"in Aspromonte" Numero 1

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Direttore Antonella Italiano

inAspromonte

Settembre 2013 numero 001

IL CASTELLO DELLE TORTORE

Le storie che San Luca deve ancora raccontare

pag. 8

San Luca festeggia la Madonna di Polsi, centinaia di fedeli sfidano la montagna per raggiungere la secolare mamma. Ma San Luca non è solo Polsi, ha immensi tesori ancora poco conosciuti, e leggende, e rocche, e scrittori, e una storia che è profonda almeno quanto le sue ombre

L’intervento

«inAspromonte, un sogno di tanti» di Antonella Italiano

E

d arriva anche il numero 1 del nostro ambizioso progetto, ed ogni tiro andato in rete è una vittoria, comunque finisca la partita. Perché l’Aspromonte, che mostriamo su queste pagine e ogni giorno sul web, è quello reale. Perché nel bene e nel male, noi, l’abbiamo conosciuto. E ci orientiamo in boschi sempre uguali grazie ai disegni che le montagne fanno nel cielo, o agli odori, alle temperature, ai suoni. Diffidate, dunque, da chi vende “progetti” ai politici. Da chi non ha le mani sporche di terra, dall’Aspromonte turistico e inflazionato, dalle mimetiche alla moda, tempestate di lustrini. Dov’è, dunque, la montagna? Nel dialetto ostile e nei modi bruschi dei pastori, nella puzza di stalle e animali, e in una generosità esagerata, che non trova eguali in nessuna latitudine del mondo. L’unica grande debolezza del nostro popolo. «È giusta la strada per andare a Roccaforte» chiedemmo un giorno ad un vecchio pastore. «È questa – rispose lui – ma enpag. 3

L’inchiesta

La testimonianza

La nostra storia

Incendi estivi. Cosa c’è dietro?

Gente onesta nella Locride

Micarè, il viaggio senza ritorno

pag. 4-5

Aspromonte orientale

Uomini che non nascono per caso pag. 7

pag. 2

La Chanson d’Aspremont pag. 16-17

pag. 20

Aspromonte grecanico

Lu sceccu e lu lupu pag. 11

L’analisi di Serge Quadruppani

«

Insomma, se la Calabria scomparisse, nessuno nella classe dirigente e nemmeno i suoi intellettuali e i suoi giornalisti se ne accorgerebbero». Questa frase nasce nella conversazione tra un gruppo di amici ritornati a constatare lo stato di Africo Antica, borgo aspromontano oggi in rovina e invaso dalla vegetazione. Borgo che negli anni ‘50 del secolo scorso fu evacuato per ordine dello stato. A quell’epoca, l’autorità centrale ha in effetti approfittato di una frana per iniziare qui, l’opera intrapresa dall’inizio dell’unificazione dell’Italia: la sottomissione al Nord della popolazione ribelle del Sud. I piemontesi e i loro re sono venuti a imporre la scomparsa di una prospera economia agricola e di una civilizzazione rurale discendente dalla Magna Graecia e dal miscuglio di popoli (Greci, Ebrei, Armeni, Albanesi e tante altre etnie compresa la misteriosa ed arcaica razza autoctona). I coloni nordici hanno confiscato le terre con profitto di qualche barone e ridotto le popolazioni alla miseria sotto il peso delle tasse. Ciò che si definisce in questa montagna «lotta contro il brigantaggio», ha preso alla fine la forma di una deportazione verso la costa, in una zona chiamata «campi della malaria». Il passaggio dalle gran-

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inAspromonte

La testimonianza

Settembre 2013

L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri

Gente onesta nella Locride

San Luca. I suoi anziani, i suoi ragazzi, le sue donne, nel difficile periodo dei sequestri di persona

di Cosimo Sframeli

L

a frase era stata scolpita sul marmo, all'ingresso del Municipio: “La disperazione più grave che possa impadronirsi d'una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”. Corrado Alvaro, a quel tempo, doveva averla pensata come un’esortazione. Ma il tempo l'aveva mutata in una constatazione; proprio una lapide. Gli abitanti di San Luca, occupati e preoccupati dalle pratiche per la sopravvivenza quotidiana, non ci facevano più caso. Per il paese non si passava per caso. La strada, che dallo Jonio saliva tra ulivi e mandarini alle pendici della montagna, portava a San Luca o ai boschi dell'Aspromonte dove trovavano rifugio latitanti e dove venivano tenuti prigionieri i sequestrati della 'ndrangheta. San Luca, così tramandavano le cronache di mezzo secolo, era il centro che contendeva a Platì il titolo della capitale dei rapimenti. E di lì, incatenati nelle cantine, nei casolari, nelle grotte, in buchi scavati nella terra, passarono più di una cinquantina di sequestrati dall'Anonima calabrese. L'aspetto del paese era quello della frontiera aspromontana, una macchia di case con 5.000 abitanti, schedati fin dalla tenera età. Il solito repertorio di immagini arcaiche, lo stesso di dieci o di cento anni prima. I fori dei pallettoni sui cartelli stradali, le vecchie vestite di nero, gli anziani seduti in piazza, i giovani disoccupati del bar, i ragazzini che sciamavano attorno al forestiero. Le lamentele sul lavoro che mancava, la terra arida, i parenti ingiustamente incarcerati. E qualche buontempone che, di tanto in tanto, la notte, si divertiva a sparare un paio di colpi di pistola contro la Caserma dei Carabinieri.

Prendere semplicemente atto di tanta violenza, pur così diffusa e appariscente, avrebbe potuto significare continuare ad agire dall'alto di un pulpito. A leggere i giornali e sentire la televisione, in quei paesi erano tutti iene. Senza distinzioni. Chi era calabrese, della provincia di Reggio Calabria, era un criminale. Schiacciati tra l'incudine delle cosche, che imponevano con il terrore la legge dell'omertà, e il martello dello Stato e dei mass media, che criminalizzavano senza tanti distinguo intere in quei comunità. I calamattoni bresi, i sanluchesi, alla fine, avevano c’erano anni di scelto la via della sfiducia. Alle sette sudore, di di sera i paesi si umiliazioni, di padri svuotavano. Tutti a casa, per paura di che si erano levati il vedere qualcosa che pane di bocca non andava visto o di incappare in un posto di blocco. Chi poteva se ne andava. Chi restava pensava a sopravvivere. Delle storie di paese non si parlava nemmeno tra compaesani al bar. Potevano esserci orecchie indiscrete. I paesi erano abitati soprattutto da gente onesta che si sfogava in famiglia o con gli amici più intimi, se qualcuno avesse saputo qualcosa di un sequestrato avrebbe potuto pur riferirlo ai Carabinieri, ma quasi certamente sarebbe stato ammazzato. Quindi, stava zitto. Storie che si ripetevano. A San Luca, la parte vecchia del paese, a monte, era quasi disabitata

dall'inizio degli anni Settanta quando un’alluvione fece franare una montagna e le strade, spingendo gli abitanti a trasferirsi. I cittadini di quei paesi andavano fieri delle loro mura spoglie e mal rifinite, con gli infissi e i tetti piantati alla meno peggio, quasi a simboleggiare la loro precaria provvisorietà. Forse, erano case brutte e qualcuno aveva pure detto che vivevano come bestie. Ma in quei mattoni c’erano anni di sudore e di umiliazioni, di baracche, di padri che si erano levati il pane di bocca. Era consuetudine che le figlie per sposarsi avrebbero dovuto portare in dote la casa e, visto che i soldi non bastavano mai, la gente andava a vivere nelle case non finite. Ci fu l'arrivo del segretario del PCI, il partito che a San Luca otteneva la maggioranza assoluta dei voti. La logica che governava era come intessuta da fili invisibili che avvolgevano l'intera comunità in una spirale di diffidenza e di paura. Sopra il paese, alle pendici dell'Aspromonte, quando nevicava, per la strada andavano avanti mandrie di mucche. Erano di nessuno. O meglio, nessuno osava chiederlo. Le chiamavano le vacche sacre. Nel senso che avevano libertà assoluta di pascolo, ovunque, anche nei terreni coltivati. Guai a protestare. Era così. L'omertà, come il rispetto per quelle famiglie che contavano, si basava non tanto su una solidarietà attiva quanto sul terrore. Un potere agro-pastorale più temuto che riverito. Leggi semplici che, però, bisognava imparare a conoscere fin da bambini. All'Istituto commerciale di Bovalino, quando liberarono Marco Fiora, fu assegnato un tema che chiedeva agli studenti di raccontare cosa pensassero del sequestro di quel ragazzo. In quattordici si rifiutarono di svolgere il compito. Erano tutti di San Luca.


inAspromonte

Attualità «inAspromonte, un sogno di tanti» segue dalla prima

di Antonella Italiano trate a casa mia prima di ripartire, vi offrirò qualcosa». Gli aspromontani sono così. Esagerano. Dov’è l’Aspromonte? Nell’alternarsi senza regola di vette e vallate, nelle zone inaccessibili, casa di capre selvatiche e cinghiali. Nelle storie di latitanze, morti, sequestri. Nella durezza di Zervò e della sua comunità, nelle vesti lunghe della donna di Polsi, rotonda e semplice come le mamme. L’Aspromonte è il cielo stellato che più volte ci ha nascosto la strada. Le insidie. Le notti senza luna che amano i ghiri, il cui canto si mischia a quello di sovrapposti e carabine. Verità che tutti conoscono. L’Aspromonte sono storie che si intrecciano e si completano, e mappano queste terre fino ai secoli prima di Cristo. È questo ciò che raccogliamo, nella speranza che arrivi a tutti. A chi deve chiedere il permesso ad un magistrato per leggere il nostro giornale, a chi non rivedremo ma prega per noi, a chi è lontano da troppo tempo e mischia il dialetto alle lingue straniere, a chi si sente ancora brigante e vive di stornelli del passato, a chi sa essere buono o cattivo a seconda delle circostanze. Un sogno. Nulla di più. ma collettivo, a nostra insaputa, quindi più concreto di quanto potevamo sperare. Con i sognatori che hanno scritto per noi saremo sempre debitori.

Settembre 2013

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Le contraddizioni del Sud. Miseria e consumismo “ganasce della stessa tenaglia”

La scomparsa dell’Italia vista dalla Calabria segue dalla prima

di Serge Quadruppani

diosi alture, e le belle e vaste vecchie case, a delle odiose baracche si accompagnò ad una acculturazione che fu come il prototipo di quello che subì l’intera Italia negli anni Ottanta del secolo scorso, dopo la liquidazione delle rivolte degli anni Settanta. In effetti in queste abitazioni, dove dormivano da 6 a 10 persone per stanza, misero velocemente la televisione. La famosa mutazione antropologica annunciata da Pasolini è stata sperimentata qui una decina di anni prima: la miseria e il consumismo, come ganasce della stessa tenaglia. Alla festa di san Rocco di Gioiosa Jonica, sulla costa, la mutazione è chiara sotto i nostri occhi. Certamente, essa non sarà mai verafinché compiuta mente rimbomberà il grido «Rocco, Rocco, Rocco, evviva San Rocco», e finché il santo sarà salutato con dei cori da tifosi di calcio da una folla della quale l’entusiasmo non ha niente a che vedere con la fede cristiana, ma molto con la voglia di affermare la sopravvivenza pagana di un’identità collettiva. Quello che domina pertanto, sono le centinaia di bancherelle di bigiotteria, venute soprattutto da un sud asiatico ancora più povero e più sfruttato di questo qui, le illuminazioni kitsch e la musica trasmessa dagli altoparlanti per chilometri. Il peso delle carni e la lentezza degli spostamenti della

Chi è

LO SCRITTORE Serge Quadruppani (La Crau, 1952) è uno scrittore francese. Attivista e militante della sinistra libertaria, traduttore, giornalista ed editor letterario ma, soprattutto, autore di numerosi romanzi noir e polizieschi. Scrive sulla rivista Le Monde diplomatique e sul settimanale di fumetti e satira Siné Hebdo. Stimato traduttore di numerosi talenti statunitensi e italiani, pubblica i suoi lavori nella collana che cura presso le Editions Métailié (Paris) gente è in sintonia con l’atmosfera di una regione dove le vie di comunicazione non sono mai veramente finite e dove solamente non rispettando le regole si può andare veloce. L’incompiutezza perenne dei lavori pubblici non è pertanto appannaggio di qui: gli stessi fenomeni che spiegano qua (ostinazione dei politici a lanciarsi nell’intraprendere opere faraoniche attirando prestigio e fondi europei,e interesse delle mafie che le sostengono) sono dietro la storia delle Tav nella Val di Susa, dove con-

L’AUTORE

Serge Quadruppani (nella foto)

tro l’opposizione della popolazione e contro ogni ragione, si ostina a proseguire un progetto che non sarà mai finito. Solo che qui questo è comunque molto più visibile: gli stabilimenti balneari immensi su delle spiagge infinite, quasi deserte e già in via di degrado avanzato, gli innumerevoli stabili incompiuti («ad un certo punto ci è mancata la motivazione» ci hanno detto per spiegarci questo fenomeno) esprime la via della passività scelta per una buona parte della Calabria e dell’Italia intera. […] A chi vo-

lete che interessino questi piccoli giochi nel momento in cui la disoccupazione dei giovani esplode, o quelli che riescono a diplomarsi emigrano, o dove gli italiani vanno a riprendersi il lavoro che avevano lasciato agli immigrati. «In realtà» aggiunge uno dei visitatori di Africo, «tutta la popolazione d’Italia potrebbe scomparire senza che i politici e i loro parenti alleati se ne accorgano». «Che cosa accadrebbe se avvenisse il contrario?», domanda un altro «se fossero loro a scomparire?». Anche in Calabria

L’editoriale di Gioacchino Criaco ASPROMONTE FRA BRIGANTI E MERIDIONE

S

«ORA PARLO IO» Altri 12 milioni di euro per la diga del Menta

Il Governatore Scopelliti: «L’acqua arriverà a Reggio con buona pace di chi, nelle scorse settimane, aveva alimentato con insistenza le ricostruzioni quanto meno ardite circa il disimpegno del Governo». Il CIPE lo scorso 8 agosto ha deliberato l’ennesimo finanziamento. E con questi fanno: 512 milioni di euro. Amen

avoia o Borbone, pari sono. Per questo la successione di regimi non ha appassionato gli aspromontani. L’uno era la prosecuzione dell’altro e insieme rappresentavano la continuità della dominazione del sud, iniziata da Carlo Magno e ancora oggi ininterrotta. Stessa faccia, stessa razza, anzi medesima famiglia, proprio in senso genetico. Savoia e Borbone erano il frutto delle identiche gonadi, per ascendenza, maschile o femminile dallo stesso ceppo, i Celti. E briganti e brigantesse si rassegnino, l’Aspromonte non ha dato briganti alla causa dei Borbone, perché una causa non c’era, e non apparteneva certo a essi la causa meridionale. C’è stato un gioco delle parti, fra due dinastie omologhe sotto una sapiente regia centro europea, bisognava unire per tenere disuniti e le fabbriche della rivoluzione industriale avevano bisogno di sapienti braccia levantine. Storia ed eventi spesso sono un trucco e l’epopea del sud resistente è una favola, buona per tenere divisa l’Italia, e la questione meridionale è anch’essa fasulla se non la si inquadra in quello che è il nodo vero, la questione mediterranea. Parlare di sud senza includere il tema della Grecia, la Libia, l’Egitto, la Siria.. tutto il Mediterraneo è un tacer gridando. La storia vera, o probabile, è che l’impero romano ha rappresentato il sunto delle civiltà mediterranee, da quella greca, egizia, mesopotamica.. raggiungendo il punto più alto del dominio di una cultura

tutta nata intorno al mare antico. L’impero carolingio ha interrotto il monopolio mediterraneo, lo ha soppiantato con una cultura diversa e alternativa, frutto di un popolo giovane, i Celti. Carlo Magno s’è impossessato dell’eredità romana e sotto il vessillo dell’aquila ha fatto marciare gli interessi barbarici, e da allora nulla si è mosso, tutto quello che è accaduto e accade risponde all’esigenza di stabilizzazione del dominio celtico. Celtici o Sassoni, Svevi o Normanni, D’Angiò o Aragonesi, Borbone o Savoia, la sbobba è sempre la stessa per i Mediterranei, guerra, emigrazione, tasse e inganni. Centro e nord Europa hanno vinto e non mollano, poi fra America, Inghilterra, Germania, Francia, e via dicendo, è tutto un gioco delle parti, stessa razza stessa faccia. E questo revisionismo della storia patria è l’ennesimo inganno. Non abbiamo resistito ai Savoia perché non amavamo i Borbone e quelli che li avevano preceduti, tutti parimenti invasori. In Aspromonte non c’erano i briganti di Ferdinando, ma i resistenti a una dominazione millenaria, e quelli lucani e della Sila in fondo sono serviti a facilitare un eccidio, e il dramma è che alcuni si sono prestati in buona fede, altri l’hanno fatto per denaro. I Borbone dopo averci regalato mafia, camorra e ‘ndrangheta ci hanno affidato ai loro cugini, e nelle ferriere di Mongiana abbiamo forgiato solo catene per farci legare. Resistere oggi non significa limitarsi a rivendicazioni del sud Italia nei confronti del suo nord. Lottare vuol dire mettere in discussione il dominio dell’Europa celtica, e la crisi economica è solo l’ultima mossa per la stabilizzazione del sistema. Lasciamoli perdere i Crocco e compagnia scoppettando, valori ed eroi stanno da un’altra parte, e la questione non è, solo, meridionale ma mediterranea.


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L’inchiesta

inAspromonte Settembre 2013

UN’INDUSTRIA CONTRO LA DISOCCUPAZIONE

2012

tagliati i fondi per i canadair

2013 senza fuoco Niente soldi, niente incendi. Nel 1992 gli stagionali dell’attività antincendio sono stati definiti «un esercito usato per avere voti, protetto e ben pagato, che incendia per rimboschire di nuovo».

14,04%

26% nel 1989

sono gli incendi-lavoro

In Puglia gli incendi volontari addebitati all’azione di operai disoccupati rappresentava il 14,04% delle motivazioni accertate dal CFS (1974/1989); negli ultimi anni sono scesi al 3%.

gante numero di eventi, molti dei quali insorgono, con crescente percentuale, in ore notturne. Nell’ambito del nostro paese, circa il 98% degli incendi nasce dall’azione dell’uomo, pertanto non parliamo di un evento imprevedibile, ma di un fenomeno periodicamente ricorrente, non soggetto a grossi margini di variabilità se non per quanto attiene al numero degli eventi o alle superfici coinvolte.

il 98% degli incendi nasce per mano dell’uomo. L’autocombustione dei boschi è un fenomeno rarissimo

INCENDI COSA C’E’ DIETRO? Allevatori, forestali, agricoltori, dimostranti, piromani. La mano dell’uomo soffoca madre natura di Giuseppe Bombino*

P

arlando di incendi boschivi bisogna affrontare radicati luoghi comuni; il primo parrebbe ricondurli ad un fenomeno legato ai moderni modelli di vita, quindi alla accresciuta mobilità, al turismo, al tempo libero, che fanno accostare al bosco grandi masse di visitatori. Si tratta di un’interpretazione incompleta, che induce ad una analisi parziale del fenomeno, visto essenzialmente in termini di comportamenti negligenti.

Il fuoco come strumento

Il fuoco è in realtà uno strumento tradizionale di gestione dell’ecosistema agro-forestale mediterraneo, il cui uso remoto è documentato in agricoltura, in selvicoltura, nella pastorizia oltre ad essere testimoniato da usi rituali; il passaggio da strumento di gestione dello spazio agricolo e forestale ad elemento di offesa ed alterazione è quindi intuibile. Autorevoli studi hanno evidenziato come in passato i ritmi di insorgenza del fuoco fossero non dissimili da quelli attuali, pur se diversi erano i moventi. Gli incendi, insomma, non sono un fenomeno autonomo né una fatalità

ma rappresentano il sintomo di problemi socio-economici legati oggi ad una complessa serie di circostanze tra cui lo spopolamento di vaste aree rurali, l’abbandono dell’agricoltura, la distribuzione di nuovi insediamenti nell’ambiente rurale, la diffusione di infrastrutture di trasporto, l’insorgere di interessi spesso conflittuali con la conservazione delle risorse naturali. Ad essi si oppone un meccanismo difensivo di attesa, preordinato ad intervenire con iniziative di contrasto sull’evento in atto, che si limita all’intervento contingente, al rapporto evento-intervento. In queste condizioni la prevenzione è inevitabilmente condannata all’insuccesso. Occorre, pertanto, mettere a punto un piano organico di interventi che sia basato sulla conoscenza delle motivazioni, che sia finalizzato ad agire sulle cause più che a mitigare le conseguenze degli incendi.

L’interesse negli incendi

Converrebbe intanto avviare un’opera di demistificazione: gli incendi boschivi non sono una calamità naturale, bensì un fenomeno antropogenico con una esclusiva diretta dipendenza da comportamenti sociali, volontari o involontari. Il bosco brucia

anche perché qualcuno ha interesse a mettere fuoco; d’altra parte vengono meno e sono meno consistenti le motivazioni della popolazione rurale per evitare che ciò avvenga. Le cause naturali, infatti, non giustificano né la dimensione, né la tumultuosa evoluzione del numero di incendi, ripetutamente definiti in sede comunitaria come una aggressione sociale alle foreste. L’autocombustione è rarissima e comunque assolutamente indipendente dalla elevata temperatura estiva, che non può innescare alcun fenomeno di combustione ma soltanto favorirne la propagazione. Con eccezione per tali remote circostanze, tutti gli incendi sono da addebitare all’azione dell’uomo, comprese le cause fortuite definite accidentali quali l’azione dei raggi del sole concentrati da bombole aerosol ovvero da frammenti di vetro che funzionano da specchio ustorio, le emissioni radar ad alta frequenza, l’arco voltaico creato da linee elettriche ad alta tensione, oppure l’azione delle marmitte catalitiche. Si tratta di cause possibili ma altamente improbabili, al pari delle cause naturali; esse comunque non possono essere responsabili della vastità dei danni e del dila-

Le turbe dei piromani

In una categoria a parte sono citati i piromani, soggetti affetti da una rara forma di turbe della personalità che causa eccitazione nell’appiccare il fuoco, oppure nel godere per gli effetti del sinistro, riportato ed amplificato dai mass-media, tali soggetti si pongono in aperta sfida con le autorità per evitare di essere identificati. I veri piromani costituiscono comunque una minoranza nel vasto panorama degli incendiari, tanto sparuta da metterne in forse l’esistenza, ma di cui spesso i mass-media, alla ricerca di un colpevole credibile o accettabile, fanno imprudente abuso. Indicare nei piromani gli autori di incendi volontari è un errore poiché si addebita a soggetti psicolabili, portatori di una

non comune forma di turbe mentale, il risultato di una lucida e determinata volontà criminale, sanzionabile ai sensi dell’art. 423 del Codice Penale.

Incendi e pascoli

È stato spesso citato il rapporto tra incendi e pascolo motivato dall’uso del fuoco in aree a forte deficit di produzione foraggiera al fine di eliminare l’infestazione di specie erbacee ed arbustive poco appetite o non utilizzate dal bestiame. In tale contesto, come normalmente avviene in Sardegna, il fuoco rappresenta una arcaica pratica agronomica, molto discutibile ma a basso costo, in grado di assicurare il controllo delle specie infestanti laddove appare improponibile il ricorso allo sfalcio meccanico, oppure per stimolare il ricaccio di nuovi e teneri organi vegetativi. Pur


L’inchiesta

in Italia, comincia ad essere presente in altri paesi: l’incendio quale mezzo per creare posti di lavoro (nelle attività di avvistamento, di estinzione, nelle attività successive di ricostituzione), noto come industria del fuoco o industria degli incendi.

L’industria del fuoco

avendo notevole forza esplicativa, tale pratica non copre tuttavia tutti gli aspetti del fenomeno. Oltre alla funzione di pulizia del territorio, appare verosimile che l’incendio costituisca una forma di avvertimento o di minaccia latente, funzionale all’obiettivo di sottolineare la destinazione agropastorale dei terreni legata alla fame di terra della pastorizia vagante. Esso funge pertanto da segnale verso l’esterno ed esprime comportamenti di tipo aggressivo finalizzati alla “marcatura” del territorio da parte di allevatori senza terra che utilizzano il fuoco come fattore di dissuasione e di espulsione per “comunicare” il loro interesse agli agricoltori stanziali. Una cospicua aliquota di incendi volontari, inoltre, è legata ad interessi concreti, a vantaggi reali o presunti che l’autore spera di ritrarre. Tra tali motivazioni una, diffusamente segnalata

Si tratta di una fattispecie da tempo nota in letteratura, ampiamente descritta nel Sud degli USA. Gli incendi per motivi occupazionali costituiscono una realtà allarmante in talune regioni meridionali del nostro paese, nelle quali un livello minimo di occupazione della manodopera rurale è stato garantito in passato con interventi pubblici di rimboschimento e di lotta agli incendi. L’impostazione della lotta antincendio, basata su interventi di solo contrasto al momento dell’emergenza, ha comportato una diffusa politica di assunzioni a tempo determinato, talvolta caratterizzata da turni minimi. Ne è derivata un’alterazione del contesto sociale e del mercato del lavoro, poiché il ricorso a mano d’opera precaria e poco qualificata, con una finalizzazione spesso più assistenziale che produttiva, ha talvolta indotto l’insorgenza di un ciclo vizioso, dove l’incendio volontario da parte di operai stagionali ha costituito lo strumento per mantenere o motivare occasioni di impiego. Ciclo vizioso legato, oltretutto, ad una interpretazione distorta e strumentale delle norme sul collocamento obbligatorio, in particolare sulla durata minima di assunzione necessaria per garantire le prestazioni previdenziali ed assistenziali, ma sufficiente per proseguire il lavoro agricolo presso privati al di fuori dei normali canali di collocamento. La tentazione dell’autaut, ovvero della minaccia di inasprire il fenomeno incendi obbligando a misure ed assunzioni

inAspromonte Settembre 2013

straordinarie è quindi tutt’altro che una eventualità teorica ed astratta. Dell’industria del fuoco si trova un pudico accenno nel Piano Forestale Nazionale del 1985; essa è stata a lungo avversata dall’establishment forestale del nostro paese, che rifiutava una interpretazione del fenomeno legata alle proprie modalità organizzative della attività stagionale antincendio, tuttora ampiamente basata sul ricorso ad addetti stagionali proprio nelle zone più colpite. Diverse ricerche, basate sull’uso di questionari e interviste tra gli addetti ai lavori, hanno confermato la diffusione dell’industria del fuoco (ed oggi essa figura tra le cause ufficialmente riconosciute nelle statistiche pubblicate dal MIRAAF-CFS,1995). Si tratta di un fenomeno molto complesso che prospera in presenza di una diffusa forma di disinteresse, per insensibilità o per assuefazione ai comportamenti antigiuridici, che consente di assistere senza reazioni ad uno scempio programmato.

Il bosco in ostaggio

Anche gli incendi appiccati come protesta contro la mancata assunzione o come estrema forma di dissenso contro la minacciata chiusura di cantieri rientrano in questa logica: il bosco, in questo caso, diviene “soggetto ostaggio”. È interessante rilevare come le regioni caratterizzate da elevata percentuale di incendi volontari sono le medesime dove è rilevante il numero di attentati incendiari e dinamitardi a scopo intimidatorio. Non si tratta certo di un rapporto causa-effetto, ma piuttosto del medesimo atteggiamento di illegalità diffusa, spesso intesa come l’unica possibile risposta al disagio sociale. Ancora più complessa è l’interpretazione della grave ondata di danni all’interno delle aree protette, soprattutto di recente costituzione. La protesta contro i mancati be-

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Sopra una sequenza fotografica dei danni del fuoco in Aspromonte nefici conseguenti la istituzione del regime di tutela appare insufficiente ad interpretare la dilagante devastazione del proprio ambiente di vita, così come appare poco fondata l’accusa verso non meglio identificati gruppi che mal sopporterebbero il rigore di nuove norme di gestione del territorio. In molte zone, dopo l’emanazione della Legge 428 del 29.10.1993 che ha destinato alla lotta contro gli incendi e a specifiche misure di salvaguardia e protezione ambientale nelle aree protette la somma di 30 miliardi di lire, si sono scatenati episodi devastanti, che vanno interpretati come una esecrabile opzione d’uso del territorio, in cui la distruzione appare più vantaggiosa della corretta gestione. Anche la possibilità di eliminare il vincolo per avviare programmi di edificazione, è stata ripetutamente considerata causa non trascurabile di incendi. Questa possibilità non sembra molto plausibile nel nostro paese, per effetto della normativa abbastanza rigorosa recata dalla Legge Nazionale n. 47 del 01.03.1975, e dalla successiva Legge 428/93 che impedisce trasformazioni non consentite nella destinazione d’uso delle are percorse dal fuoco.

Più coscienza civica

Da questa breve analisi, che riprende quanto riportato in diversi studi e ricerche svolti in ambito universitario da illustri esperti del settore, tra cui i professori Giovanni Bovio e Vittorio Leone, si può concludere che in seguito ai mutamenti di esigenze e di costume avvenuti nel dopoguerra, il problema degli incendi ha assunto anche nel nostro paese, come in tutto il Mediterraneo, caratteri diversi rispetto al passato. Due sono i fattori della mutata situazione: il declino del valore economico diretto dei boschi, ri-

masti perciò meno custoditi, e simultanea esaltazione dei valori indiretti; il forte aumento nel numero degli incendi e spostamenti nello spettro delle cause di incendio. Si è accentuata, contestualmente, la tendenza ad un preoccupante aumento degli incendi volontari, realtà innegabile, ingigantitasi fino a diventare preminente, provata dalla cattura, seppur rara, di incendiari rei confessi, dal ritrovamento di congegni a tempo primordiali ma non per questo meno efficaci, che indicano la volontà di compiere l’atto distruttivo scegliendo con cura luoghi, tempi e modalità di esecuzione,anche in funzione di condizioni meteorologiche favorevoli alla propagazione incontrollata. Il responsabile maggiore dell’impatto sulle aree verdi pertanto non è il turista disattento o il contadino intento a operazioni colturali, che pur rappresentano una frequente motivazione di incendi, ma chi agisce con premeditazione, stimolato da impulsi che spesso sfuggono alla nostra capacità di interpretazione. La soluzione del problema non può affidarsi al solo potenziamento tecnico del sistema difensivo, ma postula un insieme di azioni e misure da svolgere in maniera coordinata, evitando che la mancanza o la inadeguatezza di una o più delle componenti agisca da fattore limitante, riducendo l’efficienza complessiva del sistema integrato. Occorre però mobilitarsi contro la assuefazione e una certa tolleranza nei riguardi di un fenomeno che mette a repentaglio beni e vite umane, scoraggia gli investimenti in campo forestale e costituisce, in ultima analisi, una grave patologia dello spazio rurale, innescando gravi e spesso irreversibili processi di alterazione il cui epilogo è la desertificazione. *Presidente del Parco Nazionale d’Aspromonte


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inAspromonte

di Antonio Perri

IL RACCONTO

Al bar dello zio di Pino Macrì

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Aspromonte orientale

Settembre 2013

Arrivaru! Arrivaru! Arrivaru i triatisti!». Maria non stava nella pelle dalla gioia. Tutta emozionata, nella sua semplice vestina di bambina men che decenne, le scarpine, ancor più semplici - le sole che avrebbe indossato finché il piedino ne rimaneva all’interno - correva a chiamare le amichette del cuore e radunarle a casa sua, là al vecchio Castello. Non che ne fosse la castellana, no: semplicemente perché la sua famiglia abitava quella parte del Castello di Bovalino Superiore che mille anni di storia e di terremoti (fu eretto tra il 1050 ed il 1100) avevano risparmiato, consentendone la fruibilità abitativa. Suo nonno, emigrato negli USA, aveva mandato i soldi perché se ne riuscisse ad acquisire quella parte che, già da tempo, la famiglia abitava da fittuaria. Nei bassi del maniero, resi solenni da un’illuminazione solo frontale, da muri dall’incredibile spessore e da quegli archi che ne consentivano le elevazioni ai piani superiori, era, quello, un evento che si ripeteva con una certa continuità, anche se in assenza di una programmazione che potesse nemmeno lontanamente dirsi tale. Non poteva ricordarlo, Maria, e neppure saperlo, ma, quella, era ormai quasi diventata una tradizione, da quando, più di mezzo secolo prima, l’ultimo proprietario, don Giovanni Ruffo, aveva fatto arrivare delle piccole compagnie che recitavano in uno dei saloni interni, al piano nobile. Don Giovanni aveva addirittura fatto erigere, all’esterno, accanto ad uno degli ingressi, una piccola e graziosa appendice con funzione di biglietteria: all’epoca l’ingresso era però riservato ai soli aristocratici, magari per esibire loro le tre stanze adornate da letti a baldacchino o quelle in cui la vetustà delle pareti era letteralmente occultata dalla miriade di quadri ivi appesi. La morte di Don Giovanni, lo svuotamento da tutti gli arredi, e, in ultimo, il terremoto del 1908, che aveva reso inutilizzabile la gran parte delle antiche strutture normanne poi ulteriormente accresciute in epoca aragonese, avevano ormai annullato quell’aura severa che il castello aveva

Ci passava tutto il tempo giocando con i soldatini, che nascondeva dietro i tegami e le pentole beccandosi puntualmente gli improperi della zia Concetta. Salvatore Giuni era la dannazione di sua madre Elisa e la benedizione di suo padre Peppe e

del fratello di lui, Antonio, il padrone del Bar Centrale, il più vicino alla chiesa del paese. Alle cinque del mattino il diavoletto a due zampe era già nel locale a scorrazzare, giocando con la ruota e il bastone come si usava negli anni Trenta, mentre la radio mandava il trio Lescano. Verso le sette arrivavano i commercianti

Bovalino Superiore, il borgo che partorì figli del teatro

ARRIVARU I TRIATISTI

e anche quella volta il miracolo avvenne, ed un gruppo di giovani si raccolse rapito ad ascoltare mantenuto per più di otto secoli. Incredibilmente, però, in quella terra poverissima, era riuscita a sopravvivere una curiosa attenzione verso quella che, ormai, era l’unica forma d’arte a trovare la forza di transitare in quei miseri luoghi: il teatro. MARIA SI ACCUCCIAVA assieme alle sue piccole invitate su quella scaletta di pietra che conduceva attraverso una botola (‘u catarratti) ai piani superiori e si lasciava trasportare dalla musicalità delle parole dei guitti, dalla bellezza (a lei appariva tale) dei loro abbigliamenti, dall’enfasi della loro gestualità. Era quello, in fondo, l’unico contatto possibile con un mondo esterno di cui era riuscita ad avere qualche parvenza attraverso l’abbeccedario o le lettere che di quando in quando il nonno inviava dalla Merica. Di sicuro, Maria mai avrebbe immaginato che quei momenti e quell’arte avrebbero potuto ancora avere un seguito negli anni a venire; mai avrebbe

immaginato che trent’anni dopo (siamo neL ‘60) due monaci inviati come “pastori di anime” in quella striminzita e sbandata comunità avrebbero usato proprio il teatro come momento aggregante di una piccola ma dignitosa gioventù, preservandola per sempre dalla violenza che cominciava impietosa a dilagare là intorno. Tantomeno immaginava che ci sarebbe stato un ulteriore seguito quando si trasferì anch’ella con la famiglia alla Marina, in quell’aggregato informe e sgraziato di edifici senza storia e senza nome che andavano via via sorgendo, disordinatamente vomitati dalle nuove parole d’ordine imposte dal “boom economico”. E invece anche quella volta il miracolo avvenne, ed un gruppo di giovani si raccolse rapito ad ascoltare parole sconvolgenti e rivoluzionarie proferite da un uomo di teatro, che portava a Bovalino le figure di Pasolini, di Monicelli, di Fo, gli scritti di Majakowskij, di Brecht, di Whitman, di Sartre, per poi riportare Bovalino nel mondo di Dante, di Pavese, di Leopardi, di Senghor, non disdegnando nel frattempo (udite, udite: al sacrilego!) una riproposizione in chiave dialettale (in dialetto rigorosamente bovalinese) del Ruzante, padovano. LO RICORDO, per i più giovani e per quelli che non hanno avuto la felice ventura di cono-

scerlo: si chiamava Enrico Vincenti, e si avvaleva della collaborazione come aiuto – regista di Giancarlo Tomassetti, in seguito uno dei punti cardine della squadra di Mamma Rai, e come scenografo, di Cesare Berlingeri, oggi tra i massimi esponenti della pittura italiana contemporanea. Fu, quello, il frutto di un’idea i cui contorni si sono persi nel tempo, ma che all’epoca si sviluppò attorno ad un concetto tanto semplice quanto “pericoloso”: la Programmazione Culturale. Sì, stiamo parlando proprio della Grande Assente alla recente kermesse faraonica andata sotto il nome di MGTF (Magna Grecia Teatro Festival, per i non adusi alle neo-tendenze acronimistiche di chiaro sapore anglosassone, ormai ampiamente dilaganti). IL CONCETTO BASE, ripeto, era abbastanza semplice: riguardava l’istituzione di cinque centri sperimentali di iniziativa culturale sparsi a coprire quasi per intero il territorio calabrese (Bovalino, Taurianova, Corigliano, Montalto Uffugo e Cosenza, tutti sede del CIF – Centro Italiano Femminile, poi diventato CSC, Centro Servizi Culturali – istituzione scelta proprio per la sua capacità penetrativa nel territorio), nei quali si sviluppavano in contemporanea le sperimentazioni teatrali cui sopra si faceva cenno, e che, a loro volta, funzio-

navano da traino per lo sviluppo di un dibattito culturale che non aveva confini o paletti di sorta. Sento già le repliche (interessate…) dei Padri Costituenti del MGTF: “Noi abbiamo ridato dignità storica alle aree archeologiche, riaprendole al teatro dopo 2000 anni” e “Noi possiamo esibire numeri inaspettati ed insperati, come i 1500 spettatori di Locri al Riccardo III di Massimo Ranieri”!!! (i tre esclamativi sono commisurati alla probabilissima enfaticità dei proclami). Non voglio certo scadere ribattendo col far leva sulla polemica sui soldi spesi, ma solo ricordare che nessuna delle due affermazioni è vera: quell’esperienza, infatti, diede luogo, nel lontano 1973, ad una memorabile rappresentazione “classica” (“I Locresi al Senato di Roma”, eseguita addirittura tra le rovine del Tempio di Marasà, proprio di fianco al luogo degli ultimi eventi dell’MGTF), che si replicò per treserate-tre, e con una media di 1500 spettatori a serata! E COME SE ciò non fosse già di per sé sufficiente, azzardo anche un superamento dell’arido discorso basato sui numeri: a differenza delle varie edizioni dell’MGFT, quell’esperienza ebbe anche dei figli che, a Bovalino, sono sopravvissuti fino ad oggi, nel teatro del Gruppo Spontaneo ed in quello di Nino Racco, nella musica dei Quartaumentata, nel Sistema Bibliotecario Territoriale Ionico, ed in tante, tante, altre idee. Le sole che potranno, da una parte, opporsi all’imbarbarimento ‘ndranghetistico del territorio, e, dall’altra, far capire ai tanti “lanzichenecchi” calati dal Nord “a miracol mostrare” che, in queste lande desolate c’è gente che non ha gli anelli al naso (come i “lanzichenecchi” mostrano di pensare), ma è perfettamente in grado di disvelare la “nudità del Re” opponendosi energicamente (e con le sole armi della cultura) alla supponenza colonialista dei Riccardi Terzi e delle Bande Borboniche del caso.


inAspromonte

Aspromonte orientale del quartiere che si preparavano alla giornata di lavoro, poi verso le dieci era il turno delle “signore bene” che andavano matte per il frugoletto di cinque anni e per le sue piccole guance. In particolare ce n’era una, Donna Rosina, che portava sempre con se la nipotina Annetta di quattro anni. Donna Rosina era la contessa del Tor-

rione, ma dopo la morte del marito era decaduta economicamente. Salvatore ogni volta che vedeva Annetta si illuminava, pur non avendo il coraggio di coinvolgerla nei suoi giochi. Poi un giorno la prese per mano e, mentre la nonna parlava con zia Concetta, si dileguò. Si nascosero nel laboratorio dei dolci e il piccolo,

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fattosi coraggio, la baciò sulla fronte. Passarono due secondi e una mano vecchia e callosa stampò un ceffone sulla faccia di Salvatore: «Piccolo impudente! Come ti permetti di toccare una del Torrione?!». E lo sconcerto fu grande in tutti gli astanti. Per molto tempo Salvatore non capì quello che era successo.

Caraffa del Bianco e il giovane Verduci

Uomini che non nascono per caso

Nella foto sotto il busto di Verduci. Nella foto a fianco il portone dell’abitazione dei Verduci. Caraffa del Bianco.

di Domenico Stranieri

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i sono uomini che sono come gli ideali, non nascono per caso. Ci sono uomini che mentre studiano, sognano, camminano, sono fatalmente degli eroi. Rocco Verduci nasce a Caraffa del Bianco il 3 agosto 1824. È uno dei cinque Martiri di Gerace (il più giovane) e, dunque, muore fucilato il 2 ottobre del 1847. Scrive Saviano nel libro Vieni via con me (Feltrinelli, 2011): «Mi tornano spesso alla mente i martiri calabresi Bello, Verduci, Ruffo, Salvadori, Mazzoni. Avevano tra i ventitré ed i ventotto anni. Si erano formati tutti a Napoli, dove avevano studiato Giurisprudenza. Il nonno di Verduci era stato uno dei fondatori della Repubblica Partenopea». Il nonno di Verduci si chiamava Rocco e nel 1799, pur vivendo in un lontano paese ai fianchi dell’Aspromonte, riusciva ad essere tra i promotori di quella Repubblica Partenopea che aveva cercato di abbattere la monarchia borbonica. Insomma aveva un ideale preciso ed irrinunciabile: la libertà. Anche suo figlio Antonio era un liberale. Nel 1820 partecipò personalmente al moto carbonaro di Napoli con Guglielmo Pepe, Giustino Fortunato e gli altri che, il 6 luglio, videro Ferdinando I costretto a concedere la Costituzione. Erano ardimentosi i Verduci! Anche contingenze nostrane li rammentano senza paura, sempre pronti al confronto/scontro con chiunque. In una denuncia del 1833, parlando di una setta segreta denominata “Nuovi Europei Riformati” operante a S.Agata del Bianco (esattamente nel Palazzo Borgia, nella “ruga randi”) il parroco Vincenzo Tedesco scrive che appartiene ad essa pure Antonio Verduci, “notoriamente facinoroso”. In un’altra circostanza, Antonio Verduci si scontra addirittura con Giuseppe Nicita da Casignana, me-

Foto di Domenico Stranieri

La Rocca di San Phantino di Carmine Verduci

glio noto come Padre Bonaventura, il quale era confessore prediletto di Maria Cristina di Savoia ( che invierà al Bonaventura varie lettere prima di diventare la moglie di Ferdinando II di Borbone). Ecco, nel racconto La luna è nera (AGE 1992), come Gaudio Incorpora riporta l’episodio: «Antonio Verduci, una sera di domenica, discutendo animosamente con alcune persone nella piazza di Caraffa, bestemmiò ad alta voce. Passava da lì il guardiano del convento del Crocefisso Padre Bonaventura, e lo denunciò. A sua volta il Verduci, che era veramente irascibile, e non si faceva posare la mosca sul naso, denunciò il religioso per un reato molto più grave: piantagione e allevamento di oltre duemila piedi di tabacco. Alla causa che ne seguì per direttissima il Bonaventura, resosi contumace, venne condannato a sette anni di reclusione». Da questi spiriti combattivi nacque anche Rocco, il rivoluzionario che leggeva Walter Scott e così rispondeva, da prigioniero, a chi gli domandava di rivelare i nomi dei suoi compagni patrioti: «Che do-

mande incivili! E chi mai potrebbe riscattare la vita con il prezzo di tanta vergogna». Poco tempo dopo, contro i giovani che chiedevano la concessione della Costituzione e sventolavano la bandiera tricolore furono esplosi 40 colpi di moschetti a distanza ravvicinata. Si dice che una giovinetta di Gerace, Teresa Malafarina, durante gli spari, alla vista degli indumenti dei cinque rivoluzionari che si incendiavano impazzì dal dolore. Per Giuseppe Dieni «i martiri e gli eroi calabresi del periodo risorgimentale, con Rocco Verduci in testa, non aspiravano ad un nuovo regno ma alla repubblica. Per tale fine insorsero contro il re Borbone e poi seguirono Garibaldi. Ecco perché Rocco Verduci non ebbe gli onori che meritava dagli immediati posteri in maggioranza filo monarchici». Sappiamo difatti che per molti aspetti la monarchia dei Savoia si dimostrò peggiore di quella dei Borboni. Per questo «il popolo fece la sua rivoluzione abbandonandoli, emigrando alla ventura nelle lontane Americhe».

Si racconta che, in località Iunchi tra i paesi di Motticella e Ferruzzano viveva un frate eremita di nome Phantino, esperto nelle pratiche mediche e agricole. Le genti del luogo ricorrevano a lui per consigli su semine, potature e innesti. A Motticella viveva anche una bella ragazza di nobile famiglia. Aveva un amante segreto e presto si accorse di essere in attesa di un figlio. Certa dell’arrabbiatura del padre, per paura, nascose a tutti il fatto. Un giorno si recò presso il frate a chiedere consiglio e insieme convennero che, poco prima del parto, questa si trasferisse al rifugio del frate, dicendo che sarebbe stata da alcuni parenti in un paese lontano da Motticella. Così fece. Partorì un bel bambino e rimase con il frate per più di un mese finché il piccolo cominciò a nutrirsi di latte di capra. Ma presto il bambino si ammalò, forse di bronchite, ed il frate non riuscì a curarlo con le erbe. Quando il piccolo si aggravò e morì il frate pose lo pose sopra una rocca e si mise a pregare sperando in un miracolo. Pregando, pregando a lungo, per la stanchezza si addormentò, e durante il suo sonno corvi e cornacchie mangiarono il corpicino del povero bimbo. Quando la madre andò a trovarlo venne a conoscenza dell’orribile fine e, in preda al dolore, si avventò sul frate riempiendolo di botte e mordendolo sul naso. Per lo strazio divenna matta e il padre la rinchiuse in una stanza della sua casa, dove rimase fino alla morte. Al frate Phantino, a causa del morso sul naso, venne un’infezione gravissima e di lì a poco morì anche lui. tutto l’articolo su www.inaspromonte.it


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Aspromonte orientale

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POLSI

La mamma della montagna

Quandu arrivaru a Bovalinu si ‘nd’ha morutu lo picculinu […] e lu posaru supa l’artaru” e litanie e pianti salirono lungo le fiancate aspromontane, strette attorno a Polsi. Il principe di Roccella fu adagiato nella piccola bara di legno, mentre il dolore piegò i nobili Carafa. Stettero così, impotenti, col capo

davanti alla Madonna. Era il 1773. Oggi, mentre risaliamo la terrosa strada che corre lungo le montagne, i nostri sguardi abbracciano Pietra Cappa. San Luca resta silenziosa alle spalle. Dopo ore e ore di cammino Polsi finalmente si mostra, coccolata e protetta da alte pareti verdeggianti, nella sua struggente deli-

San Luca

il castello delle tortore Si parla di Polsi, pellegrinaggi, ‘ndrangheta e omicidi. Ma il borgo di Alvaro nasconde altro. Storia, rocche, misteri, e un leggendario maniero

S

orge sopra Potamia un altissimo promontorio, tutto circondato da rupi e da profondissime valli, sul quale duecento anni prima della venuta di Ruggiero, nel 884, fu eretto un castello di natura inespugnabile per ritiro delle genti nelle invasioni dei Saraceni. Così scrive Stefano Piteri, nel primo trentennio del secolo XVIII, ed aggiunge: «Nel recinto delle mura vi erano bellissime piazze, molti edifici e cisterne». Il Piteri, però, non gode fama di cronista fedele ed affidabile; per intanto dà una data di edificazione (anno 884) senza citare la fonte e senza dire da chi il castello stesso sia stato edificato. Sembrerebbe però, dalle descrizioni, che il Rettore settecentesco del Santuario di Polsi, abbia visitato veramente il sito, trovandolo in condizioni assai meno precarie di quelle in cui versa oggi. Siamo all’inizio del ‘700 e, terremoti devastanti come quelli del 1783 e del 1908, dovevano ancora avvenire. Domenico Zangari alla voce San Luca del suo Appunti di Corografia Calabra, parlando di Potamia, dice del suo Castello: «Potamia veniva protetta dai monti che degradano dall’Appennino e da un inespugnabile castello che, quale occhio di

Sopra Pietra Castello, San Luca. Foto di Giancarlo Parisi falco, ne perlustrava i punti più importanti e le vie carovaniere di Pietra Lunga e Pietra Castello». Domenico Giampaolo in Un viaggio al Santuario di Polsi (1913) così scrive: «più in alto, come un antico feroce meditante le vicende di delitti passati, ergesi lugubre l’antico castello feudale che domina le misere rovine della cittadina scomparsa (Potamia)». Corrado Alvaro, che molto probabilmente non visitò mai Pietra Castello, fa un solo vago accenno descrittivo in Gente in Aspromonte (cap. I): «si vedeva da lontano il mare balenante [...] e davanti al mare una montagna che pareva un dito teso». Il Prof. Domenico Minuto, nel suo dottissimo e documentato libro Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, riferisce di aver avuto in dono da un suo accompagnatore del luogo, delle monete bizantine trovate a Pietra Castello. Le monete erano effigiate con le immagini di Leone VI, il filosofo (886-912), dell’imperatrice Teodora (1055-1056), e di Costantino X (1059–1067). Il professore ha poi dato le monete al museo di Reggio Calabria. La datazione di età bizantina della fortezza, quindi, è fuori discussione; resterebbe da confermare

l’altra ipotesi dell’insigne storico reggino che in un successivo studio (Pietra Cappa e dintorni), pubblicato nel volume Monaci e Monasteri greci nel territorio di San Luca, propone come data di costruzione della fortezza, da parte degli occupatori bizantini, il secolo VII o VIII. Egli opina, altresì, che la stessa sarebbe sorta come sovrapposizione ad un’opera di fortificazione preesistente, probabilmente costruita da popolazioni italiche in poca ellenistica. In ogni caso l’insolita fortezza aspromontana è un’opera antichissima. Che fino agli albori del Medio Evo ebbe un ruolo importantissimo come presidio militare e come importante luogo di sorveglianza sulle carovaniere che penetravano l’interno dell’Aspromonte toccando le altre due pietre famose: Pietra Lunga e Pietra Cappa.Quello che resta oggi dell’immenso presidio militare rappresenta sempre un’importante testimonianza storica del passato della Calabria meridionale, che meriterebbe di essere sottoposta ad un’accurata indagine storico-archeologica, per arrivare ad una conclusione attendibile e non basata su ipotesi e collegamenti vari. F.N.

SAN LUCA DA COPERTINA

su www.inaspromonte.it

«Un tempo i calabresi avevano un posto nel mondo, era come La Mecca per i musulmani, tutti ci dovevano passare e tutti lo facevano; mangiavano, bevevano e ballavano sino allo sfinimento. Poi pregavano la Vergine dei Monti per una fatica meno dura o una guarigione e non per soldi o ambizioni spropositate»

«Uno sparo, più volte replicato dall’eco della valle di Jiha, trafisse il caldo meriggio autunnale. Prassede cadde bocconi. In pochi attimi il suo sangue si sparse tutto intorno divenendo nero al contatto con l’arida terra. Quel luogo è oggi ricordato come la Rocca di Marantona. Sulla roccia c’è segnata una croce e una data»

«I Romani che, come è noto, furono i più grandi costruttori di strade dell’antichità, una volta conquistato il Bruzio, ebbero la necessità di penetrarne il territorio aspro ed ostile, in primis per ragioni militari, poi per ragioni economiche quali il trasporto del legname, l’estrazione ed il trasporto della pece»


inAspromonte

Aspromonte orientale catezza. Un mare di gente colora ogni stradina, così scriveva Corrado Alvaro: «Vanno i fedeli in lunga teoria, uno dietro l’altro, affratellati dallo stesso pensiero. Sembran carovane di gente che abbandonino il loro paese e si trasportino tutto, incluse le loro tradizioni e le cose più care». Di Polsi, in questa mattinata estiva,

viviamo il tormento. Ogni senso è catturato e turbato dalla crudezza della vita. Forte l’odore di bestiame che giunge a tratti, forte la vista di una natura selvaggia e sfrontata, forte anche il dialetto, a cui siamo avvezzi, ma che qui assume dei suoni del tutto indipendenti. Per strada la gente balla, prega, mangia, giunge a

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piedi anche da molto lontano. Il tempo di rinfrescarsi dalla polvere, nelle cellette messe a disposizione dalla Chiesa, poi alle dieci tutti a messa. È questo il vero punto d’incontro. La voce del parroco rompe il vociare della gente. Subito scende il silenzio. I bambini giocano sui gradini, molta gente si confessa.

L’inaccessibile montagna dell’Aspromonte orientale e il duro lavoro di Architettura

«Il mio ritorno ad Africo» di Maurizio Malaspina

U

na notte ho sognato di tornare ad Africo Antico. Era un sogno strano, ma estremamente chiaro e dettagliato. I luoghi erano nitidi e definiti, ed erano quelli che ho scoperto anni fa quando cominciammo con il professore Mollica a lavorare con gli studenti di conservazione in Aspromonte. Allora i rovi erano gli unici abitanti di Africo, e quando nel 2009, ritornando dal Santuario di San Leo, chiesi al sindaco di essere accompagnato al borgo, rimasi deluso dalle sue parole che confermavano l'impossibilita di raggiungerlo per i rovi e la boscaglia che lo avvolgevano. Africo era una sorta di città scomparsa, della quale si conosceva l'esistenza e la posizione, della quale si intravedevano solo poche emergenze dal casello posto lungo la strada per Casalinuovo, ma niente di più. Ricordo che quell'anno lavorammo a Casalinuovo, rilevando architetture, il professore tipologie edilizie, organizzazione urMollica banistica, emergenze, potenzialità. era convinto che Mangiammo nella piazza all'ingresso quella fosse l’ultima del paese, in prossifrontiera di una mità della chiesa, Calabria che poteva ospiti dell'accoglienza calorosa di rinascere alcuni abitanti che ci offrirono il latte di capra appena munto e i salumi dei maiali neri. I progetti di "Università nel territorio", i laboratori territoriali sulla percezione delle risorse e l'importanza del confronto con gli attori locali, produssero un ottimo studio e qualche buona proposta per il borgo. Ma Africo era la meta che ci proponevamo di raggiungere. Il professore era convinto che quella fosse l'ultima frontiera di una Calabria che aveva gli strumenti per rinascere attraverso le proprie risorse, con un’azione autopropulsiva accompagnata dalla “buona” università. Africo era un messaggio potente da diffondere alla Calabria intera, era una strada per il riscatto e la valorizzazione dell’Aspromonte. E il momento di Africo arrivò. Già dalla fine di quello stage 2009 dichiarammo l'intenzione di lavorare al borgo abbandonato, di seguire le tracce di Zanotti Bianco e di ritornare in un luogo del quale non tutti percepivano le potenzialità perché ne disconoscevano lo stato delle cose. Il Parco Nazionale dell’Aspromonte aveva da anni stanziato dei fondi per il decespugliamento del borgo, e quello fu l'assist per partire. Partecipammo ad incontri operativi tra Parco, Comune, associazioni e la ditta chiamata a realizzare l'intervento, cercando di orientarli in maniera che il decespugliamento non fosse causa di crolli delle architetture

Nella foto il prof. Malaspina (con la maglia a righe) durante il ritrovamento della campana di San Rocco. Africo e alterazione dello stato delle cose. Ne venne fuori un piano di lavoro, chiaramente parziale e insufficiente, ma che si configurò come valida scintilla per avviare quel fuoco poi alimentato dall'attività volontaria e straordinaria dei ragazzi di Africo. Era marzo 2010, i lavori di decespugliamento furono avviati e da allora l'opera straordinaria di rinascita mai più interrotta. Ricordo i sopralluoghi preliminari allo stage, ricordo l'emozione di percorrere gli stessi selciati di Zanotti Bianco, ricordo la scoperta improvvisa del borgo dall'alto. Avremmo lavorato finalmente ad Africo quell'anno, ed era fondamentale farlo a contatto con i luoghi e soprattutto con la gente. Cercammo con i ragazzi del posto una soluzione. C'erano i locali di una strana costruzione mai ultimata: la porta del parco di contrada Carrà, abbandonata ancor prima di essere attivata. Così ci accordammo. Avremmo dormito lì se c'è ne fossero state le condizioni, se la struttura fosse stata recuperata e attrezzata per l'ospitalità. In poche settimane cominciarono i lavori di sistemazione degli spazi esterni ed interni, il reperimento e il trasporto degli arredi e delle attrezzature per il soggiorno a Carrà. E quel fantastico stage 2010 partì. A maggio con gli studenti entrammo ad Africo e cominciammo a lavorare alle sue architetture, alla sua storia, alla sua chiesa liberata dallo sterco di mucca. Ricordo

il forum in una piazza antistante la chiesa alla quale solo poco tempo dopo sarebbe stato ridato il suo selciato storico. Allora tra i cumuli di terra e i resti affioranti, mentre si ritrovava l’antica campana di San Rocco, arrivarono Lombardi Satriani, Irmela Spelsberg, Andrzej Tomaszewski, e soprattutto tante persone di Africo, con le quali gli studenti avviarono un confronto sulla valorizzazione di quei luoghi, coniando il motto di quello stage: "liberare dai rovi la memoria", carpito da Satriani. Africo fino a quel momento era ancora “Africo Vecchio”, aggettivo che se accostato ad un individuo conferisce saggezza e spessore, ma che accanto ad un luogo o un oggetto dalle nostre parti è sinonimo di obsoleto, inutile, stantio. Fu in una affollata presentazione di quello stage 2010, davanti al municipio alla marina, che Africo Vecchio abbandonò definitivamente il “vecchio” per abbracciare la sua connotazione storica: Africo Antica. E il racconto da quel momento sfocia nella cronaca e parla di cosa è Africo oggi, cultura, passione, natura, storia, turismo responsabile, letteratura. Ecco, io una notte ho sognato i luoghi dove si sono svolte le trame di questo racconto, in un silenzio da film degli albori del cinema. Una sequenza lenta in cui scorrevano palmenti armeni scavati nella roccia e volti scavati nel tempo. Il sogno mi diceva che è tempo, per tutti, di tornare ad Africo con semplicità.


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Aspromonte grecanico

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TRADIZIONE

Lestopitta, il pane di Bova

È

un prodotto tradizionale di Bova che ricorda il pane azzimo di cultura ebraica, del resto un insediamento ebraico è storicamente provato nella toponomastica della città di Bova. La Lestopitta può essere consumata al posto del pane, spaccata e condita con olio e

sale, o farcita con cicciole di maiale e pepe rosso. In origine era una focaccia rituale, decorata o dipinta (picta: dipinta), che gli antichi popoli italici ed i Romani offrivano alle divinità. Secondo il Rohlfs il nome deriva dal greco volgare pitta, che significa, focaccia. La “Lestopitta” ovvero

La scuola è il vero futuro dell’Area grecanica

I Digital Natives CONDOFURI Anche Otello Profazio legge “in Aspromonte”

E alla richiesta di una foto per la redazione, con puntuale ironia, ha così commentato lo scatto: «Mi paru nu sequestratu!».

GALLICIANO’ La vita torna nei paesi abbandonati

Le strade si ripopolano di gente. Sui balconi angusti del primo piano, giovani donne sorridono ai passanti “Veni la bella mia...”.

BOVA MARINA Un successo la notte bianca del Paleariza

E Bova non si è fatta mancare nulla: dai concerti, alle bancarelle, ai prodotti tipici grecanici, alle danze tradizionali.

Il nuovo stile cognitivo è fatto di immagini, suoni, interazioni di Francesco Violi

S

i parla spesso di futuro dell’Area grecanica ipotizzando costruzioni di centrali, sognando un nuovo sistema di depurazione delle acque, sperando in una nuova classe dirigente che conduca questa terra verso standard qualitativamente degni e meritevoli. Ma in tutti questi progetti la Scuola il più delle volte viene dimenticata. Mi chiedo: potrà mai avvenire un cambiamento se questo non parte dall’elemento più importante, dall’uomo? Investire sulla scuola significa ipotecare la vittoria sul futuro, vuol dire riscattare quest’area da decenni di malaffare e di regresso. Per far ciò occorre una nuova politica scolastica che sposti il suo baricentro, oltre che sulla centralità dell’alunno, verso una nuova metodologia di insegnamento capace di catturare l’interesse dei digital natives. I nativi digitali vivono con uno stile ludico, fortemente orientato all’espressione di sé, alla personalizzazione e alla condivisione costante dell’informazione (sharing) con i pari (peering). Essi apprendono secondo un nuovo stile cognitivo che comprende suoni, immagini, interazioni. Il loro sapere è quanto mai fluido, magmatico, non conosce barriere e confini predeterminati, si riproduce per immersione più che per astrazione, è particolarmente sensibile a tutto ciò che garantisce gioco, coinvolgimento, immaginazione e utilità immediata. Per formare ed educare questi soggetti, la Scuola, quindi, deve utilizzare un nuovo linguaggio metodologico costituito principalmente dall’utilizzo delle

nuove tecnologie didattiche per mezzo delle quali facilitare l’attenzione degli alunni, incuriosire la loro voglia di apprendere, offrendo loro la possibilità di divertirsi. Questi fattori motivazionali consentono automaticamente molteplici opportunità formative e didattiche: favoriscono processi di tipo conoscitivo, di socializzazione, di sviluppo e di potenziamento di capacità logiche e operative; accrescono la significatività dei contenuti e dell’attività di apprendimento; favoriscono la flessibilità cognitiva spingendo ad esaminare gli stessi argomenti da vari punti di vista e la consapevolezza metacognitiva attraverso la riflessione sui criteri e le strategie adottate. Gli alunni si sentono coinvolti in prima persona in questo processo di apprendimento. Le tecnologie didattiche non contribuiscono solamente a mediare i processi di conoscenza, o comunque a porsi come interfaccia tra il soggetto apprendente e l’oggetto della conoscenza, ma concorrono ad attivare e ad incrementare un sistema di relazioni e di scambio di dati e comunicazioni sempre più ampio, produttivo e articolato tra soggetti differenti con abilità differenti. Il loro utilizzo in ambito didattico, oltre a garantire e ad accrescere le possibilità di accesso all’informazione, favoriscono la comunicazione, la condivisione e la collaborazione fra soggetti (esperti, insegnanti, studenti) anche distanti, i quali agiscono nei processi di apprendimento consentendo la costruzione di vere e proprie comunità virtuali di apprendimento. Ma il successo verso una mi-

gliore qualità del processo di insegnamento/apprendimento dipende innanzitutto dalla funzione docente. È l’insegnante che promuove e facilita questo percorso: da un passo tecnico quasi obbligato, il docente deve possedere la capacità di divenire un coach, un tutor, la cui missione è quella di guidare ed indirizzare il discente verso la costruzione della propria conoscenza.

senza una nuova politica scolastica quest’Area è condannata ad un inesorabile declino Ecco quindi che la lezione non è più solamente una trasmissione del sapere ma diventa una finestra sul mondo, una sorta di visione generale e contemporaneamente specifica dei contenuti. Infatti, il processo di insegnamento/apprendimento altro non è che un “entrare nei contenuti”, una visione a 360 gradi della realtà e di tutto ciò che è conoscenza. È naturale che ogni nuova tecnologia didattica, per essere inclusa nelle pratiche quotidiane ha la necessità di un periodo di implementazione che finalizzi il nuovo equilibrio tra artefatto tecnologico e utenza. Per far ciò, occorre una politica scolastica basata sulla formazione degli insegnanti. Sono loro il fulcro di questo rinnovamento. Senza di essi il cambiamento non potrà mai avvenire.


Aspromonte grecanico “pitta” veloce, simile alla piadina, ma molto più buona e saporita, fa parte della nostra cucina tradizionale. Le origini sono remote ed incerte, avendo Bova subito incursioni e dominazioni, prevalentemente quella greca. Anticamente le brave massaie, quando in casa mancava il

pane, facevano la Lestopitta impastando farina, acqua e sale. Si lavorava fino a quando non si otteneva un composto omogeneo, poi si spianava e si friggeva nell’olio bollente e veniva consumata in sostituzione del pane. Oggi la ricetta della Lestopitta è rimasta identica, viene consu-

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mata con il sale o farcita con peperonata, parmigiana di melanzane, frittata, salsiccia arrostita, salumi e formaggio locali e nella versione dolce spalmata di nutella o miele. Gli ingredienti utilizzati sono: farina, acqua, olio e sale. Ha forma è circolare, con un diametro di circa 15 cm.

I racconti di Gieffe (tutta la serie su inaspromonte.it)

IL

PALO

di Bruno S. Lucisano

G

ieffe viene sorpreso davanti ad una villetta mentre fa il palo ad un compare, viene arrestato e portato in caserma. «Dunque - dice il maresciallo - il suo compare ha cantato, ed è meglio che anche lei, ci racconti tutto» «Non so di che cosa state parlando» rispose Gieffe. «Sto parlando della rapina che avete messo in atto con il vostro complice, soltanto che noi, siamo arrivati in tempo e vi abbiamo cciuffato!» «Maresciallo, io ero lì davanti per caso e non conosco nessuno». «Non peggiori le cose, il suo compare ha raccontato tutto e, le conviene parlare così potrà ottenere qualche beneficio». «Ha raccontato tutto? Tutto che cosa? Io non conosco nessun compare ed ero davanti alla villa da solo, per i fatti miei».

«Brigadiere - urla il maresciallo lo porti in gattabuia!» «No, no, un attimo, aspetti…parlo…parlo…» «Brigadiere, verbalizzate! Forza, avanti parlate, sennò perdo di nuovo la pazienza» «Parlo… ieri sera, ero per i fatti miei davanti al bar sport, è passato mio compare e mi ha detto se lo potevo accompagnare alla villetta dell’avvocato, l’ho fatto salire in macchina e ci siamo avviati. Appena giunti sul posto mi ha chiesto di fermarmi dalla parte opposta al cancello. Mio compare, è sceso e si arrampicato per il muro, saltando in giardino dall’altra parte. Avevo anche notato che si era calato sul viso un passamontagna nero. Però, lì per lì, non ci ho fatto caso. Ho atteso tutto quel tempo fino a quando non siete arrivati voi a prenderci… Come vedete, io non c’entro nulla!» «Quindi, lei non sapeva che stava entrando a rubare?» chiese il maresciallo. «Certo che no!» «Non si è chie-

sto perché, invece di suonare il campanello ha saltato il muro e, per giunta mascherato?» «Che c’entra?» «Come, cosa c’entra?», rispose il maresciallo sempre più incazzato. «Adesso le racconto tutto. Mio compare, fa sempre degli scherzi e quando l’ho visto saltare il muro ho pensato che volesse fare una sorpresa all’avvocato!» «Uno scherzo col passamontagna?» «Ho pensato ch’era in corso un ballo in maschera» «A Pasqua?» «E quindi? Nelle case dei nobili, fanno sempre di questi balli e, poi del resto, noi, anzi lui, non ha rubato nulla» «Certo, perché siamo arrivati in tempo» «Siete arrivati, per una volta tanto in tempo, che mio compare non ha rubato nulla» «C’è la violazione di domicilio!» «Si, per mio compare. Io ero fuori, quindi caro maresciallo, stativi bonu» «Brigadiere, lo porti dentro, così almeno per questa notte, non frega nessuno!».

Storie della montagna in vernacolo e in grecanico (Ghorio di Roghudi, 1977)

Lu sceccu e lu lupu

N

u jornu, di matina, nu sceccu pasciva cuntentu erba frisca nta nu chianu ammenzu a li muntagni. Ddha nta li vicinanzi ncera nu gaddhùni chi, scindendu mandava musica duci cu la poca acqua frisca e pulita. Ddha cogghivanu mi mbivinu tutti li nimali di la zona. Chiddhu jornu, jiva mi mbivi nu vecchiu lupu. Appena vitti lu sceccu chi era sulu, nci japriu lu cori. Nci jiu vicinu e nci fici: «Ah, era ura! Ndavi na settimana chi non toccu mangiari! Ora mi sazzijiu!». E lu sceccu: «Perchì ndai a mmangiari ammia? Chi tti fici di mali?» «No mi facisti nente, ma eu sugnu ddìunu di assai tempu e nnatru pocu no stajiu cchiù a la ddritta. Ajiu mi ti mangiu!» rispundiu lu lupu. «Eu non vogghiu mi moru! È tanta bella la vita accà! Chi pozzu fari non mi mi mangi?» jiu avanti lu sceccu. E ancora lu lupu: «Non ajiu chi mmi ti fazzu si ssi tu lu primu ca ncuntru di quandu non mentu cchiù nente nta la me panza!». E lu sceccu: «Si lli cosi stannu così pozzu mu ti cercu na cosa sula?» «Cerca!» nci fici lu lupu. E lu sceccu pe nnente schiantatu: «Prima mi mi mangi, voliva mi sarti supra a la me gruppa e mi ti ballu ccà nta lu chianu fina pe mi mi stancu. Cusì moru cuntentu. Ti va bbonu?» «Si poti fari!» nci rrispundiu lu lupu e tandu fici nu sartu supra a lu sceccu chi si era catsojàtu (mbasciatu). Lu sceccu si misi mi balla svertu ddhà nta lu chianu, mi faci lu "quattruppedi" pe mmi sturdi così lu lupu. Quandu ci parsi chi lu lupu ncumenciava mi pari sturdutu. Ncumenciau mi curri pe na parti, ddha vicinu undi lu ventu era sciuppatu na grossa castagnara chi rrestau di traversu supra nta la strata. Lu sceccu sapiva chi quantu chi llu capiva mi passa sulu. Quandu rrivau ddha vicinu ncumenciau mi curri cchiù vveloci. Lu lupu, sturdutu, non potti fari nente. Pigghiau cu la testa a lu lignu di la castagnara, si fracassau e mmoriu!

di SALVINO NUCERA

Mia mara, asce purrì, ena gadùri evòscevvje charapimèno chorto chlorò sce ena mmali mesa sta vunà. Ecì condà iche era rriàci pu trèchonda èsteddhe mia musica glicìa me to ligo nerò frisco ce catharò. Ecì epìgai na dispùsi ola ta zoà ti estecài sc'ecinde mmerìe. Ecìndin imera ìpighejà na pi ena llico jèrò. Pos'ivre to gadùri manacho anìcti i cardìandu. Tu ejài condà ce tu ècame: «Ah, iton ora! Echi ena ddomàdi ti den inghìzo faghì! Arte chortèno!». Ce to gaduri: «Jatì èchise na fase emmena? Ti su ècama asce àcharo?» «Den mu ècamese tìpote, ma egò immo nisticò asce poddhì ce addhon ligo den steco ple orthò. Echo na se fao!» apàndie o lico. «Egò den thelo na pethàno! Ene tosson magni i zoì ode. Ti sonno cami na mi me fase?» ejai ambrò to gadùri. Ce o lico acomì: «Den echo ti na su camu an isso esù to protinò pu orthèo pùccia ti den vaddho tìpote pleo stin cilìamu!». To gadùri: «An istècusi otu ta pràmata sonno na su arotìo enen prama manachò?» «Aròta!» tu ècame o lico. Ce to gadùri jà tìpote fiffemèno: «Prita na me fase ìthela n'appìdise apànommu ce na su chorèspo ode sto mali nsina pun den imo curamèno. Otu pethèno charapimèno. Su pai calà?» «Sonni ghenastì!» tu apàndie o lico ce tote ècame ena appìdemma apànu sto gadùri ti ito catsojeftònda. To gadùri embèthi na chorèspi glìgora ecì sto mali, jà na cami lupunìe, otu jà na scotì ton lico. San tu efàni ti o lico ito ligo scotimèno accheròe na tresci jà mia mmerìa, ecì conda, pu o vorea ito rrìscionda mia chrondì castanìa ti èmine traclondàri apànu sti strata. To gadùri ìscere ti posso pu to echòravvje manachò stu na perài ecìtte. san iton ecì condà acchèroe na trèsci plen glìgora. O lico scotimèno den èsoe na cami tìpote. Epiae me tin ciofalì sto scilo ti ccastanìa, eghenàsti priònica c'epèthane.


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Aspromonte grecanico

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Diario di viaggio. Con pochi amici sui sentieri dei pastori

KALIMERA ASPROMONTE di Mimmo Catanzariti

È

con un senso di sollievo e di soddisfazione che mi preparo a questa escursione cercata e rincorsa ormai da troppo tempo. L’appuntamento con gli amici e con Salvino, nostro mentore e guida in questa giornata che si preannuncia ricca di sensazioni, è per le 8.30, sotto un cielo luminoso che esalta l’estate calabrese. Destinazione: la vallata dell’Amendolea (Middalìa Potamò), con i suoi paesi abbarbicati lungo gli argini e i costoni di questo corso d’acqua, ormai quasi un rigagnolo, immemore del tempo in cui era navigabile per un lungo tratto verso l’interno. I miei compagni di viaggio: il già citato Salvino Nucera di Ghorio di Roghudi, profondo conoscitore del territorio aspromontano, nonché una delle voci più autorevoli e qualificate della lingua e delle usanze grecaniche; Gianfranco Marino, vicesindaco di Bova con delega alla Cultura e corrispondente giornalistico per l’Area grecanica, brillante e preparato cronista; Mimmo Carteri, rientrato dalle nebbie del nord d’Italia per dirigere una scuola media locale, appassionato di storia e antichità, e con radici appartenenti a questo lembo di terra; Gianni Favasuli, ex dirigente regionale dell’Assessorato al Turismo ora passato alla Provincia, con un talento ed una bravura che mettono in ombra tutto l’aspetto lavorativo della sua citata professione. Gianni Favasuli, difatti, è uno dei poeti vernacolari più bravi della nostra terra; autore di raccolte poetiche, di un romanzo e di una pubblicazione voluta dall'Ente Parco d'Aspromonte. VIA, SI PARTE! Arrivano profumi antichi, mentre saliamo da Condofuri Marina. La nostra prima tappa è a circa 20 Km, attraversiamo una stradina ripidissima, con la speranza di non incrociare altre automobili. Arriviamo a Gallicianò, un borgo di circa 100 abitanti, frazione del Comune di Condofuri da molti definito (e a ragione) l’acropoli della Magna Grecia. La sua posizione, infatti, e la disposizione delle case, raccolte attorno all’unica piazza con la chiesa di San Giovanni Battista, giustificano l’appellativo derivante dal greco antico akros, alto. Ci accoglie una grande roccia sulla quale è incisa in grecanico una frase che riporto integralmente: “Kalos irthete, ode manacho stes oscie fortomene ce asce tragudia”, dal significato che ben rappresenta lo spirito di questa gente: “Benvenuti, qui, tra queste montagne, cariche di sofferenza e di canzoni”. Troviamo nella piazza a supportare

Salvino e Gianfranco nel ruolo di Cicerone - se mai ce ne fosse bisogno - l’architetto Mimmo Nucera, che ci fa volentieri da guida attraverso le viuzze del paese, tra i kalimera dei pochi abitanti, e il profumo della ginestra ormai nel crepuscolo della fioritura. La guida ci conduce ad una chiesa del tardo ‘600, che ospita una bellissima quanto malridotta acquasantiera, e la statua in marmo di San Giovanni, patrono di Gallicianò, con una base di pregevole fattura, riferita alla scuola cinquecentesca del Gaggini. L’escursione continua in una chiesetta di rito greco-ortodosso, costruita con il supporto del professore Nucera sui ruderi diroccati di alcune case nel punto più alto del paese. Il senso della mancanza dello scorrere del tempo, e la tranquillità di quest’oasi grecanica, ci tratterrebbe ancora in questo paesino, ammaliati ma non sazi. La tabella di marcia, però, ci ricorda che il percorso è ancora lungo e siamo appena all’inizio della nostra escursione. RAGGIUNGIAMO ROGHUDI (Ricudìu) percorrendo un’altra strada disastrata, ormai destinata solo a pastori e fuoristrada. Il paese sta a 527 metri sul livello del mare, su di un costone quasi al centro dell’Amendolea. Abbandonato dal lontano 1972 ma con case che sembrano sfidare la legge di gravità, affacciate come sono sul crinale di una collina che incombe su fondovalle. Gianni Favasuli, il poeta, ha un moto di nostalgia e ci coinvolge nel ricordo della sua ultima visita al paese, quando, alla fine degli anni ‘60, cantante di un complesso dal nome provocatorio e altisonante, i Prepotenti, salì ad allietare una serata in occasione della festa patronale. Verde negli anni, carico di sogni e di musica. Piange il cuore nel vedere un intero nucleo abitativo quasi integro nonostante l’abbandono, con le sue grandi particolarità linguistiche e storiche, che non sono però servite a risvegliare negli abitanti un sentimento di appartenenza. Roghudi, purtroppo, se non si faranno interventi importanti e mirati, è destinato a diventare uno dei tanti ruderi della montagna, vittima degli agenti atmosferici e dell’incuria umana. RIPARTIAMO ALLA VOLTA della Rocca del Drago, inerpicandoci su quell’improbabile lembo di cemento e asfalto ancora definito “strada”. Nelle narici l’effluvio degli odori di ginestra, timo, violetta, euforbia: una flora rigogliosa e selvaggia. Lungo il percorso incontriamo un solitario cinghiale, che ci sfida con lo sguardo, quasi a voler chiedere conto della nostra presenza. Dopo qualche

«Benvenuti, qui, tra queste montagn cariche di sofferenz

Nella foto sopra la Vallata del Menta, il fiume da cui nasce l’Ame attimo scompare, inghiottito da felci rigogliose. Superiamo Ghorio di Roghudi, una frazione ancora frequentata da persone, poche, ma ostinatamente ancorate alla pastorizia. Una passione più che una professione. Seguiamo con lo sguardo il percorso del torrente Furria, con i suoi salti d'acqua, le pozze limpidissime in cui si intravedono delle trote, perfettamente ambientate nei "gurnali di Puzzarratti". Risalendo rimaniamo quasi interdetti al mostrarsi di due formazioni rocciose di epoca imprecisabile: Ta vrastarucia che tradotto dal greco vuol dire “Caldaie del Drago” e la Rocca tu Draku ovvero la “Rocca del Drago”. La prima, probabilmente frutto degli agenti atmosferici, è una formazione di piccole rocce sferiche affioranti dal terreno: un blocco unico di roccia friabile. La seconda, che lascia letteralmente senza parole, è una roccia di forma strana, quasi un dolmen di epoca preistorica, anche se credo che questa ipotesi sia un poco azzardata. Tre cerchi sono perfettamenti visibili, scavati secondo un ordine misterioso in chissà quale epoca storica. Gli abitanti della zona raccontano di Drako, protet-


Aspromonte grecanico

ne, za e di canzoni»

endolea, sulla strada che da Gambarie porta a Roghudi. Nella foto a destra l’Anfiteatro di Roccaforte del Greco tore di un tesoro inestimabile. Ingenuamente qualche paesano ha ben pensato di cercare il tesoro persino all’interno delle caldaie di pietra, frantumando una delle sette rocce sferiche che esistevano originariamente senza naturalmente trovarci alcunché. A prescindere dall’origine di queste pietre antiche, ci si trova davanti ad un luogo suggestivo, di grande interesse geomorfologico. Se le amministrazioni locali sapranno farsi portavoce di quest’isola grecanica della Calabria, distesa lungo la vallata dell'Amendolea, si potrà individuare un’occasione di sviluppo e di recupero dell’intera area. ROCCAFORTE DEL GRECO, Vunì, un altro dei paesi dell'Area grecanica che si trova a 971 metri sul livello del mare, è il prossimo del nostro cammino. Circa 700 abitanti, oggi, per una cittadina che, grazie alla posizione elevata e alla buona difendibilità dei confini, servì da catalizzatore durante il periodo bizantino. In esso si stabilirono diverse comunità monastiche, distribuite in numerosi monasteri di rito greco-ortodosso. Rito che con-

tinuò fino all’avvento di quello latino, che sostituì il culto della SS.Trinità (o Aghia Triadas) con San Rocco, oggi patrono e protettore del paese. Dopo una breve sosta sul piazzale di piazza Sgrò, diventata da poco la nuova piazza del municipio, e dopo aver scattato qualche altra fotografia della vallata sottostante, ripartiamo alla volta della paese che fu la Chòra (la capitale) per antonomasia dei Greci di Calabria. BOVA, DAL GRECO VUNA o Vùa, è forse il paese grecanico meglio conservato. Secondo la leggenda sarebbe stato colonizzato per merito di una regina armena la quale guidò il suo popolo sui monti, fondando la città di Vùa, luogo in cui si allevavano o si ricoveravano i buoi secondo una tesi da molti accreditata. La storia invece ci dice che fu fondata dagli abitanti di Delia per sfuggire all’invasione dei Vandali, quando sbarcarono sulle coste calabresi. Circondata da una montagna abbastanza spoglia di vegetazione, la si può trovare oltre i 900 metri di altitudine tra

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querce, rovere, lecci, brughiere e ginestra, vernice gialla sulle contrade che portano ancora i nomi greci. Esplorando i vicoli che salgono verso la sommità del paese, dominata dai ruderi di un castello forse di epoca angioina, incontriamo la Cattedrale di origine normanna, la chiesa di San Leo, patrono di Bova ed Africo, la chiesa del Carmine, quella di Santa Caterina, quella dello Spirito Santo, e quella di San Rocco, tutte risalenti al periodo che va dal XI al XIII secolo. CHòRA TU VùA è stata una delle prime sedi vescovili. Si dice il primo Vescovo di Bova sia stato ordinato già nel I secolo dopo Cristo, da Stefano di Nicea, Vescovo di Reggio. Seguì il rito greco importato dai monaci basiliani, e non “brasiliani” come si ostina a suggerirmi l’amico Gianfranco Marino. Ogni anno, in agosto, qui si tiene il Festival Paleariza, Musica tu Cosmu stin Calavrìa Greca. Manifestazione musicale che attira sempre più appassionati di musica etnica e che riesce a interessare, e a coinvolgere, anche grossi nomi del panorama musicale mondiale, presenti numerosi nei paesi grecanici che ospitano l’evento. Ci addolora il pensiero che un paese ricco di storia, di nobili usanze e tradizioni, nonostante gli sforzi che si fanno per mantenerlo in vita, vada alla deriva. Il nostro viaggio in quest’isola ellenofona è ormai al termine. Lasciandoci delle sensazioni e delle emozioni contrastanti. Consegnandoci incertezza e speranza. Speranza. Foriera di un futuro più luminoso.


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Vallata del Tuccio

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L’ULTIMO COMUNE DELLA LISTA “MAFIOSA” E’ ARDORE

Fuoco incrociato sulla Calabria Sono stati 11 i Comuni commissariati in Calabria nel 2012 (Bagaladi, Briatico, Bova Marina, Careri, Mileto, Mongiana, Nardodipace, Platì, Reggio Calabria, Samo, Sant’Ilario dello Jonio), tutti per ipotetiche collusioni ‘ndranghetiste. Nel 2013, nella sola provincia reggina, sono finiti nel mirino dei magistrati: Taurianova, Casignana, San Luca, Montebello Jonico, Siderno, Melito Porto Salvo. L’ultima della lista è l’amministrazione Campisi di Ardore (26 giugno 2013). Per “forme di condizionamento delle istituzioni locali da parte della criminalità organizzata” la Prefettura aveva disposto l’accesso al Comune l’11 settembre 2012.

Comuni indagati per mafia

Non tutti gli scioglimenti sono uguali di Federico Curatola* Qualcuno potrebbe dire "la lingua batte dove il dente duole". Forse ha ragione. Ma il punto è sensibile oggi non solo per me, per il mio paesino indifeso, bensì per un'intera area geografica, ed oltre. Un'operazione che si è allargata a macchia d'olio e che sta assumendo proporzioni vaste. L'Area grecanica e la Locride, con la maggior parte dei Comuni sciolti, sono diventate l’esempio più tragico di una sospensione di massa di diritti attivi e passivi dei cittadini. È l'applicazione spropositata ed ampiamente discrezionale che contesto, non certo il ruolo che lo Stato deve affer-

mare sui territori nel contrasto alla criminalità organizzata, sia chiaro. La procedura e la legislazione sugli scioglimenti è tutt'altra cosa. È un "processo anomalo". Niente difesa, niente prove, niente testimoni. Solo un verdetto. Appellabile, certo, ma anche in questo caso, l'orientamento, è quello di confermare lo scioglimento, sulla base della stessa norma. Non lascia scampo, a conferma di quanto detto, la sentenza con la quale qualche settimana fa, il Tar del Lazio ha rigettato il ricorso avanzato dal sindaco e dalla maggioranza del Comune di Mileto (sciolto lo stesso giorno di Bagaladi, peraltro). Viene affermata "l'idoneità a costituire

2012 da Guinness Il record italiano di Amministrazioni “mafiose” Il 2012 è l’anno record dei comuni sciolti per mafia. Il governo Monti, con il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, ne ha commissariati ben 25, molti di più rispetto ai predecessori. Nei due decenni passati non è mai stato superato il numero di 10-15 commissariamenti all’anno, neppure durante la tanto sbandierata azione antimafia dell’ex ministro Maroni. “Non si mandavano a casa tante amministrazioni dal 1993” scrive il magistrato Raffaele Cantone nel Rapporto di Avviso Pubblico.

Bagaladi Il Comune di Bagaladi è stato sciolto per infiltrazioni mafiose mesi or sono. Fu un duro colpo per l’intera comunità e per l’ex primo cittadino, Federico Curatola, che aveva indossato la fascia tricolore per circa 18 mesi a capo di una lista di giovani. Il Sindaco più giovane d’Italia precisa «non emerge alcuna prova inconfutabile dell’inquinamento mafioso, ma è stato comunque disposto, a mio parere ingiustamente, lo scioglimento sulla base di sospetti che interessano tutto il territorio grecanico».

Nella foto sopra Federico Curatola, ex-sindaco del Comune di Bagaladi. La vignetta sotto è tratta da andreacarancini.blogspot.it presupposto per lo scioglimento dell’organo comunale anche di situazioni che, di per sé, non rivelino direttamente, né lascino presumere, l'intenzione degli amministratori di assecondare gli interessi della criminalità organizzata". Più avanti, nello stesso dispo-

sitivo di sentenza, si legge "per sciogliere un consiglio comunale non serve che vengano compiuti reati né che gli amministratori pongano in essere comportamenti agevolanti la criminalità organizzata, è sufficiente che vi sia il sospetto di un possibile, anche in termini astratti, condizionamento passato, presente o futuro dell’amministrazione". Verosimilmente, ogni Ente, comunale e sovracomunale, può essere sciolto. È evidente però che nell'interpretazione comune, la norma viene applicata in maniera più stringente in territori ad alta densità criminale. Un po’ meno dove i fenomeni dai nomi che mettono paura, come "ndrangheta" o "camorra", sono meno visibili, anche se ormai radicati. È il caso del Comune di Trezzano sul Naviglio dove, sempre poche settimane fa, sono finiti in manette due assessori e qualche dirigente comunale per corruzione e mazzette legate al redigendo piano urbanistico della cittadina. Anche lì sembra emergere qualche interesse della criminalità orga-

nizzata. Quindi, a rigor di logica, lì la prova c'è. Ma la Prefettura di Milano, fino a questo momento, non ha nemmeno pensato di inviare a Trezzano una Commissione di Accesso per verificare se vi siano o meno condizionamenti o tentativi di infiltrazione. E ripeto, sono stati arrestati due assessori, con accuse pesanti! Ecco quello che contesto. Non "tutti" gli scioglimenti sono uguali. Certo, vi sono provvedimenti che hanno alla base arresti, individuazione di presunti responsabili di azioni volte a favorire la criminalità organizzata (e che comunque sono da ritenere innocenti fino al terzo grado di giudizio). Lì, anche per salvaguardare gli interessi della comunità, è giusto intervenire e rimuovere gli ostacoli. Contestabile invece, a mio modo di vedere, è il dispositivo, di cui sopra ho riportato un estratto. È emblematico e spinge ad interrogarsi sulle sorti della partecipazione futura alla vita democratica ed amministrativa. Tutto ciò porterà tutte le persone perbene a fare un passo indietro rispetto all’impegno pubblico, spianando la strada ad avventurieri e faccendieri che non avrebbero nulla da perdere. Credo che uno Stato realmente democratico e liberale debba intervenire sul piano legislativo, con la dovuta sollecitudine, al fine di porre un argine ad interpretazioni giurisprudenziali bislacche, bizzarre, radicali ed estreme che da tutto sembrano ispirate fuorché dalla primaria, quasi istintiva esigenza di apprestare dignitosa tutela a quanti decidessero di dedicare se stessi alla vita amministrativa della propria comunità, per cambiare le cose. *ex Sindaco di Bagaladi


Me ne andai dimesso come un cane bastonato, e scendendo le scale di quel grande palazzo capì che avevo ricevuto un insegnamento importante: non fidarmi mai di chi percepisce uno stipendio per essere ambientalista di Maurizio Malaspina

C

redo che ognuno di noi, tornando con la mente indietro negli anni, trovi nella propria esistenza un momento di cesura, di rottura, di stacco da un filo conduttore che vorrebbe l'esistenza come semplice successione di giorni. Mi riferisco a qualcosa che magari ci ha fatto fermare e riflettere, o ci ha dato una spinta evolutiva rispetto al modo di agire e pensare, e che poi ci siamo portati dietro negli anni addivenire come zavorra o come bagaglio culturale. Chi conosce la mia esperienza recente, potrebbe essere indotto a pensare che tale momento coincida con la lotta contro l'impianto rifiuti di Pettogallico, non fosse altro per tutte le cose che sono poi partite da quel momento, anche slegate da quello stesso evento. Invece no, perché proprio quella lotta la ritengo figlia di qualcosa che mi aveva segnato negli anni precedenti. ERO RAGAZZO negli anni Ottanta, e ricordo che la bassa Vallata del Gallico, come molte altre nel territorio reggino, era usata come cava naturale per l'estrazione di inerti, in particolare sabbia poi impiegata negli impianti di produzione del cemento, di quel cemento che produceva a sua volta travi e pilastri nel giro di una notte dove prima c'era un aranceto, un uliveto, una vigna. Ma non pensiamo a questa cosa come un'attività industriale organizzata. Pensiamola semplicemente come qualcosa che aveva protagonista un proprietario di una collina sabbiosa, che volendo costruire la sua casetta abusiva cedeva abusivamente il terreno alla ditta estrattiva abusiva che spazzava via la collina e, con la sabbia, produceva cemento abusivo. Un'attività non proprio in regola con la legge dello stato, e ancor meno con quella della natura. Ebbene, le giornate trascorrevano con il sottofondo di una ruspa che sbancava una collina, che lentamente spariva per riapparire sotto forma di scheletro edilizio poco distante. Una sorta di metamorfosi artificiale della

Vallata del Gallico

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DeaFest 2013 «Il mondo della spazzatura, della insostenibilità, del consumare l’ambiente, del disperdere le tradizioni e l’identità dei luoghi, dell’abusivismo edilizio, della scarsa attenzione per i diritti e la solidarietà. E poi il mondo della buona gestione dell’ambiente, della programmazione attenta alla persona, della conservazione del patrimonio identitario, del rispetto delle regole, della valorizzazione dei prodotti locali e delle tipicità, della fruizione responsabile dei luoghi. Da quest’ultimo mondo nasce il nostro festival».

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Le campane di Gallico e la festa della Madonna della Grazia hanno radici lontane. Che ormai si perdono tra storia e leggenda. Si narra che dei marinai, in preda ad una tempesta, affidarono la loro vita alla Vergine, promettendole un tempio. Sopravvisuti, dimorarono a Gallico per adempiere al voto. Un certo Santoro, che faceva il fonditore, invece, fu dato erroneamente per disperso. Questi, al contrario, raggiunse Gallico quando i suoi compagni erano già partiti e, visitato il tempio, compensò in qualche modo il suo debito costruendo una seconda campana.

L’abusivismo che distrusse il territorio reggino

«Le colline? Come gruviera sotto ruspe brulicanti» Chi è IL PROFESSORE Ricercatore presso il “LaborEst” dell’Unirc, membro del Comitato di redazione della rivista scientifica “LaborEst”, coordina con le attività collegate al “Laboratorio territoriale della Vallata del Gallico”, le attività formative e di ricerca di “Università nel territorio” in Aspromonte, il progetto “Gli Ecodistretti della Provincia di Reggio Calabria”. È l’ideatore del DEAfest, dirige l’Agenzia di sviluppo locale del Consorzio Ecodistretto della Vallata del Gallico.

quale nessuno sembrava accorgersi. È vero che in quei gloriosi anni Ottanta non ci si accorgeva dalle mie parti di tante cose, dei rapaci mitragliati dalla contraerea organizzata alle pendici delle colline dello Stretto, degli orribili palazzoni che venivano fuori in zone turistico-residenziali o su pianori terrazzati coltivati a vigneti da millenni, di qualche centinaio di vite umane all'anno mandate all'altro mondo dalla guerra di mafia. Però questa cosa qui delle colline che diventavano gruviera, era qualcosa di veramente interessante perché rispondeva ad una logica urbanistica (ma a questo ci pensai dopo) che affondava le radici nella storia. DOVE UN TEMPO c'era un castello o un centro fortificato a controllo dello Stretto e delle vie di accesso all’Aspromonte, dagli anni Ottanta in avanti (in parte anche oggi quindi) troviamo un impianto di produzione del cemento e tutto attorno colline erose da ruspe brulicanti. La morfologia del terreno cambiava a ritmo incalzante, tanto che oggi gli amici di google avrebbero avuto qualche difficoltà a tenere aggiornate le loro mappe planetarie. Poi arrivarono gli anni No-

L’AUTORE

Maurizio Malaspina (nella foto)

vanta e qualcosa che è passato sobriamente alle cronache come "il rinascimento reggino" o la "primavera di Reggio", con una speranza nuova per la città. Tra i messaggi più forti che arrivarono allora a noi, ventenni di questa città, fu l'arrivo di un ambientalista all'ambiente, aspetto di cui tutti parlavano con toni rivoluzionari. NON ERAVAMO militanti o ambientalisti praticanti in quegli anni, cominciava semplicemente a maturare, con i primi studi universitari, una coscienza critica rispetto a ciò che ci stava attorno. Avevamo appena interrotto l'inutile e demenziale passeggio, avanti e indietro stipati in una macchina sui lungomare di Reggio, e cominciavamo a sentire un bisogno crescente di cambiamento. Così una mattina, armato di improvviso senso di cittadinanza e ribellione, mi sorpresi nel ritrovarmi a Palazzo San Giorgio per sottoporre al "bravo assessore" il problema delle colline evanescenti che, nonostante la primavera, continuavano a sbiadire, fino a sparire. Ero fiducioso, perché il "bravo assessore", impegnato e sostenibile, non era solo ambientalista, ma

era del mio territorio, nato e cresciuto in uno dei centri della Vallata del Gallico, e come tale non poteva restare insensibile al problema. D'altra parte mi chiedevo, però, come mai a distanza di tempo dal suo insediamento non si era posto ancora il problema delle cave lungo i torrenti, per farsi invece già protagonista di qualcosa che destava più di qualche perplessità. A fronte dell'ennesima emergenza rifiuti, il "bravo assessore" non aveva alzato un dito per opporsi alla frettolosa apertura e rapida saturazione di una discarica nella Vallata del Gallico, una discarica alquanto problematica in quanto unica nel suo genere: la prima discarica con corso d'acqua intubato sotto tonnellate e tonnellate di rifiuti. Ma si, forse era solo una distrazione, o forse l'emergenza che fa superare leggi e buon senso. Sta di fatto che entrai a Palazzo San Giorgio per la prima volta, cercando i locali dell'assessorato all'ambiente come chi sbarca sulla luna senza ossigeno e tuta astronautica. DALL’ANTICAMERA si notava l'ufficio del “bravo assessore” con mega poster con scritta "no al ponte sullo Stretto". Ma lui

non c'era. Alle undici del mattino mi comunicarono che avrei potuto trovarlo in via Miraglia, a Reggio, a coordinare i lavori di piantumazione di alcuni alberelli. Chiaramente con stampa al seguito che annunciava una rivoluzione in corso. “Per la prima volta si piantano alberi in città” era il messaggio ricorrente. Eppure, pensavo tra me e me, a pochi chilometri se ne sradicano a decine per far passare strade improbabili e costruire palazzoni, e carceri, e discariche. Vado incontro al bravo assessore e espongo per strada il mio problema, il nostro problema. Tra le lodi e gli elogi per il senso civico dimostrato, mi si chiede di stendere una dettagliata relazione, con tanto di documentazione fotografica, e poi tornare. Bene, messaggio ricevuto. Passai al lavoro redazionale e di documentazione, che espletai rapidamente per tornare dopo pochi giorni. Questa volta mi ricevette nella sua stanza, davanti a quel poster che mi aveva colpito la volta precedente. Bene, mi disse, ottimo lavoro. Adesso firma il documento e mandalo alla Procura della Repubblica, perché sai io faccio l'assessore e queste denunce è importante che partano dai cittadini. Ma come? sono un cittadino, ho fatto una denuncia all'organo di governo più vicino al cittadino, che avrebbe gli strumenti per agire, per intervenire e invece si nasconde dietro una necessità inesistente. SEI TU che rappresenti le istanze dei cittadini, sei tu che dovresti agire di fronte all'eventualità di un uso distorto del territorio che amministri. Questo avrei voluto dirgli, urlargli, ma non lo feci. Me ne andai dimesso come un cane bastonato, e scendendo le scale di quel grande palazzo capì quel giorno che avevo ricevuto un insegnamento importante: legare le parole all'azione, giudicandone la portata solo quando tutte e due le fasi saranno compiute e congruenti. In poche parole: non fidarmi mai di chi percepisce uno stipendio per essere ambientalista.


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La Chanson d’Aspremont

inAspromonte Settembre 2013

Una fortezza INESPUGNABILE

La ricostruzione del professore Giuseppe Gangemi della storia che ha caratterizzato l’Aspromonte. Una montagna che per secoli è stata al centro del mondo di Giusepppe Gangemi

P

rima della guerra di resistenza ai Saraceni, molti popoli vivevano in Calabria e parlavano varie lingue: Bretti, Greci, Romani, Enotri, Osci, etc. I lunghi secoli di difesa dai Saraceni sono stati l’atto fondativo di un nuovo popolo, i Calabri. Questa nuova identità di popolo viene cementata da un’opera d’arte che viene trasmessa oralmente dai cantastorie. L’insieme di storie narrate e trasmesse di generazione in generazione ha un clamoroso successo europeo nel periodo 1190-1191, quando tra Reggio e Messina si trovano i soldati in partenza per la Terza Crociata. La popolarità internazionale dei cantastorie calabresi spinge alcuni mecenati normanni a finanziare una trascrizione manoscritta di quell’insieme di storie, sostituendo ai nomi degli originari calabresi i nomi di Carlomagno, dei Franchi e dei loro alleati. Mentre i cantastorie, presumibilmente, narravano le gesta in una lingua calabro-normanna, questa prima versione manoscritta viene scritta in lingua anglo-normanna. Ad essa ne seguono altre che hanno intenti politici diversi. Di seguito riporto le versioni, in ordine cronologico, di cui sono a conoscenza (e che ho potuto consultare e analizzare: la prima versione anglo-normanna; una seconda versione, scandinavonormanna (detta Karlamagnus Saga), di cui si conosce il nome dell’autore: Mathieu Paris; una versione franco-normanna; una versione italianizzata, venetonormanna; la prima versione italiana (I cantari d’Aspramonte); la seconda versione italiana (La canzone d’Aspromonte. Poema Epico del XV secolo), pare scritta da Vibonio, proveniente da Vibonia vicino Vibo, e Verdizzotto; una versione italiana in forma di romanzo (L’Aspramonte. Romanzo cavalleresco inedito), di Andrea da Barberino. QUESTE VERSIONI della Chanson vanno studiate in riferimento al fatto che, quando i Normanni arrivano a sostituirsi ai Bizantini, il loro arrivo non è una mera conquista (e proprio la Chanson lo dimostra): i nuovi venuti, appartenenti a un popolo che aveva conquistato varie regioni cruciali dell’Europa, da un’area della Francia all’Inghilterra, al Meridione, etc., usano

per assoggettare il popolo fiero di Calabria, inorgoglito dalla vittoriosa resistenza ai Saraceni, un misto di violenza, mescolanza e collaborazione con l’aristocrazia preesistente.

... e appropriarsi dell’anima di un popolo che, difendendosi dai Saraceni, ha difeso se stesso

Il primo manoscritto anglo-normanno persegue l’obiettivo politico di appropriarsi dell’anima di un popolo che, difendendosi dei Saraceni, ha difeso se stesso, le famiglie e le proprietà, ma soprattutto la propria religione, al tempo profondamente sentita. La Chanson si inserisce, quindi, in una ultracentenaria strategia di sostituzione del mito dei Bizantini come difensori della fede e della religione con il mito dei paladini di Francia come difensori della fede, della religione e dell’Europa. I Normanni si proclamano, al tempo, continuatori dell’opera di Carlomagno, proprio per la cacciata dei Mori dalla Sicilia. DIVERSI SONO gli obiettivi che si sono posti i vari studiosi della Chanson d’Aspremont: studiare l’origine delle lingue europee (soprattutto francese e inglese) o la loro influenza sulla lingua italiana, prima dei definitivi fondatori della stessa: Dante, Petrarca e Boccaccio; studiare i debiti che l’Orlando Furioso,

una delle nostre opere poetiche maggiori, ha nei confronti della Chanson d’Aspremont (racconta Gioacchino Criaco che già Simone Furnari, monaco reggino, coevo dell’Ariosto, sia andato in Toscana a parlare con il fratello del poeta e abbia trovato prove che l’Orlando Furioso abbia tratto ispirazione dalla Chanson d’Aspremont). Su quest’ultima linea di indagine, Carmelina Sicari, in Calabria, ha fatto scuola influenzando Giovanni Scarfò a concludere il proprio docufilm La Canzone d’Aspromonte con l’indicazione che la storia prosegue nell’Orlando Furioso. Questa linea, che definirei politico-letteraria, consiste nel ritenere che la lingua letteraria sia all’origine della formazione della nazione italiana e che l’inserimento della Chanson d’Aspremont tra le principali fonti di ispirazione dell’Ariosto sia un contributo importante che la Calabria ha dato alla costruzione della nazione. Per questo Sicari si concentra a studiare solo la versione italiana presente nella biblioteca estense di Ferrara, in quanto questa versione è proprio quella che ha letto Ariosto. All’interno di questa linea di indagine, il fatto che si considerino solo i debiti di Ariosto nei confronti della Chanson, rappresenta un limite in quanto, come è noto, la figura di Galiziella, o Gallicella, non ha ispirato solo Ariosto, ma anche la Bradamante di Boiardo e Tasso. La linea di indagine che questo giornale (inAspromonte) si propone di perseguire è quella di studiare tutte le versioni esistenti della Chanson d’Aspremont per ricostruirne la base comune (si potrebbe dire il minimo comune

I fumetti di Super Mario L’assessore regionale alla Cultura, Mario Caligiuri, scopre l’acqua calda e ce la vende a vignette

1 giugno 2013, la Regione si inventa un convegno sulla Chanson d’Aspremont alle Terme di Antonimina, e presenta una pubblicazione di Jacques Guenot e Vita Lentini, affermando che dell’opera non esistono precendenti traduzioni in italiano. Vengono così esposte in italiano e in vernacolo calabrese delle parti della Chanson, corredate da bozzetti. Un’operazione culturale da proseguire con: traduzione integrale e mostra mobile. Tutto regolare se non fosse che di traduzioni in italiano ce ne stavano già diverse: in forma manoscritta, alla fine del XIV, e a stampa, nel XVI secolo.

5 mila letture sul web Il saggio sulla Chanson d’Aspremont del professore G. Gangemi, suddiviso in otto “sedute”, è on line da giugno su inaspromonte.it

Giuseppe Gangemi, professore di Scienza dell’Amministrazione all’Università di Padova, ha condotto gli studi da cui scaturiscono le scoperte storiche e geografiche sulla Chanson d’Aspremont


La Chanson d’Aspremont

Sopra una rappresentazione di Galiziella, eroina che si convertì alla fede cristiana. Figlia bastarda di re Agolant denominatore) che, probabilmente, andrebbe attribuito alla originaria canzone nella versione orale tramandata dai cantastorie calabresi (e precedente al 1190). L’OBIETTIVO DELLA ricerca è quello di ricostruire il ruolo che la Calabria ha avuto nella difesa e nella costruzione dell’Europa. Ruolo che non può essere considerato secondario (semplice ispiratore di altri che hanno fatto meglio e di più), ma primario in quanto gli anonimi cantastorie che hanno costruito la Chanson, da Vibonio e Verdizzotto, Andrea da Barberino, fino a Boiardo, Tasso e Ariosto hanno considerato l’Aspromonte il luogo mitico della forza e del coraggio, il

Sopra una rappresentazione dell’imperatore Carlomagno

luogo di una incredibile resistenza per secoli ai Saraceni. I protagonisti della Chanson sono i Paladini, quelli del nucleo originario della versione orale sono comunque guerrieri. La Chanson, in questo senso, presenta e descrive la nuova organizzazione sociale che è emersa nel corso delle lotte a difesa dai Saraceni: il combattimento aperto e leale è il luogo in cui si manifesta la “valenzia” sulla quale si costruisce la gerarchia di un popolo che ha combattuto per la difesa delle famiglie e della religione. Il combattimento diventa l’attività di prestigio di quest’epoca di resistenza e ancora oggi se ne trasmette la rilevanza attraverso il folclore: il combattimento è ritualizzato nella tarantella aspromontana dove, si danza e si mima un duello, ed è proibito toccarsi perché toccarsi equivale a ferirsi. E non era infrequente, nel passato, che da un passo sbagliato, non seguito da scuse o altri gesti di pace, e peggio ancora da un tocco volontario si passasse dal ballo alla rissa violenta o al coltello. LE ARISTOCRAZIE guerriere calabresi del X e XI secolo si ritrovano in cima alla piramide sociale locale. Esse sono supportate e sostenute da un’economia rurale di sussistenza, da un’organizzazione capace di spostare rapidamente popolazioni, animali e cibo da un luogo esposto alle razzie a luoghi più sicuri. Le case di legno costruite in montagna sono fatte per immagazzi-

nare bene grano, miglio, farro, lenticchie, piselli, frutta, etc. Esse sono poste vicino a un sentiero che permette agli abitanti di dileguarsi rapidamente, con tutti gli animali e le vettovaglie, alla notizia dei nemici in arrivo, prontamente avvistati da un sistema di sentinelle. L’organizzazione chiave di questo difficile modo di vivere è la comunità politica costruita intorno a una parrocchia, o a un insieme di parrocchie i cui parroci sono posti sotto la guida in un primus inter pares (che nelle zone di lingua greca, spesso, prende il nome di Protopapa). Questa parrocchie diventano un modo di fissare e delimitare un confine e, quindi, anche l’area di influenza riconosciuta di ogni leader militare. C’è, accanto alla parrocchia, anche uno spazio pubblico detto agorà, o “luogo di riunione”, che serve alle assemblee dei guerrieri o degli anziani più influenti. Si tratta delle istituzioni dette Fratrie che, con i Normanni, acquistano il nome di parlamenti locali. Questo per l’obiettivo “politico” della Chanson. Ma vi è, anche, nella ricerca che inAspromonte porta avanti un obiettivo economico e sociale: servirsi della Chanson per “rileggere” l’Aspromonte, per attrezzarlo culturalmente alla richiesta di fondi europei, per “purificarne” l’immagine, ma anche per elaborare progetti di job creation. Per questo un’attenzione particolare viene data, in questa ricerca, all’individuazione dei luoghi in cui si sono svolti molti episodi descritti nella Chanson: la fonte silvestre in cui San Silvestro fu guarito dalla lebbra, considerata luogo di rinascita e rifondazione del cristianesimo; il luogo in cui si svolgono le due battaglie contro Almonte, più di Roncisvalle considerabili come luogo di fondazione dell’Europa; etc. Tralasciando il dove sia la fonte silvestre, di cui meglio di me possono parlare altri, sottolineo che le battaglie contro Almonte si svolgono in due valli sotto “una torre con molte magioni”, cioè una città fortificata. Di questa torre sappiamo: 1) che Balant, ambasciatore del re saraceno Agolant presso Carlomagno, si ferma a dormire nella torre prima di fare l’ultimo tratto di viaggio fino a Risa. Questo suggerisce che la torre non dovrebbe essere troppo vicina a Risa, altrimenti sarebbe stato più logico concludere il viaggio senza fermarsi; 2) che Naime, ambasciatore di Carlomagno presso il re Agolant, non avendo visto, per la scura nebbia, la torre, è costretto a fare l’attraversata dell’Aspromonte affrontando ripide salite,

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burroni, animali selvaggi e quant’altro e ci mette due giorni per arrivare a Risa. Il che suggerisce che la torre debba essere dall’altra parte dell’Aspromonte rispetto a Risa; che il momento culmi3) nante della seconda battaglia è quello in cui un terzo dei soldati di Girart della Fratte si nasconde ai lati della porta della città fortificata con la torre, in mezzo alla fitta vegetazione della ripida salita intorno alla porta. Mentre i restanti soldati impegnano i Saraceni usciti dalla torre e arretrano per allontanare i Saraceni dalla porta, nascosti nel monte di fronte alla porta, tre uomini di Girart segnalano, alzando i loro scudi rossi, che la porta è stata riaperta e, al segnale, gli uomini nascosti corrono verso la porta ed entrano in città, conquistandola; 4) che a distanza di due leghe (due ore di cammino al trotto di un cavallo) dalla torre i soldati di Carlomagno si fermano presso una fontana che fa uscire tanta acqua da bastare a dissetare un esercito, cavalli compresi. TUTTE QUESTE condizioni (distanza da Reggio, presenza ravvicinata di una collina di fronte alla porta sud della città, distanza da una fontana con una portata d’acqua molto forte, presenza delle due valli intorno alla città, distanza da una fontana con le caratteristiche descritte) si trovano a Oppido Vecchio, una città che, prima di essere conquistata dai Saraceni, si chiamava Sant’Agata. Questa viene conqui-

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stata due volte (nel 922 e nel 977) dai Saraceni e, probabilmente la seconda volta, viene liberata con due battaglie: 1) la prima condotta dalle truppe imperiali bizantine, forse sbarcate a Squillace, arrivate sul luogo per la via delle creste, insieme alle truppe imperiali di stanza a Catanzaro e in Sila e, dopo la vittoria, direttesi verso la Planitiae Sancti Martini per liberarla dai Saraceni. Per la notte, questo esercito si ferma alla fonte di acqua sulfurea che si trova a metà strada tra Oppido e Gioia Tauro; 2) la seconda condotta, con l’astuzia, dai guerriglieri dell’Aspromonte che non si sono mai arresi. Sono questi i liberatori della città di Sant’Agata, fortificata dai Saraceni. Finita la guerra di liberazione, i Bizantini decidono di tenersi le mura e la torre di Sant’Agata, solo limitandosi a cambiare nome alla città che diventa Oppidum, cioè città fortificata. La torre rimarrà in vista, come rivelano le versioni italiane della Chanson, fino all’inizio del XV secolo e sarà, poi, coperta con una torre quadrata di fattura aragonese e, ben presto, dimenticata. La torre quadrata, rinforzata dalla torre circolare all’interno, rimarrà intatta durante i terremoti del 1783, mentre verrà distrutto tutto il resto del paese e solo l’incuria degli uomini farà sì che la torre circolare saracena riappaia negli ultimi venti anni, per la caduta di una parte di uno spigolo della torre aragonese.

Nella foto il muro di Oppido Vecchio, la torre dove con grande probabilità si svolsero le battaglie contro Almonte


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Tra i boschi d’Aspromonte

inAspromonte Settembre 2013

RISPONDE L’ESPERTO SU

inaspromonte.it

L’asfodelo

La morchella

Le sue foglie erano utilizzate dai pastori per coprire la ricotta nelle fascere. In Aspromonte cresce ai margini delle strade e nei pascoli, fino ai 1400 metri di altezza. Gli uomini lo consumano sia cotto che crudo. Prima della scoperta del grano, gli asfodeli erano tra gli alimenti principali dei Greci.

Detto “trippa i pecura” è un fungo primaverile, quindi poco conosciuto dai cercatori che concentrano la loro attività nel periodo estivo ed autunnale. Tipico dei boschi di conifere (pur prediligendo i terreni bruciati e pietrosi) è molto apprezzato sull’Aspromonte orientale.

Il ghiro, tutto tana, ghiande e famiglia

Un “topo” generoso

La preda più ambita dai bracconieri rallegra i boschi autunnali di serenate notturne

I

di Leo Criaco

l ghiro (Glis glis) è un mammifero roditore con abitudini esclusivamente notturne. Per nutrirsi esce dalla tana appena fa buio e rientra poco prima dell’alba. È un animale chiassoso e spesso nei boschi dove vive (castagneti, lecceti, faggete, querceti) si sente il suo caratteristico canto. Si ciba di ghiande, castagne, more, nocciole, faggiola (bacca del faggio), pere, mele e foglie. A volte si nutre di insetti, chiocciole e di qualche uovo rubacchiato in qualche nido (alcuni sostengono che la sua dieta spesso e volentieri si arricchisca anche di qualche uccelletto). Ha forme somatiche simili a quelle del topo da cui si distingue per la grossa e lunga coda pelosa simile a quella dello scoiattolo. È lungo circa 25-30 cm (compresa la coda) ha grossi occhi ed è provvisto di pelame fitto e morbido di

colore grigio argentato sulla parte superiore del corpo, con la pancia, il petto e il sottocollo di colore bianco. Vive e nidifica nelle cavità degli alberi più vecchi e nelle buche profonde delle rocce. Arriva a vivere anche 5-6 anni. La femmina del ghiro partorisce una sola volta all’anno, normalmente nel mese di ottobre, e dà alla luce 6-7 piccoli. Il ghiro non è un animale solitario, come erroneamente si pensa, al contrario, conduce una vita gregaria con i membri della sua famiglia (madre, padre, fratelli, etc.) formando alcune volte gruppi di circa 25-30 unità. Con la sua famiglia condivide il cibo e la tana dove vive e nidifica. A inverno inoltrato, quando il freddo si fa sentire, la temperatura del suo corpo scende sotto i 35 gradi, i battiti del cuore rallentano, incomincia a sentirsi stanco, si muove sempre di meno, finché vinto dal sonno e dalla debolezza si ri-

tira nella tana, chiude gli occhi ed inizia un lungo letargo. Normalmente il letargo dura circa sei mesi e termina con l’arrivo del caldo. Il risveglio secondo la leggenda avviene nel giorno di San Giovanni Battista (24 giugno). Prima di andare in letargo, mangia tantissimo ed ingrassa fino a pesare 250-300 grammi (più del doppio del suo peso normale) così facendo resiste meglio al lungo digiuno. Prima di addormentarsi, però, riempie la tana di cibo cosicché al suo risveglio, debole e dimagrito per il lungo digiuno, potrà mangiare a volontà e rimettersi in forma senza bisogno di uscire a cercare cibo. I nemici più pericolosi del ghiro sono gli uccelli notturni (barbagianni, gufo, allocco, assiolo, etc.), il gatto selvatico e il fuoco assassino che ogni anno distrugge migliaia di ettari di bosco e uccide migliaia di animali (ghiri, lepri, scoiattoli, etc.).

Nella foto un ghiro in letargo, con la tipica pancia, il petto e il sottocollo di colore bianco

u cuda muzza

RISPONDE L’ESPERTO

Due mesi fa durante un’escursione in Aspromonte, in località Pietra castello (Africo Antica), ho fotografato un serpentello (vedi foto) che, in vita mia, non avevo mai visto. Eugenio

RISPONDE LEO CRIACO Il rettile che ha fotografato il nostro lettore non è un serpente, è una lucertola: l’orbettino (Anguis fragilis). L’orbettino (nome locale: ‘ngiglia i margiu) nel corso della sua lunga evoluzione ha perso tutti gli arti. Non avendo le zampe si muove sul terreno e sull’erba come un vero serpente, per questo motivo, facilmente viene scambiato come tale. Le lucertole (in natura esistono più di 3000 specie), i serpenti, i coccodrilli e le tartarughe costituiscono la classe dei rettili. Quasi tutte le specie (circa 8000) della suddetta classe per spostarsi strisciano sul terreno o nuotano nell’acqua. L’orbettino è di colore marrone chiaro con la parte inferiore biancastra ed è lungo circa 45-50 cm. È un animale longevo e può raggiungere, e spesso superare, i 50 anni di età. Come tutte le altre lucertole in caso di pericolo (aggressione di altri animali) perde, volontariamente, la coda e la lascia sul terreno; ciò gli consente di distrarre l’aggressore e di fuggire. Dopo poco tempo riesce a rigenerare la coda anche se non completamente (cuda muzza). Vive negli ambienti più disparati (prati, boschi di latifoglie, raramente di conifere, rocce ecc.) ed è possibile trovarlo fino alle sommità delle nostre montagne. Di giorno sta rintanato sotto le pietre, la legna marcescente, le fenditure del terreno e nelle piccole gallerie scavate da altri animali. Caccia nelle ore più fresche della giornata: al mattino presto e nel tardo pomeriggio. È un animale utile all’agricoltura perché si ciba di insetti, lumache e limacce che spesso arrecano notevoli danni alle colture. Ha una generazione all’anno e come tutti gli altri rettili per procreare depone le uova (da 6 a 12). All’arrivo dei primi freddi invernali si ritira in tana per poi uscire a primavera.


Tra i boschi d’Aspromonte Il pino laricio

Il gatto selvatico

Può raggiungere i 50 metri di altezza (a Roghudi si trova un esemplare gigantesco). Nelle nostre montagne l’estrazione della resina di laricio era fonte di reddito per intere popolazioni. Si racconta che lo stesso San Leo ne raccolse, distribuendo poi il ricavato ai montanari più bisognosi.

Collo robusto, testa massiccia, muso corto, baffi lunghi, mandibole potenti, arti corti, coda grossa e striata. Il gatto selvatico vive in tutti tipi di bosco. È un animale notturno, silenzioso, che non lascia segni della sua presenza. Dunque il suo avvistamento è un evento eccezionale.

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Le biodiversità

4 MILIARDI DI ANNI DI EVOLUZIONE Il Parco dell’Aspromonte gode di una ricchezza faunistica straordinaria grazie alla varietà ambientale del territorio di Rocco Mollace

L

Dieci secoli passati tra i boschi

La dea dell’Aspromonte Il Farnetto è una quercia che ha un areale essenzialmente sud-europeo che si estende dal mar Nero alla Turchia, all’Ungheria, ai Paesi balcanici, all’Italia centro-meridionale (dal Sud della Toscana fino alla Calabria). È presente nel versante ionico della provincia di Reggio Calabria, in Aspromonte, in una area estesa fra i comuni di S. Luca ed Africo, sotto cima Montalto, fra le quote 900-1500 metri. Quasi certamente si tratta di un “relitto botanico” di eccezionale valenza visto che in Aspromonte si riscontrano esemplari con fusti che raggiungono dimensioni ragguardevoli con età stimata fra gli 800 e i 1000 anni. Il Farnetto (la definizione “Frainetto” deriva da un refluo tipografico in quanto Michele Tenore, nel 1813, chiamò questa specie Q. Farnetto, riferendosi al nome comune “piccola farnia”, e non “Frainetto” come compose invece il tipografo) è un albero maestoso alto fino a 30-40 metri, con portamento slanciato che ricorda quello della rovere, con chioma ampia e densa. In dialetto si chiama “Carrigna” perché col legno, resistente e duraturo, venivano costruiti i carri e le ruote. R. M.

a biodiversità attualmente esistente è il risultato di circa 4 miliardi di anni di evoluzione. Tutti gli organismi, viventi oggi o vissuti in passato, si sono sviluppati da un microrganismo originario attraverso processi di mutazione e selezione. Specie separate comparvero quando, tra gli organismi multicellulari che si evolvevano per selezione darwiniana, si instaurarono mutazioni per caratteri del sistema produttivo, seguite o meno da un isolamento geografico che rese incompatibile la fecondazione incrociata. La stragrande maggioranza di questi organismi viventi (circa il 99%) è ormai scomparsa in conseguenza dei cambiamenti climatici che, nelle tante ere geologiche, hanno agito su specie particolari. Nel nostro tempo è forte il timore che la massiccia influenza dell’uomo sul pianeta possa cagionare ulteriori e più veloci cambiamenti con perdite di biodiversità e con minacce alla sostenibilità della vita sul globo. La varietà genetica, e il rischio della sua compromissione, sono entrate per la prima volta fra i temi di spessore internazionale nella conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, tenutasi a Stoccolma nel 1972. Diversità biologica o “biodiversità”, parola coniata nel 1985 da W.G. Kosen nel National. Forum on Biodiversity a Washington, è il neologismo scientifico che dalla “Convenzione sulla Biodiversità CDB”, approvata nella “Conferenza delle nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo” (Unced) svoltasi a Rio de Janeiro nel 1992, circola nei mass-media di tutto il mondo indicando l’enorme numero di specie animali e vegetali, terrestri e marine, macroscopiche e microscopiche, che popolano la biosfera. Tre livelli di diversità, dunque, di cui la prima sostiene le altre due, in quanto è alla base della flessibilità delle popolazioni che costituiscono una specie, consentendo loro di adattarsi al variare delle condizioni ambientali e di continuare ad essere presenti in un ecosistema. Se è di circa un milione e mezzo il numero di specie conosciute e classificate, il menoma (cioè l’intero complesso dell’informazione genetica contenuta nel DNA) di oltre 150 tra microrganismi e organismi pluricellulari è già noto e sequenziato. Ciò prova la ricchezza di forme di vita sul globo terracqueo, una ricchezza che riguarda soprattutto i vegetali. E se le modificazioni climatiche, e gli eventi catastrofici, hanno provocato nel tempo la scomparsa si specie animali e vegetali, si deve anche riconoscere che tante azioni dell’uomo, dal suo apparire sulla terra, hanno medicato per contro i preesistenti ecosistemi naturali.


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inAspromonte Settembre 2013

Micarè dall’Aspromonte a Brooklin La storia di un aspromontano del 1900. La storia di tanti

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I calabresi se li porta il vento

di Gioacchino Criaco

Si vedono in fondo, sulla linea blu cobalto dove finisce il nostro mare, nuvole a pecora, basse sopra l’orizzonte. Bestie da fatica, carne e latte, immenso gregge ormai transumato, piccole chiocce messe in fila, che l’Ostro spinge al nord. L’Austro si presenta puntuale, sul finire d’agosto, porta tempeste che annunciano l’autunno, una beffa che dura poco, poi l’estate torna a imperversare, cavalcando settembre e ottobre. È un vento caritatevole il Noto, rende meno triste il ritorno spargendo il grigio sul mondo che si lascia per uniformarlo a quello in cui si va, abbrevia gli addii e asciuga le lacrime, chiude le porte del viaggio. E l’estate finisce, i calabresi partono così, se li porta via il vento, fra le promesse di un ritorno che sarà per sempre e invece non ci sarà quasi mai, e la certezza di case anonime di periferia, di fiati fumanti nel freddo, di vite in attesa, di andate lunghe e rientri brevi, partenze ininterrotte per rinnovare ogni volta il dolore dell’addio. È melodramma, retorica, letteratura sorpassata e consolatoria. Ma è un pianto a ogni estate per i tanti che vanno e i pochi che restano e prima o dopo andranno o sono già andati in una vita precedente. È la Calabria delle valige sempre pronte, dei treni di terza classe, delle macchine stipate, che anche senza i bastimenti di un tempo è una umanità in travaglio e transumanza. La personificazione di Odisseo. Avremo peccato tanto in passato e ora peniamo in un viaggio che appare infinito. I calabresi di agosto, tanti, sono quelli non riusciti, che ci riempiono la testa di cose mirabolanti che esistono solo nella loro testa. I calabresi riusciti, pochi, arriveranno in settembre, o ci sono stati a giugno, evitano la calca e quasi non si fanno vedere, per loro non esiste l’autunno. I calabresi partiti per forza e che rientrano non avendo altra scelta sono come le foglie d’autunno, se li porta via il vento.

La nostra storia di Bruno Criaco «Micarè, prendimi quella pietra che ho quasi finito» «Si pà, fate con calma, abbiamo ancora un po’ di tempo». Giuseppe lavorava la pietra con maestria, le sue “armacere” erano perfette. Indistruttibili. I suoi antenati da secoli fasciavano l’Aspromonte, e nei terrazzamenti coltivavano di tutto. Gli ulivi giganteschi che proteggevano il vecchio contadino dal sole li avevano piantati loro, così come i gelsi neri, che ne costellavano il fondo. Dai gelsi neri Giuseppe strappava con dolcezza le fronde per nutrire i bachi da seta, convinto che quella inevitabile operazione facesse soffrire i suoi alberi preferiti. A quel tempo la seta era l’oro bianco dell’Aspromonte, e gli allevatori del baco occupavano un ruolo prestigioso nelle classi sociali. Purtroppo, in quella che lui considerava la sua terra, faceva solo il fattore, quindi i profitti restavano solo in minima parte alla famiglia: cinque figli maschi, cinque femmine e Maria. Domenico era il più grande e lo aiutava da quando aveva pochi anni, era orgoglioso dell’anziano genitore, dal quale aveva appreso tutti i segreti della montagna. Preparava con padronanza trappole per volpi, ghiri, pernici, cinghiali e per ogni altra specie di selvaggina. Il padre gli aveva insegnato pure il greco antico, la lingua dei vecchi. Con questo idioma comunicava con lui, e sempre dandogli del voi. Superflua dimostrazione del suo rispetto. «Pà fatemi restare qua con voi, non ho paura di partire soldato» «Maria, dagli i soldi e la tua benedizione». Le parole del padre, per la prima volta, gli fecero male. Sapeva che il vecchio stava cercando di allontanarlo dal pericolo, ma non accettava che quell’idolo potesse stare senza il suo Micarè. La delusione durò solo un istante. Una lacrima solcò il volto rossiccio e lentigginoso del vecchio, e Domenico si vergognò dei suoi pensieri. Si girò, come faceva ogni mattina, verso la Testa di Giove. Perché quella era la montagna che aveva protetto da sempre la sua gente, proprio come un leone protegge i suoi cuccioli. E, nella sua lingua antica, chiese perdono. Poi pregò Dio e gli Dei di proteggere la sua famiglia. Domenico, due suoi fratelli e una decina di loro compaesani, attraversarono la montagna per raggiungere il porto di Reggio da dove dovevano prendere la nave che li avrebbe portati a Napoli e da lì a New York, nel nuovo mondo. Li accompagnava il “riggitano”, uno strano personaggio, una sorta di negriero che passava ogni mese dai paesini aspromontani e reclutava i disperati che non sapevano neanche cosa fosse l’America. Durante la traversata la presenza dei fratelli non riuscì ad attenuare il senso di solitudine. Micarè si stava allontanando dal suo mondo, e invano cercava di trat-

tenere nelle narici gli odori della terra, quella distesa infinita di acqua salata li stava cancellando. E il mondo che lo aspettava come poteva essere? Lì i suoi Dei lo avrebbero protetto? La prima cosa che vide dell’America fu una testa gigantesca che spuntava dall’acqua, sembrava uno dei suoi Dei, e inevitabilmente pensò alla testa di Giove. Cercò d’immaginare cosa pensarono gli antichi conquistatori quando la videro la prima volta, e divenne ancora più triste. Lui, nel nuovo mondo, arrivava da schiavo. E per tanti anni lavorò come uno schiavo sui tetti dei grattaceli in costruzione, insieme ai fratelli, ai compaesani e agli indiani d’America, ai quali almeno una cosa li accomunava: non soffrivano di vertigini. L’infanzia passata a giocare sugli alberi dei boschi li aveva fatti diventare dei veri e propri acrobati, si muovevano come scoiattoli, non temevano il vuoto.

Si girò, come faceva ogni mattina, verso la Testa di Giove. Perché quella montagna, da sempre, proteggeva la sua gente, proprio come fa un leone con i cuccioli. Poi, nella sua lingua antica, chiese perdono, affidando a Dio, e agli dei, la sua povera famiglia Ad ogni alba Micarè cercava con lo sguardo la testa di Giove. Per un solo istante. Pensava alla lacrima che il padre non riuscì a trattenere, rinnovava mentalmente la vecchia preghiera e poi sprofondava nella nostalgia. Ogni tanto arrivava qualche nuovo compaesano e portava i saluti dei parenti e qualche notizia della sua terra. Tanti coetanei che non lo avevano seguito erano partiti per la guerra ed erano morti o dati per dispersi, il paesino era ormai allo sbando, la miseria e le malattie imperversavano, ma tutto ciò accentuava il suo desiderio di tornare a casa. La sicurezza del nuovo mondo non lo appagava, avrebbe preferito di gran lunga i pericoli della guerra. Alla guerra poteva sfuggire, all’America no. E Micarè, che neanche si sposò per poter mandare tutti i risparmi a casa, morì senza rivedere il padre, la famiglia, le montagne. Morì cercando di capire per quali peccati i suoi Dei gli avessero girato le spalle. Morì cercando con la mente gli odori della sua terra. Morì convinto che ci fosse un’altra vita, e che l’Aspromonte l’aspettava.


La nostra storia

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Marco Berardi, il silano che nel 1500 conquistò Crotone

Brigante e comunista

Da nobile a prigioniero, da giustiziere a re, morì sotto le torture dell’Inquisizione. Idealista e libero, come visse

L

a presenza dei briganti in Sila risale a tempi antichissimi: già sotto il regno di Federico II si nominava il Magister Silae, persona deputata a dirimere le controversie per il legno e per i pascoli tra i baroni latifondisti ed i contadini. In genere, i briganti erano contadini o pastori che, stanchi di subire le angherie dei padroni che li sfruttavano malamente, si davano alla macchia nelle grandi foreste, dove era veramente difficile catturarli. Molti erano delinquenti sanguinari, altri divennero dei simboli di libertà per il popolo oppresso dei contadini. UNO DEI PRIMI fu “Re Marcone” (Marco Berardi), che nel 1500 giunse a conquistare con le sue bande armate la città di Crotone. La sua storia iniziò con la fuga dalle carceri dell’Inquisizione, che a Cosenza erano situate sotto il palazzo vescovile. Finito in carcere perché sospettato di eresia, riuscì ad evadere e riparare nei boschi, dove insieme ad altri con cui divideva lo stesso destino, formò una banda numerosissima ed armata, quasi un piccolo esercito con l’obiettivo di conquistare gran parte del territo-

Cronaca del cantor Tegani, 11 luglio 1576 «1576. Alli XI di Luglio, mercoledì, sopra li nostri travagli della peste ad hore XIII entrarono in la città 43 banditi, et li capi foro Ascanio Mosolino, Nino Martino, Marcello Scopelliti e Gio. Michele Tuscano, et assaltarono la casa di Coletta Malgeri, quale con otto compagni se difese e morse dentro la sua casa con un colpo di scopetta al ventre, venutole dalla casa di Baptista Rota: morse anche dentro la detta casa Donata Vazani. Di fori della casa morse Ascanio Mosolino, et uno scavo prese per camino, et dui huomini che portavano cannici, et foro al porticato per brisciarlo. Et havendono combattuto la detta casa per dui hori, et non avendo potuto conquistarla con avere buttato foco a dui porti, et in una casa contigua, quale era di M. Alfonso Nasiti, che se brusciò con li robbi di dentro, se deliberarono metterla a terra con l’artigliaria, et portaro un tiro de brunzo con dui barilli di pulvere e palli portati dalla casa di Cicco Bernabò, et volendo sparare il tiro, lassorno un barile di polvere li vicino, et prese foco, quale brusciò circa sei banditi tra li quali se brusciò nel brazo Nino Martino, et Marcello Scopelliti in li dui mani; et con questo se lassò l’impresa della casa, et se ne andarno. Domentre se combatteva la casa, sono andati sei Banditi in casa di Silvio Barone, e le robbaro una cascetta co’ docati, et certi pigni d’oro et argento...».

rio, espellere gli Spagnoli ed abolire il tribunale dell’Inquisizione. DISCENDEVA DA una famiglia nobile. Era della Calabria silana e possedeva un buon grado di istruzione. Ma non era un conformista e le sue contestazioni gli attirarono la poco gradevole attenzione della Santa Inquisizione. Dopo l’evasione si guadagnò il soprannome di «Re Marcone» e la reputazione di «giustiziere». Più che per necessità di guadagno, Marco Berardi praticò il brigantaggio per motivi ideologici, tanto che non esitò nemmeno a colpire gli interessi della sua casta di appartenenza. Si mise alla testa dei contadini, la cui secolare miseria era stata ulteriormente esasperata da una crisi economica a causa della quale varie regioni centro-meridionali, da esportatrici di grano, divennero importatrici. Ad aggravare ulteriormente la penuria contribuiva la forte esplosione demografica, che proprio in quegli anni si verificò nelle aree rurali. «RE MARCONE» volle essere il capo di una sua insurrezione contro le angherie. Scrisse e di-

MARCO BERARDI non lo rifiutò, ma quando si rese conto che si voleva strumentalizzarlo come monarca-fantoccio per ristabilire l’ordine tradizionale, si diede di nuovo alla macchia. La sua utopia durò fino al 1563, anno in cui ricadde nelle mani dell’Inquisizione che non se lo lasciò sfuggire più.

Nino Martino

l’aspromontano

N Nella foto la Grotta di Nino Martino, presso Samo (RC)

vulgò un programma in cui propugnava la «libertà di tutti di servirsi di quanto Dio spontaneamente elargisce». Venivano anche teorizzate la «distribuzione dei prodotti secondo i bisogni di ciascuno» e l’«appartenenza dei campi e dei feudi ai contadini, e non ai principi». Era una specie di comunismo antelitteram, che attirò sulla testa di Berardi nuove accuse di eresia. Ma per molto tempo «Re Marcone» tenne testa a quanti gli davano la caccia. La sua banda, forte di tremila uomini, riuscì a sconfiggere i reparti spagnoli in pieno assetto bellico a cui il governo vicereale di Napoli aveva affidato il compito di liquidare la sedizione. Si tentò a questo punto di trattare con il brigante: da Filippo II gli giunse l’offerta dello scettro di “Re della Sila”.

un santo in cantina

e parla il cantor Tegani in una cronaca del 1500: fu un uomo reale. Un uomo di carne e ossa. La sua storia divenne leggenda, e si mischiò alle canzoni, ai luoghi, ai racconti dei vecchi aspromontani. Si narra che, dopo anni di vita nella foresta, e di brigantaggio, Martino venne catturato e condannato a morte. Fu salvato, proprio sulla forca, da un famico fedele. Tornato libero

andò a cercare la benedizione della madre, e questo insospettì gli altri compagni che, credendolo una spia, lo uccisero. La madre recuperò il corpo del brigante e lo seppellì nella cantina, sotto una botte di vino. Da quel momento la botte, pur senza mosto, versò sempre vino. La giustizia andò a ispezionare la cantina e vide il miracolo. Martino fu proclamato santo. Il santo dell’abbondanza.


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Arte & Cultura

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Umberto Zanotti Bianco: «Due nature fremono nel mio essere, una attratta dalla bellezza di una vita fortificata, illuminata dall’intelletto; l’altra che sogna una vita dedicata ad un altruismo assoluto...»

1963-2013 MEZZO SECOLO DI RICORDI di Giuseppe Italiano

«

Lo ricordo accanto alla sua tenda, qui ad Africo; ed io, bambino di 6-7 anni, andavo spesso a trovarlo. Mi accarezzava i capelli con affetto paterno». Così mi rispose un sorvegliante forestale, di nome Maviglia, quando gli chiesi, nei pressi di Africo Vecchio, se avesse ricordi di Umberto Zanotti Bianco. Ero andato in quel paese disabitato, spinto dal desiderio di visitare i luoghi dove il meridionalista piemontese si era fermato per capire e per condividere gli enormi disagi di quella gente sventurata; e per agire in favore di quelle creature lontane dal mondo civile. Le parole dell’anziano africoto davano esaurientemente l’idea della generosità spirituale del personaggio, del suo altruismo disinteressato nel tendere la mano al prossimo. E stanno a testimoniare che le opere filantropiche non si esauriscono nel tempo della loro dinamica, ma alimentano sempre sentimenti di riconoscenza e di gratitudine. CREDO CHE, nel 1928, alla gente di Africo Vecchio, la presenza del «forestiero», in quel villaggio precario, abbia giovato più delle strutture che lo stesso ha realizzato: sentire la certezza che qualcuno è disponibile ad alleviare le sofferenze è già grande sollievo per chi è disperato. Zanotti Bianco viene ricordato come un uomo più bravo ad ascoltare che a parlare; ascoltava gli altri con rispetto e considerazione. E preferiva piuttosto agire; era mosso da profondo amore operoso verso l’umanità, e non ha permesso che tale sua tendenza si consumasse nell’ambito delle intenzioni. La sua dinamicità avrebbe creato vasta clientela anche al più sprovveduto dei politici. Egli si mantenne distante dalla politica partitica, aborriva le compromissioni. Il fare politica non corrispondeva ai suoi ideali, avrebbe contaminato la sua moralità. Sapeva che tale attività si era allontanata dalla sua originaria essenza; quella enun-

ciata da Aristotele quando afferma: «È infatti impossibile il fare alcunché in campo politico senza essere dotato di una data qualità, vale a dire senz’essere buono. E l’essere buono significa il possedere le virtù. Bisogna dunque, se si vuole avere successo in campo politico, che carattere etico sia virtuoso». Nel nostro tempo quanti successi politici sono stati realizzati nel rispetto di ciò? ZANOTTI HA spiritualizzato la sua azione percorrendo laicamente una strada che appare per certi versi simile a quella percorsa dai grandi mistici: per la donazione totale di se stesso, per la condivisione delle sofferenze, per la fermezza dei principi. La sua vita è stata una preghiera concreta; con momenti di vera trascendenza: come quello di quando, ad Africo, tra la “perduta gente”, si commuove nella sua tenda di notte, pensando alle mortificazioni di quegli esseri che aveva vicino. E così scrive: «cerco invano un perché a tanto penare, una giustificazione, uno scopo, a tanta assenza di bene: cerco invano di esaltarmi […] pensando alla potenza dell’amore che saprà un giorno raggiungere anche quest’angolo obliato della terra». Zanotti Bianco (che era nato a Canea, nell’isola di Creta, nel 1889, da madre inglese e da padre piemontese) frequenta a Moncalieri il Real Collegio “Carlo Alberto”, dove ha modo di leggere con fervore Il Santo di Antonio Fogazzaro. È stata una lettura determinante per la sua formazione. Le sue idee liberali trovano nel romanzo fogazzariano sorprendente rispondenza: per un cambiamento morale e civile nell’Italia dei primi del Novecento, la Chiesa avrebbe dovuto recitare un ruolo non secondario; ma era una Chiesa ancora più vicina a Don Abbondio che non a Padre Cristoforo o al Cardinale Borromeo. Il giovane Zanotti si infervora nel seguire le vicende del protagonista Benedetto, “il santo”, e riconosce veritieri gli aspetti negativi che impediscono alla chiesa di essere protagonista di tal cambia-

mento. E che vengono sciorinati dal “santo” in un colloquio col papa e che sono puntualizzati nella ricorrente menzogna, nella dominazione del clero legato alle cose terrene, nell’avarizia, nell’immobilità. Il carteggio Fogazzaro-Zanotti è utile per comprendere le inquietudini, gli impulsi idealistici, gli entusiasmi del giovane, il quale, dopo aver espresso il suo disappunto per la mancata reazione dello scrittore alla condanna del romanzo da parte dell’autorità ecclesiastica, così scrive […]. IL 1910 è anche l’anno che lo vide impegnato alla fondazione di quell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia che ebbe come scopo preciso quello di supplire alle manchevolezze dello Stato. E fu la prima tappa verso quel tipo di associazionismo, indipendente dai partiti, che anticipa di molto nel tempo il volontariato dei nostri giorni; quello trovava e questo trova la sua essenza umanitaria nell’intervento fine a se stesso. Mario la Cava che lo conobbe «sulla cima di Montalto», quando, provenendo dal Santuario di Polsi con Ernesto Buonaiuti, lo incontrò che era in compagnia di Manlio, in un memorabile elzeviro sul Corriere della Sera del gennaio 1984, così scrive: «Ma è sulle realizzazioni pratiche che dobbiamo soffermarci per intendere la sua personalità. […]. Naturalmente occorrevano soldi, protezione: dove li trovava Zanotti Bianco con la sua aria riservata e fin troppo distinta? Appunto, nel suo comportamento disinteressato di chi chiedeva non per sé, ma per gli altri. Fu un umo capace di coinvolgere ai suoi ideali quanti uomini avvicinasse. Sborsarono per lui proprietari avari e banche austere. […] Per le sue biblioteche circolanti, gli editori concessero prezzi di favore, e la direzione del Corriere della Sera i libri ricevuti in omaggio». Da tale attività nascono scuole, asili Montessori, ambulatori, laboratori artigianali. […]

Nella foto in alto le scuole elementari di Africo Antica, nella foto sopra Umberto Zanotti Bianco. A destra i bambini di Africo (‘48) MA CHI LO ha conosciuto negli ultimi anni di vita lo ricorda come preso da stanchezza triste. La parte finale della sua esistenza (che si chiude nel 1963) è vissuta in un Paese che, nell’intento di sprovincializzarsi, aveva perduto il senso dell’amore per il prossimo. L’attualità di Zanotti Bianco sta nella valenza universale della sua opera; nella necessità, oggi, di personalità simili alla sua. Proprio oggi che l’altruismo, il misticismo, la dedizione appaiono valori remoti alla no-

stra società. Il suo esempio ricorda che il pensiero, mazzinianamente, deve evolversi nell’azione; che l’azione deve improntarsi a quella moralità tipica del tolstoismo; che, in epoca di tangentopoli, è possibile operare pubblicamente nella limpidezza e nell’onestà; che, ai tentativi di separativismo, bisogna rispondere con unitaria solidarietà; che ogni popolo ha diritto alla sua libertà; che la vera vita è quella vissuta per gli altri.


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Gli scatti più belli

Durante la sua visita alla Villa Romana di Palazzi (Casignana) l’attore Michele Placido è stato “sorpreso” a leggere il nostro giornale.

Associazione Mediterranea di Reggio Calabria

Un progetto per Zanotti Bianco di Remo F. M. Malice

N

el cinquantenario dalla scomparsa l’Associazione Mediterranea di Reggio Calabria e l’Associazione Santu Leu di Africo intendono ricordare Umberto Zanotti Bianco, che ha dedicato buona parte della sua esistenza al riscatto della terra di Calabria e di Africo. L’idea è quella di creare uno spazio di riflessione nel sito in cui Zanotti Bianco piantò la sua tenda e che diventò, sin da subito, un punto di riferimento per tutta la popolazione. Questo spazio nascerà su uno spuntone di roccia arenaria nei pressi dell’abitato di Carrà dominante sul vecchio centro abitato, realizzando così quel contatto visivo e spirituale, indispensabile per creare un’unione empatica con lo spazio circostante. L’area avrà un chiaro legame con gli elementi della natura: terra, fuoco,

DIRETTORE RESPONSABILE Antonella Italiano antonella@inaspromonte.it

DIRETTORE EDITORIALE Bruno Criaco inaspromonte@gmail.com

EDITORIALISTA Gioacchino Criaco

gioacchino@inaspromonte.it

Redazione Via Garibaldi 83, Bovalino 89034 (RC) Tel. 096466485 – Cell. 3497551442 sul web: www.inaspromonte.it info@inaspromonte.it

acqua e vento, con una serie di interventi che saranno realizzati durante il laboratorio creativo che avrà luogo in questo mese di settembre e che vedrà la partecipazione di un gruppo selezionato di giovani artisti. L’intervento sarà realizzato tramite l’utilizzazione di materiali, cromie e piante del territorio. È previsto anche un intervento di “bioscultura” attraverso alberi di quercia (simboli di forza), di alloro (sapienza) e d’ulivo (pace). Da qui sarà creato un collegamento video durante il convegno dedicato alla figura di Zanotti Bianco che si terrà a Cosenza il 18 ottobre, data che rievoca, nello stesso tempo, l’alluvione che segnò profondamente il paese di Africo. La seconda parte del progetto ha come obbiettivo il recupero di quell’invisibile filo della memoria che unisce le generazioni (si svilupperà nell’arco del corrente anno scolastico) e comprenderà due laboratori settoriali: il primo sarà indirizzato agli alunni della

Hanno scritto in questo numero Antonio Iulis, Cosimo Sframeli, Giuseppe Bombino, Giuseppe Gangemi, Giuseppe Italiano, Serge Quadruppani, Remo F. M. Malice Per l’Aspromonte orientale Pino Macrì, Domenico Stranieri, Antonio Perri, Carmine Verduci, Fortunato Nocera Per l’Aspromonte grecanico Salvino Nucera, Bruno Salvatore Lucisano, Francesco Violi, Mimmo Catanzariti Per la Vallata del Tuccio Federico Curatola Per la Vallata del Gallico Maurizio Malaspina

scuola media di Africo Nuovo ed il secondo, a giovani scrittori ed avrà come tema comune “la memoria dei luoghi, tra il racconto, il sogno e l’immaginazione”. I progetti saranno sviluppati grazie alla collaborazione dei Corsi di Tecniche Grafiche Speciali del Prof. Gianni Curatola e Teoria della Percezione tenuto dallo scrivente, dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, con l’importante concorso dell’Associazione Scrivere in Aspromonte. Nel primo intervento i ragazzi saranno guidati, nella realizzazione di books, dai professori della scuola interessata e da giovani illustratori. Nella seconda operazione ai giovani scrittori, che realizzeranno storie ispirate dai luoghi aspromontani, verranno associati degli illustratori emergenti che visualizzeranno le narrazioni. Non uno sterile monumento commemorativo, dunque, bensì un luogo e un momento d’incontro da cui far ripartire la rinascita.

Per le biodiversità Rocco Mollace, Leo Criaco Fotografi Leo Moio, Pasquale Criaco, Natale Nucera, Francesco Depretis, Paolo Scordo, Giancarlo Parisi Progetto grafico e allestimento Alekos Hanno collaborato: l’Associazione “Santu Leu Apricus” (Africo) e l’Associazione Mediterranea di Reggio Calabria (prof. Giovanni Curatola) Chiuso in redazione il 06/09/2013 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.


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In montagna si è piÚ vicini al Cielo...

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