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Direttore Antonella Italiano
inAspromonte
Aprile 2014 numero 008
L’ASPROMONTE PIANGE STRATI
La foto in copertina, della statua di San Leo di Africo, scattata durante l’ultimo restauro, è stata concessa in esclusiva alla testata in Aspromonte da Pasquale Faenza
E GLI ASPROMONTANI?
Saverio Strati ci lascia, e con lui muore la speranza di riaverlo qui, in Calabria. Colpa di un Popolo che l’ha sempre evitato, di un Potere che l’ha ignorato, di un Destino che non ha fatto sconti a chi, al contrario, avrebbe voluto rendergli omaggio. Muore solo, Strati, come un figlio dei boschi pag. 2 - 3
La scoperta della
roccia di “Scipio” servizio e foto di Domenico Stranieri pag. 7
Tra i boschi
L’intervista Faenza e il Santo conteso
La lunga via dell’Aposcipo
di Francesco Violi
di Leo Criaco
pag. 10
Antichi mestieri Reportage U sapuni i casa di Mimmo Catanzariti pag. 18 - 19
pag. 12 - 13
La nostra storia Il terremoto del 23 ottobre 1907 di Pino Macrí
pag. 21
La riflessione
Di nuovo sulla tua montagna di Antonella Italiano
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ove non crescono i funghi e le ginestre spinose stanno inerpicate sui lecci, tornerai questo aprile. Riconoscerai il rumore dei monti perché sarà lo stesso di sempre: il fiume, il ghiro, la ghianda, la foglia, un’ape, il gufo, il ramo, il grillo, il lupo. Il vento. E il tuo respiro. Lontano dalle sorgenti. Lontano dai panorami. Lontano dalle strade e dai caselli. Lontano dagli alberi segnati di rosso accenderai un fuoco. Un legno, due legni, tre legni, finché la piramide sarà pronta, alla maniera dei carbonai, e la fiamma divorerà il primo. Sulla tua testa un bosco così fitto che neanche il fumo riupag. 2-3
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Copertina
inAspromonte Aprile 2014
DI NUOVO SULLA TUA MONTAGNA segue dalla prima di Antonella Italiano
scirà a passare, e dovrai immaginare il cielo e la disposizione delle stelle, che gli astri, si sa, mettono tristezza e tu non vuoi altre lacrime in questa primavera. Sarai solo, finalmente. Ma conosci compagnia più interessante di un fuoco sulla montagna? o discorso più sensato del suo profondo silenzio? o versi più belli di quelli che il vento grida contorcendosi nelle valli?
ilPunto di DOMENICO STRANIERI
Ti perderai, sono certa, in della rabbia mai sfogata. Poi la fiamma divorerà il secondo. Ho visto Campusa, più volte. Ho fatto e rifatto la strada di pietra, su e giù dalle casette all’orto. Sono entrata in tutte le stanze, contando i passi da un muro all’altro: qua la cucina, il camino, qua i letti. Ed era notte quando, su di un sacco a pelo fortuito, mi parlarono di libri e di natura. In
quella casa con il sottotetto in legno e quell’improbabile finestra, da cui a tutte le ore entrava e usciva la montagna, sentivo di amare Campusa fin dalla prima volta. La ripenserai anche tu davanti al fuoco, con la legna disposta a cerchio e l’aria che alita sulle braci, arroventandole. Sarà bello e malinconico, avrai voglia di tornarci, ma non lo farai. E poi la fiamma divorerà il terzo.
Una cosa che amo della montagna è la sua sfida continua. L’irriverenza che mostra per caviglie e polpacci, il gusto che prova a squarciarti la pelle, il buio che invia, quasi fosse uno spirito maledetto, a poggiarsi sulle spalle per non farti camminare. E se il gelo ti ghiaccia la schiena e non scappi, divieni tu stesso montagna. Come un lupo, attento e silenzioso. Come uno squarcio di
SAVERIO
STRATI
L’ARTE NON
POPULISTA DI STRATI
C
i sono scrittori che hanno scelto di non ritornare, eppure non sono mai partiti. Ci sono memorie di passati che non passano, perché hanno segnato per sempre la storia di un popolo. In un certo senso, anche Saverio Strati, il grande scrittore recentemente scomparso, non si è mai allontanato dal suo paese. Eppure io che sono cresciuto a Sant’agata del Bianco non l’ho mai incontrato. Ho sentito, però, che gli veniva rimproverato, dalla nostra gente, il fatto di essersi dimenticato delle sue origini, di essere andato via senza preoccuparsi di niente e di nessuno. Strati sapeva tutto questo, tuttavia non faceva nulla per mitigare tali dicerie, non riusciva a scrivere cose che non pensava, non era proprio capace di incensare persone e cose. Era come lo si scorgeva, quasi che la sua acuta intelligenza e sensibilità non riuscisse ad avere la meglio sulla sua natura schiva e riservata. Ecco perché non ha mai cercato il facile consenso. La sua onestà intellettuale lo spingeva dentro la verità dei problemi. Nel 1979, ad esempio, fece scalpore un’intervista rilasciata a Famiglia Cristiana dove lo scrittore evidenziava il tormentato rapporto tra i calabresi e la natura, pur consapevole che il nostro è “un paesaggio selvaggio che può incantare un poeta”. «Ricordo un viaggio in auto da Firenze a Sant’Agata - raccontava Strati attraverso la Puglia: ebbene le Marche, l’Abruzzo, la Puglia presentano un paesaggio che pare
un continuo giardino, in cui si sente costantemente la presenza della mano dell’uomo; la natura calabrese è invece selvaggia: ha una sua bellezza nella sua desolazione, ma è desolata appunto, abbandonata a se stessa, dà una sensazione di sfascio, che è dell’uomo, non della natura». I calabresi (ed i “santagatesi”) non glielo perdonarono mai, e nel suo paese si creò inesorabilmente il preconcetto che Strati non era uno di loro, “che aveva scelto di vivere altrove e pensava solo a se stesso”. Non era così, ovviamente. Lo scrittore con la sua mente, i suoi personaggi, le sue storie, non è mai partito. Per tutta la vita ha raccontato il suo mondo, e non ha smesso di farlo nemmeno quando nessuno (di quel mondo) pensò che valesse la pena congratularsi con lui per la vittoria del premio Campiello. Ma egli rimase sempre se stesso, chiuso nell’ostinata integrità di chi non si immedesima mai nella parte della “vittima”; persino negli anni in cui la casa editrice Mondadori decise di non pubblicare più i suoi libri (tanto che le motivazioni di questa scelta rimangono tuttora misteriose, ed anche tra gli E-Book Mondadori non esiste un solo testo di Strati). Naturalmente la speranza è che, in futuro, lo scrittore di Sant’agata del Bianco possa “risorgere” attraverso la lettura delle sue opere, soprattutto tra i giovani. Ma è solo una speranza, perché la ragione, a volte, mi porta ad essere più pessimista dello stesso Strati.
ARRIVEDERCI MAESTRO...
Era un personaggio schivo, disilluso, diffidente e cordiale al contempo. Innamorato della sua terra, non corrisposto dal suo popolo. Ed era l’autore più grande che, questi, potesse mai desiderare di PINO COLOSIMO
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Il 29 giugno 1989 suonai al citofono di casa “Strati” e mi fece un certo effetto leggere quel cognome
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Gli scattai delle foto, invitandolo a mettersi in posa. Avvertii la sua timidezza e la sua disapprovazione che la « Ribadì sua narrativa era diversa da quella di Alvaro o La Cava, con loro non condivideva nulla
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ell’autunno del 1988 telefonai a Saverio Strati per dirgli che ero un suo affezionato lettore, che possedevo tutti i suoi libri in prima edizione, che ne avevo visitato i luoghi e che nel suo paese natale, Sant’Agata del Bianco, avevo conosciuto sua sorella. Mi domandò da dove lo stessi chiamando e se fossi Calabrese. Disse che aveva appena finito di scrivere il suo ultimo libro e che presto lo avrei trovato in libreria. GLI CHIESI di scrivermi una cartolina come testimonianza storica di quella pubblicazione; indugiò, ma, intuita la mia delusione, finì con l’assecondarmi. Qualche giorno prima di Natale la sua lettera di auguri mi informava dell’uscita de L’uomo in fondo al pozzo, il suo nuovo romanzo, sperando che mi piacesse. Lo chiamai per ringraziarlo e per fargli sapere che lo avevo letto, che mi era piaciuto e che lo avevo trovato diverso dai precedenti. Gli chiesi di conoscerci e lui, senza esitare, mi invitò nella sua casa a Scandicci. Il 29 giugno 1989 suonai al citofono di casa “Strati” e mi fece un certo effetto leggere il suo cognome in mezzo ad altri.
Lo trovai ad attendermi sul pianerottolo; lasciai cadere la borsa a terra e lo abbracciai forte, come si fa con una persona cara che non si incontra da tempo. Sorrise e mi invitò a entrare. IL SUO STUDIO era una stanza ordinata con le pareti tappezzate di libri, sculture e quadri. In un angolo vidi la sua scrivania e gli domandai se si sedeva lì per scrivere i suoi libri. Mi rispose che da quella scrivania erano stati concepiti i suoi libri più importanti. Lo feci sedere e, senza chiedergli il permesso, gli scattai alcune fotografie, invitandolo a mettersi in posa, ora come se leggesse, ora come se scrivesse. Avvertii la sua timidezza e quando mi accennò uno sguardo di disapprovazione, lo pregai di farlo e che non avrei mai diffuso quelle immagini. Infine, tirai fuori dalla mia borsa i suoi libri e gli chiesi di autografarli in ricordo del nostro incontro. RIMASE SORPRESO dalla quantità di libri che mi ero portato dietro e si soffermò su quelli che aveva pubblicato alla fine degli anni 50. Ne lesse sottovoce i titoli La marchesina e La teda. Poi, seduti uno di fronte all’altro,
Copertina vento, insidioso. Come un volo improvviso, destabilizzante. Ma tu sarai in un posto troppo lontano per la paura. Neanche il pericolo si spinge così avanti. Sarai al sicuro, almeno fin quando terrai acceso un fuoco. E la sua fiamma divorerà il quarto pezzo di legno. Che forma avranno le stelle, lassù, dove finiscono i lecci? Sarà un bene non poterle guar-
dare. A volte il cielo è così nero e così nitido da mostrare dettagli del suo universo che, a fissarli troppo, sembrano volerti aspirare. Ma tu non ami volare. E non ami il cielo. Ti attirerà piuttosto un fuoco, acceso alla maniera dei carbonai. E un bosco tanto fitto da non lasciarne uscire il fumo. E le piante di mirto e di ginestra spinosa. E rovi tanto alti che persino le capre rinunceranno a pas-
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sare. Non ci sarà un laghetto, né una sorgente. Non ci saranno funghi in nessuna stagione. Vedrai chiunque avvicinarsi con grande anticipo e conterai i rumori che ben conosci perché, lo sai già bene, sono sempre gli stessi. E quando la fiamma divorerà anche l’ultimo pezzo di legno ti sarai già addormentato, cullato finalmente dalla tua montagna.
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l’Intervento
di GIUSEPPE BOMBINO*
«Un grave lutto nella comunità d’Aspromonte»
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iniziammo a parlare di autori, di Calabria e di emigranti. Era amareggiato, deluso dalla classe intellettuale calabrese che non faceva sinergia e non credeva nei giovani per il riscatto culturale, politico e sociale del Sud. Ribadì che il suo meridionalismo si discostava da quello mitico e letterario di autori come Alvaro o La Cava e che con loro non avrebbe mai potuto condividere nulla. SOSTENNE DI essere uno dei pochi a scrivere della condizione del nuovo proletariato meridionale consapevole di se stesso, coincidente con quella del lavoratore italiano ed europeo nel contesto di una società a capitalismo avanzato. Tornò a ribadire che la sua narrativa era diversa da quella di altri scrittori meridionali, i quali privilegiavano la rappresentazione del Sud inchiodato nella miseria e nell’immobilismo e il popolo rassegnato alla fatalità degli eventi. Conversammo di filosofia e mi ricordò che L’uomo in fondo al pozzo era il suo “romanzo nuovo”. Raccontava la storia di un uomo che viveva la propria solitudine, fatta di richiami alla cultura del passato e alla luce del sapere. Confessò che con questo libro manifestava il suo desiderio di voler parlare di cultura filosofica. Mi accorsi che sulla sua scrivania c’era un libro di Arthur Schopenhauer. GLI PROPOSI di leggermi alcuni passaggi de L’uomo in fondo al pozzo, quelli che più mi
erano piaciuti e che avevo perciò sottolineato a matita. Accesi il registratore, gli abbozzai un sorriso e lui, come se non avesse ben compreso, mi domandò se doveva davvero leggere. Non risposi e lo fissai con l’aria dell’attesa. Iniziò: «La via della vita: dal nascere al morire cammini lungo la via della vita senza però sapere dove andrai a sbattere. Ti piacerebbe arrivare in un giardino fiorito, ma vai invece a sbattere in un burrone fetido, in una fogna; ti piacerebbe salire in cima al monte, ma rotoli giù a valle pesantemente. Chi siamo? Chi ci guida? Perché ci è negato di conoscere il percorso che dovremmo battere?... E perché perdiamo proprio quando abbiamo la convinzione di aver vinto e vinciamo quando siamo certi di aver perso?». LO RINGRAZIAI con gli occhi lucidi, mi alzai e lo riabbracciai. Comprese con quanto affetto e quale semplicità lo avessi seguito da sempre. Ci salutammo con la promessa di rivederci. Lo chiamai il 21 febbraio 1991 per dirgli che mio figlio Francesco era morto. Lo richiamai il 26 ottobre 1992 per dirgli che mio figlio Andrea era nato. Mi fece gli auguri ed avvertii la sua emozione quando gli recitai a memoria: «E perché perdiamo proprio quando abbiamo la convinzione di aver vinto e vinciamo quando siamo certi di aver perso?». Arrivederci Maestro.
Sopra, Saverio Strati nel suo studio a Scandicci (1989). Sotto le dediche che lo scrittore fece a Pino Colosimo. Foto di P. Colosimo
ui in Aspromonte, tra la sua gente e nella terra ancora calda d’inchiostro, geme, piange e cerca conforto l’animo per la definitiva perdita del massimo scrittore di quest’epoca. Lontano fisicamente dalla sua natia origine, è stato portavoce e ambasciatore del pensiero e della cultura di questa nostra terra, a cui ha dato l’onore del racconto e della verità. La carne e lo spirito di quanti amano la montagna d’Aspromonte celebreranno ancora la bellezza di quei percorsi narrativi, il fascino di quella prosa, l’angoscia e il talento del vivere la società meridionale. E mentre assistiamo all’ultimo verso della sua opera, all’ultimo passaggio del novecento, non possiamo che riporre il libro, che tenemmo tra le mani, accanto a quello di Alvaro e degli altri campioni che innalzarono il tempo dei grandi. Ma resta intatta su questo nuovo secolo una speranza, la stessa che ritrovammo nel romanzo La teda quando dopo l’alluvione del paese di Terra rossa e di fronte alla morte, il protagonista esorta alla speranza e dice: “Domani spunterà il sole e ripiglieremo il lavoro con altro amore”. La speranza noi l’attenderemo sulla linea dell’orizzonte, dove l’Aspromonte si consegna al cielo, con una penna e una carta vegetale in mano. Il presidente del Parco Nazionale d’Aspromonte Giuseppe Bombino, il direttore e il personale tutto manifestano dolore e rimpianto per il grave lutto che in questi giorni ha colpito la comunità d’Aspromonte, poiché l’ultimo dei suoi più cari figli, letterati e scrittori, si è spento rendendola spoglia della fama e della bellezza del suo genio compositivo e letterario. Questa terra che si faceva onore di essere natia del suo travagliato spirito e della sua tragica esistenza, rimane ora povera del suo talento e del suo ingegno. Sicuri che la sua lezione non possa e debba cadere nel vuoto, confidiamo che la forza generatrice e creatrice di questa terra possa riemergere e produrre ancora quella energia che diviene percorso narrativo, fascino della prosa, angoscia e talento del vivere la società meridionale. Ci auguriamo di ritrovare il carattere e lo spessore, l’accanito amore che generò tali e tante e opere. E mentre assistiamo all’ultimo verso della sua opera, all’ultimo passaggio del novecento, non possiamo che riporre il libro, che tenemmo tra le mani, accanto a quello di Alvaro e degli altri campioni che innalzarono il tempo dei grandi. La speranza noi l’attenderemo sulla linea dell’orizzonte, dove l’Aspromonte si consegna al cielo, con una penna e una carta vegetale in mano. *Presidente Ente Parco d’Aspromonte
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ritratti
Ombre e luci
MASSARU NUNZIATU
Africo antica. La nostalgia di un anziano aspromontano e la nuova, dura, condizione di “sfollato”
brunastre, sul dorso delle loro dure, anchilosate mani, sembravano i rilievi, le balze delle Rocky Mountain e dell'Aspromonte. Annunziato, da un pezzo, aveva preso a soffiare come un mantice sul fuoco. Poi, fumando lentamente la pipa, con quella saviezza, con quella compassata gravità tipica dei vecchi, si mise a sgranare un rosario di considerazioni sulla vita. Le sue erano considerazioni semplici, sofferte; maturate nella solitudine, nei lunghi silenzi dell'anima; erano considerazioni scarne ma ricche di significato; erano considerazioni intagliate come i cucchiai ed i mestoli, come il bastone, ‘u minatùri, con cui lui, pazientemente, girava e rigirava il latte nel calderone per farlo rapprendere. Erano considerazioni calde, fumanti, come la cagliata che, con maestria, poi comprimeva dentro le faschéddhe, le fiscelle di giunchi che davano la forma al cacio e alla ricotta. Sua moglie Caterina, intanto, vestita di nero, nel lutto di sempre, cardava la lana seduta in disparte. Suo figlio Giovanni, con un secchio in mano, si apprestava ad andare nella stalla a mungere le vacche.
Nella foto un massaro di San Pantaleo (Aspromonte greco). Foto di Enzo Penna
«Una furia inaudita di tronchi d'alberi e macigni di pietra lo aveva sfrattato da quel paradiso, relegandolo all'inferno, in un agglomerato urbano costruito su di un acquitrinoso, malsano terreno a quattro passi dal mare...» di GIANNI FAVASULI
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olveroso d'estate e scivoloso, spesso impraticabile d'inverno, il sentiero, subito dietro casa mia, zigzagando tra arbusti ed acacie, s'inerpicava sul declivio del colle e sfociava in una spianata dove i ragazzi, dopo la scuola, si trastullavano, per ore, giocando al pallone o a uno al monte, alla cavallina; dove gli anziani, che la cavallina non correvano più da parecchio tempo, senza più sogni, qualora ne avessero mai avuti, nei placidi e soleggiati meriggi si trastullavano, per ore, guardando i ragazzi giocare o giocando, a loro volta ‘a murra, alla morra, o ch'î brigghjî, con i birilli. Le donne che si recavano alla fiumara per lavare i panni, essendo quel sentiero una comoda scorciatoia, lo trafficavano spesso. Appena giunte ai piedi della spianata, però, invece di continuare l'ascesa, prendevano, a destra, un altro sentiero che, zigzagando a sua volta tra arbusti ed acacie, menava al lavatoio. UN GIORNO, mentre percorrevo quell'erta per recarmi al casolare di Annunziato Belcastro, ‘U massaru Nunziatu - ch'era situato nel versante opposto in una ràsula, in un terrazzamento che sovrastava i gabbioni posti come argini alle sponde della fiumara - a comprare la ricotta fresca, il cielo si rabbuiò, si fece minaccioso e un temporale, da lì a poco, scoppiò violento, improvviso. Annunziato, non appena vide ch'ero inzuppato d'acqua, bagnato come un pulcino, acceso il focolare, mi fece levare il maglione e lo stese sulla spalliera di una seggiola per farlo asciugare. Poi mi fece cenno di sedermi vicino a lui, davanti al crepitante fuoco. L'acre fumo, che in un baleno, nel frattempo, aveva invaso la stanza, mi faceva lacrimare gli occhi. Fuori, intanto, l'acqua continuava a cadere a scrosci, a catinelle. Annunziato aveva dei buoni motivi per lamentarsi. Pa-
store tenacemente legato alla terra, ai pascoli dell'Aspromonte; in arcana, intima comunione con il Grande Spirito che, alitando, la vita dispensa e governa il destino, le fortune delle mandrie e dell'uomo; in armonia, in perfetta simbiosi con tutti gli elementi della natura; avvezzo alla montagna da cui pareva fosse stato generato, partorito; scacciato da quel suo stesso gigante, da quel totem che, scaraventando con furia inaudita tronchi d'alberi e macigni di pietra sulle povere case del vecchio paese, lo aveva sfrattato da quel paradiso e lo aveva costretto a passare il resto dei suoi giorni, dei suoi anni, relegato all'inferno, in un agglomerato urbano costruito su di un acquitrinoso, malsano terreno a quattro passi dal mare; faccia spigolosa, rocciosa, mai levigata, scalfita dagli agenti atmosferici; sorriso di tabacco e di ricotta, Annunziato dovette accontentarsi della sussistenza che lo Stato gli passava. Si sentiva, ormai, come un albero senza più fronde né radici; come un corpo privo del caldo afflato dell'anima; come un anonimo ed insignificante uomo senza più identità. LONTANO dal suo habitat naturale, dal dio Pan, dai suoi cari defunti, si sarebbe dovuto rassegnare, a malincuore, a fare la stessa fine degli indiani del Montana - cui tante volte gli avevo raccontato la storia - destinati a morire d'inedia dentro una riserva. Anche lui come quelli, però, si sarebbe portato per tutta la vita, e anche oltre, dentro il cuore, l'amata, sconfinata, selvaggia montagna. Come gli occhi, nerissimi, di Sahpo Muxita, Piede di Corvo, capo del popolo dei Piedi Neri, anche i suoi, dell'identico colore, sembravano profondi, orridi anfratti; come le folte ciglia del vecchio capo indiano, anche le sue, cespugliose, sembravano creste silvane. In entrambi, la montagna pareva ergersi sovrana, possente, luminosa. Le grosse vene
ANNUNZIATO, parlando, rincorreva con la mente antichi sentieri che portavano a luoghi remoti, inaccessibili; riviveva, tra una boccata e l'altra di trinciato, la sua umana transumanza tra i latrati incessanti dei cani e il susseguirsi, implacabile ed ordinato delle stagioni. Nelle sue storie, le astuzie della volpe ed il volo insidioso del falco, assumevano i significativi dell'inganno e della rapacità umana; assumevano i significativi della mala fede, dei trucchi che gli uomini, piccoli e meschini, escogitano per fregare i loro simili. Le mandrie, invece, gli riportavano alla memoria l'ultima guerra mondiale quando, dietro ad un folle pastore che non aveva nessuna affezione per le pecore, si andò in tanti al macello. Ad un tratto, mettendomi una mano su di un a spalla, da dietro una fitta cortina di fumo che stagnava a mezz'aria, esclamò: «Beati voi che avete avuto l'opportunità di studiare! Io, invece, questa fortuna non l'ho avuta e ho dovuto sgobbare fin da piccolo! I miei libri di testo sono stati le capre, le pecore e le mucche; i miei quaderni, a righe e a quadri, sono stati fazzoletti di terra che concimavo ed irrigavo con il sudore e con il sangue; i miei maestri di scuola sono stati i vecchi, quelli che con il loro coraggio, con i loro esempi, con la loro grande anima, mi hanno aiutato a crescere e a diventare uomo!». Poi, di punto in bianco, prese a raccontarmi l'episodio di quando un toro infuriato, incornandolo, gli aveva lasciato sulla pelle e sull'anima delle stimmate indelebili. TOGLIENDOSI la spessa, pesante maglia di lana che indossava, mi mostrò una lunga e profonda cicatrice che, partendo dal suo villoso, granitico petto, gli arrivava fino al pube. Rimasi impressionato. Come il vomere di un aratro squarcia profondamente la terra, così la tremenda cornata che il toro gli aveva assestato, gli aveva squarciato, profondamente, il petto e gran parte dell'addome. «Non fosse stato per l'aiuto, per il miracolo che la Madonna della Montagna mi ha concesso, adesso non sarei qui a raccontarti queste cose! È stata lei, la protettrice di tutti noi massari a rattopparmi, a rimettermi in sesto! Sono state le sue benedette mani a rammendare, centimetro dopo centimetro, gli strappi del mio petto e delle mie viscere!» mi disse, con le lacrime agli occhi, indicandomi il quadro con l'effige della Vergine di Polsi, con la corona in testa ed il Pargoletto tra le braccia, appeso ad una parete fuligginosa. Vicino al ritratto che io gli avevo regalato di Sahpo Muxita, il fiero capo indiano, con le penne d'aquila in testa e il tomahawk in mano.
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Ombre e luci
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L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri
Anche i militari della Benemerita, che tornavano da una perlustrazione in montagna, a piedi o a dorso di cavalli, lì si fermavano per dissetarsi, e, senza coinvolgimento apparente, ascoltavano i discorsi del giorno di COSIMO SFRAMELI
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CANTINE
Nella foto “colazione calabrese a base di Nutella”. Foto di Enzo Penna
n quel paese, dove mancava il pane e la carne era considerata un alimento proibitivo per la stragrande maggioranza della popolazione, vi erano ettari di terreno coltivato a vigna che produceva un vino squisito. Nel centro storico e nelle numerose frazioni, in ogni strada, in ogni viuzza, in ogni piazza, in ogni angolo, vi era una cantina per la degustazione e la vendita del vino. Non si serviva l’anice. Nelle sere d’inverno, quando i venti freddi che soffiavano dall’Aspromonte si incanalavano attraverso le gole delle fiumare e si abbattevano sulle case vecchie, e quando una pioggia fitta ed inquieta si abbatteva sul paese, le cantine si riempivano di popolo che scolava bicchieri di vino rosso accompagnandolo con fave e ceci abbrustoliti, con qualche castagna arrostita tra la cenere, con qualche lupino salato. Taluni arrostivano sulla brace qualche aringa, altri si dividevano le sarde salate e una manciata di olive nere. Anche i militari della Benemerita, che tornavano da una perlustrazione in montagna, a piedi o a dorso di cavalli, lì si fermavano per dissetarsi, per incontrare amici e, senza coinvolgimento apparente, ascoltavano i racconti del giorno, ma riprendevano affrettatamente la via essendo tutori di altri doveri. Intanto, lentamente si creava in cantina un clima di calore umano e di crescente complicità di cui nessuno di quegli abituali avventori avrebbe potuto mai fare a meno; quasi che il vino avesse il sapore del latte materno per questi eterni poppanti. I discorsi erano sempre uguali: la campagna sempre avara, gli animali rachitici per il poco cibo, la pioggia che distruggeva o il sole che bruciava ogni
VINO, ARINGHE E FAVE
Il popolo, infreddolito, si raccoglieva nelle botteghe, attorno ai bracieri: un bicchiere di vino rosso, castagne arrostite, lupini cosa; insomma si parlava di una natura che sembrava avesse loro dichiarato guerra. Gli intellettuali conversavano in maniera più stimolante; essi al caffè, che eccitava, preferivano il vino, che li infiammava. Nel braciere la fiammella diventava sempre più fioca ma continuava ad attrarre sguardi brillando nella penombra della cantina e, in quell’atmosfera, qualcuno iniziava ad introdurre discorsi sulle anime dannate che vagavano su questa terra in cerca di riposo, di capre indemoniate, di diavoli assassini, di preti esorcisti; ed essi, per farsi coraggio, si avvicinavano sempre di più l’uno all’altro, come i bambini che avevano paura del buio. Intanto un bicchiere tirava l’altro e il vinaio doveva fare credito oppure coloro che lavoravano pagavano per i meno fortunati. L’odore del vino, delle aringhe e delle fave si mescolava con quello del tabacco fumato nelle pipe artigianali oppure attorcigliato nelle cartine o nelle foglie di vite. Nuvole uscivano dalla porta appena socchiusa e con il fumo evaporavano i tristi pensieri di tanta gente: il lavoro massacrante che spezzava anche i più forti, le umiliazioni che sfibravano anche i più di-
gnitosi, il lamento della moglie sempre incinta e ogni giorno più vecchia, i bambini quasi sempre ammalati per gli stenti, gli anziani lamentosi, i loro sogni infranti. Piano piano sembrava che una mano pietosa avvolgesse la loro testa con una carezza, mentre gli occhi si chiudevano, il corpo si sentiva leggero e tutte le cose sembravano ballare un lento girotondo. Ognuno sentiva il calore del corpo del vicino; avvertivano il reciproco pianto senza lacrime e, così, non riuscivano a staccarsi da quei vecchi tavoli per affrontare la vita che li aspettava oltre quella porta appena socchiusa. Solo quando il braciere era freddo, ormai sera, i ritardatari uscivano nelle strade già buie. Timidi e barcollanti, guardati con disgusto dai ben pensanti. Alcuni avvertivano un senso di colpa, ma anche qualcos’altro che solo loro potevano comprendere. Infatti, anche per quella sera avevano fatto un supplemento del loro lavoro, quello più faticoso, una specie di ricarica per poter sostenere l’insostenibile lotta per l’esistenza, per poter continuare a vivere quella insopportabile vita di tutti i giorni.
NDRANGHITA? Quasi quasi mi arruolo S di BRUNO SALVATORE LUCISANO
tavo pensando di arruolarmi nella ndranghita. Certo, è un po’ tardi, ho sessantadue anni, non riuscirei mai ad arrivare alla carica di padrino, al massimo trequartino. Anche studiando a fondo tutta la letteratura che riguarda questa materia, più ampia delle pianure americane, non riuscirei mai a raggiungere il grado di santista. Ma poi, oltre ai sodali, bisogna affermare che la ndranghita dà lavoro a molti. Anzi penso che l’economia della nostra terra sarebbe distrutta se non ci fosse questo straordinario fenomeno di costume. Avete mai fatto caso quale economia sviluppa e quanta manovalanza e quanta scienza occorre per tenerla a bada, quanta gente ci mangia e lavora? Magistrati, avvocati, giudici, scrittori, scribacchini, autori, registi, attori, politici, periti, medici, giornalisti, giornali, televisioni, ecc. L’intero comparto economico calabrese è sostenuto
dalla forza produttrice della ndranghita. Senza contare poi tutti i graduati della onorata società: trequartino, quartino, padrino o quintino e poi anche sgarrista, santista, ecc. Questa è tutta gente che lavora, fa sacrifici e mangia con la ndranghita. Quello dello ndranghitista è un lavoro usurante e dovrebbero bastare pochi anni di contributi per arrivare alla pensione. Non è mica semplice: rubare, ammazzare, drogare e drogarsi. Poi, come ho scritto anni fa in una commedia dialettale, il ladro, il delinquente, sono il perno del mondo dell’economia. Senza di loro non ci sarebbero i sistemi d’allarme, le casseforti, le porte blindate, i vetri, le finestre e persino le porte, le armi. A che servirebbero? Immaginate quanto intorno a noi è costruito in funzione del ladro! Sono decine di migliaia di oggetti e soluzioni atte a combattere la delinquenza. Persino uno scrittore, seduto a casa sua,
da un paesino della Calabria, è riuscito a scrivere un libro sulla ndranghita australiana! Nel periodo dei sequestri di persona gli alberghi della costa ionica erano strapieni. La stampa di tutto il mondo parlava della nostra terra, gli inviati dei più importanti quotidiani arrivavano qui per questo straordinario boom economico. Se fosse vissuto a quel tempo Saviano avrebbe scritto chissà quanti romanzi (?). La ndranghita, straordinaria ricchezza della nostra terra, ha costruito alberghi, ristoranti, villaggi turistici, palazzi e chi più ne ha più s’inventi. Tra il 1943 e 1944 Carlo Levi scrisse il romanzo Cristo si è fermato ad Eboli. In realtà è lui che si è fermato in Basilicata perché se solo l’avessero mandato un po’ più sotto, avrebbe visto e scritto cose che l’avrebbero reso ricco. Io chiudo in un cassetto la mia aspirazione di ndranghitista; largo ai giovani, senza lavoro e senza speranza.
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Aspromonte orientale
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Il Piano di Stole potrebbe essere stato la sede dell’antica Samo?
l Piano di Stole (nel riquadro in basso) si trova in altura, a pochi passi dal fiume La Verde, tra colline di terra soffice e grassa, fertile e facilmente coltivabile: condizioni ideali per erigere un’acropoli. Ma è possibile sostenere che un’acropoli di origine greca (dalla quale derivarono i centri di Sant’Agata, Samo, Ferruzzano e forse Bruzzano) si ergeva sul Piano di Stole? Si dovrebbero, per questo, considerare alcuni ruderi verosimilmente ignorati. I due colossali blocchi di pietra sul Piano, ad
esempio, che probabilmente fungevano da accesso principale alla fortezza, i ruderi della torre, il palmento incavato nella roccia. Sicuramente si trattò di un’acropoli – forse alleata dei Locresi – che ebbe il suo periodo massimo di fioritura nel periodo che va dal 350 a. C. al 180 a. C. Una polis che contava migliaia di abitanti, costruita in base a criteri cautelativi adottati dalle più importanti polis greche. Una via di fuga, ad esempio, che dal Piano di Stole scendeva
attraverso un cunicolo sotterraneo fino a raggiungere gli argini della collina. Con ogni eventualità si trattava di un budello a cui ricorrere in caso la città stesse per capitolare. Suddetto cunicolo fu anche utilizzato tra la fine del 1800 e la metà del 1900 prima dai briganti, poi dai componenti della banda Audino, come nascondiglio e deposito di armi. Si tratta di un passaggio sotterraneo il cui nome fu tramutano in gergo in: “A caverna di briganti”.
di FRANCESCO MARRAPODI
La città di
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Il nuovo abitato di Samo e gli antichi ruderi di Precacore sono contigui. Si osservano come per controllarsi, per non separarsi. Dall’abitato di Samo i ruderi appaiono come una sorta di rimorso, di memento mori, come il luogo di fondazione e della memoria. Dalla collina con i ruderi le case di Samo appaiono una sorta di continuità della vita”. Vito Teti
Il mistero PITAGORA
Pitagora?
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n località Stole, direzione ovest del promontorio Capo Zeffirio, lungo gli argini del fiume La Verde (in antichità Trope, dal greco: corso navigabile) risiedeva una tribù di Italioti o forse di Siculi. Non si sa con certezza. Quello di cui si è certi è che si trattava di una comunità dedita alla cultura rurale e alla caccia. Una comunità che copriva una vasta zona d’azione: da Paleocastro, – luogo i cui Greci eressero in seguito un attracco navale – fino a poche centinaia di metri dal mare; territorio quest’ultimo sotto il dominio di altre comunità indigene.
Samo e Precacore
Nel riquadro il Piano di Stole, possibile sede dell’acropoli di Samo. Foto di Francesco Marrapodi
A QUADAM CALABRIAE
CIVITATE
La vita di Pitagora è avvolta nel mistero, di lui sappiamo pochissimo e la maggior parte delle testimonianze che lo riguardano sono di epoca più tarda. Secondo queste fonti Pitagora nacque nella prima metà del VI sec. a.C. nell'isola di Samo, dove fu scolaro di Ferecide e Anassimandro subendone l'influenza nel suo pensiero. Secondo alcune ricostruzioni, il padre potrebbe essere stato un cittadino facoltoso di nome Mnesarco. Da Samo Pitagora si trasferì nella Magna Grecia. A Crotone, all'incirca nel 530 a.C., fondò la sua scuola. Dei suoi viaggi in Egitto e a Babilonia non vi sono fonti certe, essi sono ritenuti, almeno in parte, leggendari.
Esistono molto affinità tra la Samo calabrese e quella egea. Dunque perché non azzardare un’ipotesi: la paternità del famoso filosofo e matematico
ANNI FA alcuni contadini, intenti a dissodare la terra all’in- TUTTAVIA, le tombe rinveterno della zona ovest del nute, anche se di fattura promontorio, si trovarono alla greca, erano piuttosto grezze presenza di alcune necropoli. e distavano diversi chilometri Si tratta, probabilmente, di se- da Capo Zeffirio. Questo polcreti indigeni attaccati a tende a farci credere che la verità potrebbe essere un’aldelle necropoli greche. Questo, in un certo senso, an- tra. drebbe a comprovare il fa- San Tommaso D’Aquino somoso inganno che i coloni stiene: «Pytagoras natione locresi giocarono agli indigeni: Samius, sic dictus a quadam Calabriae «Noi vi sacivitate» remo fedeli «A pochi chilometri (trad. Pitafinché calgora nativo cheremo la dalla zona delle di Samo stessa terra necropoli, attualmente città calae porteremo v’è il paese di Samo, brese) non le teste sulle piccolo centro si può nespalle». gare che la È dunque aspromontano con s t e s s a p o s s i b i l e meno di 1000 abitanti» Samo, città che i rinvenimenti siano necropoli lo- della Magna Grecia, sia realmente esistita; e che, al concresi? È probabile, giacché l’iniziale tempo, possa anche essere insediamento degli stessi è da stata la città natale di Pitacollocare nel VII secolo a.C gora. A pochi chilometri dalla sul Zephyrion Acra (Capo Zef- zona di rinvenimento delle necropoli, attualmente v’è il firio).
paese di Samo, piccolo centro aspromontano con meno di mille abitanti. Che si sia trattato poi della madrepatria di Pitagora, questo non possiamo dirlo con certezza, ma neanche lo possiamo escludere a priori. Secondo Erodoto, il primo insediamento si sarebbe avuto nel 493 a.C. in territorio gentilmente concesso dai locresi ai coloni greci provenienti dall’isola di Samos nell’Egeo Orientale. Purtroppo sarebbe sufficiente questo a smontare la nostra teoria; perché la nascita di Pitagora è da datare a circa sessant’anni prima della fondazione di Samo. Seguendo questa logica, il nostro Pitagora non sarebbe più un greco calabro, ma un greco dell’isola dell’Egeo. ABBIAMO comunque le basi per sostenere l’esistenza di un precedente piccolo borgo, fondato da alcuni pochi esuli
provenienti dall’isola di Samo. cosa certa è che Samo di Si tratterebbe di un primo ag- Magna Grecia è esistita. Con glomerato che fu più tardi rin- ogni probabilità la polis si forzato da altri samii estendeva nella zona da noi provenienti dalle coste sici- oggi chiamata Stole, e fu coliane dove erano insediati. struita con tanto di riguardo e Questi ultimi, insieme con una nostalgia alla patria. comunità di profughi milesi, furono espulsi da Zancle, l’at- ESISTONO, oggi, diverse tuale Messina, dove si erano contrade, (sia nell’isola di stabiliti tempo prima. I milesi, Samo nel mar dell’Egeo, sia nell’area dalla parte contigua del Tirreno S. Tommaso D’Aquino all’attuale fondarono Samo di Mileto, men- sostiene «Pytagoras Calabria) tre i samii natione Samius, sic che portano a n d a r o n o dictus a quadam parallelaquasi sicu- Calabriae civitate» mente gli ramente a stessi nomi: rinforzare, (trad. Pitagora nativo di Paleocada quest’al- Samo città calabrese) stro, Sportà, tra parte della Calabria, il piccolo borgo Rudina ad esempio. Tutto il eretto in precedenza dai loro resto, che si sia trattato della concittadini. Premettendo che madrepatria di Pitagora o ciò faccia davvero parte della meno, lo lasciamo stabilire al realtà, chi ci assicura che Pi- tempo che, sfortunatamente, tagora sia nato in questo finora s’è dimostrato avverso primo insediamento? L’unica a questa tesi.
Aspromonte orientale
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Una scritta indecifrabile, una morte misteriosa ed il segreto del tesoro dei briganti
La roccia di Giulia Schiava
Nella foto in alto a sinistra la scritta “Scipio” sulla roccia, nella foto in basso Domenico Stranieri mentre intervista la signora Giulia Di Paola. Nelle foto in alto Vincenzo e Stefano Bagnato (sopra) e Francesco Minnici (sotto) mentre ripuliscono la roccia. Foto di Domenico Stranieri
«In Calabria si vive il doppio pericolo della perdita definitiva della cultura orale e dell’alterazione o cancellazione delle terre e dei luoghi leggendari. Qualcosa, però, si può ancora recuperare...» di DOMENICO STRANIERI
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Nella prefazione del suo libro Storia delle terre e dei luoghi leggendari (Bompiani, 2013), Umberto Eco scrive che “le terre ed i luoghi leggendari sono di vario genere e hanno in comune solo una caratteristica: sia che dipendano da leggende antichissime la cui origine si perde nella notte dei tempi, sia che siano effetto di una invenzione moderna, essi hanno creato dei flussi di credenze”. Sicuramente Eco ha ragione, principalmente per quanto riguarda le grandi utopie e le grandi narrazioni. In Calabria, invece, si vive il doppio pericolo della perdita definitiva della cultura orale (e della fantasia collettiva di un popolo) e dell’alterazione o cancellazione delle terre e dei luoghi leggendari (soprattutto quelli meno noti ma non meno affascinanti). Qualcosa, però, si può ancora recuperare.
Il tesoro dei briganti
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ome la storia di un tesoro e di briganti misteriosi (tanto che non conosciamo il nome di nessun bandito) e l’epica figura di una schiava: Giulia. Ovvero una leggenda che ruota intorno ad una roccia e all’enigma di una scritta incisa su di essa. La roccia in questione si trova in contrada Ferrubara, nel comune di Caraffa del Bianco (a pochi metri da due splendidi palmenti scavati nella pietra) nella terra di Francesco Minnici, un giovane che ricorda come suo nonno tramandò questo racconto a suo padre (che era anche poeta dialettale) e quest’ultimo, a sua volta, sul filo della memoria, a lui. La leggenda di “Giulia schiava”, quindi, si trasmette oralmente da diverse generazioni. Anche perché noi calabresi, oltre all’amore per i racconti, nutriamo pure una singolare attrazione per i briganti. Così, ho iniziato a sentire gli anziani di Caraffa del Bianco per capire cosa è rimasto di questa storia. I ricordi
delle prime persone che ho ascoltato erano confusi, ma tutti rammentavano la tenacia di ricercatori che di notte scavavano nella speranza di trovare un tesoro e di avere una rivincita sulla miseria. Di Giulia, poi, si sa soltanto che era la schiava dei briganti (alcuni, però, mi specificano che era un’ancella romana) morta e seppellita accanto ad una roccia. Ecco perché da tempo immemorabile quella è “la roccia di Giulia schiava”. Francesco Minnici, però, mi indica un’anziana che conosce meglio degli altri questa leggenda. Si chiama Giulia Di Paola ed è lucida e assennata. Ecco cosa ricorda: «Noi andavamo sempre a raccogliere le olive in quella zona, anche perché lì c’è la nostra terra. Io dormivo con mia nonna la quale, una notte, ha sognato una donna bellissima che diceva di essere la schiava dei briganti e di essere stata assassinata perché il suo spirito sorvegliasse un tesoro. Sempre nel sogno, la donna, che diceva di chiamarsi Giulia, fece vedere a mia nonna un tinello pieno di marenghi d’oro sulle quali era posizionata una croce d’argento. “Se tu verrai a mezzanotte, con la luna piena, su questa roccia - continuò la donna del sogno - e porterai il tuo bambino, allora spunterà un animale che senza fargli del male lo lambirà. Dopodiché ti indicherà il punto esatto dove si trova il tesoro”. La mattina seguente mia nonna raccontò il sogno al marito, che aveva studiato in un collegio ecclesiastico ed era un uomo colto. Mio nonno si arrabbiò dicendo: “Non capisci che quella donna ti ha chiesto in sacrificio la vita del bambino? Non capisci che vuole un altro spirito che custodisca il tesoro al suo posto per potersi liberare dalla sua condanna eterna?”. La mia povera nonna inorridì; per nessuna ricchezza al mondo avrebbe barattato la vita del suo bambino. Per qualche tempo ella sognò ancora quella schiava che, però, non le disse più nulla. Fintanto, quando si trovava in campagna, non smise di percepire altri strani segni. Un giorno, ad esempio, vide delle monete per terra, ma non le raccolse». Le stesse visioni della nonna della signora Di Paola, come
ad esempio quella del passaggio nei pressi della roccia di una gallina con i pulcini d’oro, mi vengono confermate da altre persone che aggiungono: “C’è qualcosa di incomprensibile in quel posto, perché proprio lì gente ingenua e senza pregiudizi ravvisa da sempre cose assurde?”. Tuttavia, in un primo momento, l’iscrizione enigmatica di cui tutti parlavano sembrava scomparsa. Ma grazie alla pazienza di un padre e un figlio (Vincenzo e Stefano Bagnato) che hanno ripulito il blocco di pietra dal muschio che lo copriva, è riaffiorato quel che rimane di essa. I caratteri sono alti una decina di centimetri, la lunghezza è poco più di un metro e, da subito, si distingueva una lettera che somigliava a una “c”. Qualche giorno dopo, assieme a Francesco Minnici, mi sono recato a perfezionare il lavoro di pulizia della roccia e, dopo averla inumidita, non è stato difficile capire cosa vi è impresso.
L’antica incisione
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ifatti, la parola in questione, che verosimilmente risultava priva di significato agli occhi dei contadini, è: “Scipio”. Potrebbe trattarsi del nominativo latino di Scipione l’Africano, ma non è facile chiarire il nesso che c’è tra il riferimento ad un condottiero romano e l’individuazione di un tesoro. Di certo è stato emozionante ritrovare dei segni che rimandano a un tempo lontano. Ma al di là di tutto, ed in attesa di far visionare la scritta ad un esperto, è necessario chiedersi cosa c’è dietro la coscienza del nostro immaginario, cioè che valenza antropologica hanno tali leggende, quando hanno avuto origine e come sono state trasfigurate. E poi, quanto si è perso dei racconti orali e cosa non è ancora scomparso del tutto (anche nelle presenze più minute della natura). Poiché noi calabresi, che amiamo ripetere di continuo che “fummo la Magna Grecia”, oltre a “spersonalizzare” il paesaggio reale, rischiamo di non conservare più nemmeno i paesaggi della nostra fantasia e della nostra cultura.
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Aspromonte greco
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Catu Chorìu
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di Salvino Nucera
Di carattere libertino e vivace appena appurò di dover sposare una sua prima cugina, non ne volle sapere. Non si sarebbe mai e poi mai unito in matrimonio
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uando si dice il destino! Quelle serie di vicende imponderabili, inevitabili, imprevedibili che non riesci a cambiare e le subisci, sapendo di doverle subire. E, talvolta, ti condizionano, ti segnano l’intera vita. In positivo o in negativo. Irrimediabilmente. Partiamo dall’inizio. Verso la fine del diciannovesimo secolo, in una grigia serata autunnale, nell’antico borgo (catu chorìu) di Ghorio di Roghudi, "don" (appellativo di riguardo) Lorenzino Nucera, stava, prematuramente, passando a miglior vita, tra la profonda costernazione dei familiari riuniti attorno al suo capezzale. Tra questi, vi era pure il fratello don Agostino, (che in realtà, all’anagrafe, risultava essere Ferdinando. Tuttavia, i suoi numerosi figli, come da consuetudine, imposero ai loro rispettivi primogeniti non il nome di battesimo, ma il nome con il quale il loro padre veniva da tutti comunemente chiamato. Agostino, appunto) ricco proprietario terriero.
A
l fratello moribondo che, a fatica, esprimeva preoccupazione per la sorte di una figlia preadolescente, Elisabetta (Bettina), troppo precocemente ed ingiustamente privata della figura paterna, con commozione e con fraterno senso di responsabilità, don Agostino s’impegnò col fratello morente, davanti a tutti gli altri congiunti, che della futura sorte di Bettina, con tutto l’affetto e la benevolenza possibili, si sarebbe fatto carico lui personalmente, in ogni circostanza. Sul volto scarno ed emaciato del fratello morente si scorse un’espressione di stentato, doloroso sorriso. Sapeva, era sicuro dentro di sè, che così sarebbe stato; ma nel momento della fatale, definitiva dipartita, quell’impegno preso dal fratello, al cospetto di tutti gli altri familiari, gli aveva procurato l’ultima sensazione di gradevolezza esistenziale. Era un impegno d’onore.
E
così avvenne. Quando la ragazza, infatti, raggiunse quella che si definisce "età da marito" (che in quei tempi giungeva molto presto), lo zio "tutore" scelse, (ma quasi sicuramente, in cuor suo, aveva già scelto nel preciso momento in cui si era assunto l'onere di fronte al fratello morente) come promesso sposo di Bettina, il figlio suo primogenito Salvatore (Sarvu), che una volta cresciuto, divenuto adulto, verrà poi soprannominato "Scialàta" per la sua propensione al divertimento, alla baldoria e alla bella vita.
MATRIMONI “ENDOGAMI”
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lcune società richiedono che il matrimonio avvenga all'interno di un certo gruppo, gli antropologi si riferiscono a queste restrizioni con il termine di endogamia. In altri casi si ha l’esogamia dove come regola matrimoniale il coniuge deve essere scelto al di fuori di una cerchia specifica. Èquindi la regola opposta all'endogamia. Nel caso del matrimonio combinato, i genitori degli sposi o comunque dei terzi si limitano ad un ruolo guida: la volontàdi chi va incontro al matrimonio ha comunque il ruolo decisivo.
La storia (a puntate) di Salvatore, un giovanotto ribelle
SARVU SCIALÁTA
Lo sposo “promesso”
Il giovane, come già detto, di carattere vivace, libertino e giocoso, appena appurò che era il "promesso sposo" di una sua prima cugina, non ne volle sapere. Non si sarebbe mai e poi mai unito in matrimonio con una sua consanguinea.
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iunto in età di matrimonio, quindi, si diede subito da fare. Si recava personalmente (atto sacrilego in quei tempi!), in assoluta libertà, nelle famiglie di probabili fidanzate, per tastare il terreno. Così facendo, con l’aiuto, con l’avallo di una sua sorella, Sarvu Scialàta ebbe l’ardire di scegliersi per fidanzata una ragazza di buona famiglia appartenente alla borghesia della Chora, di Bova, bypassando il parere, il consenso del genitore, che in ogni caso, sarebbe stato, al cento per cento, un diniego. Ma l’epilogo per una simile, smaccata ribellione, non poteva essere che negativo. Infatti, l’usanza corrente, esigeva, inequivocabilmente, la presenza o l’assenso del genitore del pretendente. Affinché in via di massima, anche se in modo informale, si cominciasse a gettare le basi per un fidanzamento che in un secondo tempo avrebbe dovuto rivestire tutti i sacri crismi dell’ufficialità. Don Agostino, nonostante fosse stato sollecitato, anche se timorosamente, dalla figlia a recarsi nella casa della ragazza, non fece mai il passo. Poi, per vie traverse, si premurò d’informare i familiari della ragazza che suo
figlio era già impalorato. Quindi, a tutti gli effetti, era da considerarsi uno sposo promesso. In questo modo, per la Chora si sarebbe sparsa la voce che era ufficialmente già impegnato, e nessun genitore, eventualmente Sarvu andasse a bussare in qualche altra casa, gli avrebbe dato credito.
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arvu, però non era un tipo che, al primo ostacolo, alla prima difficoltà si arrendeva tanto facilmente. Cambiò zona e rivolse il suo interesse ad una ragazza di Africo, paese in cui lui era molto conosciuto ed apprezzato. La ragazza in questione, era la figlia del podestà del paese, tale Romeo, persona con cui Sarvu e la sua famiglia avevano anche degli amichevoli rapporti. Sarvu pensava che suo padre, essendoci questa volta di mezzo un podestà, un amico, una persona importante, avrebbe sicuramente rivisto e modificato il suo ostile atteggiamento. Purtroppo, si sbagliò. Le cose non filarono lisce. Andarono come erano già andate nella Chora. Il contraccolpo psicologico fu terribile. Fu per questi motivi, per queste scottanti delusioni, che Sarvu iniziò a condurre una vita fatta di bagordi, disordinata, dissipata. Vita che gli valse poi l’epiteto di “Scialàta”. Nonostante tutto non si arrese. Cambiò zona di nuovo. A Scido aveva un’altra sorella sposata... (continua)
Aspromonte greco FRASI DAL WEB: COSIMO SFRAMELI
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ribelli, gli emarginati, le vittime fanno indubbiamente personaggio per gli scrittori. E, in fondo, nel cavaliere che si batte per le cause perdute e sfida mulini a vento, finiamo per riconoscerci un po' tutti, fino a
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quando continuiamo ad inseguire illusioni e speranze, a non arrenderci alla prosa di una quotidianità nella quale non c'è posto per l'avventura e per il colpo d'ala. Tra i fantasmi di un Mezzogiorno arcaico in rivolta e l'Aspromonte.
L’Area grecanica e le sue occasioni perdute grazie ai numerosi commissariamenti
TEMPO DI ELEZIONI
“La crisi è globale, certo, ma nei momenti di crisi chi rimane indietro è colui che parte già da posizioni svantaggiate. Eppure alcune basi erano state gettate nella Città dei Greci” di FEDERICO CURATOLA
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I treni, quelli di opportunità comunitarie per i territori marginali, passano una volta Tanti “tavoli” di « concertazione non hanno mai visto rappresentate intere comunità
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na primavera incerta, che stenta a sbocciare, aleggia timidamente sull’Area Grecanica. E il clima sembra influenzare non poco l’avvicinamento, quasi in sordina, dei prossimi appuntamenti elettorali. Ma c’è chi, come me, non è meteoropatico e non sopporta questo silenzio assordante, in vista di un così importante momento, qual è il ritorno alla democrazia ed all’autodeterminazione di comunità spogliate, più o meno a buon diritto, della loro sovranità. NON ABBIAMO ulteriore tempo da perdere. I treni, almeno quelli delle “opportunità” fornite ai territori marginali come l’Area Grecanica dai fondi comunitari, passano per non fare più ritorno. Molte occasioni sono andate perdute, ivi comprese quelle destinate specificatamente ai Comuni che hanno subìto lo scioglimento. Tanti “tavoli” di concertazione non hanno visto rappresentate intere comunità per troppo tempo. Nessuno dunque ha potuto tirare acqua al mulino. La mia, sia chiaro, è una critica generale al “ruolo” dei commissari, non alle singole persone che hanno retto e reggono i nostri Comuni, me ne guarderei bene. IL LEGISLATORE ha delineato i contorni del compito loro assegnato. Sbagliando, ma questa è un’altra storia, unanimemente riconosciuta. Così come è riconosciuta la “leggerezza” che si è
avuta, nel periodo in cui anche la politica nazionale era commissariata da un Governo Tecnico, nell’assumere decisioni così importanti sulla base di scarne relazioni e spesso in totale assenza di fatti “concreti, univoci e rilevanti”, tanto che da quando il Governo è tornato ad essere “politico”, se mancano i presupposti per sciogliere un Comune non si procede allo scioglimento. Que-
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Si voterà in sei Comuni dell’Area Grecanica. Un’area povera di iniziative, che vive sotto la minaccia della Centrale sto deve aiutare a guardare al futuro che bussa già insistentemente alle porte e porta con sé tanti rebus, proprio nel momento in cui servirebbero certezze, soprattutto ai territori più deboli e marginali.
SI VOTERÁ in sei Comuni dell’Area Grecanica. Un’area ormai semi-desertica, spogliata di servizi, povera di iniziative, che vive ancora sotto la costante “spada di Damocle” della possibile costruzione della Centrale a Carbone, che vede quotidianamente chiudere attività economiche, abbassarsi il numero dei residenti, degli iscritti nelle
scuole, ecc… La crisi è globale, certo, ma nei momenti di crisi chi rimane indietro è colui che parte già da posizioni svantaggiate. Eppure alcune basi erano state gettate. Pur con tutti i limiti del caso, nel decennio 2000/2010 era stato tracciato un percorso comune che aveva preso le mosse dal PIT (Progetto Integrato Territoriale), dai progetti per le aree rurali, da Agenda 21 Locale, dai fondi per le minoranze linguistiche ed ha portato alla decisione politica di redigere in forma associata il Piano Strutturale, il quadro di sviluppo non solo fisico, ma anche economico e sociale della “Città dei Greci di Calabria”. ATTENDIAMO ancora di conoscere le previsioni di piano, redatte dai professionisti a cui è stato assegnato il PSA sulla scorta delle analisi effettuate sui territori, ed approvate proprio in queste settimane dai Comuni aderenti. Ma questo, a mio parere, dovrebbe essere un elemento centrale in questa fase pre-elettorale, poiché rappresenta la “visione” del futuro dell’Area Grecanica, contiene le “direttrici” di sviluppo e suggerisce le “azioni” da intraprendere per un disegno armonico e coerente del territorio. Sfido chiunque, partiti politici (ubi sunt?), terzo settore, associazioni di categoria e cittadini, a dirmi se sanno quali siano questa “visione” e queste “direttrici”.
UN TERRITORIO fragile, marginale, è come un paziente che ha bisogno di cure. L’eziopatogenesi dei problemi che affliggono l’Area avrebbe dovuto suggerire una terapia che da un lato combattesse il male, ma dall’altro avesse cura di non intaccare le cellule sane e lasciarle libere di riprodursi e generare nuova attività vitale. Evidentemente la terapia non ha funzio-
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Un territorio marginale è come un paziente che ha bisogno di cure: per attaccare il male e per tutelare le cellule sane nato se si è allargato ancora di più il fossato che divide il “palazzo” dalla gente, alimentando il disinteresse verso la cosa pubblica. Non c’è più tempo da perdere. Io, da semplice ma “interessato” (nel senso dell’attivismo politico) spettatore, cercherò di fare la mia parte affinché la gente torni ad interessarsi della cosa pubblica, torni a rivendicare i propri diritti, torni a sentire propri i “beni comuni” e li ritorni a vivere. RALLENTARE la desertificazione si può. Basta mettere a dimora nuove piante che, si sa, in primavera germogliano sempre.
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L’intervista
inAspromonte
di FRANCESCO VIOLI
ncontro il dottor Pasquale Faenza in un pomeriggio di fine marzo nel suo laboratorio di restauro alle spalle del Colosseo a Roma. Davanti al monumento più importante della storia, inizia un dialogo sulla imminente pubblicazione del libro Del Santo Padre Nostro Santo Leone di Africo - Storie di un monaco di una reliquia e di un reliquiario, il quale, come un viaggio a ritroso nel tempo, ci conduce dal V al XXI secolo. Dunque Pasquale, cosa ti ha spinto a scrivere un libro su San Leo? Il restauro del busto di Africo, curato dalla Sovrintendenza per i Beni storico-artistici ed etno-antropologici della Calabria, è stata l’occasione per approfondire gli studi storici e religiosi su San Leo. Ne è derivata una attenta e dettagliata analisi sulla vita del Santo e sulle sue origini fino ad arrivare all’ipotesi che il nostro fosse originario di Africo, al tempo Casale di Africo. Partendo dalla prima notizia storica su San Leo, individuata nel Sinnassario Lipsiense (1172), oggi conservato a Lipsia, che cita «nostro Signore Leone di Africo»,
Aprile 2014
A COLLOQUIO CON
PASQUALE
FAENZA
Il restauratore di Nostro Signore Leone di Africo
in cui, restaurando l’interno dell’opera, mi misi a fotografare alcuni dettagli del busto. In una di questa foto che ritraeva il capo notai la fuoriuscita di un liquido dalle cavità orbitali. Immediatamente pensai si trattasse di vere e proprie lacrime ma, analizzando bene il tutto con il contributo di Francesco Caridi del Dipartimento di Chimica dell’Università di Messina che ha curato le indagini diagnostiche sull’argento, risultò essere probabilmente alcool utilizzato per la pulizia della superficie esterna entrato dai fori di sfiatamento durante la realizzazione del viso.
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Quest’opera metterà ordine nella cronologia degli eventi di vita e di culto del Santo
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I bovesi, per dare prestigio alla sede vescovile, trasferirono il Santo da Africo a Bova
L’opera fu realizzata nel 1739 a cura di un argentiere messinese
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Restaurando l’interno, notai la fuoriuscita di un liquido dalle cavità orbitali: era solo alcool
ripercorro nel libro tutti i momenti salienti della storia di San Leo. In particolare quando i bovesi, per dare prestigio alla sede vescovile, trasferirono le reliquie del Santo da Africo a Bova.
Un ennesimo miracolo del nostro Santo, quindi. Chi altro ha contribuito alla stesura di questo volume? Il libro, curato dal sottoscritto con la collaborazione di Rosa Maria Filice è stato finanziato dal Comune di Africo e dalla Parrocchia San Francesco D’Assisi e vuole dare valore ad un popolo che crede fortemente nel suo Santo. Due sono le prefazioni: una curata dall’attuale Sindaco di Africo avv. Domenico Versace e l’altra a cura del Sovrintendente Fabio De Chirico. Le fotografie sono di Enzo Galluccio mentre l’editore è Iiriti. Non ci resta che aspettare la pubblicazione del libro per inoltrarci in questo meraviglioso viaggio attorno a San Leo, alla sua storia, al suo culto.
È vero che alcune fonti narrano la sua esistenza già nel V secolo? Questa ipotesi, riportata da Antonio Catanea nel suo libro Le origini di Bova e del suo nome, racconta dell’esistenza di un calendario liturgico del VI secolo dove è indicato il 5 maggio come la data della morte del Santo; purtroppo, questa data non è documentata. Cosa emerge maggiormente nel libro? Questa opera ha la prerogativa di
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Nella foto in alto P. Faenza, nella foto a sinistra San Leo di Africo. Foto di F. Violi
mettere ordine nella cronologia degli eventi che hanno contraddistinto la vita ed il culto di San Leo, a partire dalle sue origini fino ai giorni nostri. La rivalità tra due comunità di credenti, quella di Africo e quella di Bova, rappresenta sicuramente un percorso culturale e religioso intriso di storia e di fede, di miracoli e di lotta. L’esistenza di due statue di marmo, di due busti reliquiari, di due vare, di due festeggiamenti, il 5 maggio per i bovesi ed il 12 maggio per gli africesi, ne è la dimostrazione. Ma nel libro viene anche messa in evidenza la
cultura di un popolo ricco di fede definito in un contesto ambientale ricco di bellezze paesaggistiche e colmo di testimonianze storico-artistiche. Cosa hai provato duranti i lavori di restaurato del busto reliquiario? Emozione e curiosità. Durante il restauro è emersa la data di realizzazione dell’opera, nel 1739 a cura di un argentiere messinese. Sicuramente la statua fu realizzata in concomitanza con il miracolo delle locuste. Non potrò mai dimenticare, invece, il momento
laScheda UN DOTTORE PER LE OPERE D’ARTE DELLA CALABRIA GRECA
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iplomatosi nel corso di Restauro dell’Arredo ligneo e dei Dipinti dell’Istituto “Alfonso Frangipane” di Reggio Calabria ha conseguito la Laurea in Conservazione dei Beni Culturali nell’Università della Tuscia di Viterbo (2001), specializzandosi in Storia dell’Arte Medievale e Moderna presso la Sapienza di Roma (2005), e concludendo il suo percorso formativo con un tirocinio di museografia al Ministero per i Beni e le Attività Culturali di Roma. TRA IL 2000 e il 2007 ha collaborato con il Museo Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma, svolgendo lavori di restauro e conservazione di manufatti polimaterici etnografici e materiali organici bagnati, provenienti quest’ultimi dallo scavo neolitico la “Marmotta”, nel Lago di Bracciano (Roma). Nel corso degli anni ha partecipato a stage di catalogarestauro, e zione collaborando con diverse società di restauro che lo hanno visto impegnato sugli affreschi della Cappella di Sant’Apollonia a Mormanno (CS), nel Castello di Corigliano Calabro (CS), nel Museo della Civiltà Romana di Roma, e sui portali lapidei della Cattedrale dell’Isodia di Bova (RC), coadiuvando personalmente i lavori di pronto intervento dello scavo archeologico di Mella (II sec. A. C.) nei pressi di Oppido Mamertina (RC) e la musealizzazione e il restauro del pavimento musivo della sinagoga ebraica di Bova Marina (RC). IMPEGNATO nella Salvaguardia del Patrimonio Culturale della Area Grecanica, ha svolto numerosi convegni sulla conservazione e il restauro del patrimonio storico artistico ed etnografico di questa minoranza storicolinguistica. Qualche anno fa, ha partecipato alla cura dell’allestimento del Museo del Parco Archeologico di San Pasquale, Bova Marina (RC), incentrato sulla presenza ebraica nella Calabria meridionale nel medioevo.
Aspromonte occidentale
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Martedì, 15 dicembre 823, nei pressi di Montalto
UOMINI E LUPI
Chi è il misterioso guerriero che si aggira ferito in Aspromonte? di GIUSEPPE GANGEMI*
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Il primo della fila affonda le zampe nella neve e gli altri passano sulle sue orme raggiungono « alLolimitare della radura, dove comincia la scarpata e il bosco
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Università di Padova Docente di Scienza dell’Amministrazione E-mail
giuseppe.gangemi@unipd.it
S
i sveglia di soprassalto. Qualcuno gli tira le braccia. D’istinto si afferra a qualcosa che sembra scivolare via dalle sue mani. Apre gli occhi e vede la testa di un cavallo che tira le briglie che egli stringe con forza. Il cavallo è visibilmente spaventato. Si volta alla sua sinistra, nitrisce e cerca di liberarsi. L’uomo guarda nella stessa direzione. Lontano vede un lupo che viene verso di loro. Il cavallo dà un ultimo più forte strattone. L’uomo si sente mancare le forze e gli sfugge la presa. Le braccia sono intorpidite. Ricadono pesantemente per terra. Guarda il cavallo fuggire via. Per salvarsi, attraversa i bordi della radura, sprofondando nella neve. Zoppica. Forse perché la camminata lo fa considerare più debole e, quindi, una preda più facile dell’uomo, il lupo si gira in direzione del cavallo. Mostra adesso il fianco. Appare un secondo lupo dietro il primo. Poi un terzo. Un quarto. Un quinto. Corrono in fila. Sprofondano nella neve più del cavallo, in proporzione alla loro altezza. Ma sono cacciatori, più organizzati della preda. Il primo della fila affonda le zampe nella neve e gli altri passano sulle sue orme. Ogni venti metri circa, questi cede la guida al secondo e si mette in coda. Si stanca e cede il passo ai più riposati. Vanno più veloci del cavallo. Lo raggiungono al limitare della radura, dove comincia la scarpata e il bosco. L’uomo guarda per un attimo la violenta e feroce scena. I lupi saltano al collo dell’animale e lo stramazzano a terra. Lo finiscono recidendo la giugulare esterna che porta il sangue alla testa. Ha pena per se stesso. Sa che, appiedato, ha meno possibilità di salvarsi. Se arrivassero altri lupi, se fossero tanto numerosi da doversi contendere il posto intorno
alla carcassa del cavallo, verrebbero a prenderlo. «Se fossi riuscito a trattenere il cavallo per le briglie e salirci in groppa, ci saremmo salvati insieme» pensa con rammarico. «Come farò adesso?» e a questo punto se ne accorge. «Non ricordo niente! Non so chi sono! Non conosco il mio nome! Non so nemmeno in che luogo mi trovo». Guarda la neve. «È fresca. Deve avere nevicato molto nei giorni scorsi». Si accorge che la neve, su cui ha poggiato la faccia, è rossa. «Probabilmente per il sangue che ho perduto. Devo sapere se la mia ferita sanguina ancora!». Si lava la faccia e la testa con neve bianca. Vede che diventa rossa. Prende altra neve e si lava
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Non ricordo niente! Non so chi sono! Non conosco il mio nome! Non so nemmeno in che luogo mi trovo ancora. Il rosso è meno intenso. Si lava ancora e ancora. Guarda la neve nella sua mano e la vede bianca. «Non sanguino più». Muove le gambe. Le sente intorpidite, ma non sente dolore o impedimenti. Con fatica si alza. Qualcosa gli sbatte sulla nuca. Mette le mani dietro le spalle e tocca una faretra mezza piena di frecce. «Deve esserci un arco qui intorno o sul cavallo». Guarda lo spuntone di terra sul quale si trova e non vede alcun’arma. «Quali sono le mie opzioni?» si è chiesto e si risponde. «Andare via senza armi o tentare di riprendermi l’arco?» valuta il fatto che nessun lupo si è ag-
giunto ai primi cinque. «Potrei aspettare che si sazino». Rimane pensoso per qualche minuto. «Ho bisogno di un’arma». Si guarda intorno e trova un grosso e pesante legno che raccoglie subito. «Ho fame e la mia mente ne risente. Devo mangiare qualcosa». Si tocca la cintola. Trova una fiaschetta di vino e una sacca con della carne secca. Beve un sorso e si sente salire nel corpo una vampata di calore. Mastica e mangia, mandando giù con il vino. «Festina lente!». Sa che è un’espressione latina: affrettati con lentezza! Fino a quel momento ha pensato in greco. Si guarda intorno. I lupi sono ancora intenti a sbranare il cavallo. «Nessun altro lupo è sopraggiunto. E sto riprendendo le forze». Ancora un po’ di tempo ad attendere e i lupi cominciano a dare segni di sazietà. Non si allontanano però dalla preda. L’uomo medita di avvicinarsi al suo cavallo e riprendersi le armi. «Il vento è a mio favore. Se arrivo vicino senza farmi odorare e se corro, urlando e agitando il grosso legno, forse riesco a farli scappare». Pensa ai pro e ai contro. «Gli animali sono poco combattivi quando sono sazi». Si dice per convincersi che quanto cerca di fare sia saggio. Poi gli viene un altro dubbio. «Da dove prendo questa sicurezza? Perché mi sento sicuro che questa sia la cosa migliore da fare?». Attende ancora un po’. «I lupi sono sazi». Comincia a muoversi, lungo i bordi della radura, procedendo sotto gli alberi, verso i lupi. Appena gli sembra lo abbiano odorato, si alza e fa l’ultimo tratto correndo, urlando e agitando il bastone. I lupi si allontanano di qualche metro. Trova subito
l’arco ancora appeso alla sella. «Un arco composito! Dovevo aspettarmelo». Sa che non farà in tempo ad armarlo. Vede la spada sotto la pancia del cavallo. Poi, vede la grossa scure. Getta il legno e afferra la scure. Si sente sicuro. Il lupo più grosso, intanto, si è ripreso dalla sorpresa e ringhia, mostrando i denti. L’uomo urla e mette tra sé e il lupo la scure. L’animale deve guardarla se vuole vedere gli occhi dell’uomo. Abbassa gli occhi e gira la testa. Lo stesso fanno gli altri lupi, appena più lontani. Si allontanano, nello stesso modo in cui sono arrivati. L’ultimo della fila volge, ogni tanto, il viso verso l’uomo ancora all’erta.
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Sulla bianca tunica sopra la corazza, una larga macchia di sangue copre in parte i contorni di una rossa croce Uno sguardo alla carcassa del cavallo morto fa capire a quest’ultimo che quello non può essere il suo cavallo e nemmeno un vero cavallo per la guerra. «Capisco anche perché sia fuggito, invece di restare accanto a me, ferito, all’arrivo dei lupi». La sicurezza e determinazione mostrata nel valutare le situazioni e il cavallo morto gli fanno capire che è un guerriero. Gli restano, però, altri problemi. «Chi sono? Come mi chiamo? Chi mi ha ferito? Chi sono i miei nemici?». Sulla bianca tunica sopra la corazza, una larga macchia di sangue copre in parte i contorni di una rossa croce.
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Tra i boschi d’Aspromonte
inAspromonte Aprile 2014
IL DRIOMIO
UN TOPO IN MASCHERA di Federico Falsetto
I
l Parco Nazionale d’Aspromonte gode di una ricchezza faunistica straordinaria grazie alla varietà ambientale del suo territorio. La fitta vegetazione e la presenza di un clima prevalentemente mediterraneo, favoriscono la presenza di molte specie animali che trovano
nell’Aspromonte il loro habitat ideale. Tra i mammiferi che hanno rifugio su questo massiccio montuoso vi è il driomio. È lungo 8-13 cm, appartiene alla famiglia dei Gliridi.. Possiede una folta coda ricoperta da pelo bruno-grigiastro con estremità grigio scuro. Attorno agli occhi
La via dell’Aposcipo-L L’Aspromonte è ricco d’acqua, che pulsa nelle sue numerose fiumare. Silenziosi specchi turchesi nelle stagioni calde, temibili furie in agguato con l’arrivo delle piogge autunnali di LEO CRIACO
L
’ Aspromonte è uno dei massicci montani più piovosi d’Italia. Le precipitazioni si concentrano, normalmente sopra i mille metri e sono più frequenti in autunno-inverno. A causa delle piogge abbondanti, sulle pendici delle nostre montagne, si formano numerosi torrenti e ruscelli che originano ed alimentano decine di grandi e piccole fiumare che sfociano nello Jonio (Amendolea, Melito, La Verde, Bonamico, Careri ecc.) e nel Tirreno (Petrace, Favazzina, Annunziata, S. Agata, Calopinace ecc.). Le fiumare solcano e modellano i boschi, le valli e i pianori dei nostri territori. La fiumara più bella La fiumara La Verde-Aposcipo con i suoi affluenti è una delle più suggestive; nasce sul versante orientale, a qualche centinaio di metri sotto la vetta di Montalto (1956 metri slm), e nel suo lungo e tortuoso percorso (circa 30 km) bagna i territori di Africo, Samo, Sant’Agata del Bianco, Caraffa del Bianco e Bianco. Nella corsa verso il mare viene alimentata da numerosi torrenti, ruscelli e da piccole sorgenti di acqua cristallina. Nell’ultimo tratto, subito dopo lo “stretto di Papaleo”, prima di sfociare nello Jonio, tra Africo e Bianco, il letto (alveo) della fiumara si allarga per alcune centinaia di metri formando grandi distese di ghiaia, sabbia e ciottoli. In estate il suddetto tratto, lungo circa 5 km, nelle annate poco piovose, rimane completamente asciutto.
T. SAN LEO
T. PECURARU
T. FERRAINA
T. SPASOLI-SAN GIANNI
STRETTO DI PAPALEO
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Negli strapiombi alberati, zone inaccessibili, vivono da molti anni svariati capi inselvatichiti di capra aspromontana. Molti sono gli affluenti che alimentano la fiumara, i più interessanti, partendo da nord verso sud, sono i torrenti: Ferraina, Pecuraru, San Leo, Spasola e Poro
T. PORO
Nei secoli le sue continue piene hanno creato, in molti punti del bacino, lunghe e profonde spaccature simili a canyons (gole) con strapiombi impressionanti, alti centinaia di metri. Le gole più belle iniziano sotto le pendici del monte Paleocastro, e scendendo terminano nello “stretto di Papaleo”. Le gole, sono lunghe circa 4 km, e le pareti, che in alcuni punti si restringono a 4-5 metri, raggiungono l’altezza di 250 metri. Negli strapiombi alberati (leccio e macchia mediterranea), zone inaccessibili, vivono da molti anni, svariati capi inselvatichiti di capra aspromontana. Molti sono gli affluenti che alimentano la fiumara, i più interessanti, partendo da nord verso sud, sono i torrenti: Ferraina, Pecuraru, San Leo, Spasola e Poro.
GLI AFFLUENTI PRINCIPALI
Ferraina, Pecuraru e San Leo Il Ferraina nasce sulla parte di Montalto, e attraversa il territorio di Furrajna, ricco di biodiversità e di pianori (terrazze) con viste panoramiche. Poco prima di unirsi con l’Aposcipo forma la cascata di “Forgiarelle”. Le sue acque limpidissime sono popolate dalla trota “Fario”. Il torrente Pecuraru, lungo il suo percorso, forma pozze lunghe circa 50 metri e nella parte più alta, a 300 metri dalla sommità di Montalto, ci regala la cascata di “Palmarello”, forse la più alta (in quota) dell’Aspromonte. Il torrente San Leo, nel quale vi sono pozze molto profonde, è tra l’altro luogo di pellegrinaggio della gente di Africo, esso prende il nome dal loro protettore, San Leo,
Cascate e laghetti Nel suo corso le acque della fiumara superano, con salti e saltelli, il brusco dislivello tra le sommità della montagna e il mare, formando, principalmente, nelle parti più alte numerose cascate e cascatelle, alcune di queste (Palmarello, Caruso, Forgiarelle) sono spettacolari e attraggono gli escursionisti che visitano questa parte dell’Aspromonte. Nei mesi primaverili, quando la portata della fiumara diminuisce notevolmente, lungo tutto il suo percorso si formano numerosi laghetti (pozze).
Torrente San Leo
LAGHETTO DEGLI EREMITI
In questo laghetto, San Leo, protettore di Africo, si recava a pregare. Ed è ancora visibile la pietra dove, come recitano i versi della preghiera in suo onore, il monaco sedeva.
Torrente Pecuraru
CASCATE PALMARELLO
Sono formate da un unico “salto” (oltre 80 metri) e sono considerate le più alte tra le cascate aspromontane. Non sono facilmente raggiungibili, il crinale che si deve percorrere è ripido e scosceso.
Tra i boschi d’Aspromonte ha una caratteristica “mascherina” di peli neri che arrivano fino sotto l’orecchio. Simile al ghiro, il driomio, trascorre le ore diurne in nidi a forma di palla formati da uno strato esterno di ramoscelli e foglie e da un rivestimento interno di muschio e frammenti di corteccia costruiti
alla base degli arbusti o nelle cavità degli alberi. Il piccolo roditore ha abitudini notturne e crepuscolari e in inverno (tra ottobre ed aprile) trascorre il letargo nei nidi. Si riproduce in aprile-maggio ed i parti si verificano da maggio a giugno nel nido estivo. I piccoli sono ciechi
La Verde
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inAspromonte Aprile 2014
fino al 21° giorno e vengono allattati per 4 settimane, diventando indipendenti a 2 mesi. Ha un’alimentazione vegetariana e granivora dopo il letargo, insettivora in estate e basata su frutti e semi in autunno. La specie è minacciata dall’ alterazione degli ambienti forestali.
di Marando Anna M.
Piazza Fortugno,1 Locri (RC)
Stretto di Papaleo. Foto dell’Ass. GiA (Gente in Aspromonte)
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il monaco basiliano che nelle sue acque incontaminate si raccoglieva in preghiera.
Spasoli e Poro Tra il torrente Spasoli e il torrente Poro è ubicato l’antico abitato di Africo. Nei tempi gli africesi raggiungevano i due torrenti grazie alle antiche mulattiere e con le loro acque irrigavano gli orti, lavavano i panni e facevano macerare la ginestra per ricavarne la fibra. Il torrente Spasoli si origina sotto pietra Castello e nel suo breve corso, nella parte iniziale forma la cascata di Caruso. Il Poro è il più lungo degli affluenti, inizia il suo corso
nella pineta di Zaccanito, e fino a pochi decenni fa “alimentava” un frantoio e quattro mulini dove gli abitanti macinavano: orzo, grano (jermano), castagne, mais, ghiande e lenticchie.
Animali e vegetali Diverse e numerose sono le specie animali e vegetali che popolano le acque e le rive de La Verde, ricordiamo: le trote (fario e iridea), le lucertole, le bisce (Biacco, Natrice dal Collare e Natrice Tassellata), le rane, i granchi, e le anguille. L’ontano nero, il pioppo bianco, la felce, il dente di leone, il crescione, l’oleandro, e la canna sono le specie botaniche più comuni di questi ambienti.
Torrente Ferraina
Torrente Spasoli - San Gianni
Sono formate da quattro “salti”, e sono tra le più visitate dagli escursionisti in quanto esiste un sentiero facilmente percorribile, protetto da staccionate in legno. Si trovano ad un’altezza di 1200 metri.
Con un salto di oltre 30 metri, queste cascate, situate a 600 metri di altezza, sono poco conosciute perché difficilmente raggiungibili. Spettacolare è il gioco di rocce e acque che le caratterizza.
CASCATE FORGIARELLE
CASCATE CARUSO
Stretto di Papaleo. Foto dell’Ass. GiA
Torrente Poro
IL VECCHIO PONTE
Fu costruito negli anni Cinquanta, per collegare Bova ad Africo Antica. Il vecchio ponte, in pietre e cemento, risulta oggi inadeguato a consentire il passaggio delle auto moderne.
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Tra i boschi d’Aspromonte
inAspromonte Aprile 2014
L’uomo delle stelle Carmelo Nocera. Un bovalinese con una grande passione: fotografare i colori e la natura
Dalle albe sullo Jonio ai tramonti dietro Scapparrone, dai paesi abbandonati ai giochi di nuvole nel cielo, dalle notti di tempesta a quelle cariche di stelle. Un mondo senza veli si mostra al suo obbiettivo di ANNAROSA MACRÍ*
E tutte le notti, « quando do la buonanotte a mia moglie, chiedo di rivedere il sole. Il sole nascere
Nella foto sopra Brancaleone Sup., nella foto a sinistra la chiesa di Tridetti. Foto di C. Nocera n uomo piccolo piccolo, esistono sulla terra. Provi a guar- più bella della mia vita è che, da tanti e tanti anni che darli, il bianco che entra da sud è tutte le mattine, io mi alzo, anche neanche se lo ricorda, qualcosa di poetico, qualcosa che adesso che sto molto male, ed ogni giorno che Dio manda su non ha definizione». aspetto il sole che nasce dal balquesta terra, ogni notte che av- Gli hanno costruito una panchina cone». Carmelo Nocera per tutta volge gli animali e le cose, è qua tutta per lui sotto un eucaliptus e la vita ha acceso la luce in casa con la sua macchina fotografica lui, paziente come un monaco della gente della Locride, era un difronte al mistero dell’infinito. certosino, umile come l’ultima semplice operaio dell’Enel, «Una notte ho visto che c’era il delle creature, spaurito come un adesso la luce della luna, delle mare colorato, e delle strisce, e bambino difronte all’ignoto, stelle, del sole che nasce, acho preso la macchina fotogra- guarda, contempla, si sorprende, cende con la sua macchina fotofica…» «Quanti colori c’erano in si commuove. E fotografa. grafica. «Io credo, credo nella quel mare?» «Non si può defi- «L’alba. Quando sorge l’alba il natura, credo nella volontà del nire, lei immagini colori che non cuore si fa grande così. E la cosa Signore. Credo. Il sole è tutto».
U
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Montagne
Le Serre
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di FRANCESCO TASSONE
l primato europeo, per la maestosità di questa essenza forestale, spetta alle Serre calabre. Difatti nel bosco archifòro, dimora un esemplare di Abies Alba mill, alto oltre 55 metri e con una circonferenza del tronco pari a 5,5 metri. É un albero sempreverde e monoico, cioè presenta sulla stessa pianta fiori maschili e femminili, distinti e separati. É una pianta vascolare (Tracheobionta), con semi (Spermatophyta) contenuti in un cono portato eretto. Vive ad altitudini variabili, spingendosi, in alcune zone, anche oltre i 2000 metri. La pianta è longeva, può raggiungere, infatti, oltre i seicento anni d'età. L'abete bianco è una specie sciafila, cioè che può vivere in zone d'ombra allo stato giovane e può re-
Milioni e milioni di scatti, milioni e milioni di foto, l’ultima è sempre come la prima perché niente è più diverso e più mutevole, più nuovo e sorprendente di una notte di luna piena, di un mare bagnato di luce, di un’alba che vince la notte. Qualche volta il nostro uomo delle stelle fissa sulla macchina fotografica segni incomprensibili, luci inspiegabili, arcani brillii. Ma la bellezza, sempre, supera il mistero. «E tutte le notti, quando do la buonanotte a mia moglie, prima a mia moglie poi a Gesù, mi faccio sempre il segno della croce e dico grazie per questa giornata, io ti voglio sempre bene. E chiedo di rivedere il sole. Il sole nascere». Passano i giorni, e le notti se ne vanno, e Carmelo Nocera è là, seduto sulla sua panchina difronte all’universo. Ad aspettare l’alba, novello Dante, l’alba che vinceva l’ora mattutina che fuggia a innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar della marina. *Servizio tratto dal TG3 Calabria
IL BOSCO archifòro
stare sotto copertura anche per trent'anni, ma in questi casi è scontata la conseguente malformazione del fusto. Allo stato adulto ha la necessità di vegetare in piena luce, ama l'umidità dei terreni freschi e profondi, tipici delle zone ombreggiate e molto piovose. La boscaglia, che accoglie questo mastodontico esemplare, ricade per la quasi totalità nel comune di Serra S. Bruno e costituisce una foresta che si estende su una superficie di cinquemila ettari circa, la quale contribuisce per il 26,5%, all’attuazione del Parco Naturale Regionale delle Serre. Il bosco viene incluso nel versante occidentale della “Pietra del Caricatore” oltre la quale spicca il blocco monolitico "della pietra d'Ammienzu". Nella radura, trovano il loro habitat anche piante di grande rilevanza scientifica, tanto per le loro particolarità quanto per l’eccezionalità della taglia oversize: sono delle orchidee appartenenti ai generi Dactylorhiza, Limodorum, Epipactis Orchis, Serapias e felci tipiche degli ambienti alpini e quindi più uniche che rare in un habitat serrese. Nel 2013, con un finanziamento da “Mediprogramme”, si è concretizzato il progetto 2bparks, che ha inaugurato il sentiero archifòro, percorribile
info 393/9045353 0964/992014
dal vivaio di “Rosarella” a quota 900 metri, passando attraverso la località “lu bellu” per poi raggiungere la località “Pietra del Signore” a quota 1080 metri. Appena 1,3 km da godersi a pieni polmoni in un'ora di cammino circa. Il sentiero è caratterizzato da un batolite granitico, mentre l'area circostante conserva le tracce degli scalpellini che estraevano il granito, quelle dei carbonai che attraverso gli scarazzi, una volta combusta la legna, estraevano il carbone, e le nivere, grandi buche in cui la neve, una volta pressata e ricoperta di fogliame, veniva conservata fino all’estate, per essere estratta in blocchi e venduta ai maestri gelatai, che la trasformavano in granite e coni gelato.
Tra i boschi d’Aspromonte
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inAspromonte
escursioni
Aprile 2014
In cammino con l’associazione... Pasquetta sulla neve Gente In Aspromonte D
ai dolci piani di Tabaccari, in una giornata di fioritura primaverile con qualche residua traccia di neve, sino a raggiungere la vetta di Montalto che, da quassù, scende fino al mare snodandosi in una straordinaria complessiva di boschi, fiumare, creste e borghi isolati. Scopriremo insieme come si cammina, si scivola, si rotola, si gioca con la neve.
21 aprile
9.30 Raduno al Crocefisso dello Zilastro per quelli che vengono dalla Tirrenica 9.45 trasferimento in auto verso Monte Fistocchio 9.30 Raduno per quelli della Jonica sulla 106 bivio per San Luca 9.45 trasferimento in auto verso Monte Fistocchio 10.45 partenza escursione
24-26 aprile
4 maggio
Tempo: ore 6.30 Dislivello: 1420 slm 875 Difficoltà: E.E. Escursionisti Esperti Località: Cuvolo (Roccaforte) Comuni int.: Roccaforte del Greco
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Roccaforte
na spettacolare escursione in un ambiente di alta montagna, considerata in assoluto tra le più belle del programma, ci offrirà ampi panorami. Il tragitto compie quasi un anello, con vista privilegiata su tutto il massiccio di monte Cavallo e spaziando fino all’Amendolea, dove sopravvivono i resti del culto basiliano.
11 maggio
Tempo: ore 5.30 Dislivello: 428 slm 920 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Sant’Eufemia d’Aspromonte Comuni int.: Sant’Eufemia d’Aspromonte
S. Eufemia
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’itinerario si articolerà attraverso una folta macchia mediterranea, toccando il punto panoramico più suggestivo del territorio: Serro di Tavola, un isediamento fortificato, che comprende l’area dei pini della Corona e le alture aspromontane. Il monastero più importante della zona è quello di San Bartolomeo da Trigona.
Fuori sede in Sicilia
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Taormina
nteressante escursione sui Peloritani di Taormina, con una breve visita al monumento nazionale dell’Abbazia dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò, gioiello in cui riescono a fondersi stili dell’architettura bizantina, araba, normanna e mettono in risalto, lungo i prospetti, un’estasiante policromia di pietre bianche arenarie e nere laviche. Visita alla montagna di fuoco, l’Etna, con itinerari compatibili alle condizioni atmosferiche e alla neve.
in f o
Associazione escursionistica Gente in Aspromonte via Fontanella, 2 89030 Careri (RC) Tel. 348 8134091
Piani di Tabaccari
Roccaforte del Greco
www.genteinaspromonte.it info@genteinaspromonte.it
Gruppo Escursionisti d’Aspromonte 24-26 aprile 4 maggio A
Gita - Escursione
Impegno tecnico: medio Percorrenza: 13 km Tempo: 5 ore Quote: 1136 - 600 - 274 Difficoltà: E Rientro: ore 19
P. del Circeo Oppido M. I
l Parco del Circeo èil terzo, in ordine di tempo, dopo il Parco del Gran Paradiso e quello d’Abruzzo. Avremo modo di apprezzare gli aspetti naturali del parco, costituiti dagli oltre 20 km di dune che si affacciano sul mare, dai laghi costieri, dalla foresta di Terracina, dalle centinaia di specie animali e vegetali. Visiteremo Sabaudia e San Felice, le ville storiche e i pittoreschi borghi. Percorreremo i sentieri del parco per inerpicarci sul promontorio del Circeo, alla cui sommitàsi trova il tempio di Venere.
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artiremo dalla localitàPalazzo, dove si conservano i resti di un fortino di età bruzia, posto a controllo dell’allora strategica via istmica Tirreno-Ionio. Scenderemo ripidamente a valle fino a incrociare la SS 112 dalla quale s’imbocca il sentiero di crinale che scende fino a Oppido Vecchia. Da qui proseguiremo fino a Mella, che fu importante cittàellenistico-romana.
bbiamo studiato, individuato, dotato di segnavia e riattivato oltre 300 km dei vecchi sentieri che hanno costituito, per lungo tempo, le uniche vie di collegamento tra i centri abitati dell'Aspromonte e che conservano, ancora intatto, il loro fascino. Abbiamo contribuito a creare le condizioni per la corretta fruizione della montagna attraverso la pratica dell'escursionismo convinti come siamo che l'ambiente naturale va riscoperto anche come "valore" economico, sociale e culturale. Sono decine di milioni gli escursionisti in Italia e in Europa, un esercito pacifico che, nelle aree montane più attrezzate, con forti richiami alle tradizioni, ha rivitalizzato il tessuto sociale ed economico fatto di piccole imprese, di agriturismo, di artigianato, di agricoltura e di buona cucina.
o G. E. A. infGruppo Escursionisti
d’Aspromonte via Castello, 2 89127 Reggio Calabria Tel. 0965 332822 www.gea-aspromonte.it info@gea-aspromonte.it
Oppido Antica
Unità di misura contadine. Oppido Antica
Club Alpino Italiano
25-27 aprile
Villaggio Mancuso (Pn della Sila) M. Monteleone S. Foti con Alpinismo Giovanile T
25-27 aprile
Staiti -Bova - Amendolea (Pna) F. Corrado S. Settimio EE (Escursionisti Esperti)
3-4 maggio
Le valli Cupe (Pn della Sila) G. Polito P. Garofalo E (Escursionistico)
11 maggio
Gallico e dintorni S. Occhiuto R. Tripodo (ASE) S. Musca con Alpinismo Giovanile E
Bova
info
C.A.I. - Club Alpino Italiano Sezione Aspromonte via San Francesco da Paola, 106 89127 Reggio Calabria www.caireggio.it Aperto il giovedì dalle ore 21.00
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Speciale Pasqua
inAspromonte Aprile 2014
Servizio tratto dal sito lagrandegioiosa.it, a cura di Tiziano Rossi
A ‘NGUTA
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uò avere varie a forme: gallina, pesce, cuore. Al centro è posto un uovo sodo che la tradizione vuole porti fortuna. Si amalga l’impasto all’inizio della Settimana Santa in modo da gustare il dolce il giorno di Pasqua. Ingredienti: latte, farina, uova, olio o strutto, lievito, zucchero.
A RIGANELLA
I CUZZUPI
orta ripiena di uva passa e noci dalla tipica forma a spirale. Il suo sapore prevalentemente dolce è contrastato da lievi note salate come quelle dell’origano presente nel ripieno. Data la forma circolare, è chiaro il significato simbolico di rigenerazione della vita.
olce fatto con pasta di pane zuccherata, con l’aggiunta di qualche goccia di anice e scorza di limone. La loro composizione rende le cuzzupe facilmente modellabili: l’elemento comune è l’uovo, adagiato prima della cottura che, in forno, diviene sodo.
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FESTE
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RELIGIONE
LA SETTIMANA SANTA IL RACCONTO
U n
tempo la Settimana Santa si esprimeva mediante manifestazioni di fede aventi come tema dominante la morte di Gesù. Erano, quelli, i giorni in cui la Filodrammatica stabile, diretta dallo scrittore Massimo Rodinò, nei locali dell’asilo infantile, rappresentava La Passione di Cristo. IL GIOVEDÍ SANTO La mattina era caratterizzata dalla funzione religiosa che prevedeva la “lavanda dei piedi” ai 12 apostoli. Le campane della Matrice suonavano fino al Gloria, ma quando aveva luogo l’elevazione del calice, di colpo tacevano per dare spazio alle tocche (battole), i cui colpi simboleggiavano le frustate che i giudei avevano inflitto a Gesù durante il cammino verso il Calvario. Per la grande occasione, bravissimi predicatori passionisti, giunti da ogni parte d’Italia, con garbo e religiosità, illustravano la Passione di Cristo, sfoderando, dall’alto del pulpito, parole di dolore e dolcezza al contempo, che toccavano il cuore dei molti gioiosani presenti alla singolare funzione religiosa. «Vieni! Vieni! O Vergine Maria a prendere tuo Figlio!» diceva, commosso, il predicatore, indirizzando la voce verso la Madonna che, avvolta nel suo nero
‘NGUTA E PASCUNI, LA
NEI GIORNI DI CRISTO Pasqua, il periodo di raccoglimento cristiano
mantello, portata a spalla da alcuni fedeli, entrava dalla porta principale della Matrice per raggiungere il pergamo e ricevere tra le braccia il Figlio morto.
IL VENERDÍ SANTO Ai primi chiarori dell’alba del Venerdì Santo la statua della Vergine in lutto andava in cerca del Figlio, accompagnata da una processione che si snodava per le vie del paese, con grande partecipazione di fedeli. La sera dello stesso giorno, poi, la statua della Vergine in lutto seguiva le spoglie del Figlio morto, in un’altra processione caratterizzata dal canto sommesso dei fedeli che si avvicendavano a portare i due simulacri. Anticamente, la bara di Cristo era portata dai nobili del paese, quella della Madonna era affidata alle braccia della gente del popolo. Il gruppo ligneo della Pietà, opera del bravissimo scultore locale Domenico Scarfò, ancor oggi, sfilando per le vie di Gioiosa, testimonia di un'epoca non molto lontana che ha visto grandi e piccini commuoversi durante la lunga processione del Venerdì Santo. E poi i Simburchi (Sepolcri). Gesù, crocifisso, deposto sul pavimento delle varie chiese del paese, sopra un cuscino di velluto, riceveva la visita dei gioiosani che gli rendevano omaggio,
Nelle foto in alto foglie di palma lavorate, nella foto sopra una scena del film di Mel Gibson
chinandosi per baciarlo con vera e distinta devozione.
IL SABATO SANTO Nella Chiesa Matrice, la benedizione dell’acqua e del fuoco: le campane si scioglievano per annunciare la resurrezione di Cristo e i contadini sollevavano al cielo rametti d’arancio e d’ulivo per la benedizione, invocando, attraverso gesti simbolici, un raccolto abbondante. Tra nuvole d’incenso, centinaia di piccole mani innalzavano al cielo, avvolta in un tovagliolo bianco, la ‘nguta (dolce a forma di paniere, con un uovo sodo posto al centro) mentre il prete spandeva acqua benedetta.
GIOIA DEI BIMBI
A Gioiosa, fino a qualche anno fa, il dolce assumeva un particolare significato religioso. La 'nguta, avvolta in un tovagliolo bianco veniva portata alla Chiesa Matrice dove, durante la messa del Sabato Santo, allorquando scioglievano le campane (sparàva ‘a Gloria) per annunciare la resurrezione di Cristo, veniva benedetta. Avvolte da nubi d’incenso, centinaia di piccole mani innalzavano al cielo il dolce e, mentre gli adulti si segnavano, il celebrante spandeva acqua benedetta. Lunedì, infine, ‘u pascuni. Amici e parenti si riversavano nelle vicine campagne a festeggiare la resurrezione, mangiando e bevendo all'ombra dei nostri ulivi secolari.
LA DOMENICA DI PASQUA
Il dolore di Maria, le parole del Battista
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a Domenica (di Pasqua), infine, la sbelata! Dalla Chiesa Matrice venivano portate due statue sul piazzale scosceso della Confrontata: avanti quella di San Giovanni Battista e, dietro, quella di Gesù risorto. Intanto dalla Chiesa del Rosario, che allora si trovava nella piazzetta prospiciente al municipio, veniva portata a spalla la Madonna, avvolta in un velo nero. Il Battista iniziava, allora, la spola, percorrendo per
tre volte la strada tra Gesù e la Madonna, annunciando a quest’ultima che il Figlio era risorto. Al terzo viaggio, San Giovanni si faceva da parte. I portatori delle due statue prendevano la rincorsa e, sotto gli occhi bagnati dei fedeli, la Madonna, andava velocemente incontro al Figlio risorto, liberandosi del nero mantello, tra applausi, lacrime, suono di campane a stormo e la banda che intonava la grande marcia della gloria.
Speciale Pasqua
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La storia Un retaggio pagano
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zione di Cristo. All'ultimo passaggio si incontrano, correndo davanti a Gesù, san Giovanni da una parte e L'Addolorata dall'altra. All'incontro il velo nero del lutto viene tolto dalla statua di Maria, la cosiddetta "sbilazioni" o "sbilata", lasciando visibile un vestito di festa. Una cattiva riuscita della funzione è, secondo la tradizione, presagio di sventura per la comunità. Incanto. Per decidere chi porterà la determinata statua si utilizza un sistema d'asta, detto "incanto". Tuttavia in molti centri (come ad esempio Vibo Valentia) la scelta viene effettuata di anno in anno secondo criteri di robustezza o secondo privilegi ereditati dalle singole famiglie.
'affruntata è una rappresentazione religiosa delle province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e della parte meridionale della provincia di Catanzaro, dove è conosciuta anche con il nome di Cunfrunta nel periodo di Pasqua. Come tante tradizioni popolari ha origini pagane. La manifestazione si svolge per le strade e nelle piazze dei comuni, dove tre statue (raffiguranti Maria Addolorata, Gesù e san Giovanni) vengono trasportate a spalla per simboleggiare l'incontro dopo la resurrezione di Cristo. La statua di San Giovanni fa la spola tra le altre due per 3 o 5 volte (il numero dei passaggi varia da paese a paese) avanti e indietro, con passo sempre più veloce, come messaggero della resurreNella foto in alto la Chiesa del Soccorso allo Zopardo (1963), nella foto a destra l’Affruntata (1942), nella foto piccola la Chiesa di Santa Caterina (1930). Tutte le foto sono state scattate a Bovalino Superiore, e tratte dal libro “Bovalino, foto storia per immagini” di Rocco La Cava.
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Maria Addolorata
CANTO DELLA TRADIZIONE ORALE Vieni a pianger sul Calvario i tuoi falli, anima mia. Vieni a piangere con Maria per la morte di Gesù. O Maria, diletta Madre, mesta in volto, mesta in cuore, compatisco il tuo dolore, grande e immenso come il mare. Sotto gli occhi tuoi materni Gesù pende sulla Croce. Vedi il sangue, odi la voce; ah! Lo vedi al fin spirare. Qui mi fermo a piè del legno, or il figlio, or te mirando. Ti presento, a quando a quando, una lacrima, un sospir. Deh! Mi valga il tuo martirio e la morte del tuo Bene. Nelle stesse acerbe pene, ah! Potessi anch'io morir.
di Filippo Musitano e Pasquale Blefari
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l canto ha avuto una parte importante nelle religioni che si sono susseguite sin dall’inizio della storia umana. Al pronunciare anche solo delle sillabe insensate, o delle sequenze di vocali, modulandole con la voce o accompagnandole con semplici strumenti, è stato sempre attribuito un potere immenso. Un potere capace di collegare, in modo molto più efficace di qualunque semplice preghiera, col mondo extraumano. LA MAGGIOR PARTE dei canti cristiani, addirittura anche molti proverbi, sono incentrati sulla Passione di Nostro Signore Gesù, e i testi su questo argomento superano in gran lunga quelli inerenti la Natività, come numero e qualità. Di questa categoria fanno parte i canti eseguiti durante la Settimana Santa a Bovalino Superiore, tramandati da secoli oralmente all’interno dell’Arciconfraternita Maria SS. Immacolata, custode della cultura del paese. Sono componimenti dalla metrica e il linguaggio diversi, poemetti lunghi dai dieci a più del centinaio di versi, o anche canti dialettali creati da chissà quale semplice popolano. Eppure, nella loro diversità, hanno molto in comune. Note lunghe, gravi, funebri prevalgono e rendono coinvolgente l’atmosfera, ma sono già le caratteristiche intrinsiche della musica a colpire. Si è sensibili alla musica a livello fisiologico, psicologico, affettivo, estetico. La musica ha un potere unico nel risvegliare associazioni emotive, affettive, totale adesione a quello che sta accadendo intorno, trasforma la coscienza, sconvolge. E ci colpi-
Bovalino Superiore. Nei versi della sua gente il mistero della Resurrezione; un tesoro custodito gelosamente nei secoli
AFFRUNTATA
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E CANTI
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«Chi bella jornata è chista, chi camina Gesù Cristu, e camina pe li strati, cu la sua Vergini Matri»
Sono tramandati da secoli oralmente all’interno della Arciconfraternita, custode della cultura del paese sce anche fisicamente e fisiologicamente, internamente.
SONO TESTI dall’andamento lirico-poetico, in un clima crescente che fa salire sempre più la tensione emotiva, in cui i soggetti sono sempre ricordati e accompagnati da aggettivi ricorrenti (Gesù mio, Madre Addolorata, noi peccatori): “pien di piaghe e lividure/ Deh! Contempla ,o peccatore,/ spasimante pel dolore, /il mio Dio che in croce sta”. Hanno una funzione didattico-
dottrinale come, del resto, tutte le funzioni della settimana santa, con il loro voler spiegare al popolo ignorante, in maniera teatrale, la Passione, la Morte e la Rerruzione di Gesù. Vengono elencati i vari oggetti che sono stati usati per torturarlo e ucciderlo, oggetti che prendono quasi vita, hanno una propria coscienza e una propria colpa: “o fieri flagelli”, “o spine pungenti”, “o chiodi crudeli”, e tanto sembrano animati da venirgli chiesto di “non più tormentare l’amato Gesù” .
CHI CANTA sente la propria voce all’interno, e non solo mentalmente; è come se qualcuno ci stesse ripetendo un qualcosa. Ciò fa vibrare la laringe, il torace, l’addome, la cavità orale, fa vibrare il capo. Inoltre la musica e il canto producono onde sonore che ci abbracciano, ci colpiscono, muovono l’aria.
Mentre si accompagna l’Addolorata al Calvario, i silenzi del paese sono interrotti dal suono delle tocche e dei caraci E NELLA NOTTE del Venerdì Santo, mentre si accompagna l’Addolorata al Calvario, i silenzi del paese vengono interrotti dal suono delle tocche e dei cararaci, strumenti in legno che con il loro suono battente, metallico, secco, battono l’anima del corteo, come i colpi dei soldati battevano il corpo di Cristo. E le lacrime rigano il volto delle donne che, devote, si commuovono di fronte al simulacro dell’Addolorata, ammantata nel suo nero, evocando emozioni
forti. Un dolore materno che la rende quasi umana, sorella. Per lei si elevano parole dolci e melanconiche, compassionevoli, come quelle che si rivolgono a Dio nei momenti di maggiore dolore e sconforto. Spesso questi vengono eseguite fisicamente e metaforicamente al Calvario, luogo in cui Gesù ha maggiormente sofferto ed è morto, e dove la Madre si è prostrata con l’anima trafitta ai suoi piedi. E il popolo nel momento più intenso di pietà popolare canta: “Ah! Piang’Ella pel dolore/ ha impietrato il cuore in petto/ nel vedere il suo diletto/È il mio Dio che in Croce sta” oppure “Sotto gli occhi tuoi materni/ Gesù pende sulla Croce/ vedi il sangue,odi la voce;/ Ah! Lo vedi al fin spirare/ [...]/ nelle stesse acerbe pene/ ah!potessi anch’io morir”. ALLA FINE la paura, il dolore, la morte sono sconfitti: Gesù risorge, ed esplodono gli inni, dialettali, di gioia, semplici e brevi, mentre si cammina con Gesù. San Giovanni corre, sempre più accorato, per annunciare il messaggio di amore e speranza “Gesù è Risorto”. E la Madre, infine, accorre a riabbracciare il Figlio Risorto, cade il nero lutto, per far risplendere l’azzurro e il color d’oro del vestito della Vergine, tra il rullare di botti scuri, mentre la banda suona il Mosè. I fedeli cantano: “Chi alligrizza e chi jornata/ chi Maria fu cunsulata,/ cunsulata in tutti l’uri:/ risuscitau Nostru Signuri”. Canti conosciuti sin dall’infanzia, e che, insieme alla varie manifestazioni della Settimana Santa, ci hanno fatto scendere le prime lacrime di commozione religiosa.
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IL SAPONE “A CALDO”
Antichi mestieri
reportage
Olio di oliva, acqua e soda: pochi ingredienti ma tanti segreti
FIG. 1 Mischiare a 5 lt di olio di oliva 10 lt di acqua
FIG. 2 Portare a ebollizione il composto
U SAPUNI I C di MIMMO CATANZARITI
C
FIG. 3 Aggiungere 1 kg di soda, sciolta in acqua fredda
FIG. 4 Aggiungere essenze naturali (limoni, bergamotti)
FIG. 5 Tagliare il giorno dopo e fare stagionare a lungo
IL SAPONE “A FREDDO”
«Patri figghiu e spiritu santu ‘u poti cris
’è un passato recente ed un passato remoto, con tracce ancora vive nella memoria dei nostri vecchi, nelle testimonianze scritte, nelle vecchie foto, e negli oggetti che ancora oggi sono di uso comune. La vita nei centri rurali della Calabria era dura, dettata dalle esigenze della terra e, tuttavia, la gente sopportava e viveva con amore e tenacia, accettandone tutti gli aspetti e le sfumature. Questa esposizione si propone di far luce sui saperi antichi, ormai persi del tutto nel vortice della modernità. È la continua ricerca delle nostre tradizioni, è il tentativo di far parlare chi non c’è più, chi non pensava di entrare nei libri di storia, è il riproporre piccole e grandi ritualità. È, principalmente, il vissuto della gente. Cercheremo, dunque, di spiegare i procedimenti, le difficoltà, i riti e i rimedi popolari, approfondendo alcune tecniche di pulizia usate prima della introduzione dei detersivi, dei saponi e dei detergenti sintetizzati chimicamente.
tante risorsa per la gente comune, specialmente per la donna calabrese in veste di lavandaia.
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L’ultimo panno serviva da filtro a quest’acqua che impregnava quelli sottostanti. Era qualcosa di magico e strano quel misto che faceva diventare bianca e profu-
‘A VUCATA ino alla metà del secolo, le donne per lavare i panni dovevano recarsi alla fiumara. La fiumara era un’impor-
La donna faceva prima il prelavaggio a mano col sapuni i casa e, successivamente, faceva il bucato. Era quella, una attività in cui c’era bisogno di molta concentrazione. Si utilizzava una cesta di vimini dalla forma arrotondata, situata sopra a dei mattoni o a delle pietre pulite, dove la biancheria, già insaponata e leggermente sfregata e torciuta con le mani, veniva sistemata seguendo la forma concentrica della cofina. La parte finale, più larga, della superficie della cesta e i panni in essa contenuti venivano poi ricoperti da un telo di tessuto forte, detto cinnerali, ricavato da un vecchio lenzuolo o tessuto a mano in modo doppio, fatto di canapa o di cotone pesante; sopra il cinnerali veniva posto uno strato di cenere di 10 cm circa rigorosamente cernuta, cioè passata al setaccio, e a questo punto, sul tutto, veniva versata l’acqua bollente.
Mischiare a 5 lt di olio di oliva, 5 di acqua e 1 kg di soda Mescolare per circa un’ora, sempre dallo stesso verso
mata la biancheria tessuta al telaio. Il liquido, che scolava dal fondo della cesta, era chiamato in dialetto liscìja, cioè la lisciva, e possedeva capacità detergenti elevate. Per questo era prezioso. Con cura veniva poi raccolto e messo da parte per lavare i capi in lana e i panni colorati e delicati, ma anche per fare altri lavaggi come stoviglie, pavimenti, oggetti vari. La massaia con il primo liquido che usciva, essendo più sporco, lavava gli stracci. Col successivo, più chiaro, lavava i panni colorati e le maglie di lana, che poi sciacquava alla maniera della biancheria; puliva e disinfettava i letti, spesso invasi dai parassiti e, a dosaggi diluiti, puliva persino i capelli, per renderli lucenti e morbidi.
N
‘U SAPUNI I CASA elle famiglie non si buttava via niente, tutto era importante. L’olio, ad esempio, era prezioso sempre, anche quello fritto o andato a male, o depositato sul fondo dei recipienti in creta in cui era conservato. E proprio in uno di questi orci si raccoglievano questi residui: servivano per il sapone. Anche le giarre, dove restavano i residui dell’olio (murghi) erano
Tagliare il giorno dopo e fare stagionare a lungo
Antichi mestieri
CASA
sciri n’attru tantu!»
una manna dal cielo per fare del buon sapone. Fare il sapone richiedeva una certa esperienza, perché non era facile lavorare e dosare bene la potassa (soda caustica), ingrediente essenziale per far solidificare il sapone e l’acqua occorrente, le dosi di solito erano un chilogrammo di soda e cinque litri di olio (Fig.1). Fare il sapone era un rito a cui partecipava non solo la famiglia, ma anche comari e donne del vicinato. Solo tanti tentativi, anni di esperienza e segreti rubati qua e là, facevano riuscire un buon sapone a una brava massaia. Il segreto era mescolare sempre e controllare il fuoco per regolare la cottura. Quasi sempre ognuna delle comari del vicinato diceva la sua: a volte c’era troppo potassu (troppa soda) e quindi necessitava altra acqua, o era lentu cioè acquoso, e c’era bisogno di altra soda; in questo caso l’aiuto e i consigli delle comari e delle vicine era sempre ben accetto per la buona riuscita al primo colpo del risultato sperato. Prima di iniziare il procedimento della lavorazione del sapone, era abitudine diffusa “benedire” con formule di rito, allo stesso modo del pane, anche il composto che si andava a tra-
sformare in sapone. Si tracciava il segno della croce e si buttava un pugno di sale marino dentro il fusto o la cardara, pronunciando la seguente frase: «Patri figghiu e spiritu santu ‘u poti crisciri n’attru tantu!». Appena il contenuto cominciava a bollire (Fig.2) si iniziava a versare piano piano la potassa (Fig.3), precedentemente sciolta in acqua fredda rimescolando di continuo con il bastone. Questa erogazione, sapientemente dosata, doveva avvenire ad intervalli regolari e stando bene attenti a quando il liquido cominciava a rapprendere, altrimenti la massa per eccesso di soda si sdillacciava, cioè non coagulava bene. Potevano essere aggiunte delle essenze, chiaramente naturali, come bergamotti, limoni o arance (Fig. 4). Mescolando continuamente avveniva la magia: la miscela iniziava a schiarire, passando dal marroncino al bianco panna, (quando il procedimento andava bene). Un colore non proprio chiaro non era comunque sinonimo di cattiva riuscita: il suo dovere di sbiancare e fare schiuma il sapone lo avrebbe fatto lo stesso, anche se più scuro. Si capiva che il sapone era pronto quando, mettendo il mestolo o il manico di scopa in legno al centro del composto, questi restava dritto e non scivolava di lato. Significava che la consistenza era quella giusta e assicurava una buona saponificazione. Se non era ancora solido, si lasciava riposare per altro tempo prima di tagliarlo, ma se capitava che non quagliava voleva dire che qualcosa era andato storto e quindi andava rifatto (stornatu). Una volta tagliato a pezzi (Fig.5) non restava altro che farlo asciugare fino a che diventava secco e leggero. Asciugando, di solito si formava una patina di scaglie di soda luccicante, ma sul prodotto stagionato non faceva più male toccarla, perché non più caustica. Sul finire degli anni ‘50, grazie anche all’avvento delle lavatrici, l’usanza di fare il sapone in casa, come quella del bucato a mano, gradualmente è scomparsa. Questa consuetudine era dettata dal bisogno e dalla necessità del risparmio, e oggi un altro retaggio della classe contadina sta per morire. Sopravvive forse solo in poche famiglie, aggrappate caparbiamente agli usi e ai costumi della nostra tradizione aspromontana.
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reportage
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Una lira lavorata da mastro Bruno Marzano, Bosco S. Ippolito. Foto di Leo Criaco
Lo strumento dei Bizantini è ora tipico della nostra cultura
LA LIRA CALABRESE di VALENTINO SANTAGATI
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Peppe Fragomeni, Ciccio Staltari, Bruno Marzano: abili suonatori e mastri liutai
uesto antico e affascinante cordofono ad arco è ricavato da un unico pezzo di legno scavato su cui viene incollata la tavola armonica, fornita di due fori di risonanza di solito circolari o semi circolari a cavallo dei quali, poggiato sulla striscia di legno che li separa, è posto in genere il ponticello, che comunica con il fondo dello strumento grazie ad un’anima mobile di canna. La lira, priva di tastiera, monta tre corde fissate a una cordiera di cuoio collocata sulla fascia inferiore e tirate da tre piroli alloggiati nella parte posteriore della paletta. Anticamente erano di budello animale o si ricavavano dalle fibre dell’agave, i pochissimi
Alcune delle lire di Marzano. Foto di L. Criaco
musicisti popolari ancora attivi tendono oggi ad utilizzare corde di nylon. I suonatori impugnano la lira e tastano le corde con la mano sinistra (quasi tutti ottengono la tastatura lateralmente con le unghie, faceva eccezione Peppe Fragomeni di Siderno, scomparso nel 1997, che si serviva dei polpastrelli), la destra impugna l’arco che sfrega sempre due corde alla volta (la corda centrale funge da bordone, si possono dunque suonare insieme di volta in volta la prima con la seconda e la seconda con la terza). Lo strumento si tiene in posizione verticale; c’è chi lo suona stando seduto e appoggiandolo sulle due gambe chiuse, come fa Ciccio Staltari della contrada Chiusa vicino Gerace, e chi, come il suonatore-costruttore Fragomeni citato prima, lo poggia su un ginocchio riuscendo a suonare anche in piedi. La lira, grazie alla circolazione culturale favorita nei secoli X e XI dagli arabi e dai bizantini, appartiene a un tipo strumentale che occupa un posto di rilievo in alcune tradizioni musicali del bacino del Mediterraneo e, nella nostra regione, come è accaduto per la chitarra battente, è stata calabresizzata: la diteggiatura infatti si attiene a una scala riconducibile a quella della zampogna a paru e anche il repertorio ripropone le forme strumentali e vocali/strumentali tipiche degli altri strumenti. Uno dei più bravi liutai della Calabria è mastro Bruno Marzano di Bovalino che costruisce vari tipi di lira, diversi per forma e dimensioni; ciascuno di essi riproduce con cura un modello di quelli rilevati dai ricercatori della cooperativa Raffaele Lombardi Satriani (vedi La lira in Calabria a cura della cooperativa, e La Lira di Goffredo Plastino, Monteleone, V. Valentia) o rinvenuto dal liutaio in anni più recenti.
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La nostra storia
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Attività tettoniche
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IL RISCHIO DEL CROTONESE
Calabria risucchiata dallo Jonio
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ttualmente incombe un grave pericolo sul territorio calabrese: lo scivolamento verso il mare dell’area crotonese. L’inchiesta-studio del Geophysical Research Letters rivela il preoccupante scenario che potrebbe interessare un’area di mille km quadrati, area effettivamente sconvolta da numerose scosse sismiche negli ultimi anni. Sono attività che si verificano giornalmente, dovute alle numerose faglie attive del territorio, ma la cui continuità potrebbe accelerare lo scivolamento dell’area crotonese verso il mare. Solo ipotesi finora, ma altamente verificabili, nonostante la popolazione ne sia del tutto ignara.
Maremoti nel Mediterraneo, è necessario informare
ALL’OMBRA DELLO TSUNAMI di CARMINE VERDUCI
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alabria terra ballerina, così la definì giustamente qualcuno, una terra che frana, che viene spazzata via dalle fiumare e dalle alluvioni, una terra antica e dimenticata. Di molti maremoti, avvenuti dopo il periodo Magno Greco, non si ha notizia perché le coste furono abbandonate e i danni non registrati. Si sa che 8.000 anni fa, una colossale frana di 35 chilometri cubici di materiale lavico (circa un decimo del cono sommitale dell’Etna), si staccò dal fianco orientale del vulcano e si inabissò nel Mare Ionio, causando uno tsunami. UNO DEGLI TSUNAMI più forti che si siano mai registrati in Italia è quello che, nel 1783, colpì la Calabria tirrenica, innescato da un sisma dell’undicesimo grado (scala Mercalli). Le coste mediterranee, da Messina a Torre del Faro e da Cenidio a Scilla, furono devastate. Il mare si spinse fino a 2 chilometri nell’entroterra. Poi ci fu il terremoto del 1908, che in 37 secondi danneggiò gravemente le città di Reggio e Messina. Sono le faglie sottomarine difronte alla costa jonica reggina, che fanno parte di un sistema di “vulcanelli” (non pericolosi), che potrebbero dar vita in qualsiasi momento a delle eruzioni, data la loro vicinanza alle faglie attive del mare Mediterraneo. Queste faglie potrebbero, in qualsiasi momento, provocare un terremoto, e questo, a sua volta, provocare uno tsunami che metta a repentaglio la vita delle popolazione della costa. Gli studi degli esperti evidenziano delle nostre gravissime la-
LA POMPEI GRECA
Nel 1967 nella località di Akrotiri, isola di Santorini (nelle foto in alto e in basso), gli archeologi riportarono alla luce un'antica città, quasi completamente intatta come Pompei e ricoperta da antiche ceneri. La scoperta fu catalogata come tra le più importanti nella storia dell’archeologia. Diverse case furono portate alla luce e presentavano un sofisticato sistema idraulico, con tanto di bagni e acque correnti che defluivano in un perfetto sistema fognario. Questo sito testimonia una delle prime forme di ingegneria urbana mai scoperte nella storia.
cune: 1- un sistema inefficiente di monitoraggio delle acque, capace di prevenire simili disastri causati da tsunami. 2- piani inesistenti di sensibilizzazione dei residenti delle zone potenzialmente a rischio. Il “Gruppo di Ricerca Maremoti Dipartimento di Fisica” - Università di Bologna e Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Roma), nel 2011 ha pubblicato delle simulazioni, secondo cui sarebbero in serio rischio tsunami le coste calabresi orientali. LE RICERCHE illustrano che una possibile minaccia potrebbe essere (oltre che allo scivolamento della parete dell’Etna, lato
Le aree colpite Sicilia orientale, Calabria, Puglia e arcipelago delle Eolie. Maremoti di modesta entità si sono registrati sulle coste liguri, tirreniche e adriatiche est) un tsunami provocato dal vulcano sottomarino dell’isola di Santorini a largo dell’isola di Creta. Pare che l’attività eruttiva di Santorini iniziò almeno 2-3 milioni di anni fa. Il vulcano attuale fa parte di un complesso più ampio cui appartiene anche un altro edificio vulcanico, sottomarino, chiamato Monte Columbo, situato 6-7 km a nord-est di Thera, la più grande delle cinque isole componenti l’arcipelago. Sin dalla sua nascita il vulcano ha avuto fasi parossistiche con
I TERREMOTI DEGLI ANNI DOPO CRISTO
Avvennero dal 17 al 968, dal 1158 al 1184, e poi 1320, 1446, 1509, 1570, 1597, 1599, 1600, 1602, 1609, 1621, 1638, dal 1702 al 1739, dal 1767 al 1791, dal 1832 al 1857 e così via...
formazione di depositi piroclastici che consentirono l’accrescimento geografico dell’isola di Thera. D’altra parte, trovandosi nell’area di subduzione tra la placca africana e quella europea, l’intero Mar Egeo (in particolare il cosiddetto “arco ellenico” che va dallo Ionio alla Turchia) è soggetto da sempre a fenomeni distruttivi, siano essi terremoti o eruzioni. Santorini si trova praticamente al centro di questo arco, situato nel Mar Egeo, a circa 120 km a nord di Creta. Se il vulcano
Allarme Santorini Se il vulcano Santorini dovesse eruttare, l’area jonica di Puglia, Sicilia e Calabria sarebbe raggiunta in 40-45 minuti da onde alte fino a 10 metri dovesse eruttare, l’area jonica sarebbe raggiunta in 40-45 minuti da onde alte 6-10 metri. LE RECENTI SCOSSE avvenute in Grecia a partire dallo scorso 26 Gennaio (e arrivate a 6.5° della scala Richter), ci inducono a pensare che il versante greco sia in piena attività, a causa degli attriti tra la placca africana e quella europea. L’area in questione non è molto distante dall’isola di Santorini, si può anzi considerare “connessa al sistema
faglie”. Le ipotesi su un possibile tsunami sono sconcertanti: un maremoto nel Mediterraneo con origine Santorini provocherebbe onde che in meno di un’ora potrebbero raggiungere le coste della Puglia e della Sicilia orientale. RICORDIAMO CHE nel 2002 il crollo della parete del vulcano Stromboli provocò onde alte più o meno 6-7 metri, che si propagarono sulle coste settentrionali della Sicilia e sulla Calabria tirrenica. Ma dobbiamo far si che gli eventi prima ci uccidano per far prevenzione? La natura non da preavviso, ma non possiamo permetterci che, nell’era della tecnologia, della prevenzione e della scienza, arrivata ormai a grandi ed importanti traguardi, eventi di questo genere possano cancellare oltremodo la storia e la dignità del nostro popolo.
GFA srl SUPERMERCATI V ia Ettaro - Brancaleone (RC)
La nostra storia
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di PINO MACRÍ
Il terremoto dimenticato
DAGLI ARCHIVI de La Stampa di Torino e da quelli di un rotocalco spagnolo, qui di seguito alcuni eccezionali documenti lo riportano alla memoria. Fra essi, anche una storica foto della “sentinella perduta”, la Torre di Pagliapoli di M. di Portigliola, a poche decine di metri dalla cinta muraria dell’antica Locri, che in quella occasione, essendo da poco finalmente iniziati gli scavi archeologici per riportate alla luce una delle perle dell’antichità magno greca, quasi dismetteva il suo secolare compito di vigilanza sugli storici avanzi, crollando miseramente sotto i colpi dell’impietoso evento tellurico. ANTONIO SCARFOGLIO, da La Stampa del 26 ottobre 1907: «Il brigadiere dei carabinieri Vincenzo Cerulli, uno dei superstiti, mi racconta le sue sventure: “Attraversavo già il breve spazio fra i due lettucci, allorché mi parve che il quadro col ritratto del Re oscillasse da destra verso sinistra violentemente. Inanzi a me il letto pareva scosso da una mano invisibile; i vetri tremavano; sentivo mancarmi la terra sotto i piedi. Non pensai al terremoto, sulle prime, tanto la mia mente era lontana da quella possibile catastrofe, e il fenomeno mi parve dovuto piuttosto a soverchia eccitazione mia. Qualche secondo dopo, tutto era ritornato alla calma primitiva. Non aveva però fatto ancora un passo che mi sentii avvolto tutto in un fragore rumoroso di vetri infranti e di porte sbattute. Le mura si inclinarono pericolosamente verso di me, poi diversero violentemente verso l’esterno. Con gran fracasso, i vetri infranti oscillavano rumorosi come canne sbattute, una contro l’altra, da un vento di tempesta, la lampada si era spenta, infranta contro il muro, ma l’aria, attraverso i vetri, appariva tutta insanguinata. Un brivido intenso correva lungo le fibre della terra. Un rombo immane rumoreggiava all’esterno col rumore di un masso enorme
Vivere in
Contrada Saccuti Un paese di “ferro”
U
n anno prima del catastrofico terremoto di Reggio e Messina del 28 dicembre 1908, un altro violentissimo sisma si era abbattuto su Ferruzzano (il 23 ottobre 1907, alle ore 20:28, magnitudo 5.93) radendo letteralmente al suolo il paese e provocando centinaia di morti e gravi danni in tutto il territorio del medio-basso ionio reggino. In qualche misura, la tragedia dello Stretto oscurò quella di Ferruzzano, tanto che, nel tempo, la memoria collettiva quasi rimosse quel luttuoso evento, anche per la scarsità di testimonianze ed immagini che ne narrassero i tratti peculiari, tramandando ai posteri il terribile monito.
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inAspromonte
“
23 OTTOBRE 1907
FERRUZZANO
Il racconto del brigadiere Cerulli, scampato all’inferno di calcinacci, nella ricostruzione dell’ingegnere Pino Macrì che da un monte rotoli precipitosamente a valle. Nell’oscurità e nel rumore si levavano altissime grida acute. Carponi, dimentico di tutto, pazzo di terrore, puntellandomi con tutte le forze dei miei muscoli contro le asperità del suolo fatto di terriccio battuto, dimenticando l’orrore della morte imminente che già vedevo avvinghiarmi le spalle, fuggii, o, meglio, mi trascinai a tentoni fino all’arco della porta che avevo chiusa prima di andare a letto, ma che, nell’impeto della scossa, si era spalancata. I primi calcinacci cominciarono a cadere attorno a me. Una trave cadde pesantemente accanto sfiorandomi le spalle. Mi rincantucciai più che potei al riparo dell’architrave. Fuori, nella via, una terribile tempesta imperversava. Una folla di gente spaurita, urlante, nuda, gesticolante, si precipitava per le vie oscure guazzando nell’acqua che, ovunque, aveva fatto dei pantani. Le donne, a gran voce, chiedevano a Dio riparo dal suo flagello. La turba di gementi si urtava, si spingeva, si premeva in tutti i sensi. Nell’ondata di popolo, quelli che erano innanzi venivano sopraggiunti da coloro che correvano dietro, e cadevano a terra, sparivano, sopraffatti, malconci, entro una nuova ondata vivente. Livido, ansante, io guardava compiere inanzi a me, con occhi sbarrati, la terribile opera di morte. Un tremito mi correva lungo la schiena. Batteva i denti per il freddo, forse. Pian piano il fragore diminuì, si smorzò, cessò quasi del tutto. Il silenzio rientrò, rotto soltanto dallo scrosciare
violento della pioggia e dal franare improvviso delle case. Un gruppo di donne recitava litanie. Fuggii, fuggii, incespicai tre volte, ma non caddi. Inanzi a me il paese era sparito. Da ogni parte venivano lamenti, gemiti, pianti. M’incamminai. Vidi il vicepretore Marazzi che si dibatteva con una gamba presa tra le macerie. Gridando, dissi che lo avremmo aiutato, e passai oltre. Più in là altra gente si univa a me, tra cui il sindaco Canizzaro, l’arciprete,
il farmacista Francapisani, che dette aiuto a me ed ad altri. Il mattino, all’alba, arrivai a Brancaleone. Quivi trovai il pretore Camminisi [Caminiti, n.d.r.] e il dottor Vincenzo De Angelis che partirono immediatamente per Ferruzzano, mentre io rimasi a Brancaleone”». SEMPRE SCARFOGLIO, in corrispondenza: «Oltre Ferruzzano, sono maggiormente danneggiati Sant’Ilario, con 5 morti
Fu un terremoto catastrofico quello del 23 ottobre 1907. Proprio l'epicentro fu a Ferruzzano. Per alcuni mesi nella zona si verificarono numerose scosse di assestamento. I soccorsi furono lenti a causa della lentezza della comunicazione, per le avverse condizioni meteo e per la mancanza di una strada rotabile. Fu gravemente danneggiata la chiesa del paese che verrà ricostruita in muratura nel 1951. Le famiglie, la cui casa andò distrutta, vennero spostate a 2 Km di distanza e alloggiate in rifugi di fortuna. Nacque così la frazione Saccuti”. pulitano.eu
Nelle foto in alto le pagine di un rotocalco spagnolo del 1907. Nella foto sotto la torre demaniale di Portigliola (RC)
e 6 feriti gravi; Bianconovo con 2 morti, 8 feriti gravi e 16 leggeri. Nelle contrade di Pioppo e Chiesa, le abitazioni sono tutte crollate e le strade tutte ingombre di macerie. Brancaleone subì gravi danni: mezzo paese è distrutto. Sono danneggiati pure i comuni di Galatro, Colonna [Calanna n.d.r.], Talizzi [Palizzi, n.d.r.], Staiti, Polistena, Santa Lorenza [San Lorenzo], Montebello, Cataforio, Gallina, Bovalino Marina, Benestare, Careri, Caraffa, Oppido Mamertino, Palmi, Casignana, Prati [Platì], Precacore, Siderno, Sant’Agata, Mammola. La frazione Zoparto è tutta distrutta. Quivi perirono un vecchio di 65 anni ed una bambina. Vi sono parecchi feriti alla frazione Pardesca ed altri feriti e molti danni a Portigliola, dove cadde pure metà della Torre demaniale. Lungo la strada provinciale cadde anche una rupe soprastante il paese, ferendo due persone. A Bovalino Superiore sono crollate varie case. Vi sono due feriti. Una donna fu estratta incolume dalle macerie. A Gerace, oltre la Torre crollata, son danneggiati parecchi edifici pubblici». QUESTO, poi, nel resoconto del 1º novembre (sempre su La Stampa), l’elenco ufficiale delle vittime: Africo: 1 morto e 4 feriti; Bianconovo: 2 morti e 10 feriti; Bovalino: 3 morti; Casignana: 1 ferito; Ferruzzano: 175 morti (118 estratti) e 50 feriti, di cui 12 gravemente; Maropati: 2 feriti; Precacore: 2 feriti; Sant’Eufemia: 5 feriti; Sant’Ilario: 5 morti e 10 feriti; San Luca: 12 feriti.
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Cinema e cultura
inAspromonte Aprile 2014
Decollatura, presentato il docufilm su Umberto Zanotti Bianco
UN REGISTA in Aspromonte di GIOVANNI SCARFÓ
Nella foto il regista Giovanni Scarfò
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municare a tutti che una Nazione che trascura i doveri verso i “deboli, gli infelici e la cultura, si macchia della più grave della colpe, quella di offendere la dignità dei cittadini”.
l 10 aprile, al Liceo Scientifico di Decollatura, è stato presentato il mio docufilm Bellezze e rovine: il mezzogiorno - l’Italia di Umberto Zanotti Bianco, nella ricorrenza del cinquantenario della sua scomparsa, prodotto con il contributo dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Reggio Calabria e la produzione esecutiva dell’associazione Art Production. Con gli attori Antonio Tallura, Lavinia Mochio, Paolo Turrà e la partecipazione dei cittadini di Decollatura. Il documentario costituisce l’occasione per riflettere su tutte le tematiche che Zanotti ha affrontato attraverso l’animi e che sono
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Per Zanotti, cultura, scuola e istruzione erano indispensabili alla rinascita del Sud
« Ilè documentario l’occasione
per riflettere sulle tematiche affrontate dall’archeologo di grande attualità ancora oggi: dalle analisi sul territorio, al problema del trasferimento degli abitanti dopo una alluvione o un terremoto, la difesa e il risanamento del suolo, il legame tra città e campagna, tra paesi interni e di costa, la salvaguardia dei beni culturali, la ricerca archeologica e, soprattutto, l’istruzione, la cultura e la scuola, ritenuta da Zanotti, il fondamento della rinascita del Sud, soprattutto «per trasformare in Cittadini la classe dei poveri o dei disorganizzati… perché il problema dell’educazione nazionale e dell’istruzione è il problema centrale, e la scuola va posta avanti tutto». Con il documentario ci si pro-
Nella foto l’archeologo Umberto Zanotti Bianco
pone di raggiungere un pubblico variegato per età, socialmente e culturalmente. Lo scopo è soprattutto quello di stimolare la sensibilità di quanti, per aver creduto a false collocazioni geografiche, vivono egoisticamente la disgregazione del
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paese; ma anche per rafforzare lo spirito di quanti la vivono con sofferenza, a nord come a sud. La vita sociale e culturale di Umberto Zanotti Bianco, assume infatti, in relazione a questo periodo storico, una valenza politico-sociale molto significativa. Soprattutto per l’obiettivo di co-
A Oppido Mamertina si parla di Chanson
n questo importante centro aspromontano, il 4 aprile, sono state gettate le basi per un progetto culturale che potrebbe rivelarsi epocale. I relatori hanno esposto le loro tesi, che nell’insieme hanno portato ad una conclusione convergente: l’Aspromonte è stato nei tempi la principale barriera difensiva per la sua gente, per la penisola e per l’Europa. Da qui l’obbligo di fare una ricostruzione storica più esatta. Sicuramente la canzone d’Aspromonte può aiutare e, soprattutto, può finalmente mostrare la nostra montagna sotto una luce giusta. Il professore Scarfò, il Professore Gangemi, il presidente Bombino, il sindaco Barillaro e il presidente del Galbatir Alvaro, si sono impegnati a far “decollare” il progetto.
Nella foto da sx a dx A. Italiano, G. Scarfò, G. Gangemi, G. Bombino, R. Barillaro, A. Laganà. (Oppido M.)
Il docufilm su Zanotti è il secondo lavoro realizzato dall’Associazione Art Production, di cui sono presidente, con ambientazione l’Aspromonte, dopo quello realizzato da chi scrive su La Canzone d’Aspromonte, presentato durante un incontro a Oppido il 4 aprile, organizzato dall’Amministrazione comunale, con la partecipazione di Giuseppe Gangemi, docente dell’UniPadova, di Antonio Alvaro, presidente Galbatir, di Giuseppe Bombino, presidente Ente Parco Aspromonte, dell’Associazione Art Production e moderati dalla giornalista Antonella Italiano. Hanno partecipato gli studenti dell’Istituto Industriale Superiore di Oppido, insieme all’associazone “Mamerto Teatro” e ai cittadini di Oppido. Sono state tracciate le origini e il percorso della Canzone d’Aspromonte che, secondo i relatori, dovrebbe e potrebbe costituire un brand di notevole valore per la “montagna bianca”, come dimostra il valore in miliardi di euro che è stato assegnato ai territori dove vissero e/o scrissero poeti e scrittori. Dalla smart city alla smart land si intitola il libro del sociologo Aldo Bonomi, il quale afferma che occorre “rivalutare la storia e i territori mentre tutti guardiamo alla tecnologia: una rivoluzione che ci fa capire quanto può essere un valore la nostra cultura pur se lontana dalla modernità”. Il poema della Canzone d’Aspromonte è stato scoperto da Carmelina Sicari già nel lontano 1992. In tutti questi anni, però, nessuna istituzione regionale ha cono-
sciuto, o non ha compreso l’importanza della Canzone (scritta prima dell’Orlando Furioso di L. Ariosto), ignorandola. Solo da quando è stata realizzato il docufilm - attraverso una libera rappresentazione della storia del poema nel 2010, privilegiando il coinvolgimento interpretativo dei cantastorie, dei burattini e della “Gente d’Aspromonte”- è iniziata la prima fase di approfondimento e di programmazione per il futuro della Canzone come mezzo identitario dell’Aspromonte, così come è stato ribadito dal presidente Bombino: uno strumento letterario che deve unificare i territori aspromontani per moltiplicare la conoscibilità
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La Canzone d’Aspromonte unificherà i territori della montagna calabrese In questi anni, « però, nessuna
istituzione ha compreso la forza dell’opera
della montagna calabrese, così come L’infinito di Leopardi, I Cipressi di Carducci, I Malavoglia di Verga, ecc., moltiplicano per milioni di euro la conoscibilità di Recanati, di Bolgheri e di Aci Trezza. I relatori del convegno si sono messi in moto per divulgare la conoscibilità della Canzone, attraverso l’ipotesi di diversi modi rappresentativi, che ha il baricentro culturale nel giornale in Aspromonte, con l’auspicio di vedere le istituzioni regionali più coerenti con quanto “predicano” ogni giorno sulla necessità di un recupero soggettivo della nostra realtà.
Cinema e cultura
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IL SUD DI DOMENICO TALIA
Il sole e il sangue
«Al sole caldo e ristoratore della nostra bella Calabria si contrappone il sangue, l’assurdo desiderio di autodistruzione che anima quanti inneggiano alla violenza» di VINCENZO STRANIERI*
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l sole e il sangue di Domenico Talia, nella foto a destra (Ed. Ensemble, Roma, 2014), volume composto da 17 brevi racconti per un totale di 153 pagine, è una gradita sorpresa. L’autore, nativo di S.Agata del Bianco, è ordinario di Ingegneria informatica all’Università della Calabria, ha pubblicato nel 2004 una raccolta dedicata al viaggio (Itinerari stranieri). Il bello dei racconti è che puoi cominciare da dove desideri. LEGGO per primo Treno ionico, che inizia con un “Finalmente il treno arrivò. Lui salì”. Credo che il vero filo conduttore del libro di Domenico Talia stia proprio in questa breve locuzione. Quando il protagonista di Treno ionico sale sul treno non ha ancora maturato la consapevolezza che il corso dell’esistenza è un andirivieni tra il prima e il dopo. Tra quelli che siamo stati e quelli che siamo diventati. È forse il più bello, intenso racconto di Talia. Anche perché l’autore si denuda in profondità, non nasconde le sue emozioni, il suo stupore. «Era partito da una stazione che aveva ormai quasi dimenticato, come se avesse fatto parte di un’altra storia, di un’altra vita. Aveva dimenticato il mare, i monti, il treno, quei rumori, quegli odori, quei paesaggi. Aveva dimenticato quel diverso modo di sentire il tempo, quella sensazione di essere parte, noi stessi, di un qualcosa di più grande e di ignoto» (p.32). L’UMANITÁ, infatti, vive di stanzialità, di movimento perenne. È il frutto di questa insita necessità antropologica. Viaggi veri, dettati da motivi diversi,
viaggi mentali che scaturiscono dalla necessità di sfuggire a collocazioni statiche in grado di renderci miopi e ripetitivi. Ma avviene che anche quando pensiamo di essere fermi nel luogo in cui viviamo, continuiamo a muoverci verso qualcosa o qualcuno. In letteratura, la fantasia si chiama creatività, rielaborazione delle speranze vissute, cercate, annotate nel corso di questi viaggi che - è bene dirlo - non sono né semplici né facili. Anzi. Si può rimanere fortemente disorientati, travolti. TALIA apprende che il ritorno è doloroso, ma anche costruttivo, ricco di sollecitazioni positive. In altri racconti (Granelli di sabbia rosso sangue, In tre ore in un altro mondo, a esempio) viene espressa profonda amarezza per la difficile situazione socio-economica vissuta/subita dalla nostra terra (la Calabria), un mondo preda del malaffare politico-mafioso, ed anche di tanta indifferenza. In Due suore e due ragazze viene narrata la storia di quattro donne che intendono migliorare le condizioni sociali di un piccolo paese del Sud. Il loro impegno fa paura a quanti sono impegnati a mantenere lo staus quo. La conseguente reazione è quella di sminuzzare le gomme della vecchia Panda delle suore. Ma il racconto, oltre alla presa d’atto di quanto accaduto, mette in rilievo che laicità e religiosità debbono, lasciando da parte le convinzioni di fondo che pure le animano, allearsi contro il male.
DIRETTORE RESPONSABILE Antonella Italiano antonella@inaspromonte.it
DIRETTORE EDITORIALE Bruno Criaco inaspromonte@gmail.com
EDITORIALISTA Gioacchino Criaco
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Sono questi i racconti in cui maggiormente si rivela l’assunzione di responsabilità etica dell’autore, che non può e non vuole rifugiarsi nel racconto/reportage. IL TESTO, infatti, è collocato su due piani diversi ma non contrapposti: lo sguardo dell’autore su quanto ha davanti agli occhi, le amare riflessioni sul tempo che passa, le cose mutate, il degrado, ma anche la speranza, il profondo desiderio di vivere pienamente. È un linguaggio leggero, volutamente asciutto ed essenziale. Le vicende vengono enunciate con periodi brevi, secchi, e ciò anche quando vengono descritti avvenimenti tragici (omicidi, vessazioni di stampo malavitoso, etc.). I 17 racconti in questione, pur prendendo spunto da vicende vissute o apprese da fonti diverse (orali, soprattutto), hanno il pregio di ampliare lo sguardo anche sulle contraddizioni del cosiddetto mondo globalizzato (Nella campagna assolata). Penso, però, che il meglio l’autore lo dia soprattutto nelle numerose pagine in cui rivela il suo modo di essere, quando getta lo sguardo sulle azioni di uomini e cose che ben conosce, quando ne diviene un credibile portavoce COME DICEVAMO, al sole caldo e ristoratore della nostra bella Calabria si contrappone il sangue, l’assurdo desiderio di autodistruzione che anima quanti inneggiano alla violenza. L’invito di Domenico Talia, fermo quanto accorato, è quello di scegliere la luce del sole al posto dell’orrido sangue. *Cultore di Etnologia all’Unical
Hanno scritto in questo numero Gianni Favasuli, Cosimo Sframeli, Pino Macrì, Vincenzo Stranieri, Giovanni Scarfò, Francesco Violi, Carmine Verduci, Mimmo Catanzariti, Bruno S. Lucisano, Valentino Santagati, Pino Colosimo Per l’Aspromonte orientale Francesco Marrapodi, Domenico Stranieri Per l’Aspromonte greco Salvino Nucera, Federico Curatola Per l’Aspromonte occidentale Giuseppe Gangemi Per lo “Speciale Pasqua” Tiziano Rossi, Filippo Musitano, Pasquale Blefari
o inf Chi è l’autore?
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omenico Talia è nato a Sant’Agata del Bianco nel 1960. Attualmente vive a Rende, in provincia di Cosenza, ed è ordinario di ingegneria informatica all’Università della Calabria. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche, oltre che di alcuni racconti e di una raccolta dedicata al viaggio (Itinerari stranieri, Calabria Letteraria, 2004). Collabora inoltre con vari quotidiani e riviste di una porzione di Italia, a sud, nella punta dello stivale.
Per le biodiversità Leo Criaco, Federico Falsetto, Francesco Tassone, Annarosa Macrì Fotografi Antonio Iulis, Enzo Penna, Leo Moio, Rocco La Cava, Pino Colosimo, Pasquale Criaco, Paolo Scordo, Francesco Depretis, Francesco Criaco, Domenico Stranieri, Pasquale Faenza Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 13/04/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.
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inAspromonte Aprile 2014
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«E perché perdiamo proprio quando abbiamo la convinzione di aver vinto e vinciamo quando siamo certi di aver perso?» Arrivederci Maestro...
Nella foto Platì vista dallo Zomaro (Aspromonte orientale). Foto di Antonio Iulis
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