia di Soverato, in località San Nicola, sono state individuate tombe a grotticella che ricordano quelle sicule di Centuripe. SECONDO POLIBIO e Polieno, quando i Locresi, dopo la permanenza sul promontorio Zefirio, passarono più a settentrione, sopra una collina chiamata Epopis trovarono dei Siculi ostili. Dopo un conflitto, e temendone la forza, fecero ricorso all’inganno (vedi sopra). Epopis, che, se greco, signi-

fica veduta, potrebbe essere l’attuale Gerace, il luogo sacro (Hierakion) e fortezza naturale così simile a Santa Severina (Siberene), Strongoli (Petelia), Cerenzia Vecchia (Acherenthia): queste tuttavia sono ritenute enotrie. Secondo Tucidide, i Siculi passarono nell’isola. Prendendo alla lettera il racconto dello storico, apprendiamo che i Siculi vennero “scacciati”, non annientati, e lasciarono alcune genti nell’attuale Calabria. Se è così, queste poterono trovare rifugio solo sull’Aspro-

monte più impervio; mentre i Locresi, lungo le più agevoli valli del Torbido e del Mesima, puntavano al Tirreno e fondavano Medma e Ipponio; il mito di Eutimo attesta che giunsero fino a Temesa. Dei nostri Siculi, quelli dell’Aspromonte, nessuno fa più parola dopo Tucidide, e, per cercarne traccia, dobbiamo far ricorso ad altri strumenti di indagine, senza dubbio più ipotetici, e che offriamo al lettore come occasioni di riflessione critica. COSA SIGNIFICA Aspromonte? Se fosse tutto latino,

I Locresi avrebbero trattato benevolmente i Siculi e avrebbero condiviso con loro il territorio, fintanto che avessero camminato su quella terra e avessero avuto le teste sulle spalle. I Locresi, allora, secondo quanto si racconta, al momento di pronunciare questi giuramenti, misero della terra dentro le suole delle scarpe e poggiarono sulle loro spalle delle teste d’aglio coperte dai vestiti. Fu così che pronunciarono i giuramenti. Quindi, una volta tirata fuori la terra dalle scarpe e gettate via le teste d’aglio, avrebbero avuto non molto tempo dopo l’occasione di cacciare i Siculi dal loro territorio”. il nome pare significare monte arduo, difficile: in verità generico, non essendo quel massiccio particolarmente più irto di moltissimi altri. Se, come si pensa da più parti, si fa riferimento al greco aspros, significherebbe Monte Bianco; anche questo, non specifico di una montagna come la nostra, che non è nemmeno troppo innevata. E se fosse invece un albus mons, dunque il monte dei Siculi, come gli altri toponimi di cui abbiamo discorso, e forse le stesse Alpi, e senza riferimento a un colore? I LOCRESI veneravano i Dioscuri, dei della giovinezza luminosa, figli di Zeus; ma anche Persefone, dea della ciclicità di vita e morte e della reincarnazione. L’Aspromonte è una terra di oscuri miti, che vivono tuttora a Polsi nella Scibilia, la Sibilla nemica della Madonna, e che, sconfitta e rifugiatasi in una grotta, attira gli uomini con la sensualità. È un archetipo della mitopoiesi greca e poi cristiana, questa vittoria della luminosità e razionalità sulle energie possenti e arazionali; tanto più che si contrappongono due idee della femminilità, la carnale e la spirituale, Afrodite ctonia e Afrodite urania. A chi apparteneva quella credenza nella Sibilla, in un luogo quasi inaccessibile, e che la Chiesa cercò sempre di proteggere e sacralizzare?


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Cinema e cultura

inAspromonte Marzo 2014

Aprile 1951, un giovane regista calabrese bussa alla porta di Einaudi

S.O.S AFRICO

la sfida di Ruffo

La miseria degli aspromontani viene filmata e portata nel mondo: paesi senza strade, fognature, assistenza sanitaria. Nessuna casa da potersi definire tale di Giovanni Scarfò

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Entrai per l’ingresso di via XX Settembre, con la “pizza” sottobraccio, un pomeriggio del mese di aprile del 1951. Venni introdotto dal Capo della Casa Civile del Presidente, attraversai enormi saloni e visitai il giardino sempre accompagnato dal mio ospite. Poi fu l’ora della proiezione. Nella sala Luigi Einaudi (nella foto in alto a destra) sedeva accanto a Donna Ida, entrambi attorniati dai rappresentanti della Casa, civile e militare, con le rispettive consorti. Fui colpito dall’aria sana, di buona famiglia senza pretese e senza

Africo « era un paese

sperduto, sulle falde d’Aspromonte, dalla miseria secolare Alla fine della « proiezione

Donna Ida appariva commossa fino alle lacrime ostentazioni che vi regnava. E di qui una distinzione più che signorile, una comunicativa che non poteva negare, agli illustri ospiti, l’adesione totale del visitatore e la sua franchezza nel parlare. Africo era un paese sperduto, sulle falde dell’Aspromonte. In quel luogo, l’unico autentico moto di interessamento per una condizione di vita primitiva e disumana, certamente non “cristiana”, era giunto dal Presidente della Repubblica. Senza strade, senza fognature, senza assistenza sanitaria, senza case minimamente possibili, Africo emanava un lezzo acuto, lungo i suoi vicoli

oscuri. E la secolare miseria del meridione doveva passare, ora, davanti agli occhi del liberale Einaudi, su d’uno schermo assai più vasto del piccolo quadro bianco installato nella sala del Quirinale. Alla fine della proiezione, Donna Ida appariva commossa fino alle lacrime. Il

Presidente mi chiese: “È proprio tutto così?” “Eccellenza, è peggio, molto peggio - risposi - ma non mi è stato possibile mostrare di più. Questi documentari, per recuperare almeno le spese, devono passare per una commissione di censura e per un comitato tecnico. Se sono sgra-

I meridionali, mitomani per discendenza

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uffo è fautore di una attività intellettuale “interventista”, che guarda la Calabria dal suo interno e rivela al mondo intero le critiche condizioni sociali in cui si trovava - e si trova, purtroppo - soprattutto la Locride degli anni ‘50. Un modo di agire non condiviso dai calabresi, come del resto confermato dallo scrittore La Cava (foto piccola), che parla dei suoi corregionali come di coloro “che, di fronte alla testimonianza sociale della propria terra, s’indignano come di un’offesa fatta loro direttamente, non nei riguardi di coloro che cagionano o permettono quelle situazioni, ma nei riguardi di coloro che le denunziano”. Una riflessione già testimoniata da Alvaro (foto grande) nei suoi Diari: “dei greci, i meridionali hanno preso il loro carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita che è in realtà disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l’accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così bello”.

diti, la censura li ferma o il comitato tecnico o tutti e due insieme”. Il Presidente rimase pensoso. Poi batté per tre volte il bastone sul tappeto». È la parte finale dell’articolo che il regista calabrese Elio Ruffo scrisse per il Paese Sera, raccontando le vicissitudini (censure ministeriali e “paesane”) che accompagnarono la realizzazione del documentario intitolato S.O.S. Africo; pubblicato nel libro curato dalla Cineteca della Calabria e presentato qualche mese fa a Roma. “Raccontare di Elio Ruffo è per noi come riassumere la nostra storia di cercatori di tracce cinematografiche sul territorio iniziata nel 1999” scrivono i curatori del libro Eugenio Attanasio, Maria R. Donato, Domenico Levato ed io, Giovanni Scarfò; una ricerca che, in tutti questi anni, ha consentito di ri/comporre un’identità cinematografica che, seppur debole, ha permesso di “far vedere” la storia della rappresentazione che il cinema ha dato della Calabria. Elio Ruffo nasce a Reggio Calabria il 24 dicembre 1920. Figlio di Enrichetta Giuseppina Cordova, nobile di Palizzi, e di Gaetano Ruffo, avvocato (difensore tra gli altri di Giuseppe Musolino, dirigente della massoneria di Palazzo Giustiniani, fermo oppositore del fascismo e discendente da Gaetano Ruffo, uno de cinque martiri di Gerace). Laureato in Giurisprudenza, negli anni ‘40 risiede a Roma e sposa una nobile romana, con la quale avrà due figlie, Beatrice ed Enrica. Inizialmente si dedica all’attività giornalistica - L’Umanità, Fotogrammi - poi al cinema come aiuto di Mario Sequi (Monastero di S. Chiara, ‘49). Nello stesso anno debutta come regista con il documentario S.O.S. Africo, con il quale si fa notare dalla critica meritandosi un attestato di “impegno cinematografico”. Passano cinque anni prima

che Ruffo possa realizzare il suo primo film a soggetto Tempo d’amarsi, girato tra San Luca e Bovalino e proiettato fuori concorso al Festival del Cinema di Locarno, anno 1955. È, invece, del 1966, preceduto da altri documentari e scritti sul cinema, il suo secondo lungometraggio Una rete piena di sabbia, film-inchiesta sui problemi del Meridione, girato tra San Luca e la riviera ionica fino a Soverato, presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Venezia e vincitore di un ambito riconoscimento alla rassegna cinematografica romana Giove Capitolino. Sono tanti purtroppo i film progettati da Ruffo che non hanno

Eccellenza, è « peggio, molto

peggio, ma non mi è stato possibile mostrare di più Il Presidente « rimase pensoso

poi battè per tre volte il bastone sul tappeto trovato una strada produttiva. Tra i principali: L’attentato Zaniboni, Una famiglia del Sud (ispirato alle vicende familiari del regista), Il poggio e la speranza (un cortometraggio sull’esilio di Pavese a Brancaleone Calabro), Aspromonte: vendetta ed omertà (sui contrasti tra un barone calabrese ed un italo-americano rientrato in Calabria per sfuggire alla giustizia americana). Nel 1972 riesce a realizzare le prime immagini del film Borboni ‘70 sulla scoperta del summit mafioso in Aspromonte; purtroppo la morte lo ha colpito la notte del 16 giugno ‘72, mentre riposava nella sua abitazione di Bovalino.


Cinema e cultura

La città scomparsa

A S.Maria di Tridetti secondo gli storici c’era un tempio dedicato al Dio Nettuno di Carmine Verduci

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LA LEGGENDA vuole che l’abbazia sia stata costruita sui resti di un antico tempio dedicato al Dio Nettuno, edificato dai Locresi Zefhiri nel V-VI secolo A.C.; tesi supportata dal ritrovamento di monete coniate in onore della divinità, oltre che dagli storici antichi, che narrano di una importante statua raffigurante il Dio Nettuno, impreziosita da un mantello pregiatissimo con ricami in oro e pietre preziose che la ricoprivano. Pare che Annibale, passando da questo luogo (attraccato forse con la sua nave al porto di Capo Bruzzano, un tempo polo di scambio commerciale importantissimo) vedendo questo pregiatissimo mantello se ne impossessò, con la scusa che la divinità

Nella foto di Carmine Verduci, Staiti avesse caldo, e lo avrebbe riportato alla divinità con l’arrivo del freddo. INTORNO AL VIII- IX secolo i monaci basiliani sfuggiti dall’oriente, a causa della persecuzione iconoclasta, approdarono sulle coste calabresi e spinti dalla necessità di trovare luoghi riparati dalle frequenti scorrerie barbariche, si spinsero nell’entroterra, trovando rifugio in anfratti naturali e inaccessibili. Ritornando alla vallata di Tridetti, detta (Badìa o Batìa), è mistero sulla fine che ha fatto il nucleo abitato di Pollischìo, nella località denominata “Fracasso”, la questione sembra essere ammantata di mistero; la leggenda, che si tramanda oralmente da se-

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coli, è ricca di affascinanti e misteriosi racconti. Le ipotesi che si fanno meritano senz’altro una attenta analisi. Il Dott. Francesco Giuseppe Romeo che pubblicò nel 1985 il libro S. Maria di Tridetti a Staiti, storia di una abbazia basiliana, descrive questo luogo avvalendosi, oltre che degli studi effettuati su registri e documenti di archivio, anche di testimonianze raccolte tra gli abitanti locali, e quindi di Staiti, sul libro scrive: che in località denominata “Turco” i proprietari di una casa durante i lavori di restauro, rinvennero dei resti umani di scheletri, probabilmente resti di una necropoli appartenuti al vicino nucleo abitato Pollischìo. Il nome della Località detta “Fracasso”, prenderebbe il nome da un violentissimo cataclisma, di difficile datazione.

MUSE IONICHE

Marzo 2014

La leggenda di Pollischìo e dei Locresi Zefhiri

isteri, leggende, avvenimenti storici, e luoghi che la terra ha inghiottito nel silenzio e nell’oscurità. Civiltà che diedero vita ai nostri paesi aspromontani e pedemontani. Nel sud della Calabria, e precisamente nel territorio di Staiti (borgo medievale, a 13 Km dalla costa jonica, a 550mt s.l.m.), si trova l’abazia di S. Maria di Tridetti, accanto al torrente Fiumarella (oggi un rigagnolo ma un tempo di portata consistente). Questo edificio sacro, di origine bizantina, ma con chiare influenze normanne e motivi decorativi arabeggianti, risale probabilmente al VII-VIII secolo, o addirittura al XI secolo, (come ritenne l’archeologo Paolo Orsi, sovrintendente alle antichità e alle belle arti della Calabria, che scoprì la struttura nel 1912).

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inAspromonte

È fresco di stampa Muse Ioniche, Poeti e prosatori in greco e in latino, Tomo I, Dalla Magna Grecia al XIII secolo dopo Cristo, Città del Sole editrice, Reggio Calabria, p. 227, € 14,00. L’autore è Ulderico Nisticò, che ci sorprende ancora con la sua capacità di spaziare in ogni campo delle scienze umane, dalla storia alla letteratura al teatro. Ora colma una lacuna della cultura meridionale, offrendo ai lettori l’occasione di leggere direttamente gli autori antichi del Meridione ionico, con una raffinata traduzione, anch’essa sua, ricca di note esplicative e commenti. Il lettore specialista trova versi e prose che di solito non vengono ospitati nei testi divulgativi; il lettore colto ha tutto ciò che possa desiderare di sapere di un’antichità di solito più esaltata che conosciuta. Muse Ioniche è dunque il lavoro di un classicista, ma anche, forse più ancora un libro per tutti. Il Tomo I comprende Stesicoro, Ibico, Alessi, Nosside, Rintone, Leonida, Livio Andronico, Ennio, Accio, Pacuvio, Orazio, Cassiodoro, Gioacchino da Fiore. Il Tomo II, già pronto, giungerà ai nostri giorni.

Hanno scritto in questo numero Antonio Iulis, Gianni Favasuli, Cosimo Sframeli, Federico Curatola, Tiziano Rossi, Pino Macrì, Domenico Stranieri, Vincenzo Stranieri, Francesco Marrapodi, Ulderico Nisticò, Giovanni Scarfò, Carmine Verduci, Bruno Salvatore Lucisano Per l’Aspromonte orientale Filippo Musitano, Antonio Perri, Mimmo Catanzariti Per l’Aspromonte greco Salvino Nucera, Francesco Violi Per l’Aspromonte occidentale Giuseppe Gangemi

Chi è l’autore

U

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lderico Nisticò nasce a Catanzaro Sala e vive a Soverato. Ha insegnato nei Licei. Di formazione classicistica, si cura anche di storia sia generale sia nazionale sia calabrese, e la intende come narrazione di fatti. Ha pubblicato più libri storiografici, e tra questi: Il ritorno degli Eracliti, 1978; La cultura della memoria, 1979; Storia delle Calabrie, 1984; Ascendant ad montes. La difesa passiva ed attiva della costa ionica in età bizantina, 1999; Prontuario oscurantista, 2000; Abele e Caino. Storie della guerra mondiale 1814-2001, 2002; Controstorie delle Calabrie, 2009; e le edizioni critiche di Grano, Fiore, Destito, Romano, Anania, Arturo; e scritti di storia cittadina. Ha pubblicato anche opere poetiche e di narrativa, tra le quali: Di Lalage e di Iole (Liriche), 1975; Sette novelle metafisiche, 1986; Il Giulivo, 2003; L'ospite, 2006; Resurrexit, 2009; Poliporto, La Leggenda di Eutimo e Caritea, 2010. Collabora a riviste, quotidiani e televisioni.

Per le biodiversità Rocco Mollace, Leo Criaco, Mirko Tassone, Francesco Tassone, Angelo Canale Fotografi Enzo Penna,Tiziano Rossi, Carmine Verduci, Leo Moio, Pasquale Criaco, Natale Nucera, Paolo Scordo,Francesco Depretis, Francesco Criaco, Domenico Stranieri, Pasquale Faenza Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 13/03/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.


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inAspromonte Marzo 2014

In montagna si è piÚ vicini al Cielo...

Nella foto una strada di Africo Antica (Aspromonte orientale). Foto di Antonio Iulis

ogni giorno siamo on line su www.inaspromonte.it


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