in Aspromonte

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Direttore Antonella Italiano

L’intervista

L’inchiesta

Giuseppe Bombino, l’atteso Presidente

I prigionieri dell’Anonima sequestri di Cosimo Sframeli

di Bruno Criaco

Presidente, per noi l’Aspromonte non è una montagna, è un mondo. Il nostro. Il solo possibile. Domanda scontata ma obbligatoria: per lei cos’è? Quando l’ha “visto” per la prima volta? In verità è lui che ha “visto” me, la prima volta! L’Aspromonte è come una religione, una speranza non realizzata. Esso non si è svelato ai miei occhi, ma mi ha posseduto; è stato come appartenere alla sua verità. L’ho percorso, da ragazzo, alla ricerca delle visioni di Corrado Alvaro e dei luoghi descritti da Domenico Giampaolo. È stato un percorso mentale, prima che fisico.

Il fuoco, un mostro in agguato

Mi colpì, in particolare, la sua gerarchia geologica e minerale, l’ordine dei suoi lineamenti, il rigore dei suoi sentieri montani; e il peso dei suoi millenni, che è il peso delle preghiere delle genti che l’abitarono, ancora oggi persistenti come uno stimma. Ha già pronta un’agenda di lavoro? Sto lavorando intensamente alla definizione delle linee programmatiche che caratterizzeranno la mia agenda di lavoro e strategica. La complessità e la numerosità delle questioni da affrontare esigono, tuttavia, un

Con l’arrivo dell’estate ogni anno i nostri territori sono percorsi da centinaia di incendi. In Italia tutti gli anni vanno in fumo più di 200 mila ettari di superficie bo-

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approccio integrato e l’adozione di una logica di sistema ai diversi livelli e alle differenti scale di intervento; ritengo sia necessario, dunque, che il tempo operi su di me mostrandomi la giusta prospettiva, mentr’io lavoro alla definizione dei criteri e delle più appropriate metodologie da metter in campo. L’efficacia delle azioni da intraprendere non può prescindere, comunque, da un costante e sistematico confronto con la Direzione e con tutto il personale dell’Ente che supportano sul piano tecnico e operativo gli indirizzi e le linee programmatiche del Presidente.

I sequestri di persona a scopo d’estorsione ebbero inizio, in maniera rilevante, il 2 luglio 1963, con il sequestro dell’imprenditore reggino Ercole Versace. Anni d’indagini, chilometri di battute e di rastrellamenti tra i rovi dei boschi, il paziente lavoro di studi, dalla Costa Jonica (dove la ‘Ndrangheta della Locride riciclava in immobili le ricchezze accumulate coi sequestri di persona) ai Piani dello Zillastro (dove veniva pagato il prezzo del riscatto), erano le tappe del patrimonio informativo e dell’esperienza maturata sul campo. L’Arma conosceva nomi, parentele, legami e gli odi tra le ‘ndrine che dai sequestri ricavavano i capitali necessari per altri affari illeciti e leciti e, tra tutti, il traffico internazionale degli stupefacenti. Non c’era delitto che presentasse una più alta percentuale di allarme come il sequestro di persona. Per contrastare il fenomeno si istituì una speciale Squadra, composta da Magistrati e Carabinieri.

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schiva e non. In Calabria annualmente si contano in media circa 1500 roghi con una superficie distrutta superiore a 10 mila ettari.

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Aspromonte orientale

PLATI’

Vallata del Gallico

La testimonianza

Quei giorni: la “Cartiera” racconta di Maurizio Malaspina Quei giorni resteranno nella nostra mente, nei nostri cuori, saranno noi, hanno intaccato lo spirito, corroso le certezze e alimentato la nostra vita. Che giorni quei giorni, carichi di passione, vivi, unici. Raccontarli forse è ucciderli, privarli della forza, dell’ineguagliabile profumo di libertà che abbiamo respirato per tanti mesi, lungo un torrente, tra la polvere, sotto una capanna di tela blu, col calore del caffè caldo, a dare tepore al fuoco che ci portavamo dentro dalle prime luci dell’alba. Raccontarli è ucciderli, forse, ma è dovuto oltre che bello, perché si sappia ciò che sono stati quei giorni per tanta gente che ha sperato di cambiare le cose cambiando. pag. 8

«Mio nonno, Francesco Perri»

U ‘RRE DA JELATA di Mimmo Catanzariti

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Come ogni sera, da circa tre lune, Kzìropachos, Re dei monti di ghiaccio, inforcò il suo cavallo magico e lo spronò a partire di gran carriera lungo un percorso ormai usuale per il destriero.

Da qualche anno, ormai, decine di giovani universitari ripercorrono i passi dei lori avi. Ed eccoli tra i borghi abbandonati a strappare rovi, o tra i boschi aspromontani a studiare la natura. Sono i ragazzi dell’Associazione Cpc di Reggio Calabria, del professore Gianni Curatola: i nuovi custodi di un patrimonio che rischiava di perdersi. Dimenticato negli anni.

Partivano dai Piani di Alati, sopra l'Aria del Vento, costeggiando 'U passu da 'rrina e scendendo nella vallata intervallata dai morbidi rilievi tra i paesi di Platì e di Ciminà, nel versante orientale dell’Aspromonte. Vallata protetta dagli impervi costoni rocciosi che si alzano quasi verticalmente dai 300 metri della pianura sino ai 1.000 metri dell'altipiano. Le "Rocche degli Smaliditti", le "Rocche dell’Agonia", monte Colacjuri, monte Pinticudi fino al monte Tre Pizzi, dove si fermava ad ammirare la costa che spaziava da Punta Stilo fino a Capo Spartivento, ammaliato dalle bellezze della natura nel suo impeto di rinascita primaverile. Subito ripartiva dirigendosi verso San Nicola di Ardore, dove nascosta tra un boschetto di faggi e lecci, c'era una capanna.

Arte & Cultura

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Esclusiva

inAspromonte Agosto 2013

LA GIARA DEI MISTERI

Ennesima scoperta archeologica in Aspromonte, e ancora palmenti, fornaci, mura fortificate, monete d’oro nascoste negli alberi cavi. Archeologi di ogni nazionalità hanno indagato, scavato, trovato. Poi il silenzio. La montagna, ora, sputa fuori le sue verità

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on riesce proprio a star zitta la nostra montagna maledetta. Ora, dalla terra, rigurgita giare che sembrano antiche quanto gli insediamenti greco-romani sulle coste ai suoi piedi. No, non fac-

ciamo allusioni, ché poi tutti stanno lì a puntare il dito, accusandoci di montar casi. La differenza stavolta è che ci ha “abboccato” per prima la Soprintendenza. Difatti, appena ricevuta la notizia, è corsa tra i

boschi aspromontani per indagare di persona sulla scoperta. Avrà certo avuto le sue buone ragioni, crediamo. Che forse stanno nei misteriosi ritrovamenti che hanno spesso interessato le aree adiacenti al punto in

cui stava la giara. Avreste dovuto vederla. Era lì, la scorsa notte, e si è mostrata. Mal nascosta dalla terra, con la sua terracotta rossa, il suo diametro di quasi un metro, la sua altezza importante, ingorda di una mi-

steriosa sabbia nascosta all’interno. Si presume dovuta al deterioramento del materiale contenuto in origine. Un processo per cui saranno occorsi centinaia di anni. L’hanno detto loro, non noi.

Una storia nascosta tra i boschi di Africo

13 luglio 2013, la giara viene ritrovata in un bosco adiacente Africo Antica da Francesco Gagliardi, che subito denuncia il fatto alla Soprintendenza ai Beni Culturali della Calabria.

L’editoriale ASPROMONTE, UN VUOTO RICCO DI CONTENUTI

di Gioacchino Criaco

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l titolo è un ossimoro, ma la fortuna del massiccio calabrese è che nessuno, nei decenni trascorsi, l’abbia preso in “cura” per farne un luogo di sviluppo economico. Sarebbe accaduto ciò che è toccato alle coste calabresi, un disastro. Grazie all’assenza di progetti di progresso, esso non ha arricchito la collettività ma si è mantenuto sostanzialmente integro. Un gigante verde, ricco di bellezze naturalistiche e culturali, un posto mistico e mitologico nel cuore del continente più sviluppato sul pianeta. La disattenzione della politica e dell’economia ne ha fatto la sua fortuna, e la nostra. Tranne un paio di ferite, l’uomo non è riuscito a fare danni irreparabili all’Aspromonte. E’ adesso qui, con un carico di doni potenzialmente in grado di migliorarci la vita. Ora che c’è una nuova consapevolezza sul-

21 luglio 2013, il nostro sito diffonde la notizia sul web. La curiosità è tanta. Saranno confermate le ipotesi di Z. Bianco, che voleva un insediamento magno-greco in Aspromonte? l’ambiente e l’utilizzo intelligente delle sue risorse e i danni possono essere prodotti solo dalle scelte ciniche ed egoistiche dell’uomo e non anche dalla sua stupidità. Una fiera imprendibile o una facile preda, il suo ruolo dipende da noi. Per il suo scempio non potranno esserci alibi, ma c’è la possibilità di attribuire meriti a chi secondo il proprio ruolo saprà adottare scelte opportune. Acqua, legno, energia, turismo, agricoltura biologica. Tante le opportunità da cogliere, se si mette in campo un progetto a lungo termine che riempia le caselle di una scacchiera completamente vuota. Se le decisioni da prendere saranno frutto di una discussione larga fra soggetti istituzionalmente preposti e territorio. Regione, Parco, Provincia, Comuni e il territorio, la gente dei monti. Partendo da un ripopolamento possibile e compatibile si potrà ridare vita a ciò che per millenni è stato il cuore del Reggino. Il recupero dei borghi abbandonati, la manutenzione delle strade e dei fiumi. C’è l’imbarazzo della scelta se la volontà sarà animata dalle buone intenzioni. Un buon segnale, in questo senso, si è avuto dalla nomina del presidente del Parco, senza direzione da oltre un anno, che ferme le obiezioni da noi più volte espresse sul metodo, ha portato alla sede di Gambarie un uomo della montagna. Un segno fortunato quando le alchimie della politica

22 luglio 2013, la dirigente della Soprintendenza, Rossella Agostino, si reca sul luogo del ritrovamento. Preleva alcuni campioni di giara e lascia ben sperare sulla sua autenticità. portano per strade tortuose a una persona competente, con le qualità indispensabili per fare bene. Un buon inizio, dal quale ci si attende tanto, in idee e anche in investimenti sul territorio. E una delle nostre ultime speranze per crearci una chance in casa nostra. Una scommessa da fare, quando non abbiamo più tante occasioni da perdere. E un sogno che è sopravvissuto ai secoli, grazie a tante generazioni che lo hanno difeso nel passato. Il ponte che ci può aprire un passaggio nel futuro, se la strada da percorrere sarà un sentiero comune ai tanti soggetti con poteri decisionali. Occorrono scelte condivise che pongano la tutela della montagna al servizio del comprensorio, partendo dalla lotta agli incendi, a un rimboschimento razionale. Accordandosi tra enti per utilizzare le risorse di ognuno nella direzione giusta. I rifugi forestali da trasformare in strutture ricettive, i dipendenti ex Afor da valorizzare impiegandoli in attività produttive oltre che conservative. Elencare le opportunità dell’Aspromonte è un esercizio lungo, vuoto se non sostenuto da una reale volontà di cambiamento. Perché il problema, finora, non è stato la penuria di idee ma la pochezza di alcuni che ha impedito agli altri di operare. Coraggio serve, pazienza e obiettivi da raggiungere. In potenza c’è tutto, ora bisogna cedere il passo ai fatti.


L’intervista

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Parco Nazionale d’Aspromonte, finalmente un po’ di ordine

Giuseppe Bombino, l’atteso Presidente segue dalla prima

di Bruno Criaco

L’Ente che mi onoro di presiedere si avvale di professionalità con elevata qualificazione, motivate dall’appartenenza ad un progetto comune che risponde ai più alti interessi di un vasto territorio. Con loro mi confronto quotidianamente e, sin dal mio insediamento, abbiamo intrapreso un lavoro che ci vede tutti attenti al raggiungimento degli obiettivi di tutela e di valorizzazione delle risorse dell’area protetta. Più in particolare, le priorità che ho stabilito sono da ricondursi al “restauro” del significato della “dimensione montagna”, quale ambito privilegiato da cui avviare un processo di sviluppo del nostro territorio. Tale consapevolezza è il segno tangibile del superamento di un’ottica che individua nella montagna il luogo dei problemi da risolvere e conduce, in una rinnovata visione, ad una identificazione del territorio montano quale fattore positivo di crescita per l’intera Regione. Emerge oramai chiaramente come il regime di protezione che “regola e salvaguardia” rilevanti porzioni del nostro territorio montano si ponga come elemento coordinatore e propulsore delle nuove politiche socio-economiche, svolgendo un ruolo attivo nei confronti delle aree con cui questo istituto interagisce. È necessario, tuttavia, ridurre le “dicotomie” con ciò che Parco non è, e privilegiare la “contiguità territoriale” per mettere in rete l’area protetta con quei territori che hanno altri valori e intelligenze. Mi riferisco, ad esempio, alla contiguità tra la montagna e la costa e alle potenzialità, ancora non del tutto esplorate, di una offerta naturalistica e culturale in grado di mettere a sistema l’esclusiva incombenza della montagna al mare. Ci sarà continuità con i suoi predecessori o si muoverà su altre linee? Possiamo conoscerne le direttive? Reputo che la continuità sia un valore aggiunto qualora essa implichi la valorizzazione e la riproposizione delle migliori esperienze. Il problema non è ricondurre l’opera al nome del suo autore; l’Aspromonte non è in cerca di autore; esso, semmai, chiede di conoscere qual è l’opportunità e l’opera che la può contenere. Le direttive, che apprenderà durante i lavori di una Conferenza Stampa che è in programma, sono tutte racchiuse nel disegno di un progetto elementare, entro cui è inscritto un Aspromonte “delimitato” dai suoi confini fi-

sici e amministrativi, sede di interventi e progettualità, e un altro Aspromonte, invece, che non ha confini; quest’ultimo, liquido e aereo insieme, terrestre e parallelo, è il luogo delle idee e delle intese più alte; è il luogo della contiguità culturale, dell’abbattimento delle contrapposizioni, dei localismi; è il luogo del dialogo in cui avviare i processi di sviluppo e in cui collegare e mettere a sistema soggetti e gestori del territorio, enti ed amministrazioni pubbliche. È questo che manca nel nostro Aspromonte. Ciò che mi interessa, in questa fase, non sono tanto le scelte connesse con la tutela e la salvaguardia delle risorse naturali e ambientali, quanto, invece, l’esigenza di creare una infrastruttura culturale da sovrapporre a quella fisica e naturalistica: da ciò discenderà la capacità di tradurre sulla trama fisica del territorio le opportunità e le iniziative di sviluppo socio-economico. Per molti il Parco è una scatola vuota. O meglio, in cambio dei rigidi vincoli che impone, non offre nulla di concretamente utile alle popolazioni del suo comprensorio. E spesso sono proprio i divieti che dovrebbero proteggerlo a metterlo in pericolo. Le facciamo degli esempi. Incendi: oggi è vietato curare il patrimonio boschivo (diradamenti, spalcature, sfoltimenti, fasce tagliafuoco ecc.) come per secoli hanno fatto i nostri antenati, di conseguenza questo si sviluppa in modo incontrollato, causando in caso d’incendio (e ciò succede ogni anno) danni inestimabili. Frane: oggi è vietato fornire ai numerosi muri a secco una adeguata manutenzione, esponendo il territorio a terribili frane. A questo si aggiunge l’abbandono degli antichi sentieri, ormai impercorribili perché coperti di rovi e instabili. Non sarebbe il caso di rivedere alcune restrizioni? Per troppo tempo, anche per effetto di certe “derive” culturali ambientaliste, le politiche di tutela dell’ambiente sono state orientate esclusivamente alla conservazione delle risorse, degli habitat e degli ecosistemi naturali, ed hanno pregiudizialmente considerato l’uomo e le sue attività incompatibili con il regime e le misure di conservazione. Mentre l’adozione di tale approccio potrebbe avere una ragione, come del resto ce l’ha, in alcune particolari realtà del nostro pianeta, risulta invece

RITRATTI Leo Autelitano

l’ex

non adatto nel caso del Parco Nazionale d’Aspromonte. La nostra area protetta, come a tutti noto, è un complesso sistema ambientale ed ecologico nel quale, accanto alle specificità naturalistiche, l’uomo ha da sempre avuto un ruolo di primaria importanza. In Aspromonte la rottura del legame “uomo-bosco” ha origini lontane e sarebbe troppo impegnativo, in questa sede, delinearne in modo esaustivo le cause socio-economiche e culturali, ciò che è interessante, tuttavia, a distanza di molti decenni dall’abbandono della selvicoltura, è valutare gli effetti negativi di questo fenomeno in termini sia di riduzione della stabilità ecologica e funzionale dei complessi forestali, sia di rischio di incendi boschivi, la cui intensità aumenta nei soprassuoli non curati. E il legame tra incendi boschivi e dissesto idrogeologico - a parità di altri fattori energetici predisponenti tipici del nostro contesto ambientale, quali l’intensità della precipitazione e le caratteristiche geolitologiche e morfologiche della nostra regione - è estremamente forte. La presenza dell’uomo nell’ambiente rurale ha costituito per la Calabria e l’Aspromonte il principale presidio per la tutela e la conservazione del suolo: lo dimostra la storia e lo attesta la comunità scientifica. È proprio per questo motivo che le direttive e gli indirizzi della Comunità Europea, recepiti a livello regionale, incentivano e promuovono azioni e interventi finalizzati al contrasto dello spopolamento dei territori montani e rurali e al sostegno delle politiche della montagna, tra cui la selvicoltura, l’agricoltura e la zootec-

nia. Si tratta di cogliere e valorizzare queste opportunità, sviluppare le giuste progettualità modulandole e validandole in relazione alle nostre specifiche condizioni socio-economiche e territoriali. Stiamo lavorando in questa direzione: il mio impegno, in particolare, è quello di portare “l’uomo” al centro delle scelte e di far rinascere presso la comunità del Parco il sentimento dell’appartenenza ad una visione comune in cui l’uomo diviene elemento tra gli elementi in una rinnovata alleanza. I Parchi Nazionali sono esempi di sviluppo economico e culturale. Il nostro Parco non ha niente da invidiare agli altri, ma non è ancora una reale risorsa per i calabresi. Eppure l’Aspromonte fu, nei secoli passati, una fonte di ricchezza contesa da diverse popolazioni del mondo. Con la sua nomina, Presidente, la nostra montagna tornerà una fonte di opportunità per i suoi figli? La prima frase che ho pronunciato di fronte ai Sindaci dei comuni del Parco è stata: “Aiutatemi a non tradire questa terra”. Poiché sono consapevole che da solo non potrò modificare il corso delle cose. Lei ha ragione, Bruno! Il Parco non ha ancora garantito una vera opportunità per la nostra comunità. Mi aiuti anche lei a formare, dapprima, l’idea di un “Parco culturale” in cui riconoscerci e dirci quale è la nostra identità. Ciò che manca è il disegno identitario, il concetto; insomma dobbiamo ridefinire un luogo che sia prima ideale e poi fisico, entro cui immaginare le opportunità nostre e dei nostri figli.

Un uomo della montagna, di Bova, Aspromonte Grecanico. È stato in carica fino a giugno dell’anno scorso ed ha lottato con tutte le sue forze per incanalare la politica del parco nella giusta direzione. Non sempre è stato sostenuto come meritava e quindi non è riuscito a veder realizzate le sue aspettative.

Sergio Laganà

lo straniero L’avvocato di Locri fu nominato dal governo Monti, ormai in zona Cesarini, ma non ebbe il consenso degli aspromontani che gli imputavano di avere più amore per la politica che per la montagna. La sua nomina fu quindi revocata e la sedia della presidenza del Parco rimase inopportunamente vacante per alcuni mesi.

Antonio Alvaro

il supplente Nominato nel novembre 2012 (è rimasto in carica fino a giugno 2013), pure lui dall’allora ministro Clini, ha commissariato il Parco per pochi mesi. Professionista stimato, conoscitore dell’Aspromonte, perchè vi è nato, si è limitato a fare da traghettatore. Sono poche le decisioni che ha avuto il tempo di sottoscrivere.


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Aspromonte orientale

inAspromonte

PLATì

Agosto 2013

segue dalla prima

U ‘RRE DA JELATA

di Mimmo Catanzariti Questa, nel periodo estivo, dava riparo ai carbonai per la notte. Ad attenderlo c'era Noelia, una bellissima ragazza del posto di cui si era perdutamente innamorato. Una notte, nel suo girovagare continuo, l'aveva

incontrata piangente, sola e disperata dato che si era persa attardandosi a cercare delle capre che si erano spinte più lontane dalla solita 'rringata. L'aveva confortata e riaccompagnata fino alle prime case del paese, trasportandola sul suo cavallo di ghiaccio, facendosi promettere di farsi trovare ogni tanto

Casignana. La Villa Romana, un’Urbe in Contrada Palazzi

I predatori della città perduta

Tesori nascosti nel mare dinnanzi, ricchi palazzi sommersi, meraviglie sottratte alla Locride nel corso degli anni di Domenico Stranieri

Quasi quotidianamente ci sono visitatori alla Villa Romana di Palazzi di Casignana, che sorge sul mar Ionio calabrese, davanti la parte orientale del Mediterraneo. Non considerando i turisti dell’Urbe, nel periodo romano proprio il mondo ellenicoorientale era la meta preferita dei viaggiatori. E come sbarazzini escursionisti di oggi, anche i giovani romani “in gita” lasciavano le loro scritte nelle vicinanze dei monumenti. Alberto Angela, ad esempio, nel suo libro Impero (Mondadori, 2010) ci racconta che la tomba di Ramesse VI ha 1759 graffiti tra firme, date, battute e frasi (tra le quali un modernissimo “ma la mamma lo sa che sei qui?”). Insomma erano grafomani questi romani. Eppure nella Villa di Casignana non è stata rinvenuta nemmeno una scritta e non si conosce, pertanto, il nome di nessun proprietario. Sono rimasti dei mosaici raffinati ed affascinanti sia nella zona termale che in quella residenziale, resti di colonne, delle impronte di bambini e di animali in qualche mattone lasciato ad essiccare al sole ma nessuna scritta. Sono tanti, dunque, gli interrogativi ed i misteri di questo sito, che raggiunse il suo massimo splendore tra il III ed il IV secolo d.C.. Da sempre la località dove sorge l’area archeologica è denominato Palazzi. Certamente un nome legato alla presenza grandiosa delle costruzioni greco-romane di quest’area, tra

le quali la Villa. Secondo l’archeologo Emilio Barillaro «a un personale “Casinius”, o a una gentilizia “gens Casinia” o “Casiniana” fa capo la voce toponomastica “Casiniana” (villa o fattoria di un Casinius), e quindi l’odierna Casignana. “La Casiniana”: ecco, dunque, il nome battesimale del complesso di palazzi casignanesi e dell’annessa azienda agraria dei tempi romani». Ma aldilà delle ipotesi toponomastiche, non è difficile capire che quasi tutti gli splendidi monumenti della Villa, nel tempo, sono stati depredati. In un articolo apparso sulla Gazzetta del Sud nel 2008, ad esempio, Giuseppe Italiano sostiene che tutto converge a far pensare che il luogo del ritrovamento della “sfinge egiziana, che si trova oggi ad Anacapri (isola di Capri), tana per ben 56 anni di Axel Munthe (18571949), straordinario medico svedese, nonché scrittore e filantropo” sia la Villa Romana di Casignana. Nel suo libro La Storia di San Michele, difatti, parlando del suo viaggio in Calabria (1908), Munthe, come ci ricorda Italiano, scrive: «conoscevo anche il suo meraviglioso interno, un tempo la Magna Grecia dell’età d’oro dell’arte e della cultura ellenica, ora la più desolata provincia d’Italia, abbandonata dall’uomo alla malaria e al terremoto. Chi diresse il battello verso questa nascosta e solitaria insenatura? Chi mi condusse alle ignote rovine di una villa romana? Non fatemi domande. Interrogate la grande sfinge di granito, che sta accovacciata sul parapetto della cappella di San Michele. Ma domanderete invano. La sfinge ha mantenuto il suo segreto per cinquemila anni. La sfinge manterrà il mio». Ma ancor prima, esattamente nel 1987, alcuni giornalisti tra cui Antonio Delfino su La Gazzetta del Sud, Aldo Varano su l’Unità e Giuseppe Zaccaria su la Stampa mettevano in

guardia le autorità calabresi contro “i predatori del cavallo alato”. Cosa era successo? Scrive Antonio Delfino il 10 aprile 1987: «Il 4 settembre 1974 Giovanni Carlino (20 anni) andò nel tratto di mare di Contrada Palazzi di Casignana con un amico a praticare la pesca subacquea; dopo la prima immersione uscì sconvolto dicendo all’amico: “ho visto interi palazzi sommersi e delle cose meravigliose”». Giovanni Carlino rivela, precisamente, di aver riconosciuto un cavallo alato insabbiato nel fondale marino e, nonostante accusasse un leggero malore, si immerse di nuovo. Colpito da embolia e trasportato prima a Locri e poi a Taranto muore 5 giorni dopo. Nel 1987 la Procura di Reggio Calabria, ed in particolare il sostituto procuratore Fulvio Rizzo, tornarono ad interessarsi del tratto di mare che va dai resti di epoca imperiale di Casignana alla foce della fiumara Bonamico. “Qualcuno ha fatto sapere che lì, alla foce del torrente, da tempo c’era chi saccheggiava un patrimonio enorme” scrive Giuseppe Zaccaria su La Stampa del 2 aprile del 1987. Già Paolo Orsi, l’archeologo che scoprì Locri Antica, appuntava nel 1909 che gli era stato riferito dell’esistenza del porto di Locri in contrada Palazzi, verosimilmente in prossimità del fiume Bonamico. Ma come aveva pronosticato Aldo Varano su l’Unità dell’1 aprile 1987 la sovrintendenza lavora solo per qualche settimana, senza coordinate precise e fin quando durano i finanziamenti a disposizione, “tutto il resto è in mano agli abusivi, compresi quelli stranieri”. Un ordine della Procura di Reggio, difatti, dopo poco tempo bloccò il lavoro dei sommozzatori, anche se furono individuati tratti di muri che proseguivano in mare continuando il percorso di quelli della Villa. Il Sostituto Procuratore Rizzo dichiarò di

Resti della Villa Romana di Casignana (RC) Foto di Domenico Stranieri essere certo che nella zona ci fossero inestimabili tesori archeologici e si dimostrò sicuro anche dell’esistenza di complesse strutture sommerse. Non per niente, dal maggiore inglese Raf (subito dopo la seconda guerra mondiale) ai numerosi studiosi tedeschi sono state diverse le immersioni e gli scavi nella zona di Casignana (basti pensare che ci sono almeno 2 necropoli). Scrive sempre Delfino: “Negli ultimi anni pescherecci siciliani hanno rastrellato la zona mentre un vasto commercio d’anfore si svolgeva liberamente senza l’intervento di alcuno. Una preziosa statuetta bronzea, anni fa, fu venduta per poche migliaia di lire”. Dopo questa parentesi e grazie al serio lavoro dell’Amministra-

zione Comunale di Casignana, col tempo l’attenzione si spostò sul recupero dei mosaici (il nucleo più vasto ed importante di epoca romana in Calabria) mentre le piene invernali del Bonamico e gli sconvolgimenti tettonici mutavano l’aspetto del fondo marino. Forse è vero, come scrisse in una prefazione del suo libro Axel Munthe nel 1931, che “oggi nessuna sfinge di granito si accovaccia sotto le rovine di una villa di Nerone in Calabria”, eppure nulla hanno potuto i predatori, nel tempo, contro la suprema legge della storia: per quanto si è potuto saccheggiare la Villa è rimasta ugualmente maestosa. I Romani, difatti, costruivano per l’eternità.


Aspromonte orientale per parlare e alleviare così la sua solitudine, come ringraziamento per averla salvata. Gli appuntamenti notturni erano sfociati in un sentimento condiviso da entrambi, che ormai non potevano più fare a meno l'uno dell'altra. Unica limitazione era che purtroppo dovevano vedersi solamente dopo il calare

del sole, la loro vita amorosa dunque, iniziava col tramonto del sole e terminava prima che sorgesse un nuovo giorno, dato che Kzìropachos era una creatura del gelo. Ma non tutte le favole hanno sempre un lieto fine, una notte infatti, preda dell’ardore amoroso, dimenticò lo scorrere del tempo. Soltanto

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quando vide che era vicina l’aurora si affrettò a ritirarsi nella sua casa di ghiaccio, ma il sole non gli diede scampo e lo inchiodò sotto Santa Varvàra. Il cavallo e il regale cavaliere si sciolsero e divennero una fontana di acqua freschissima che d'estate ristora chiunque passi da quelle parti.

Gerace. Sanità ad intermittenza

L’ospedale che fu Una struttura prestigiosa, rinomata, ma “momentaneamente” trasferita a Locri per lavori di ristrutturazione. Era il 1993, oggi giace dimenticata sotto l’alito degli Sparvieri di Salvatore Galluzzo (ex-sindaco del Comune di Gerace) La città di Gerace per oltre un ventennio (dal 1970 all’ottobre del 1993) è stata sede di Ospedale Geriatrico, per lungodegenza e riabilitazione. Era ospitato in locali di proprietà comunale (Palazzo Sant’Anna, un ex Monastero). I livelli d’assistenza erano altissimi tanto che serviva un bacino d’utenza che comprendeva pazienti provenienti da tutta la Calabria ed anche da altre regioni vicine. La presenza del nosocomio ha fatto sì che Gerace divenisse pure sede di importantissimi convegni medico-scientifici specialistici con la presenza di illustri relatori tra i quali i “padri” della Geriatria italiana. Anche le più importanti riviste scientifiche nazionali ed internazionali pubblicavano gli atti dei convegni geracesi. Con Decreto Regionale, prima dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e, quindi, delle Asl, l’Ospedale di Gerace venne riconosciuto come Ente Ospedaliero Autonomo tanto che per alcuni anni fu governato da un proprio Consiglio d’Amministrazione. Essendo necessari ed inderogabili alcuni lavori di ristrutturazione e di adeguamento, da Palazzo Sant’Anna, l’Ospedale venne “momentaneamente” trasferito, nel 1993, in un’ala del vicino nosocomio di Locri, in attesa che venissero completati i lavori di costruzione del nuovo Ospedale in “Largo Piana”. Oggi, malgrado la nuova struttura sia stata completata, l’immobile ubicato in “Largo Piana”, costato circa 10 miliardi delle vecchie lire, completato (collaudo compreso) nel 1996 non è mai entrata in funzione benché siano ad oggi trascorsi 14 anni e vi siano state tante ipotesi e promesse per il suo utilizzo. La Guardia di Finanza, su incarico della Corte dei Conti, ha accertato un danno erariale di circa 7 milioni di euro (dovuto proprio al mancato utilizzo) Nel 1996 si è concluso il collaudo alle strutture ed agli impianti. Il Comune di Gerace, subito dopo il trasferimento della proprietà dell’immobile dall’Ente all’Azienda Sanitaria, avviò vere e proprie trattative con i vari Direttori Generali per l’apertura del nosocomio; ma tutto è rimasto lettera morta. Da un promemoria stilato presumibilmente dall’Ufficio Tecnico dell’Azienda Sanitaria risulta “per quanto riguarda i letti di degenza, comodini, etc., che quasi tutti i materiali, acquistati con fondi ex Casmez destinati all’Ospedale di Gerace e custoditi nei magazzini dell’Economato sono stati, nel corso degli anni, consegnati ad Unità Operative Ospedaliere e Territoriali, per soddisfarne le esigenze”. Negli anni dal 1996 al 2009, su impulso dell’Amministrazione comunale, furono contattati vari Enti ed Istituti Privati Ospedalieri al fine di trovare un partner privato per la creazione di una società mista pubblico – privata per la gestione del presidio Ospedaliero: dal “Gruppo Tosi” di Torino al “Gaslini” di Genova, da Cooperative di Catania e di Palermo, al “Santa Lucia” di Bari, al “Gemelli” di Roma, al Policlinico di Monza, Al San Raffaele di Milano etc., senza, però, il benché minimo riscontro dalla Regione Calabria che non mostrò alcun interesse alla realizzazione della società. Negli ultimi anni, il Presidio Ospedaliero di Gerace è diventato una sorta di strumento nelle mani di speculatori politici che additavano l’immobile come simbolo dell’inettitudine umana e sciorinando soluzioni per l’attivazione senza dare importanza al rilevante investimento finanziario iniziale per l’adeguamento dello stesso immobile per la sua completa funzionalità [...]. Dopo varie iniziative, tra le quali un Consiglio comunale aperto ed alcuni incontri istituzionali presso la sede della Giunta Regionale, l’Asl 9 decise di pubblicare un bando per raccogliere manifestazioni d’interesse (società, privati, Enti, etc.) per l’utilizzo dell’immobile. Poi le Asl furono accorpate, il resto è storia di oggi.

Il racconto

Ventu i Sciroccu di Totò Bufalino

F

urtunatu Leolà è unu di giovanotti chiù puliti i Paisi, nu munzu i casi mbrusciuniati comu e ntrami i nu voi e pedi i l’Asprumunti. U vonnu beni tutti, patrisa, bonanima, era Ginu ‘u gnuri, na persuneglia a modu. Ndavia terri e livari a perdiri, chi facenu ogghjiu giallu comu all’oru, prufumatu i tutti l’adduri chi scindenu dill’Asprumunti a cavallu du ventu i ponenti. Nta chiazza i Paisi, guardandu verzu Montaltu si vidia na lenza i vigni chi rigava a terra janca i jiocana, era chiamata Leccini. Glià , tempu arretu, a tavula du pettu i Ginu u ‘gnuri fu aperta i na rosa i chiumbu. U poverettu dassau ddu ‘nnocenti, Furtunatu e sorisa Agata. Furtunatu aspetta a so venditta, puru se tuttu si ndavia quetatu pe opera i Don Fefè, capu locali i Paisi, omu canusciutu nta zona, sopratuttu di tambutari e di mpossa morti. Ora Furtunatu era rrocculatu vasciu a na ficara, cercandu ricriu e rifriscu du cardu i Giugnettu. Na barritta si cadia supa a facci e si mucciava l’occhji. Dassava sulu largu pa nu paru i mustazzi nigri, pari pari, chi parivanu fatti i sita comu a coppola, paria ca eranu tutt’unu cu chista. Furtunatu era sciancatu, strasciniava l’anca destra. Era nu ricordu i guerra. Quando si ciuncau era u vinti Settembri du quarantacincu, u mundu ndavia nesciutu da guerra, si stava sperdendu i doluri, i morti e i bumbi. Igliu inveci fu fattu prigioneru, assemi a nu paesanu soi Peppi Stanelli. Nu iornu, duranti a prigiunia, i du cumpagni stavanu scavandu na trincera, sutta o sguardu malignu i nu mitraglieri tedescu. U sordatu ndavia a pelli janca comu o latti, a facci era delicata ca paria nu Cupidu, cu du russetti supa e ganghi chi parenu du puma e nu paru d’occhi azzurri, spaventosi pa quant’eranu chiari. Se non era pa chiglia divisa e pa chigliu mitra, paria n’angieluzzu. Fumava u sordatu, mentri tutti chigli omini comu nimali, lordi e fetusi, scavanu a trincera. Mancavanu na triina i tirati,quando jietta a sicaretta, chi, glià nterra, fumiava ancora menza. L’amicu i Furtunatu, Peppi Stanelli, grande fumatore, chi non vidia na sicaretta i tri misi, quando vitti gliù muzzuni ancora fumiari, comu na fuina, chi si ietta supa a na gaglina e

si suca u sangu, igliu si iettau supa o muzzuni i si faci l’urtima sucata. Glià sicaretta fu l’urtima cosa chi vitti Peppi. A mitragliatrici ncuminciau i vommica raffichi i chiumbu supa a gliù poveru sbenturatu, senza pietà, senz’ordini comu u cucugliu chi cadi e a cu pigghjia pigghjia. Peppi cu l’occhji i fora cadi nterra a mussa avanti. Non dissi mancu Cristu iutami. Furtunatu ntassau, guardau o tedescu e si ccorgiu ca a facci i Cupidu si trasformau nta na maschera d’odiu. U sordatu si mbicina glià Peppi Stanelli,ormai mortu, caccia fora a pistola e si spara na botta nta nuci du cogliu. Apoi si gira verzu Furtunatu e senza se e senza ma, senza nuglia spiegazioni, u spara nta ll’anca, modacchè i si ricorda chigliu chi vitti. Ma non finisci cusì. U sordatu cumincià i si mbicina a Leolà, chi era nterra pe doluri da gamba sparata. U tedescu si pigghjia i capigli e si arza a testa. Ora sunnu frunti cu frunti. Furtunatu prega nta menti a ‘Mmeculata, mentri guarda u sordatu nta chigli occhji chi ora sunnu mbilati i magnità e parunu chiù grigi ca azzurri. Poti sentiri ca tutta a cattiveria i chigliu militi ,si trasi nto corpu soi attraversu chigliu sorrisu malignu chi si tagglhjia a facci i na ganga all’attra. U tedescu pojia a pistola sutta o gangalaru i Furtunatu chi senti nu brividu i friddu partiri i chigliu morzu i pelli da facci aundi poia u ferru. U sorrisu malignu si cuntorci. A lingua cumincia i serpentia ‘nta vucca pronta i accorda u flussu d’aria chi staci pe diventari parola. U iditu è supa o grillettu. Furtunatu teni u respiru chi si pari l’urtimu da vita sua, “addiu mamma”, pensa,”addiu soru”. BUM BUM Pe fortuna non parla a vucca i ferru da pistola, ma chiglia i carni du sordatu. Libera i capigli i Furtunatu e u ietta nterra. Esti vivu, ciangi du periculu passatu, e si piscia i supa quando l’adrenalina si scarrica tutta a na botta. Ma era sarvu. Ormai chisti eranu vecchji ricordi. U tempu, galant’omu, ndavia sciucatu a ferita du mitra,ma no chigli i l’orgogliu, du sentimentu,dill’anima, chi era ferita pa quantu mali vitti chiglia vota. Ora, sutta a ficara, nu ventu umidu sciroccu si sciuca chiglia lagrima chi fujiu i l’occhji, si chiamava Peppi Stanelli.


6 L’EVENTO

Aspromonte grecanico

inAspromonte Agosto 2013

PALEARIZA 2013

Torna anche quest’anno il “Paleariza”, il festival della provincia di Reggio Calabria, che da anni va avanti tra musica e tradizioni. Le mete della 26esima edizione sono quelle di sempre: Bova, Bova Marina, Condofuri, Melito Porto Salvo, Palizzi, Roghudi, San Lorenzo e Staiti.

Sotto la direzione artistica di Ettore Castagna, dal 2 al 24 agosto, l’Area grecanica si anima per accogliere l’evento. Ecco le date: 2 agosto a Pentedattilo con Margarida Guerreiro; 3 agosto a Bova con Saba Anglana, The Lapa Concert, Sonate a ballu; 4 agosto a Galliciano’

Roghudi Antica e i racconti degli ‘ntichi

Lu Previti e lu Dracu Una delle numerose leggende aspromontane, tradotta dal grecanico in dialetto calabrese dal professore Salvino Nucera (aprile 1977) di Sebastiano Modafferi Campava nta nu pajisi nu previti chi ciriveddhu a la testa non aviva pocu. Nta ddhu stessu pajisi stava puru nu Dracu cu so mugghieri, Lamia. Chistu ndaviva li megghiu terreni, mandri a volontà e nimali scerti chi non aviva atri nta li paraggi (vicinanzi). Ogni mmatina u previti si moviva pe la muntagna jendu nta lu jàtsu (mandra) di lu Dracu. Nci dissi a li pecurari chi lu mandava lu Dracu. Così chiddhi nci davanu rricotta cadda cu seru e pani duru (friscia o biscottu), e curcudìa (polenta). Ogni vvota si arzava di ddha nterra cu la panza china comu l'ovu e ogni vvota si levava puru nu casu friscu chi ddiciva nci l'aviva a llevari a li poveri affamati di lu pajisi. Na matina lu Dracu, chi ndavia finutu casu e ricotti, vorsi mi va iddhu di persuna nta la mandra. Si ccorgiu ca li pecurari ndavivanu cogghiutu pocu casu e pochi rricotti: «Com'è ca chistu misi facistevu tantu pocu formaggiu?». Li pecurari si guardavanu l'unu cu ll'atru e non sapivanu chi mmi nci rrispundinu, fina chi unu cchiù coraggiusu di ll'atri nci dissi: «Mungimu ancora e pigghiamu puru tantu latti ma lu previti chi mandastevu vui si mangia tutta la rricotta e si leva tuttu lu formaggiu» «Quali previti? Eu non mandai nessunu previti!» «Lu previti di lu vostru pajisi, torna ogni mmatina» «Lu previti! Chi ura veni la matina?» «Rriva versu li sei e menza e vinni puru stamatina» «Quandu torna datinci sempri chiddhu chi vvi cerca; domani matinu tornu di novu eu mi parru cu iddhu». Lu previti chi era vidutu lu Dracu chi rrivava, si era mmucciatu arretu a nu chalipò (rruvettu) e così sentiu tutti li discursi. L'appressu matina si arzau ancora cchiù prestu pe mi va a lu jàtsu di lu Dracu a la muntagna. La rricotta ancora non era pronta e non nc’era mancu curcudìa (polenta). Li pecurari nci desseru mi mangia nu crici (muzzarella) e poca pasta di formaggiu cadda; si pigghiau nu casu e li salutau. Non era rrivatu assai luntanu di la mandra quandu smirciau (vitti) lu Dracu chi jiva pe lu jàtsu. Comu lu vitti si misi mi curri. Lu Dracu puru l'era smirciatu e nci misi pedi darretu. Lu previti non potiva curreri bbonu cu lu so vestitu e cu la pezzotta di casu chi ndaviva nta li mani ma cercava mi curri cchiù assai, cchiù veloci, ma si mbrogghiau cu na petra e catti ddhà nterra cu li mani e cu li ginocchia. Tandu dissi a iddhu stessu: «Ora sugnu perdutu. Chistu mi mmazza e mi mangia comu mi cchiappa!». Comu cadiu, lu formaggiu friscu si fici trìmmata (si sfarinau) comu farina di granu e nu lampu nci passau pe la menti! Si arzau facendu lu ncazzatu, si girau di la parti di lu Dracu e nci gridau: «Si non mi dassi stari, ti fazzu priònica (micciuni) comu chista petra janca, si ti vvicini!». Lu Dracu non potiva crìdiri a li so occhi, pensau chi lu previti si bbuzzau nterra mi pigghia na petra pe mi nci mina, e pe la troppa forza, l'era fatta comu la farina. Si spagnau nu pocu e nci dissi: «Non vogghiu mi ti fazzu nenti, vogghiu sulu mi ti dicu se ppoi veniri domanessira nta lu chianu di Spartà mi ti mmustru na cosa, mi chiacchiarijamu nu pocu. Potimu diventari amici. Chi mi dici?». Lu previti non sapiva chi mmi rrispundi ma, si schian-

“Testa del Drago”, monolite a Roghudi Antica Foto di Bruno Criaco tava (fiffava) tantu chi nci dissi si. L'appressu jornu, la sira, trovau lu Dracu supra a tri o quattru rroti di mulinu chi lu spettava. Appena lu vitti si arzau e nci dissi chi avivanu mi provanu cu era bbonu mi mina cchiù lluntanu una di chiddhi petri e nci domandau: «Ncumenciati vui o ncumenciu eu?». Cu nu filu di vuci lu previti dissi «Ncumenciati vui». Lu Dracu arzau na petra e comu na pinna, cu na manu sula, levau lu brazzu arretu e la lanciau nta ll'aria furrijàndu (sibilando) e jendu mi cadi tantu luntanu ca non si vitti! Lu previti arzau li ddui mani artu e ncumenciau mi tagghia l'aria facendu signi cu li mani, movendu (levandu) li brazza pe ccà e pe ddhà, pa la parti undi, di assai luntanu, si vidiva lu mari. Lu Dracu maravigghiatu, nci domandau: «Chi staciti facendu? Perchì faciti così?» E lu previti: «Staiu facendu signu a li piscaturi chi sunnu ddhà a la marina mi si ndi vannu di ddhà pe non mi ndavi mi li mmazza la petra chi ndajiu mi minu!». Lu Dracu rrimaniu senza paroli. Dissi sulu, cu la vuci china di amarùmi: «No no, dassati stari. Non mminati nenti. Potiti fari danni assai si vva mi cadi (la petra) intra a lu mari». Ma poi nci dissi ancora: «Amicu, quandu poi ndai a vveniri a menzujòrnu mi mangi a la me casa chi me mugghieri Lamia, sapi cucinari bboni mangiari». Lu jornu dopu, di sira, lu Dracu jiu nta la mandra e scegliu ddui crastati di tsìmbaru, li megghiu chi aviva, e

li levau nta la casa. La matina dopu li tagghiau a pezza e so mugghieri Lamia misi supra ddu caddara e dintra ogni unu misi la carni di nu crastatu cu nu pocu d'acqua, cipuddha, fogghia di lauru, basilicò, sali e pocu ogghiu. Ddhumau lu focu, pocu (mbasciu), pigghiau ddu trippedi, li misi supra a lu focu cu li caddara. A menzujornu, quandu jiu lu previti la carni, era pronta. Appena vitti li ddu caddara chini di carni pe ppocu non sveniu perchì ndeppi l'impressioni chi la so vita era pronta mi finisci intra a la panza di lu Dracu, nsiemi a chiddha carni chi era dintra a li caddara. Si ssettau, spettau nu pocu, cu la testa chi la ndaviva comu nu furnu, dopu dissi a lu Dracu: «Ndajiu a ffujiri a la casa ca dimenticai la porta aperta. Vajiu mi la chiudu no mmi trasinu cani. Tornu subitu, ca non viju l'ura mi mangiu nu pocu di carni sapurita» «Va e torna cchiù prestu chi ppoi chi eu ndajiu na grandi fami» nci dissi lu Dracu. Lu previti a la casa scegliu na cirma (nu saccu) nova e grandi, nci cuggiu ddu cordiceddhi longhi, chi cchiù ddopu si ttaccau sutta a li mascìddhi (ascelle). Mmucciau la cirma cu lu so vestitu e partiu di novu pe la casa di lu Dracu chi no stava cchiù nta la so peddhi perchì nci sembrava ca era arrivatu lu mumentu mi si mangia puru lu previti dopu la carni bugghiuta. Chista vota lu previti si ssettau rridendu e dicendu a lu Dracu: «Ncumenciamu, chi ora mi pigghiau puru a mmia la fami» «No spettu atru» dissi lu Dracu. Unu di nu pitsu di lu tavulu, l'atru di ll'atra parti, ncumenciaru mi tiranu pezza di carni di li caddara e si miseru mi mangianu. Lu previti aviva sbuttunatu la so vesta e, pe nu pezzu di carni chi mmangiava, tri li mmucciava ntra la cirma. Ogni tantu mmostrava n'ossu jancu a lu Dracu chi non jisàva la testa di lu caddaru e nci diciva: «Guarda comu li fazzu mi lucinu li ossa!» «Puru eu» nci rrispundia chiddhu cu la bucca china. A ogni muzzicata tirava nu pezzu sanu di carni senza ossu. Lu previti non ci misi assai tempu mi finisci la carni chi ndaviva a lu caddaru. Quandu finiu, ggiustau la so vesta pe mmi mmuccia la cirma china di carni e nci domandau a lu Dracu chi ancora ndaviva nu pocu di carni pe mangiari: «Ancora non finisti? Eu la mangiai tutta!». Lu Dracu rrimaniu mali sentendu così, ma jiu avanti mi finisci. Quandu jisàu la grossa testa parrau di novu lu previti: «Ora vidimu si ssi bbonu mi fai chiddhu chi fazzu eu». Pigghiau nu grossu cuteddhu e ncumenciau mi tira cuteddhate a la so panza, a lu postu undi nc'era la cirma, perchì nci spiegau a lu Dracu chi doppu era capaci mi si mangia nnatru crastatu perchì cu la panza perciata (bucata) chiddhu chi eranu mangiatu nesciva fora, e di la panza-cirma di lu previti ncumenciaru mi cadinu nterra pezza di carni sani chi ccilàvanu (rrozzulavanu) ammenzu a li pedi di lu Dracu chi non voliva mi cridi a li so occhi. Non potiva non mi lu faci puru iddhu. Pigghiau nu cuteddhu chi spingiu una, ddui, tri... tanti voti ntra la so panza, tagghiandu puru lu so ficatu. Lu sangu sciurràva (spruzzava) pe tutti li parti. Lu Dracu catti ddha nterra e morìu.


Aspromonte grecanico con Valentina Ferraiuolo e Trillanima, The Lapa Concert; 7 agosto a Staiti con Massimo Ferrante, Zampognorchestra, Ciccio Nucera, 8 agosto a Condofuri superiore con Otello Profazio e Fabulanova, The Lapa Concert; 9 agosto a Palizzi con Antiche Ferrovie Calabro Lu-

cane,Jedbalac, The Lapa Concert; 10 agosto a San Lorenzo con Mimmo Epifani and Epifani Barbers, The Lapa Concert; 11 agosto a Pentedattilo con Orchestra Bottoni, Turban Project; 14 agosto a Roghudi Vecchio con La Dolcezza del Mandorlo; 16 agosto a Bova con

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Grecia ce calavria, Ballu di lu Camiddu; 17 agosto a Palizzi con Takadum, The Lapa Concert; 18 agosto a Staiti con Camurria (con Gaspare Balsamo), Loccisano Trio; 23 agosto a Bova Marina con Ebritiki Zygia; 24 agosto a Bova con Trans Global Underground e Fanfara Tirana.

Gli scatti più belli dalla montagna: Roghudi Antica In bilico come un equilibrista, guarda Thalassa dallo squarcio lasciatole apposta dalla montagna. Che da ogni lato la avvolge e la protegge. Ai suoi piedi si mischiano due fiumare, il sangue dell’Ammendolea distesa poco più avanti. Su Roghudi Antica ogni sera, al tramonto, scende l’ombra benevola delle vette più alte.

Costa jonica, Aspromonte incontaminato. Brevi distanze che sposano un grande patrimonio

La magia della Calabria grecanica di Francesco Violi

ma il turista non lo sa...

Il viaggiatore medio, italiano o straniero che sia, è alla ricerca della soddisfazione, del nuovo, del certo; il tutto mediante l’appagamento dei cinque sensi. L’Area grecanica, costituita dai territori del versante Jonico meridionale dell'Aspromonte potrebbe essere una meta ideale per questa categoria di turista. Qui si conciliano tutti gli aspetti di cui il viaggiatore è alla ricerca: panorami mozzafiato che alternano albe ricche di speranza a tramonti di romantica memoria. Panorami che fanno pensare a luoghi paradisiaci, e la vista rappresenta già per sé stessa il viaggio verso l’infinito, verso un’altra

meta. L’incessante moto delle onde del mare, il dolce suono degli organetti, dei tamburelli e delle lire, i silenzi profondi della montagna, il piacevole rumore di un fuoco che arde sotto una “caddara”, sono musica per le orecchie del viaggiatore. L’odore della ginestra, il profumo inebriante del gelsomino e del bergamotto, la salsedine che ricorda l’estate nelle giornate invernali, il ribollire del mosto nelle botti spingono le narici a sentire oltre. Il forte sapore dei “maccarruni cu a carni di capra” magicamente preparati a mano dalle massaie equilibra il senso del gusto con la delicatezza della ricotta e il siero, mentre i “Petrali” e i “cudduraci” fatte con le

RADICI DA SCAVARE

di Salvino Nucera

Tentando di conoscere la nostra storia, le nostre radici, possiamo tentare di conoscere meglio noi stessi, la vita dei nostri paesi, il comportamento delle loro genti, nella realtà di ieri e di oggi. Gente umile e laboriosa, ma piena di orgoglio e di dignità che ha sempre apprezzato ed apprezza sopra ogni altro, il valore dell’ospitalità, dell’amicizia sincera, della solidarietà. La cultura di questi nostri paesi della Calabria meridionale, abbarbicati sulle cime o sulle falde suggestive e rigogliose dell’Aspromonte, è, nel suo nucleo, spiritualmente, mentalmente greco-bizantina. Voler cimentarsi nella ricostruzione di un profilo storico dei centri dell’area aspromontana è impresa ardua e difficoltosa per palese carenza di materiale storico o archeologico da cui poter attingere. In Rovine di Calabria del medico condofurese Francesco Nucera si può leggere: «Mancano le fonti documentali, mancano le ricerche, mancano l’incentivazione e l’incoraggiamento degli organi responsabili. Ignoriamo così le vicende storiche di ciascun comune, i fiumi, la loro importanza idrica, l’estensione del suo territorio, il numero dei suoi abitanti, i suoi costumi, le sue miserie, i suoi valori. Se in un secolo di vita nazionale avessimo speso un po’ del nostro tempo a rovistare negli archivi, sia pubblici che privati, a ricercare nel sottosuolo, a studiare le cose nostre e metterle in luce, forse oggi i legislatori ci conoscerebbero meglio e, conoscendoci meglio, avrebbero potuto creare, a tempo, le condizioni di sviluppo necessarie» (Rovine di Calabria, 1974 - Casa del Libro, Reggio Calabria). Dopo un secolo e mezzo e molti anni dalla formulazione di tale giudizio poche cose sono realmente cambiate. A proposito di sviluppo così scrive il noto antropologo Vito Teti ne Il senso dei luoghi. Paesi abbandonati di Calabria (Ed. Donzelli) «La cultura della Calabria, le sue tradizioni, la sua storia, il suo paesaggio, le sue bellezze possono diventare oggetto di retorica, essere mummificate in una sorta di contemplazione sterile o di rimpianto inconcludente, essere ridotte a occasioni di interventi strumentali, di affari; oppure possono costituire faticosamente, fantasiosamente un discorso di persuasione, di linfa vitale e rigenerante [...]. Può nascere un nuovo senso dei luoghi ed una nuova speranza».

uova, ricordano le festa ed il mangiar sano. Tutto questo si può vedere, sentire, annusare, gustare e toccare in un intreccio di emozioni forti che rapiscono l’anima. Il viaggiatore purtroppo ignora che possa esistere una località capace di concentrare, in poco meno di 500 chilometri quadrati, tutto ciò che è necessario per soddisfare i sensi. Eppure esiste. Lo sappiamo noi e lo gridiamo ai nostri amici amici “foresteri” ma non è sufficiente. Lo fanno le associazioni culturali ma il loro urlo si ferma dinnanzi ad una miriade di problemi. Si prodigano gli Enti Locali ma il loro intervento non è sufficiente. Serve l’azione delle istituzioni, dello Stato sempre

più distante, di una politica del fare e del proporre turismo. Negli ultimi anni, nemmeno gli emigrati al Nord e i reggini preferiscono le nostre spiagge e le nostre case. Occorre ripartire proponendo cultura e arte, cucina e tradizioni, mare e montagna. Occorre creare una sinergia di intenti e di azioni tra tutti i comuni dell'Area grecanica, le Pro-Loco, la Comunità Montana, il Gal Area grecanica, l'Apt di Reggio Calabria, l’Assessorato al Turismo della Regione, le varie associazioni e chiunque abbia a cuore il futuro di questa terra. L’Area grecanica ha un potenziale ed un’offerta turistica alta. Ma il turista non lo sa…


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Vallata del Gallico

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IL SAGGIO

LA CHANSON D’ASPREMONT

Con questo nome si intende un solo tipo di opere: quelle scritte in lingua anglo-normanna alla fine del XII secolo e quelle scritte in lingua franco-normanna nel secolo successivo. Sono entrambe opere di propaganda politica, filo-inglese le prime e filofrancese le seconde. E la dif-

ferenza tra le due minima. Gran parte del dibattito accademico, oggi, verte su di esse. Un dibattito che non serve molto all’obiettivo di cui si legge sul sito dell’assessorato alla cultura della Regione Calabria a proposito di un evento sulla Chanson d’Aspremont cui avrebbe

La storia di una contrada e della sua gente

Quei Giorni: la “Cartiera” racconta A quasi dieci anni di distanza, il primo giorno della lotta che ha scritto una delle pagine più belle ed importanti per la difesa dei diritti degli uomini e dell’ambiente della Vallata del Gallico segue dalla prima

di Maurizio Malaspina

L’associazione “la Cartiera” guida gli escursionisti del CaiReggio in una visita in Aspromonte Svegliandosi lottatore dopo una vita da spettatore. È stato musica, è stato sorrisi, un mondo colorato venuto da lontano. È la storia di Ciccio, Vittoria, Pietro, Chiara, e di tutti i nomi che hanno scritto pagine di eterna semplicità, di lotta, di coraggio, di rabbia, di speranza. E’ una storia strana quella di quei giorni, perché è la storia di tante storie, la storia di un’umanità che ha riscoperto la solidarietà e la voglia di vivere. A quasi dieci anni da quei giorni, che saranno a breve celebrati come meritano dall’Associazione nata da quella lotta, voglio raccontare il primo, perché forse è straordinariamente efficace se letto come una lettera scritta alla Calabria e ai calabresi, un messaggio che indica una strada, una via d’uscita, forse, dalla palude in cui siamo precipitati ormai da troppo tempo. Era un lunedì uggioso e freddo quel 12 gennaio 2004, un lunedì di uno degli inverni più rigidi degli ultimi dieci anni. Era un lunedì di quelli che invitano a tirar tardi a letto, di quelli che anche il pensiero di scostare le coperte per mettersi in piedi non trova la strada per arrivare dal cervello ai muscoli e si perde anch’esso nel tepore del letto caldo. Eppure quella mattina, un centinaio di persone si alzarono alle cinque, per rispondere all’invito lanciato dal megafono che il giorno prima aveva diffuso in paese la notizia che un nuovo grande impianto rifiuti stava per sorgere alla Cartiera, dove voci strane parlavano da mesi di un autoparco comunale nascondendo una verità preoccupante e scomoda. La stradina sterrata che costeggiando la fiumara conduceva alla Cartiera, nelle prime luci dell’alba scopriva lentamente le devastazioni degli ultimi anni: ettari di aranceti abbattuti per far passare inutili strade, agrumeti residui ricoperti da polvere e ormai abbandonati, discariche abusive di materiali inerti. Il ricordo di contrada Cartiera era vivo, cinque ettari di aranceti di qualità, un mulino idraulico antico e caratteristico, un altro mulino semi-sepolto, le strutture per l’irrigazione, i terrazzamenti, il rumore del torrente. Il giorno arrivò quasi contemporaneamente con noi alla Cartiera, dove i fuochi dei primi arrivati schiarivano un ambiente già rassegnato all’ennesima sconfitta. Si aspettava che arrivasse la ditta chiamata ad

avviare i lavori. Sul territorio nessuna traccia di cantiere, né recinzioni, né macchinari, solo una distesa a prato, qualche albero residuo perso nella distesa come un naufrago nel mare in burrasca. Si crearono velocemente piccoli gruppi attorno ai fuochi, attratti dal bisogno di caldo e di conforto. Passarono ore interminabili, senza che nulla avesse cambiato il corso delle cose, senza che operaio alcuno fosse apparso, ne ruspa, ne segnali di minaccia. Verso le nove del mattino, una nuvola di polvere annunciò l’arrivo di una macchina lungo la strada sterrata, cosa che ridestò quanti ormai cominciavano a interpretare come un falso allarme quello lanciato il giorno prima dai volenterosi del megafono. La macchina, una berlina elegante che contrastava enormemente con le avversità del posto, continuò a passo d’uomo tra i fuochi e i capannelli che li coronavano, fino a fermarsi in prossimità del container predisposto nei giorni precedenti come ufficio di cantiere. Quegli uomini, che si presentarono come una sorta di drappello inviato in avanscoperta da un perfido generale, era la ditta incaricata del subappalto, come testimoniavano le carte, i rotoli e le scartoffie che li accompagnarono fuori dalla macchina appena arrivati a destinazione. Pochi operai, il capo cantiere e il titolare, componevano questo primo manipolo che gli infreddoliti superstiti di quella mattina (molti avevano nel frattempo abbandonato, richiamati dall’urgenza del lavoro o della scuola), si trovarono a fronteggiare nella prima giornata di lotta. Dopo essersi precipitosamente spostati per raggiungere la macchina, i manifestanti formarono attorno ai nuovi arrivati un capannello animato che iniziò a chiedere spiegazioni, a porre domande, ad avanzare i “perché” che mai fino a quel momento avevano avuto risposta, e che subito diventarono conferme attraverso la voce dei marziani giunti in berlina. Un impianto di oltre 90 mila tonnellate l’anno di spazzatura, che si andava ad aggiungere a quello già funzionante poco più a monte, doveva sorgere ancora più prossimo all’abitato di Pettogallico, a pochi metri dall’argine sinistro del Torrente Gallico, in area alluvionale, agricola, altamente produttiva, a pochi

metri dai pozzi di acqua potabile dell’ex Cassa del Mezzogiorno, sotto la linea dell’alta tensione, in area sottoposta a vincolo paesaggistico. Nel mentre la discussione imperversava, da monte, lungo la stradina sterrata, una ruspa si faceva strada nel “polverazzo” più assoluto. Lo smarrimento iniziò ad impossessarsi dei presenti, perché quel piccolo mezzo meccanico dava finalmente la dimensione della cosa, l’estremo stato di avanzamento della situazione, la sua operatività e, per molti, irreversibilità. La ruspa iniziò a compiere piccoli movimenti terra, sotto la direzione del capo-cantiere, per preparare l’allocazione di un secondo container. Il senso di impotenza, lo smarrimento, si leggeva sul volto di ognuno, per una condizione che nessuno si era mai trovato a fronteggiare. Gente semplice che, quella mattina, si trovò ad avviare qualcosa che avrebbe segnato molti giorni da lì a venire, con momenti difficili, paure, gioie e tensioni del tutto inedite. Questo stato di smarrimento, tradottosi nell’immediato in impotenza, durò solo pochi minuti, ma che a tutti pesarono come un’immensità. Quando i primi riuscirono a scuotersi per andare incontro alla ruspa, sbarrandole il cammino e impedendole di continuare lo svolgimento della propria opera di distruzione, l’incantesimo della paura fu rotto e i lavori incredibilmente fermati. Partirono subito le prime telefonate dagli apparecchi della ditta, all’indirizzo dell’Ufficio del Commissario Delegato all’emergenza ambientale, guidato dall’allora Presidente della Regione Calabria Giuseppe Chiaravalloti, che a sua volta coinvolgeva il Sindaco di Reggio, Giuseppe Scopelliti, le autorità di pubblica sicurezza, i carabinieri, la polizia e immaginiamo anche vari altri rappresentanti dell’ordine costituito. Nel frattempo che Contrada Cartiera diventava il teatro di una delle pagine più belle e importanti della lotta per la difesa dei diritti degli uomini e dell’ambiente, lo spettacolo dei bambini delle scuole elementari di Villa San Giuseppe, che quel giorno avevano disertato la scuola per seguire i propri genitori, iniziarono a diventare la componente più bella e colorata della lotta. Con le forze dell’ordine arrivarono anche le prime telecamere e i giornali locali: la Cartiera cominciava a volare nell’etere, aspetto che come si vedrà diventerà un magnifico volano per le mille voci di quei giorni. L’improvvisata assemblea di mediazione messa su tra la polvere di una sterrata abbandonata, portò al fermo dei lavori per qualche giorno e alla convocazione di un tavolo di confronto per il giorno dopo, da tenersi al comune di Reggio Calabria. L’assemblea individuò quanti sarebbero andati a rappresentare le istanze della lotta al tavolo delle istituzioni, e la prima giornata volse al termine. Con il ritorno a casa, due sentimenti contrastanti: accanto alla soddisfazione per il primo insperato obiettivo raggiunto, l’atavica sfiducia di dover intraprendere qualcosa ritenuto troppo grande. Il “tantu u fannu u stessu”, cominciò da subito, ad arte, a farsi strada per diventare l’ostacolo più grande da superare. Ma la scintilla era scoccata, e da li sarebbe partito un incendio da quel momento mai domato.


L’approfondimento partecipato lo scorso giugno l’assessore Caligiuri: “recuperare e valorizzare il grande scrigno della cultura calabrese”. L’evento, alle Terme di Antonimina, sarebbe consistito nel fatto che “sono state tradotte in italiano e in vernacolo calabrese le parti significative della Chanson,

corredate da suggestivi bozzetti. Quasi un fumetto per rimettere in pista una bella operazione culturale da proseguire magari con la traduzione integrale e una mostra mobile”. Il tutto sul presupposto che la Chanson non sia “mai stata tradotta in italiano”. Sbagliato! La Chanson ha

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avuto almeno due traduzioni in italiano, in forma manoscritta, alla fine del XIV e, addirittura a stampa, nel XVI secolo. Giuseppe Gangemi, professore universitario, chiarisce tutto nel saggio “Lu cuntu di: La chanson d’Aspremont” (pubblicato in otto parti) sul nostro sito.

Roccaforte del Greco

La forca del Menta La provincia reggina boccheggia sotto il sole e senza acqua, truffata dalla politica e dai suoi Governatori Un progetto degli anni ‘60 che non è ancora stato completato. Una delle tante “incompiute” del Mezzogiorno d’Italia, i cui albori stanno proprio nella “Cassa del Mezzogiorno”. La diga del Menta doveva essere una svolta per la provincia reggina. Un fiore all’occhiello. L’Aspromonte difatti, pur essendo uno dei massicci più piovosi dell’Europa, con picchi di oltre 3 mila mm annui di pioggia nelle zone più esposte (a Reggio, in media, cadono 600 mm di pioggia l’anno), non ha una diga che possa gestire il fabbisogno idrico dell’area ad esso adiacente, con oltre 250 mila abitanti (Villa San Giovanni, Reggio Calabria, Melito di Porto Salvo, Motta San Giovanni e altri comuni della fascia ionica). La politica, nel corso degli anni, ha fatto di questa esigenza un cavallo di battaglia: ricordandosene solo in campagna elettorale. Così tra annunci e inaugurazioni-truffa si è arrivati a dicembre 2007 quando l’exgovernatore della Calabria, Agazio Loiero, nella sede del Consiglio regionale, incontrò i giornalisti: «L’impegno per risolvere le “incompiute” lo avevamo assunto sin dalla prima seduta di questa legislatura regionale e, anche se tra molte difficoltà, che abbiamo superato o stiamo superando, quell’impegno sarà mantenuto». Ed aggiunse: «Devo riconoscere che il cronoprogramma previsto subirà alcuni ritardi, ma voglio anche dire che ciò è anche frutto di una meticolosa assunzione di responsabilità da parte del Cipe che ha verificato ogni particolare dei progetti da finanziare. Comunque, entro il 2009 la città di Reggio Calabria ed il suo hinterland avranno acqua buona».

Per poi concludere con: «Mi rendo conto che ci possa essere diffidenza sui tempi di consegna delle opere, ma sicuramente vogliamo onorare un impegno raggiungendo un risultato straordinario entro questa legislatura per Reggio e la Calabria». Sigillò l’impegno col Menta millantando la sua stessa impiccagione in caso di disfatta, come se ai cittadini di “Wild Reggio” interessasse più la forca che l’acqua. Nel frattempo gli stessi imparano a dissetarsi direttamente dal mare. La città di Reggio è difatti l’unico caso in Italia in cui per la “potabilità” dell’acqua sono state ammesse dosi saline così elevate. Era il 1979 quando la Elettroconsult (società milanese) stimò che nel 2016 Wild Reggio (37 anni più tardi) avrebbe subito

grossi aumenti di: popolazione, industrie, e settore agricolo. Poi lo tradusse in portata: 52 milioni di metri cubi di acqua l’anno. Che poi fu tradotto in montagna: 2,1 milioni di metri cubi di roccia prelevati, oltre 30 ettari di terreno disboscati, una muraglia di cemento alta 90 metri. Il tutto al modico prezzo di 500 miliardi di vecchie lire. Forse qualcosina in più. Ma la Elettroconsult si sbagliò grossolanamente, e, anche se il 2016 è ancora lontano, Wild Reggio è lontana da una crescita industriale, agricola e di popolazione. Così come la diga è lontana dal suo completamento, e i reggini dall’avere acqua potabile a sufficienza. Persino Loiero è ormai lontano. Per fortuna anche dall’impiccagione!

Reggio vuole bere a spese altrui

La commissione straordinaria prende carta e penna. Scrive alla giunta regionale e, per conoscenza, al ministero delle infrastrutture. La ragione della missiva? La richiesta di completamento della diga sul Menta, opera a dire della commissione di carattere strategico nazionale che permetterebbe a Reggio di avere 14 milioni di metri cubi d’acqua a un costo dimezzato rispetto all’attuale, 0,20 anzichè 0,36. Certo, Reggio dall’ultimazione dell’opera trarrebbe grande vantaggio, anche le imprese appaltanti ne sarebbero avvantaggiate. Chi ha perso per decenni è stato l’Aspromonte, l’ambiente, che si è visto inondare da milioni di metri cubi di cemento per la realizzazione di un’opera faraonica e infinita, una sorta di tela di Penelope. Si, Reggio avrebbe acqua di ottima qualità e a prezzo contenuto. Ma i miliardi spesi e quelli da spendere in quanti decenni saranno ammortizzati dai risparmi? E il costo ambientale? Ma siamo sicuri che non ci fosse altra strada per avere acqua in modo più rapido e con meno traumi per la natura? Noi siamo certi che le vie da percorrere sarebbero dovuto essere altre. Magari sarebbe bastato un sistema di condutture, meno invasivo e di rapida messa in opera e Reggio avrebbe avuto acqua già da un ventennio. Ma noi, il territorio, non abbiamo voce, quella se la prende sempre e solo la politica. Sarà ancora essa a decidere sui lavori di ultimazione della diga. Al territorio e all’Aspromonte resta una ferita di cemento che non si rimarginerà più. E come si dice alla fine dei cartoni animati “that’s all folks”.


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L’inchiesta

L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri

I prigionieri dell’Anonima sequestri segue dalla prima

di Cosimo Sframeli

a squadra illuminò protagonisti e connessioni con l’aberrante reato, collocando il singolo crimine nella logica associativa e mafiosa. Col tempo, con pazienza e col silenzio, si ottennero rilevanti risultati sul piano investigativo e gidiziario. Lo scontro più significativo combattuto in Aspromonte fu, senza dubbio, quello per riprendersi il controllo del territorio: il fronte più debole. Bisognava liberare i territori occupati. Si conoscevano gli organizzatori del sequestro, i basisti e gli intermediari. Si potevano ipotizzare, con buone probabilità indiziarie, i nomi degli esecutori, delle staffette, degli esattori. Quando l’ostaggio giungeva in montagna, l’intero “gioco” passava nelle mani della banda. I trasferimenti dei sequestrati in Aspromonte erano di una sconcertante facilità: Paul Getty III fu sbarcato sulla Costa Jonica da un motoscafo; Giuseppe D’Amico fu portato con una betoniera; Giuliano Ravizza addirittura disposto su un taxi. Destava impressione il fatto che persone sequestrate al Nord potessero impunemente attraversare l’intera penisola per essere

nel 1993. Tutti tenuti prigionieri nelle nostre montagne. La banda, una volta ottenuto il riscatto, liberava l’ostaggio portandolo lontano dal rifugio dove era stato custodito per depistare le indagini. La liberazione avveniva generalmente di notte, in aperta campagna, per consentire ai rapitori di allontanarsi facilmente. Un prigioniero in mano all’Anonima sequestri, Rocco Surace, 35 anni, commerciante di Rizziconi, fu liberato la sera del 18 dicembre del 1990, poco dopo le 19.00, fra il passo dello Zomaro e il crocefisso dei piani dello Zillastro. Vagabondava per la montagna quando fu ritrovato da una pattuglia col volto smunto e provato, la barba lunga. Una sommaria visita medica al pronto soccorso dell’Ospedale di Gioia Tauro, l’interrogatorio dei due magistrati, D’Amato e Bellelli, della Procura della Repubblica di Palmi, e quindi il ritorno a casa. L’abbraccio della moglie, dei figli e del padre furono i primi, spontanei gesti, dopo quel 12 aprile in cui venne rapito da tre persone mentre rincasava. Commerciante di abbigliamento, benestante ma non ricco, Rocco Surace quella sera di otto mesi prima riuscì a divincolarsi e a sfuggire ai banditi. Lo ripresero in un vicino garage e lo caricarono su una Renault 25, rubata

un’infezione subentrata dopo il taglio dell’orecchio che i rapitori inviarono alla famiglia insieme con la richiesta del riscatto. Il cadavere fu gettato in un pozzo artesiano. Il ragazzo fu dapprima rapito da una banda di Parma che, incapace di gestire un’operazione così complessa, preferì cedere il prigioniero ai calabresi dell’Anonima. Il prezzo della vendita fu di 50 milioni di lire. Andrea si era allontanato da casa nel febbraio del 1989 per seguire una ragazza con la quale aveva iniziato una relazione sentimentale. La giovane però, fidanzata in contemporanea con un tossicodipendente, e d’accordo con la banda di Parma, organizzò il sequestro con l’intenzione di chiedere il riscatto al padre. Andrea fu tenuto ostaggio in una cascina e proprio da Parma partì la prima richiesta di riscatto. Ma qualcosa non funzionò, e ceduto alla ‘ndrangheta, venne trasferito nel vibonese dove subì il taglio dell’orecchio e poi la morte. Sempre dal 1989 proseguì il calvario dei familiari di Mirella Silocchi, 52 anni, moglie di un imprenditore di Collecchio (Parma), Carlo Nicoli, ammalata di cuore e morta di stenti.Tra i tanti, uno dei sequestri anomali e raccapriccianti fu proprio quello di Lollò

custodite sulle montagne dell’Aspromonte in luoghi impenetrabili, in rifugi naturali come grotte o costoni, o in buche appositamente scavate nel terreno. Per lunghi mesi erano i banditi a decidere le mosse e gli altri ad indugiare. Solo a sequestro chiuso era possibile tentare di assicurare alla giustizia i responsabili. Venivano utilizzati i latitanti per la custodia degli ostaggi e nel contempo si impiegava anche gente del luogo, soprattutto giovani affiliati; una quota dei proventi del riscatto entrava nel circuito economico dei paesi aspromontani interessati. In quelle realtà la ‘ndrangheta riuscì a far apparire il sequestro come un affare i cui vantaggi ricadevano non solo sui mafiosi, ma anche su una popolazione più vasta. C’era, quindi, la tendenza a considerare il sequestro come un’equa ripartizione della ricchezza essendo le vittime delle persone facoltose. Dei circa 180 sequestri di persona a scopo d’estorsione eseguiti da calabresi (124 effettuati in Calabria e 56 in altre Regioni d’Italia; 18 furono perpetrati solo a Bovalino) gli investigatori riuscirono a disegnare la mappa dei protagonisti. La condizione per il rilascio dell’ostaggio era il pagamento del riscatto. Se ciò non avveniva l’ostaggio era ucciso. La vittima poteva perdere la vita a causa di una dura prigionia o perché durante la stessa carcerazione aveva potuto strappare il passamontagna ad uno dei suoi aguzzini. Probabilmente accadde così a Vincenzo Medici, sequestrato a Bianco (RC) nel 1989; ad Adolfo Cartisano, sequestrato a Bovalino (RC)

giorni prima e poi abbandonata in Aspromonte. Rizziconi diventò un altro paese. Una mobilitazione continua, un comitato spontaneo per denunciare la piaga dei sequestri. Manifestazioni, cortei, apparizioni in televisione per chiedere la liberazione di Rocco. Quindi, la svolta. Fu la Procura di Palmi a coordinare carabinieri e polizia e a far partire indagini congiunte, mirate nelle zone fra Molochio ed Oppido Mamertina. A guidare le operazioni furono Giuseppe Gualtieri, Capo della Mobile di Gioia Tauro, e Salvatore Luongo, Capitano dei Carabinieri di Taurianova. Entrambi collaboravano con la Squadra di Polizia Giudiziaria dei Carabinieri alle dipendenze del Procuratore Agostino Cordova. In montagna la pressione aumentava. Le perlustrazioni proseguirono finché Rocco non venne liberato. I sequestratori gli fecero fare un lungo giro in macchina e una lunga camminata, sempre con le bende sugli occhi. Del riscatto ufficialmente nessuno parlava. Si diceva di una rata pagata dai familiari del commerciante di oltre un miliardo di lire. I Magistrati della Procura di Palmi, in un comunicato, rilevarono come la liberazione di Rocco Surace fosse dipesa dalla pressione esercitata negli ultimi giorni dalle Forze di polizia. Con la liberazione del commerciante, erano altri sei gli ostaggi in mano ai rapitori. Il sequestro che si prolungava da più tempo era per un giovane varesino, Andrea Cortellezzi, 22 anni, rapito a Tradate la sera del 17 febbraio del 1989 e morto in Calabria durante la detenzione per

Cartisano, fotografo di Bovalino. Venne rapito il 22 luglio 1993, nei pressi della sua casa a mare. I sequestratori lo sorpresero con la moglie. La signora Mimma fu stordita, con un colpo contundente in fronte ed abbandonata, priva di sensi, mentre il marito veniva sequestrato. Lollò, mesi prima, si era opposto alle richieste di denaro formulate ed aveva fatto arrestare i suoi estorsori. Nonostante il pagamento di una rata del riscatto, il fotografo di Bovalino non venne riconsegnato alla famiglia. La Commissione Parlamentare Antimafia si recò a Bovalino dove i sequestri a scopo estorsivo erano giunti a quota 18. Dopo gli appelli della famiglia e le lettere scritte dalla figlia Deborah, e pubblicate sui quotidiani locali, nel 2003 giunse alla famiglia una missiva anonima di un carceriere che indicava il punto, ai piedi di Pietra Cappa, dove era stato sepolto il corpo di Lollò, imputando la morte ad un incidente di percorso. I funerali si svolsero a Bovalino il 3 agosto del 2003. A Milano, nel dicembre ‘97, l’Anonima calabrese concludeva con l’ultimo sequestro di persona a scopo d’estorsione. Rapiva l’imprenditrice Alessandra Sgarella. Per la sua liberazione, avvenuta dopo nove mesi di prigionia, venne pagato un riscatto di circa 10 miliardi di lire. Fu tenuta in ostaggio dalla ‘ndrangheta, in Aspromonte, per 266 giorni, e, a cinque mesi dal rilascio, per ordine della Procura di Milano, furono assicurati alla Giustizia numerosi esponenti delle famiglie mafiose del triangolo Platì - San Luca – Natile di Careri.

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L’inchiesta

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Gioia Tauro, il sequestro a lieto fine di un quattordicenne avvenuto nel 1611

«Sono libero grazie a Domenico» di R. Giuseppe Tassone

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itolo, sicuramente, di prima pagina per i quotidiani nazionali di questi nostri anni; ma in verità la notizia è datata 1611. A quel tempo viveva a Gioia tale Santoro Silipigni, proprietario terriero, che aveva deposto il suo futuro e le sue speranze nell’unico figlio che la moglie gli aveva dato. Una sera il ragazzo di circa quattordici anni, terminati i lavori in campagna, si apprestava a far ritorno a casa quando da dietro una siepe alcuni banditi,

con aria decisa e minacciosa, interrompendo il silenzio dei campi e la serenità del giovane sbucarono fuori e, imbavagliatolo, lo portarono sulle montagne d’Aspromonte. I poveri genitori attendevano con ansia il ritorno del figliolo, ma la “malanuova” non si fece attendere. Infatti, dai monti arrivò la notizia del sequestro e la richiesta del riscatto: tre mila scudi! I Silipigni, guardandosi in faccia, cominciarono a piangere per morto il proprio figlio. Tremila scudi era una cifra esorbitante per loro. Passarono parecchi giorni ed il ragazzo non vedendo arrivare il denaro della libertà, si diede a

pregare, rivolgendosi alla miracolosa immagine di San Domenico in Soriano affinché lo liberasse dalle mani di così barbara gente. Ed avvenne, dunque, che una notte un uomo caritatevole si presentò al ragazzo invitandolo a seguirlo e questi ubbidì. Assieme scalarono sentieri irti e spinosi fino ad arrivare alla porta di Gioia quando l’incognito accompagnatore disse al fanciullo: «Ora è tempo che da te stesso te ne vada a casa». Il ragazzo, allora, chiese chi fosse e l’uomo rispose: «Io sono Domenico, servo di Dio». A casa Silipigni grande festa, il lutto si tramutò in gioia. Quindi

Bianco, tra i comuni reggini più colpiti dai sequestri di persona

Le serre di Vincenzo Medici La morte dell’imprenditore, come quella di Cartisano, fu silenziosa e legale; la “linea dura” dello Stato colpì solo “alcuni” sequestri di persona. Perché?

riscatto di 3000 scudi; la conferma di una porta di entrata in paese, il che vuol dire di una cinta muraria che circondava il centro abitato, verosimilmente l’attuale Piano delle Fosse; ed ancora si rileva l’importanza dell’Aspromonte, già da allora come covo di banditi e luogo sicuro per trattenere indisturbati il malcapitato. Infatti, la fitta vegetazione e l’asperità di quei monti non permettevano libero movimento se non ad un esperto, per cui il pericolo di essere scovati o che il sequestrato scappasse era molto remoto. Forse solo un Santo, come nella nostra storia, poteva osare tanto.

SUD di Alberto Alfredo Tristano

di Antonella Italiano Silenzio. Il silenzio è l’unica presenza costante in questa storia. Una storia che per noi, stavolta, inizia dalla fine. È un assolato pomeriggio di maggio quando arriviamo al confine tra Bianco ed Africo. Dalla statale 106 svoltiamo verso la costa e, dopo pochi metri, eccoci alle serre. Ce ne stanno decine, strette l’una all’altra, divise da larghe strade sterrate. Il sole si riflette sulle coperture ed i rivestimenti in plexiglass, l’auto solleva un polverone, che riempie l’aria di terra fine e rossastra. Decidiamo di proseguire a piedi. Le vie sono deserte, si sente solo la voce dei grilli, degli uccelli, del mare. Sui pannelli cadenti ed usurati dal tempo, tra le travi d’acciaio, si aprono ampi squarci da cui si intravede l’interno delle serre. Uno spettacolo agghiacciante. Gli invadenti rampicanti verdi non riescono a coprire, infatti, i vasetti aridi disposti ancora in fila, i contenitori in polistirolo accatastati a terra, i tubi per l’irrigazione, i vasi di piante pen-

solenne pellegrinaggio a Soriano per ringraziare San Domenico a cui vennero offerti, in segno di riconoscimento, cento scudi. La notizia di questo sequestro di persona, che precede quello di manzoniana memoria, è riportato nel libro: Cronica del Convento di S.Domenico in Soriano dall’anno 1550 fin’al 1664 composta dal padre maestro frate Antonino Lembo dell’Ordine dei predicatori nel 1665. Alcuni particolari interessanti di questa notizia sono: la presenza, in una zona malarica e dai grandi visitatori considerata povera e rozza, di una famiglia in grado di pagare un

sili ancora appesi al tetto. Tutto è rimasto com’era più di vent’anni fa. Camminando, incontriamo altri capannoni, e capannoni troviamo sulla strada di sotto. Capannoni a destra e a sinistra del percorso. Sulle porte arrugginite spiccano tabelle verdi che indicano uffici, depositi per concimi, zone ad ingresso vietato. Si, perché ogni giorno qui, lavoravano decine e decine di persone, la vita era rigogliosa e prorompente. Centinaia di compratori giungevano da ogni parte di Italia. Per la Locride, l’impresa di Vincenzo Medici, fu un fiore all’occhiello, di quelle che tutt’oggi le darebbero lustro. Viviamo in regioni abbandonate a sè stesse dove, mancando lo Stato e le regole, mancando soprattutto il rispetto che gli dovrebbe quest’ultimo, le regole sono state scritte dai più forti. Il silenzio sa ora di morte. Vincenzo Medici, nella notte del 21 dicembre 1989, fu aggredito tra le sue serre da almeno quattro delinquenti, con le armi in

pugno e il volto coperto. Fu sequestrato quando aveva più di sessant’anni. Vittima due volte: della malavita e della “linea dura” dello Stato, che per l’occasione digrignò i denti. Il fratello Giulio, avvocato, fu infatti bloccato a Roma, all’uscita di una banca, con nella borsa il denaro con cui sperava di aprire una trattativa con i sequestratori. Lo Stato fu ferreo, quello stesso Stato che nel frattempo, su altre delicate vicende, chiudeva entrambi gli occhi. Medici, così, fu lasciato morire in mano ai suoi aguzzini. Vittima sacrificale della giustizia ad intermittenza. Bianco fu avvolta dal silenzio da quel giorno. Le porte delle serre chiuse per sempre. E il 13 gennaio 2011 finì anche l’agonia di Giovanna Ielasi, moglie di Vincenzo. La morte della donna iniziò in realtà nel 1989 e fu così, ogni giorno, per vent’anni. Con lei, con le speranze di rivedere il marito, morirono lentamente le serre, le piante, i terreni. Morirono così come le lasciò Vincenzo quella notte di dicembre.

I resti delle serre di Vincenzo Medici, nei pressi della Strada statale 106, Bianco (RC). Foto di Antonella Italiano

Forse è un po' troppo originale cominciare un pezzo sul Sud Italia con Barack Obama. Ma c'è una logica, che proverò ad esplicare. L'uomo più potente del mondo l'anno scorso, ogni volta che poteva, non faceva che sponsorizzare un piccolissimo film ambientato in una bizzarra comunità afroamericana della Louisiana. Il titolo è "Beasts of southern wild" tradotto in Italia con "Re della terra selvaggia". Ha per protagonista una bambina di nome Hushpuppy che scopre la vita, nella sua grandezza tenera e insieme terribile, a contatto col panorama insidioso e violento del suo luogo, una zona sospesa sulle acque periferiche e ammalate di New Orleans. E' una zona insicura, minacciata dalla natura e dai guasti dell'uomo. Ma la comunità cui la piccola appartiene oppone a questa minaccia permanente la propria testarda voglia di rimanere lì, di vivere e non solo sopravvivere ai dannati rischi che incombono dappertutto. Il film, che ha ricevuto ben quattro nominations agli Oscar nelle categorie principali, mi ha da subito impressionato. Perché mi sembrava e mi appare un potente racconto di tutti i Sud del mondo, dei posti al limite, dei luoghi ai confini dello sprofondo, pronti ad essere inghiottiti eppure incredibilmente resistenti. Ha una forza struggente "Beasts of southern wild", proprio perché ti fa capire che il colmo della vitalità, del coraggio, dello slancio, lo trovi proprio nell'ambiente smosso, pericolante, travolto dalla natura e dalla forza di gravità (a proposito, mi ha colpito la scelta del giovane regista del film, Benh Zeitlin, un borghese di buona famiglia e ben educato, che ha lasciato tutto per andarsene a vivere proprio lì, tra quei pazzi di New Orleans). Ecco perché si viene, si deve venire a Sud. Nel nostro Sud. In Aspromonte, o dentro la Sicilia più lontana, o nella Lucania profonda. Perché può capitarti di respirare un'aria che altrove è soppressa, di scoprire tra i rovi i segni della migliore fioritura proprio perché la pianta cresce tra mille colpi mortali e il sole filtra vitale tra scurissime ombre. Il viaggio che ho fatto per il mio giornale, Linkiesta, è stato non lunghissimo eppure denso di incontri che mi hanno arricchito come non credevo, devo ammetterlo. Incontri che bucano molti luoghi comuni e definizioni di comodo. E' per questo che suggerisco di dirigersi verso il Sud estremo, verso il "southern wild" di casa nostra, con uno sguardo libero da pregiudizi. Andarci, senza secondi fini. Mi piace concludere, per capovolgerlo, con l'aforisma di un maestro "malpensante" come Gesualdo Bufalino: «In un mondo d'arrivisti buona regola è non partire». No, per certi viaggi liberi è buona regola partire. Altroché.


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Tra i boschi d’Aspromonte

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Aspromonte: una montagna di biodiversità Il patrimonio donatoci dagli avi è lo stesso che, domani, doneremo ai nostri figli di Rocco Mollace

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o studio del fitoclima, l’ambiente fisico e la vegetazione naturale potenziale di una regione è tappa fondamentale nell’analisi della struttura e della dinamica del paesaggio. Conoscere il paesaggio significa conoscere le potenzialità biologiche di un territorio. La definizione di unità e sistemi ambientali diventa ottimo strumento di base per la pianificazione territoriale e l’analisi delle vocazioni e dei rischi (potenzialità di uso). Si parla di Aspromonte ispirandosi a leggende a miti ma non si parla mai del suo potenziale naturale, dove la natura segue il suo corso indisturbato, dove ogni organismo,visibile e non visibile, svolge la sua funzione affinché la biodiversità segua la sua strada. Biodiversità È la totalità di esseri viventi (animali, piante, funghi) presenti in un ambiente naturale. La sua importanza deriva dalla considerazione che maggiore è la diversità biologica e più sano e incontaminato è l’ambiente. La biodiversità involve anche il concetto di coevoluzione nella misura in cui l’ambiente maturo e complesso deriva dalla interrelazione dell’insieme di specie viventi che hanno imparato ad evolversi e a influenzarsi reciprocamente.Ciascuna specie ha espresso la sua parte di evoluzione nei rispetti delle altre specie. All’interno delle foreste la diversità biologica coinvolge differenti livelli: sfera botanica, sfera animale e sfera microbica (funghi, batteri ). L’importanza dei vegetali in Aspromonte L’importanza dei vegetali non è soltanto ancorata alle due principali funzioni conosciute, la fotosintesi clorofilliana e il consolidamento del terreno, difatti risulta ancora poco conosciuta la valenza in campo farmacologico. La maggior parte delle medicine che servono a curare le malattie dell’uomo e di molti animali domestici vengono estratti dai principi attivi presenti in molti vegetali (penicillina, aspirina, farmaci contro il cancro, contro l’Aids). Numerosi principi farmacologici estratti dalle piante sono stati sintetizzati dall’uomo in laboratorio. Nei secoli passati gli uomini hanno imparato a curarsi mediante l’utilizzo appropriato dei vegetali. Numerose popolazioni abitanti le foreste tropicali sono gelosi custodi di segreti sull’utilizzo di alcune sostanze provenienti dal mondo vegetale. I tronchi abbattuti o derivanti dagli alberi stroncati dai fulmini conservano una loro importanza ecologica. Il legno è soggetto a marcescenza e diviene facile di-

ha comportato incroci e/o ibridi di scarsa utilità per la nostra economia. Le razze animali autoctone ormai scomparse, come la razza bovina podolica, la capra aspromontana sciara, roana, pur tentandone l’introduzione territorio, faranno fatica a trovare l’ambiente loro favorevole. Gli incendi nel cambiamento della biodiversità L’incendio è una combustione non controllata di materiali combustibili con presenza di fiamma. Un incendio può essere provocato da diverse cause sia naturali (autocombustione, fulmini, ecc) che per mano del-

Squarcio di felci lungo la Fiumare degli eremiti Foto di Pasquale Criaco mora di numerose specie sia di vertebrati (soprattutto uccelli, come il picchio) che invertebrati (insetti lignicoli). La materia organica morta alimenta, con la decomposizione, la vita di numerosi organismi saprofiti (microbi e funghi) che preparano il terreno fertile per l’arrivo e la crescita di nuove piante. A differenza della concezione gestionale, in vigore fino a qualche tempo fa, assume sempre più importanza e priorità il mantenimento della materia organica morta e soggetta a decomposizione. L’importanza degli animali: la catena alimentare La presenza di animali in una zona specifica significa che l’area conserva il suo stato primitivo: c’è equilibrio tra preda e predatore. Quando questo filo conduttore viene rotto per una qualsiasi ragione l’equilibrio si rompe ed inevitabilmente aumentano le prede o i predatori. In Aspromonte sono gli incendi a mutare le caratteristiche territoriali degli animali, segue la caccia e ancora peggio l’inquinamento genetico di una specie. Cambiamento della diversità biologica in Aspromonte Negli anni 50-60 l’Aspromonte si spoglia delle sue specie animali autoctone per dare spazio a nuove specie di interesse zootecnico non adatte, però, al nostro ambiente montano. Questo nuovo assetto zootecnico

Il Sindaco di Carrà “biodiverso” per eccellenza Tanti ricorderanno il Sindaco, il porco che tutto fece tranne il suo dovere. Nato per riempire le sue stesse budella di carne e grasso sotto sale, visse invece una vita intensa e dissoluta. Il “play-boy della montagna”, che tanto diede filo da torcere ai cinghiali. Invincibili per antonomasia ma non per lui, che mai disperse seme o voglie. Il “lupo del Carruso”, diabolico e prestigiatore. Capace di latitare da Natale a Pasqua, seguendo rigorose diete dimagranti e facendo disperare il suo padrone che non ne avrebbe ricavato neanche un salamino. Capace, poi, di tornare bellissimo, grasso e rosa, cordiale, vitale, sempre presente a cene e banchetti. Ma solo in estate. Per 13 anni fu così. Il “Rambo a quattro zampe”. Mimetizzato tra i Cofs durante le loro esercitazioni in Aspromonte, si arruolò puntualmente per procurarsi il rancio. Almeno due volte al giorno. Persino i temuti warriors ne riconobbero la superiorità strategica. Il Sindaco di Carrà riscrisse le regole della natura. La “zimba” non fu mai la sua casa, preferì di gran lunga la frescura dei boschi, gli angoli inaccessibili della montagna, le viste mozzafiato e i pendii, i laghetti, le ghiande ancora umide di rugiada. Non fu catturato, si consegnò piuttosto. Non cedette agli uomini, si rassegnò al tempo.

Ramarro immortalato su un perastro ad Africo Antico Foto di Leo Moio l’uomo (dolosi). L’incendio modifica il paesaggio scompaiono le specie animali presenti e regna sovrano lo scempio. Negli anni dove il terreno è stato attraversato dal fuoco non cresceranno mai più le specie arboree presenti in origine. Biodiversità esistente in Aspromonte La diversità biologica esistente in Aspromonte deve essere conservata e tramandata ai nostri discendenti. Le bellezze naturali ancora intatte nel massiccio aspromontano sono un dono dei nostri avi, che sfruttarono razionalmente la montagna. Le bellezze arboree sono il dono di coloro che, dopo le alluvioni degli anni ‘50, misero a dimora con cura e amore.

Facciamo il punto

Secondo una stima le foreste tropicali, fra tutti gli ecosistemi terrestri, conservano il 50% di tutti i vertebrati, il 60% dei vegetali e, in complesso, quasi il 90% di tutte le specie viventi del pianeta Specie

Numero

Mammiferi Uccelli Rettili Anfibi Pesci Insetti Ragni, Crostacei, etc. Molluschi Altre speci animali Funghi Piante Pluricellulari Alghe

4600 9800 8000 5000 25000 970000 123000 70000 100000 70000 250000 27000

Numero complessivo di specie viventi conosciute nel mondo


Tra i boschi d’Aspromonte

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Il fuoco, un mostro in agguato

È omissione di soccorso. Ogni anno si lasciano morire migliaia di ettari di bosco segue dalla prima

di Leo Criaco

N

ella nostra regione una delle zone più colpite è l’Aspromonte che perde quasi ogni anno circa 2500 ettari di boschi, macchia mediterranea, frutteti e uliveti. Nel 2012 nei soli comuni di Africo, Roccaforte del Greco e Roghudi più di mille ettari di pino laricio, leccio, faggio e macchia mediterranea sono stati ridotti in cenere.

I danni inestimabili prodotti ogni anno dagli incendi Foto di Francesco Depretis Il versante più interessato dal fuoco è quello orientale in quanto più esposto a sud e quindi più caldo e siccitoso, il che porta, inevitabilmente, a un più rapido appassimento ed a una maggiore infiammabilità della vegetazione. In questa parte dell’Aspromonte, a favorire il propagarsi degli incendi, ha contribuito in modo determinante lo spopolamento e in alcuni casi l’abbandono totale di interi paesi (Palizzi, Staiti, Ferruzzano, Africo antica, Roghudi, Roccaforte del Greco ecc.) dell’entroterra. Questi gravi e tristi fenomeni hanno comportato l’abbandono e la mancata messa a coltura di migliaia di ettari di terreno che normalmente venivano coltivati a cereali, legumi, ortaggi,

frutteti e uliveti. Inoltre, ha causato il deterioramento dello stato colturale dei boschi in quanto le popolazioni dei paesi suddetti tenevano i boschi in “ordine” per ricavare legna (da ardere e da opera), rami (per il forno), e frutta da mangiare o da usare come mangime per gli animali (castagne, noci, ghiande). La quasi totalità dei roghi sono opera dell’uomo e solo in alcuni sporadici casi è responsabile la natura (incendi causati dai fulmini o per autocombustione della vegetazione dovuta ai raggi solari). Gli incendi possono essere di natura dolosa (volontari) o colposa (involontari). I soggetti che appiccano il fuoco volontariamente lo fanno per diversi motivi sperando alla fine di trarne un vantaggio personale (esempio migliori pascoli). Le cause di incendio di origine colposa dipendono, nella maggior parte dei casi, da disattenzione, imprudenza e ignoranza dei soggetti (agricoltori, pastori, turisti della domenica) che non rispettano il periodo di divieto di accendere fuochi. O l’accendono in presenza di vento o mal custodiscono fuochi e brace preparati per cucinare ecc. Una parte dei roghi non volontari è dovuta anche alla pessima e dannosa abitudine dei fumatori di buttare dal finestrino i mozziconi accesi. I danni provocati dagli incendi sono di tipo ambientale (distruzione della flora e della fauna), paesaggistico e patrimoniale (perdita di legno da opera e da combustibile). I danni causati all’ambiente sono devastanti e la natura impiega decenni a ripristinare l’ecosistema preesistente, lasciando per molti anni, le aree bruciate al rischio di erosioni, ruscellamenti, smottamenti e frane. Per ridurre e limitare i danni causati dal fuoco non è sufficiente il solo rafforzamento dei mezzi (canadair, autobotti ecc.) e del personale a disposizione (volontari, vigili del fuoco, operai Afor), ma servono misure idonee atte a prevenire e bloccare la diffusione dei roghi. Queste misure consistono in diversi interventi di manutenzione che hanno lo

scopo di ridurre drasticamente la massa vegetale più vulnerabile alla diffusione del fuoco. Gli interventi necessari sono: diradamenti (ordinari e periodici tagli dei boschi), spalcature (taglio dei rami basali fino ad una altezza di 4 metri, per evitare così che le fiamme si diffondano alle chiome degli alberi), sfoltimenti (eliminazione dei polloni dalle piante principali), costituzione delle fasce taglia-

Operai Afor intenti da giorni a domare le fiamme Foto di Francesco Depretis fuoco (queste fasce sono aree ripulite dalla vegetazione, almeno due volte all’anno, situate ai lati delle strade e larghe complessivamente 40-50 metri, (hanno la funzione di ostacolare e arrestare l’avanzamento del fuoco), taglio con l’estirpazione e l’asportazione delle piante secche, malate e sradicate. Non è opportuno ripulire il sottobosco (fa eccezione della parte ricadente dentro le fasce tagliafuoco) per non alterare l’equilibrio biologico dei boschi. Negli ultimi decenni niente è stato fatto e le montagne sono state abbandonate dagli organi di governo che hanno il compito e il dovere di migliorare, sviluppare e salvaguardare il nostro “magnifico” patrimonio ambientale.

Il saggio di Rocco Mollace che ha spopolato su inaspromonte.it

La Vipera tra mito e realtà «Cu nasci serpi è mpamu e 
senza cori ma ricordati ca l’homu è peju 
ancora»

L’erpetologia è la scienza che studia i serpenti velenosi e innocui. Tutto ciò che striscia, in genere, incute paura e disprezzo, e alla vista di un serpente la prima cosa che si fa è darsi alla fuga. Mentre l’uomo scappa senza una direzione, il serpente si è già nascosto: la paura fa novanta in entrambi i casi. Se si chiede al fuggitivo cosa sia successo questo risponde “Ho visto una vipera!”. Ma si tratta di comune biscia di Esculapio tipica del nostro territorio aspromontano. Curioso è il fatto che a volte persino gli esperti del settore non riescano a distinguere i Colubri dai Viperidi. I Colubri sono le bisce nere (a serpi nira), la Natrix natrix comune biscia d’ acqua (u scurzuni), il Saettone (serpi i latti) ed il Cervone (mpastura vacchi). Quest’ultimo, secondo una credenza popolare ancora in auge, sembra si attorcigli alle gambe delle vacche per succhiare il latte dalla mammella. Tranquillizzo tutti gli allevatori di bovini: questi Colubri sono innocui persino per le vacche. I colubri hanno denti sia sulle arcate superiori che su quelle inferiori, non hanno la ghiandola velenifera, possono mordere per difesa ma senza nessuna conseguenza. Come si riconosce una vipera da una biscia? Nella vipera la testa triangolare è inconfondibile, la coda tronco-conica si restringe bruscamente e la pupilla è verticale. Sul capo è evidente il cosiddetto “calice” da dove parte la livrea a zig-zag che prosegue lungo tutto il corpo. Nella biscia, invece, la testa ed il corpo sono un tutt’uno, senza restrizione dalla testa alla coda, con colore spesso uniforme e la pupilla rotonda [...] (segue su www.inaspromonte.it) Foto sopra di Paolo Scordo: un raro esemplare di Vipera Aspis maschio (Africo Antico)


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Arte & Cultura

inAspromonte Agosto 2013

        ))*%%',0'903,)1"$/'!,+1'!,)0#01 #"'6',+#"#)4,/(0&,-")1'1,), ,/1,/',+12/<0-/, *,+1#=,"1,0''*','%+,/#-#/.2#))'!&#-#/",++,'+ +,*#"#)12,*,/#>*+'$#016',+#9')$/211,"'2+?'+ 1#+0!,)) ,/6',+#1/')#+1/,"'-/,%/**6',+##"' 1#//+#"'#%%',) /')?00,!'6',+#+12#2 -/'!20"'$/'!,)?+1#/!,6',+)#"?0-/, *,+1##"'),*2+#"'$/'!,)) ,/1,/',&++,-/1#!' -1,3#+1'/1'01' /'#)#'!,):2!'+'3'0%)'+"/# 2$$,),+"/#'3'+,,)1#)),+%/6,+#)#/' &'+"#*'),/'+#,/ /2+,3#))'2%#+'&/' 01,3#00'!',+1#/+!,'/%)''!!/",,/1# *+2#)# #/!' *+2#) /+1 /+!#0! /#!, +010'#,+,3/'+,0''/0,#0/,+0/' ,*0#))'0#)#6',+1'"))#!!"#*'#"'#))#/1'"'#% %',) /'"'/ '+,"',*#"))!2,)+1#/+6', +)#"'/$'!"'#+#6'!&#&++,-/,%#111,#/#)'661, '+),!,"#'=/-&'!"'/5>/#+"#+",0-2+1,")=+1'!, "#))#!/#12/#>"'+/+!#0!,"?00'0'')4,/(0&,-&$ $/,+11,2+/'$)#00',+#02)!,+!#11,"'=-#/",+,#-#+1' *#+1,>  " -/1# "' !'0!2+, "#' -/1#!'-+1' %2'"1' 0-'/'12)*#+1#")$/1#$/+!#0!+,/+!#0!,!.2 ,+ )1211,!,*#-#/'-/#!#"#+1'4,/(0&,-9011,!!,*- %+1,"2+?11#+1)#112/"#)-#0%%',0-/,*,+1+,/ 6'#.2#01#'+1#/6',+'0') #))#66"#')2,%&'!&#')0#+0, "'$*')'/'17002+1,"))#-#/0,+##+,+2)1'*#)-/,$,+" !,**,6',+##)-/#0"'!,0!'#+6+1"%)''+!,+1/',/ %+'661'))?'+1#/+,"#))*+'$#016',+#&++,)0!'1, 2+1/!!'-/,$,+"+#))*#*,/'"#'-/#0#+1'/'*, *#+1'-';0'%+'$'!1'3'"#))*+'$#016',+#3/'!,/"1,') "' 11'1,02=#/",+,##+1'*#+1,>,/%+'661,#*,"#/1,

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Arte & Cultura

inAspromonte Agosto 2013

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Careri, nasce il Parco letterario intitolato allo scrittore calabrese

«Mio nonno Francesco Perri»

Penna felice, scorrevole, libera. Ribelle. Scorazzò scalzo da bimbo nelle terre d’Aspromonte di Giulia Perri

Q

ualcuno potrebbe chiedersi come mai la Regione Calabria abbia istituito un Parco Letterario intitolato a Francesco Perri. Pochi ricordano chi sia stato, dove sia nato e cosa abbia scritto. Per spiegare il legame di mio nonno con i luoghi dove il Parco avrà sede, partendo da Careri in cui si trova la casa natale e snodandosi verso Pietra Kappa, attraverso una natura che ha preservato la sua bellezza nel tempo, basti pensare che l’artista chiese alla famiglia, con cui viveva a Pavia, di essere seppellito giù, a casa. Però, come spesso accade, si trattava di un amore “ambivalente” quello che lo legava alla Calabria e da lì scappò non appena ne ebbe occasione, nel 1908, poco prima del terribile terremoto, di cui ebbe notizia a Fossano, dove si era impiegato alle Poste Regie. Una foto lo ritrae sorridente ed elegante proprio a Fossano, all’inizio di quell’avventura straordinaria che fu la sua esistenza: la febbrile spinta a

scrivere poesie, racconti, poi romanzi, la macelleria della Prima Guerra Mondiale per la quale partì volontario, nonostante la moglie avesse partorito il primo figlio. Dopo il congedo nel 1919 arriva l’intensa attività giornalistica sulle pagine della Voce Repubblicana, che lo vide contrapporsi aspramente al fascismo nascente, tra i primi ad averne compreso i pericoli per la libertà e la democrazia. Qualche mese prima della Marcia su Roma, già sotto il falso nome di Pan, che iniziò ad utilizzare per sfuggire alla violenza delle squadre fasciste, aveva scritto un pamphlet, il fascismo, che l’editore calabrese Laruffa ha ripubblicato di recente, preconizzando quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Dovette, allora, nascondersi sotto un altro pseudonimo, Paolo Albatrelli, nome con il quale pubblicò prima a puntate nell’estate del 1924 poi con Garzanti nel 1925, il romanzo Conquistatori, anch’esso riedito da Laruffa nel 2012, con la

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prefazione di Nichi Vendola e l’introduzione del prof. Lombardi dell’Università di Pavia. In Conquistatori raccontò le tragiche gesta delle squadracce di Cesare Forni: Perri aveva assistito di persona all’asprissima lotta tra le leghe proletarie e gli agrari. Il romanzo gli valse la caccia spietata della polizia fascista. L’Ovra lo cercò dappertutto, senza esito. All’inizio del 1927 le autorità compresero l’inganno e lo licenziarono in tronco per attività contrarie al regime: fu così che Francesco Perri si ritrovò, padre di quattro figli, senza possibilità di sostentamento. Disperato. La Voce Repubblicana era stata chiusa d’autorità, insieme alle altre testate contrarie al regime nel 1925. Verso la fine del 1927 tentò l’impossibile: scrivere un romanzo in tre mesi e mandarlo alla Mondadori, sperando di vincere il Premio letterario, che veniva indetto ogni anno. Memore dell’esperienza del 1921 quando, tornato a Careri per aiutare i contadini in lotta per ottenere l’assegnazione

delle terre demaniali, scrisse di getto Emigranti. Raccontò il vano tentativo dei contadini di ottenere terre da coltivare e soprattutto la vita di coloro che erano migrati lontano, in America. Lo fece dando voce a chi era rimasto, e ai pochi che tornavano. L’impatto dell’emigrazione sulla vita sociale e sugli affetti venne raccontato con un linguaggio il più simile possibile a quello vero: il parlato, il sentito. E questo “esperimento” letterario gli valse il Premio Mondadori, che gli diede notorietà e un po’ di sollievo economico. Non sapevano, i componenti della giuria, tra cui c’era anche Luigi Pirandello, di avere assegnato la palma del vincitore a persona non gradita al regime. Nel 1932 venne arrestato e portato al carcere milanese di San Vittore, accusato di corresponsabilità della fuga dal confino dei fratelli Rosselli. Scarcerato dopo un paio di mesi, preferì fare vita ritirata e,

apparentemente, si limitò a scrivere romanzi storici e racconti che assomigliano, a rileggerli ora, a piccoli cammei. Ma dopo l’8 settembre 1943, Perri tornò con la famiglia a Milano e prese parte attiva alla vita politica della città sotto il giogo dei tedeschi, scrivendo sull’edizione clandestina della Voce Repubblicana. Rifiutò sdegnosamente di fare da tramite per il “ponte” che si tentava di costruire tra quanto rimaneva del vecchio regime e gli antifascisti, dopo la tragedia di Piazzale Loreto, e andò a Genova a dirigere il Tribuno del Popolo, su richiesta del Partito Repubblicano. Fu poi direttore della Voce Repubblicana durante la campagna referendaria e per un soffio non fu eletto al primo Parlamento della neonata Repubblica, tanto che quando gli offrirono il Ministero dell’Istruzione fu costretto a rifiutare la carica, di cui pure sarebbe stato degno.

Il dono, fatto dall’Associazione Culturale “Francesco Perri” di Careri, alla nostra redazione

Hanno collaborato in questo numero Antonio Iulis, Cosimo Sframeli, Rocco Giuseppe Tassone, Giulia Perri, Alberto Alfredo Tristano Per l’Aspromonte orientale Domenico Catanzariti, Domenico Stranieri, Totò Bufalino Per l’Aspromonte grecanico Salvino Nucera, Sebastiano Modafferi, Francesco Violi Per la Vallata del Gallico Maurizio Malaspina Per le biodiversità Rocco Mollace, Leo Criaco

Fotografi Leo Moio, Pasquale Criaco, Natale Nucera, Francesco Depretis, Gioacchino Mollica (foto pag. 16), Enzo Penna, Paolo Scordo Progetto grafico Alessandra Benigno Allestimento Stefania Gitto Coordinamento prof. Giovanni Curatola, corso di “Teniche Grafiche Speciali”, Accademia delle Belle Arti di Reggio Calabria Chiuso in redazione il 27/07/2013 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.


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