Sofà #10 - Dicembre 2009

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FERRARI 365 GTB4 “Daytona”

Pensavate di conoscerla, ma così non l’avete mai vista.

Sculture in movimento, così possono essere definite le Ferrari che portano alto, sulle strade di tutto il mondo, il vessillo del Cavallino Rampante. E solo con una vera scultura si poteva celebrare il mito della “Daytona”. Con un modello perfetto, splendente nella sua preziosa carrozzeria, esclusivo per la sua tiratura limitata. Prestigioso, come solo la Ferrari sa essere.

Un’automobile leggendaria, un gioiello da collezionare. Adesso.

Sofà Anno III Numero 10 2009

TRIMESTRALE DEI SENSI NELL’ARTE

D I E C I V O LT E C O N V O I

La scultura è realizzata con la tecnica della microfusione a cera persa, in bronzo laminato in palladio. I cristalli sono realizzati con la tecnica dello smalto a caldo. Scala 1/18 Dimensioni: 24 x 9,5 x 6,5 cm ca.

TIRATURA LIMITATA PER L’ITALIA A 120 ESEMPLARI NUMERATI E CERTIFICATI

numero

Produced under license of Ferrari Spa. FERRARI, the PRANCING HORSE device, all associated logos and distinctive designs are trademarks of Ferrari Spa. The body designs of the Ferrari cars are protected as Ferrari property under design, trademark and trade dress regulations

FERRARI ARTISTIC LIMITED EDITIONS SCULTURE IN MOVIMENTO

Sofà

26-01-2010

PIER PAOLO PUXEDDU+FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO

copertina s10:copertina s6

FERRARI ARTISTIC LIMITED EDITIONS

L’ARTE SI ACCENDE DI ROSSO

numero verde 800 014 858 | info@editalia.it

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Anniversari

Grandi mostre

Argomenti

Personaggi

Caravaggio l’antiaccademico

Giorgione il pittore del mistero

La seduzione del male

Emanuele al Palaexpò


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PIER PAOLO PUXEDDU + FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO

PIER PAOLO PUXEDDU + FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO

foto RM studio

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IL

CONIO della lira

La riproduzione artistica del conio e del punzone della prima moneta della Repubblica Nel 1946 nasce la Repubblica e con essa la nuova moneta italiana. Editalia - Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato vi accompagna in un percorso alla riscoperta delle origini della lira e presenta un’eccezionale proposta inedita: per la prima volta possiamo tenere fra le mani il “materiale creatore” di una moneta,

I due conii e i due punzoni, che riproducono le matrici del dritto e del rovescio della moneta da 1 Lira del 1946, sono realizzati in ottone laminato in platino, con il soggetto centrale in oro 900‰.

Tiratura: 1999 esemplari numerati e certificati Andreas Cellarius. Atlas Coelestis seu Harmonia Macrocosmica

Marco Polo. Le Livre des Merveilles

RD 167 - Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II, Roma NOVITÀ

L’Acerba

Giacomo Maggiolo. Carta nautica del bacino del Mediterraneo

Trattato di Aritmetica di Lorenzo il Magnifico

Cart. naut. 2. Bibl. Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II, Roma

La Bibbia di San Paolo Biblia Sacra. Codex membranaceus saeculi IX Abbazia di San Paolo fuori le Mura, Roma

Exultet di Salerno Museo Diocesano, Salerno De balneis Puteolanis Ms.1474 - Biblioteca Angelica, Roma Codice Oliveriano I Ms. I - Biblioteca Oliveriana, Pesaro

Ms. fr. 2810 - Bibliothèque nationale de France, Paris Ms Pluteo 40.52 - Biblioteca Mediceo Laurenziana, Firenze Ms. Ricc. 2669 - Biblioteca Riccardiana, Firenze

De Re Rustica Codice E 39 - Biblioteca Vallicelliana, Roma

Le miniature della Bibbia di Oxford Ms W. 106 - The Walters Art Museum, Baltimora / Musée Marmottan, Paris

Codice di Medicina e Farmacia di Federico II Ms Pluteo 73.16 - Biblioteca Mediceo Laurenziana, Firenze

www.editalia.it

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Editalia - Edizioni in Facsimile

Nuovi splendori dal passato.

Tesori inestimabili, oggi accessibili a tutti. Una collezione di codici miniati e documenti cartografici antichi splendidamente restituiti in facsimile, nella magia dei colori, delle dorature e delle legature realizzate a mano, in tiratura limitata e numerata.

Il bello della cultura. www.editalia.it

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Editalia - Edizioni in Facsimile

Andreas

Cellarius atlas coelestis

PIER PAOLO PUXEDDU + FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO

RD 167 - Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II, Roma

L’Universo elegante Dodici, sontuose tavole che illustrano le costellazioni e i sistemi planetari: un viaggio fantastico attraverso i cieli, fra gli astri, i pianeti, le costellazioni e le figure mitologiche che le identificano. Immagini di grande interesse storico e scientifico, capaci di affascinare con la potenza della loro suggestione. Tre Cartelle, ciascuna delle quali contiene quattro tavole montate su tela (formato 133x111 cm). Le tavole (ciascuna del formato di ca. 59x48 cm), sono riprodotte in facsimile su carta speciale per stampe d’arte con nove colori e ritocchi di oro a caldo. Sono realizzate dall’Officina Carte Valori dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.

Tiratura limitata a 999 esemplari numerati e certificati dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato

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editoriale Con Sofà un punto di vista originale sull’arte

DIECI VOLTE

con voi

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È con sincero piacere che, in occasione della pubblicazione del decimo numero, rivolgo un saluto a tutti i lettori di questa rivista, realizzata con passione e cura da Editalia. Una rivista capace di offrire un punto di vista originale nel poliedrico mondo dell’arte e dell’editoria di pregio, dai grandi eventi ai personaggi che lo animano, dalle dinamiche del mercato fino al sempre più articolato rapporto tra arte e impresa. Ma ciò che mi piace sottolineare in questa occasione è il ruolo che Sofà svolge nel valorizzare i mestieri dell’arte e le capacità artistico artigianali del nostro Paese. Un saper fare che fà parte della nostra storia e che è significativamente presente nel Gruppo Poligrafico e Zecca dello Stato, che ho il piacere di dirigere e di cui Editalia è parte. Basti pensare alla Scuola dell’Arte della Medaglia presso la Zecca, istituita nel 1907 e che in oltre 100 anni di attività ha formato tanti giovani all’arte dell’incisione e della modellazione di monete e medaglie, e non solo, considerando i corsi dedicati ad altre tecniche come la fusione a cera persa, gli smalti, la calcografia, il bassorilievo, eccetera. Va sottolineato, inoltre, come questa scuola, unica al mondo nel suo genere, sia collocata all’interno della Zecca, dunque a contatto con la realtà produttiva, a sottolineare lo stretto legame che si vuole instaurare tra creazione artistica e diffusione presso il pubblico. L’attività che l’Istituto ed Editalia svolgono assieme si inserisce nel solco di questa tradizione, realizzando opere che attraverso i linguaggi dell’arte, coinvolgono anche piccole realtà artistico artigianali altrimenti destinate a rimanere ai margini del mercato, raggiungendo il pubblico dei collezionisti ed appassionati. La mission di Editalia, e per certi versi la valenza sociale e di servizio al sistema Paese, è proprio quella di rendere attuale il mondo dei mestieri dell’arte, farlo vivere al di fuori della dimensione “museale”, ponendolo a contatto con artisti attualissimi come Mimmo Paladino o Ferdinando Scianna, o impiegandolo per interpretare i valori e la storia di aziende all’avanguardia tecnologica come Ferrari. Una mission ben testimoniata da questa rivista che giunge oggi al decimo appuntamento con Voi. Con l’occasione dell’invio di Sofà, Vi rivolgo i miei più sinceri auguri per il nuovo anno.

Ferruccio Ferranti Amministratore delegato Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato

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sommario

38 NOTIZIE

PRIMO PIANO

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Cronache d’arte Il premio Margutta a Guido Talarico

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Fotografia Fotografia astratta, dall’avanguardia al digitale

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Esposizioni in Italia e all’estero Dai preraffaelliti a Gabriel Orozco, cosa c’è da vedere

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Eventi/1 Renato Guttuso: Caravaggio, il diavolo in corpo Fortuna e sventura di un antiaccademico

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Eventi/2 Barocco, Seicento napoletano

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Eventi/3 Giappone, eros & splendori da un’isola senza guerra

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Grandi mostre/1 Alberto Fiz: Tàpies, muri visionari

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Grandi mostre/2 Giorgione, il pittore del mistero

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Grandi mostre/3 Terra madre, i colori del sacro

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I luoghi del bello Pinacoteca di Brera, un fiore su terra incolta

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16 PERSONAGGI

Il corpo dell’arte Ettore Spalletti, il silenzio del colore

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L’arte prende corpo Alessandro Lupi, sculture di luce

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Conversando sul sofà Giordano Bruno Guerri: Van Gogh, la follia del creato

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Un caffè con Andrea Dall’Asta: la seduzione del male

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EDITORIA & ARTE L’arte del libro

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Flaminio Gualdoni: dal volumen al codex

ARTE & IMPRESA

IN CHIUSA

Materiale creatore Caravelle, col vento di bolina

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Codex Giovanni Vespucci, il battesimo del Pacifico

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A regola d’arte Ferrari, il sogno di Enzo

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I mestieri dell’arte Francesco “Ciccio” Liberto, il calzolaio dei piloti

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Il motore dell’arte Fondazione Roma: Emanuele, un mecenate al Palaexpò

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In cassaforte L’angolo del collezionista, bagliori nel tunnel

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Cose dell’altro mondo Filippo Salviati: Sudest asiatico, correnti d’oriente

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Il cammeo di Adiem Il cenotafio di papa Sisto IV torna a risplendere

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cronache d’arte Federculture, i musei italiani sempre più in basso La cultura e il turismo d’arte tengono botta e attraversano senza troppi scossoni la crisi anche in virtù di una crescita che si prolunga da anni. La spesa delle famiglie italiane per la cultura e il tempo libero è infatti passata dai 48 milioni annui del 1998 ai 64 milioni del 2008 con un incremento del 34%. Questi i dati snocciolati da Federculture e contenuti nel VI rapporto annuale, emblematicamente intitolato Crisi economica e competitività, la cultura al centro o ai margini dello sviluppo? Fra gli altri numeri emerge però un dato negativo: i musei italiani si piazzano sempre più in basso nella classifica dei più visitati, con gli Uffizi che nel 2008 scendono dal 21esimo al 23esimo posto nel mondo. Guadagnano invece una posizione, dal settimo al sesto posto, i Musei Vaticani. Scivolano in basso anche il palazzo Ducale di Venezia (dal 27esimo al 31esimo posto), e la Galleria dell’accademia di Firenze (era 31esima, ora 35esima). (Simone Cosimi)

Il premio Margutta a Guido Talarico rte, moda, cucina e solidarietà. Questi gli ingredienti di un ricchissima edizione 2009 del premio Margutta, la via delle arti, tenuta a Roma a fine novembre nell’esclusiva cornice del Margutta Ristorarte, primo circolo capitolino di cultura vegetariana e da dieci anni divenuto anche galleria d’arte. Guido Talarico (nella foto), direttore di Sofà, Inside Art e Inside Art International, ha ricevuto il

premio per la sezione arte. Fra gli altri premiati Stefano Dominella, presidente di Gattinoni, l’attrice Barbara Tabita, la conduttrice Caterina Balivo, il giornalista del Tg1 Attilio Romita e il regista Vincenzo Salemme. E ancora, fra gli altri, lo scrittore Federico Moccia, la conduttrice Sveva Sagramola e l’imprenditore Andrea Ferrari, amministratore delegato di Ferrari promotion. (S. C.)

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Parma, riapre Palazzo del governatore Rivoli, la strana coppia Merz-Bellini Riapre il 16 gennaio la sede espositiva di Palazzo del governatore a Parma, che ospita con la galleria San Ludovico e le Scuderie della Pilotta la mostra Novecento: arte, fotografia, moda, design, architettura. Più di tremila metri quadrati di superficie espositiva che accoglie opere dalla collezione del Csac, Centro studi e archivio della comunicazione dell’università di Parma curata da Arturo Carlo Quintavalle. Fra le altre attività che animeranno il palazzo, le residenze d’artista che ogni anno accoglieranno alcuni famosi artisti contemporanei per un laboratorio aperto alla città con mostre, dibattiti, performance, confronti. Si parte con Claudio Parmiggiani, da maggio a dicembre. Info: www.palazzodelgovernatore.it.

«Sono molto contenta e sorpresa di questa nomina che ho accettato con entusiasmo. Con Andrea Bellini mi sono già sentita e credo che lavoreremo molto bene insieme». Parola di Beatrice Merz, nuova condirettrice del museo d’arte contemporanea del Castello di Rivoli insieme a Bellini. La direttrice della fondazione Merz – che promette di dimettersi dalla precedente carica – è stata nominata dal presidente del museo torinese Giovanni Minoli per rimediare al pasticcio combinato con Jens Hoffmann, scelto a dicembre e rinunciatario nel giro di un fine settimana. Beatrice Merz è figlia di Mario, uno dei big dell’arte povera. (S. C.)

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colpo d’occhio

FOTOGRAFIA ASTRATTA

DALL’AVANGUARDIA

al digitale Il museo di Cinisello Balsamo celebra l’astrattismo negli scatti collettivi dei grandi maestri dell’obiettivo di Alessandra Vitale

Franco Fontana senza titolo, 1978

stratta è aggettivo che subito richiama alla mente l’arte di Kandinskij, Delaunay, Klee, Mondrian; risulta pertanto insolito trovarlo riferito alla fotografia, che a volte l’opinione comune relega a una trita riproduzione del reale. Proprio Fotografia astratta è il titolo della mostra che il museo di fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo dedica a questo particolare indirizzo di ricerca. Crollato in seguito agli assalti delle avanguardie storiche il concetto di rappresentazione, anche la fotografia si è ritagliata uno spazio per occuparsi di forme astratte, segni e luce. Due i filoni in cui si articola l’esposizione: il primo comprende le immagini realizzate con tecniche diverse da quelle tradizionali; il secondo quelle ottenute attraverso un normale utilizzo della ripresa fotografica rivolta ad aspetti della realtà che già offrono allo sguardo forme astratte. Tra gli artisti esposti Mario Giacomelli, Nino Migliori, Luigi Veronesi e Olivo Barbieri. Fino al 10 maggio, museo di fotografia contemporanea, via Frova 10, Cinisello Balsamo (Milano). Info: 026605661; www.mufoco.org.

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expo in Italia pagine a cura di

Camilla Mozzetti RAVENNA I PRERAFFAELLITI E IL SOGNO ITALIANO

Da Beato Angelico a Perugino: indagare il loro ruolo nel movimento artistico, nato in Inghilterra nella metà dell’Ottocento. È questo l’obiettivo della mostra I preraffaelliti e il sogno italiano, visibile al Mar di Ravenna dal 28 febbraio al 6 giugno. Info: 0544482477.

TERNI RINASCIMENTO UMBRO

FORLÌ

Fino al 2 maggio 2010 Terni e Amelia, rispettivamente al Caos, Centro arti opificio sirio e al museo Archeologico, ospitano la mostra Piermatteo d’Amelia e il Rinascimento nell’Umbria meridionale, che vuole offrire alla conoscenza del grande pubblico un protagonista di primo piano del secondo Quattrocento, uno tra i grandi maestri del Rinascimento in Umbria. Info: www.piermatteodamelia.it.

OLTRE I FIORISTI

Un percorso a ritroso quello della mostra Fiori, nautura e simbolo dal ‘600 a Van Gogh ai musei di San Domenico di Forlì. Obiettivo è quello di mostrare come l’elemento floreale assume un rilievo simbolico superiore alla figura umana. Fino al 20 giugno. Info: 0543712659.

LA SPEZIA L’INFANZIA DI TOMAINO Parte da un ricordo il titolo della mostra di Giuliano Tomaino L’albero delle carrube. L’esposizione si compone di diverse opere, alcune a testimonianza degli esordi, come L’infanzia di Giorgio, altre sono le installazioni sul tema della Casa dei santi realizzate in legno e cartone. Fino al 25 aprile 2010. Info: 0187734593.

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ROVIGO IL SETTECENTO VENETO: DA BORTOLINI A TIEPOLO

Una mostra a palazzo Rovella per svelare la figura di Mattia Bortolini, l’artista conosciuto da tutti per il suo affresco di 5.500 mq della cupola ellittica nel santuario di Vicoforte, in Piemonte. Un percorso voluto per scoprire insieme a Giambattista Tiepolo, l’arte veneta del ‘700. Fino al 13 giugno. Info: www.palazzorovella.com.


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ROMA AL DART I BOULEVARD DI BOLDINI

Il Chiostro del Bramante presenta una grande mostra dedicata a Giovanni Boldini e agli artisti italiani, come Vittorio Corcos e Antonio Mancini che soggiornarono a Parigi nella seconda metà del secolo XIX. Fino al 14 marzo. Info: 0668809036; www.chiostrodelbramante.it.

BRESCIA INCA, LA SCOPERTA DI UNA CIVILTÀ Sono ben 270 le opere che compongono la mostra Origini e misteri della civiltà dell’oro organizzata al museo bresciano di Santa Giulia. L’esposizione, visibile fino a giugno 2010, è la più grande finora realizzata e si compone di opere provenienti dai maggiori musei peruviani. Info: 800775083; www.bresciamusei.com.

AOSTA PALADINO, DAL SEGNO ALLA FORMA

Oltre trenta opere grafiche e una decina di sculture compongono la mostra al Centro Saint-Bénin di Mimmo Paladino. L’esposizione offre l’oppurtunità di ammirare due aspetti significativi del lavoro dell’artista: l’incisione e la scultura. La prima caratterizzata dall’uso di varie tecniche come la serigrafia e la litografia, mentre la seconda è volta a una semplificazione delle strutture. Fino al 2 maggio 2010. Info: 0165272687.

TORINO CAVALIERI DAI TEMPLARI A NAPOLEONE

La mostra Cavalieri. Dai Templari a Napoleone. Storie di crociati, soldati, cortigiani alla Reggia della Venaria reale fino all’11 aprile, racconta come gli ordini cavallereschi medievali abbiano prima lasciato il posto a quelli monarchici del Rinascimento e dell'antico regime e poi alle moderne decorazioni al merito. Info: www.lavenaria.it; 0114992333.


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expo nel mondo pagine a cura di

Silvia Bonaventura PRAGA LE FOTO DI TOBIAS

LONDRA HESSE E STRUNZ AL CAMDEN ARTS CENTRE

Lo spazio espositivo che si trova nella zona commerciale londinese di Camden ospita una doppia esposizione di grande qualità: oltre cinquanta opere di Eva Hesse arrivate da collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, e una ricca serie di installazioni artistiche di Katia Strunz, eclettica creativa che utilizza oggetti di uso comune e li assembla con quel tocco di genialità fino a comporre forme esclusive. Fino al 7 marzo. Londra, Camden arts centre. Info: www.camdenartscentre.org.

Il fotografo Herbert Tobias, morto nel 1982 povero in canna, è stato in realtà l’enfant terrible della fotografia tedesca del dopoguerra, e la galleria Rudolfinum gli dedica una ricca retrospettiva che parte dal periodo post-bellico passando per gli scatti di moda anni ‘50 per arrivare agli anni ‘60, quando abbandonò la carriera. Fino al 28 marzo. Praga, galerie Rudolfinum. Info: www.galerierudolfinum.cz.

MADRID FERRARI E SCHENDEL

Leon Ferrari e Mira Schendel al Reina Sofia. La coppia artistica tra le più significative nello scenario contemporaneo latinoamericano in mostra nelle sale del museo madrileno con l’organizzazione di Luis Perez Oramas e Geaninne Gutiérrez Guimar del Moma di New York. Fino al primo marzo. Madrid, museo Reina Sofia. Info: www.museoreinasofia.es.

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AMSTERDAM ALEXANDER RODCHENKO

Grande risalto alle immagini dell’artista russo Alexander Rodchenko attraverso una prestigiosa retrospettiva che con oltre duecento scatti d’epoca, per la maggior parte inediti nell’ovest Europa, ripercorre la sua carriera. Fino al 17 marzo. Amsterdam, Foam, Museo della fotografia. Info: www.foam.nl.

SAN FRANCISCO LE VISIONI DI BRUCE CONNER

Il museo d’arte moderna di San Francisco presenta al pubblico la sua recente acquisizione dal titolo “Long play, Bruce Conner and the singles collection”: una serie di lavori dell’artista che saranno esibiti a rotazione. Fino al 23 maggio. San Francisco, Museum of modern art. Info: www.sfmoma.org.

PARIGI TIZIANO, TINTORETTO E VERONESE AL LOUVRE Tiziano, Tintoretto, Veronese, rivalità a Venezia è il titolo della mostra che incentra la prospettiva sulla rivalità tra i tre più grandi pittori veneziani del XVI secolo. Un’esposizione che rivela, attraverso più di ottantacinque opere selezionate, i loro rapporti di emulazione e di competizione. Fino al 18 marzo. Parigi, museo del Louvre, Hall Napoléon. Info: www.louvre.fr.

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NEW YORK GABRIEL OROZCO AL MOMA

L’artista messicano Gabriel Orozco, emerso negli anni ‘90 e definito uno dei contemporanei più interessanti, in mostra nelle sale del museo newyorkese con una vasta selezione di opere che spaziano tra pittura, disegno, fotografia, scultura e installazioni. Fino al primo marzo. New York, Moma, Museum of modern art. Info: www.moma.org.


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eventi CARAVAGGIO

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Il diavolo in corpo La pittura dal vero del maestro lombardo sul cadere del ’500 Dall’affermazione nella Roma dei papi alla fuga per omicidio di Renato Guttuso*

Come poté un ragazzo lombardo, apprendista pittore, arrivato a Roma all’età di circa diciotto anni, costruirsi, crescere, straripare dalle zone basse di piazza Navona, oltre Tevere, oltralpe, oltre il suo secolo e i secoli successivi, arrivare fino a noi quale uno dei più alti moniti (forse il più stabile e compatto), imporsi quale bandiera del moderno alle scelte più disparate, alle fazioni più contrastanti? Come è possibile che ancora oggi, dopo Kandinsky o Mondrian, il passante più casuale, o il patito di Pollock o di Rauschenberg, o il più condiscendente elettore dell’arte ludica, entri in San Luigi dei Francesi e senta riaprirsi in petto una piaga che credeva chiusa per sempre? Sono domande senza risposta, o la cui sola risposta possibile (da molti tenuta in dispregio) è che la verità di una grande passione creativa si misura dalla sua durata, dalla sua capacità di riproporsi come fonte d’acqua viva alle ideologie, alle nuove convinzioni, ai nuovi gusti: mostrare una faccia nuova, mai vista prima. È vero che il giovane aveva lasciato Milano già padrone di un proprio nucleo ideale. Aveva saputo impossessarsi di ciò che gli serviva con un senso acuto della fruizione culturale che gli impediva tentennamenti e dispersioni. La sua certezza giovanile era per lui il più perfetto dei selezionatori, la bussola che lo orientava e lo avrebbe orientato negli anni futuri. Per naturale adesione prende contatto con i gruppi “naturalisti” di Lombardia, assertori di un’arte semplice, realistica, non “ideale”. Poi, il viaggio alla volta di Roma. Ed è da supporre che per via si fosse riempito la bisaccia di nuove acquisizioni utili a rinforzare quel suo proprio nucleo. Non

conosciamo quali strade percorse, ma sappiamo quel che c’era in quel tronco di terra italiana a sud del Po: Parma, Bologna, Firenze, Assisi, forse Orvieto; Annibale Carracci, Masaccio, Giotto. A Roma si alloga da qualche parte, nelle stradine piene di coltelli attorno a piazza Navona. Ed era naturale che si trovasse con i giovani ribelli, affini all’ambiente dei naturalisti lombardi e a lui più congeniali: i nomi di Lorenzo Siciliano, di Prosperino, di Longo e del Leoni, e quello del Cavalier d’Arpino, già sull’onda della moda, sono indicativi della sua scelta. Una scelta normale per un artista arrivato di fresco in un grande centro; come è accaduto, e accade, a qualsiasi giovane ardente sbarchi dalla sua provincia a Roma, a Parigi. Nella Roma “dei manieristi e dei grottescai” era ovvio che si accostasse a questi ultimi. Non solo per temperamento o per necessità; piuttosto per un suo pensiero, il suo pensiero dominante, e per la coscienza intellettuale che in quel clima “minore” c’era più possibilità di toccare il cuore delle cose, più fecondo terreno alla rivoluzione che portava in petto, che non sotto lo spento baldacchino accademico. E benché nel suo sprezzante rifiuto per la “grande manière” coinvolgesse – era comprensibile – anche Raffaello [...] al Caravaggio non poteva sfuggire il rapporto ideale tra Raffaello e Masaccio; né poteva, di conseguenza, escluderlo, per polemica, dalla propria esperienza creativa. Gli ultimi decenni del ‘500 furono anni di grande travaglio, densi di novità, di straordinaria importanza per il formarsi di una coscienza moderna. Sono gli anni che videro la morte di Michelangelo, la nascita di

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Caravaggio Bacco, 1596-97


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Galileo, e il Concilio di Trento chiudere i lavori. È in quest’ora che il Caravaggio accende il suo fuoco. L’operazione, apparentemente artigianale, di dipingere frutta e fiori esigerà una ben straordinaria forza morale, diventerà arma di rinnovamento, proposta (e quanto perentoria) di un nuovo realismo. Non si tratta di avanzare un’ipotesi, ma di affermare il significato oggettivo di nuovi contenuti e nuove forme, di una pittura stretta alle cose reali, nata dall’osservazione inalienata del reale. Dopo Giotto e dopo Masaccio egli riafferma il principio secondo cui non concetti astratti o prevenute concezioni filosofiche siano da incollare sulla tela, ma la conoscenza della realtà, le cose come esse sono, indagate ed esplorate nelle loro relazioni di luogo, spazio, luce: le cose, da sole, esprimono idee, filosofia e storia, perché da esse si sprigiona il “presente” e il suo suono, la nuova condizione umana, i nuovi concreti rapporti tra gli uomini e degli uomini con le cose e la storia. Le vie del realismo non sono infinite. È significativo che, alla fine del ‘500, punto di partenza verso il realismo sia la natura morta, la pittura di oggetti. Lo stesso accadrà al momento della nuova ripresa realista negli ultimi decenni del XIX secolo: i fiori, la trota, le pere di Courbet, il dessert di Monet, e Cézanne ostinarsi davanti a un cartoccio di mele, per tanti sensi affine a “quei due baiocchi di frutta” dipinti dal Caravaggio davanti al Bacchino malato. Nasce così una tesi rivoluzionaria, lo smantellamento delle gerarchie dei temi, la scelta di una pittura “senza soggetto apparente” e senza “actione”, più idonea ad accostare la verità, a scrostarla da miti, ideologie e falso decoro. Solo per questa via si poteva arrivare a una giusta, moderna idea dell’”actione”, a un nuovo vivente attuarsi di una pittura di “historia”. E le “historie” verranno, per mano del Caravaggio, e si sa in che modo violento egli saprà riproporle. Come è d’uso, la sua ricerca verrà accusata di essere plebea. Ma non si trattò di rivolta plebea, né della proposta intellettualistica di un’arte popolare da opporre all’arte aulica. Anzi, alla base della sua rivoluzione è un’approfondita conoscenza dell’arte, dei fatti, delle opere, delle scuole, delle discussioni in atto: un’alta coscienza culturale e storica. Non plebeo, bensì di animo popolare, come chi abbia inteso quale sia la fonte di verità a cui attingere: toccare terra per trarne linfa e sangue. Non è certo un caso che siano stati Géricault e Courbet a tirar giù Caravaggio dalle cimase dei musei [...]. È notevole il fatto che in tempi di totale disattenzione verso l’arte italiana del secondo ‘500 e del ‘600 nella quasi totale assenza di testi critici e storiografici, tra le informazioni false, manchevoli, semplicistiche e orecchiate, fossero i pittori a cercarsi i loro ascendenti, a tirarne da soli le conseguenze, immettendo elementi culturali di collegamento ideale con altre imprese relati-

Giuditta e Oloferne, 1599

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Vocazione di san Matteo 1599-1600 Nella pagina seguente: Natura morta con cesta di frutta, 1597-98

ve alla stessa esigenza. Il suo iter, giunto a Roma, è simile a quello di tanti altri. “Senza denari e pessimamente vestito”, miseria, malanni, ricovero all’ospedale dei poveri; lavorucci di bottega presso questo o quel pittore, teste a un grosso l’una, copie ecc., appena per vivere, e male. Ma dipingeva anche, per la sua idea, pitture di natura morta e di genere, mezze figure dal tema “tagliato”, breve, “neppure in grado di intitolarsi” (Longhi), soggetti di strada. È, ormai, la sua scoperta: i suoi personaggi mitologici e, poi, i suoi santi non scenderanno nel suo studio da nessun Olimpo, da nessun Empireo: saranno gli uomini con i quali aveva commercio di giovinezza e di vita. Perché il mondo è cosparso di dèi, di santi e di eroi, nelle strade, nelle case, negli stadi, nelle officine, nelle osterie. I suoi malevoli biografi e gli storici del tempo, volenti o no, debbono accorgersi che il giovane ha il diavolo in corpo. Il soggetto? tutto è un soggetto. La “historia”? non ne ha bisogno. Le leggi accademiche della composizione? inutili. Si può strutturare una complessa scena attraverso un movimento di braccia, un’inclinazione della testa, un volteggio di pieghe. Ogni parte contiene in sé la struttura generale. [...] Il Caravaggio trascorre così a Roma un decennio di tumultuosa creatività che lo rende “celeberrimus pictor”, come lo definisce nel 1597 Ruggero Tritonio. Il suo campo d’azione si è improvvisamente esteso; vi scorrazza senza contraddirsi, precisando i termini della sua proposta,

rendendoli sempre più convincenti man mano che acquista capacità di integrare culturalmente il proprio contributo, in una situazione storica. Le commissioni di opere “di historia” gli pongono ovviamente nuovi problemi. Il Caravaggio deve tenerne conto; ma ciò che importa è che tali problemi non vengono affrontati “mettendosi all’ordine” con il gusto del tempo: affronta una pittura più severa, timbri più gagliardi, dà profondità e nettezza agli scuri, senza sconfessioni o adattamenti, anzi ribadendo il suo concetto nell’ambito di una operazione più vasta. Inventa per la luce una funzione strutturale del tutto nuova, quasi un “terzo elemento” accanto al disegno e al colore (Longhi ne paragona l’importanza alla scoperta della prospettiva quattrocentesca), una nuova emotività dei rapporti spaziali, riuscendo a far nascere il “tumulto” dall’equilibrio ortogonale (impiego del quadrato, all’interno della struttura compositiva) piuttosto che dalla michelangiolesca piramide a spirale attraverso cui legiferavano i manieristi. Un lavoro intellettuale, di costruzione effettiva e totale dello spazio, che si precisa faticosamente, tra pentimenti, distruzioni e rifacimenti. Se appena si accorge di essersi lasciato attrarre dalla macchina cinquecentesca (prima redazione del Martirio, come risulta dalle radiografie), rismonta la composizione e la riconduce verso il proprio intento, con coraggioso atto di coerenza e moralità artistica. La Vocazione di san Matteo è uno dei dipinti-chiave di tutta

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la storia dell’arte. È il vero “scoppio” del Caravaggio. Un quadro nel quale tutti gli aspetti sono compenetrati e interdipendenti, dove la scelta dello squarcio di vita – una scelta non casuale – si attua attraverso l’impiego costruttivo e significante della luce. (Sarà proprio la luce significante a corrodere e ad aggiudicare al Caravaggio il manto dell’apostolo che copre il Cristo, d’invenzione alquanto manieristica). Naturalmente, per gli accademici, per la burocrazia culturale e cattedratica del tempo, solo gli “incompetenti” potevano lodare quelle pitture. Il principe della pittura di allora, non dissimile dai principi della pittura dei nostri giorni, Federico Zuccaro, se ne uscì con la nota frase riportata dal Baglione: “Che romore è questo? Io non ci vedo che il pensiero di Giorgione… e sogghignando… alzò le spalle andandosene con Dio”. Cosa voleva dimostrare l’Accademia? Che in Caravaggio non c’era niente di nuovo, oltre la volgarità, e che in quanto allo stile era arretrato, sorpassato. Un giudizio grossolano ed esteriore (il solo rapporto con Giorgione sta nei cappelli piumati e negli abiti alla lanzichenecca). Ma la scena richiama altri, più profondi accostamenti (al Tributo di Masaccio al Carmine fiorentino. È nello stesso repertorio di verità che entrambi avevano tuffato la mano). Chi fosse stato il Matteo dei Vangeli poco importa al pittore: gli basta sapere che era un uomo chiamato mentre attendeva a una qualsiasi azione della sua giornata. E, per “dire”, Caravaggio si serve di una scena a lui familiare, di un tema che sempre lo ha affascinato, perché solo attraverso ciò che gli è congeniale e familiare può dar conto della verità, e non ricostruendo un teatrino su testi e nozioni tradizionali. L’uomo legge, pensa, immagina; ma ogni cosa a cui mette mano vive solo nel paragone del presente, di ciò che conosce; e le storie del tempo passato, o di luoghi lontani e sconosciuti, solo attraverso ciò che ci è più prossimo, ciò con cui abbiamo consuetudine – case, oggetti, azioni, sentimenti – possono essere restituite alla vita. [...] A Napoli sarà subito carico di commissioni, e nello spazio di un anno dipingerà alcune opere memorabili, senza contrasti coi committenti, e senza incidenti personali. Tra l’altro, la Flagellazione per San Domenico: un dipinto altissimo, essenziale, composto con una semplicità assoluta, la cui struttura compositiva è tutta fatta di cose “da dire”. Due carnefici, scaricatori del porto, preparano la vittima, e dal corpo di questa si espande una luce, un biancore di carne umana, come non ne aveva mai dati la pittura, una massa di candore che sta per crollare, il bianco vello dell’Agnus Dei, che a contrasto (contatto) con le masse muscolose dei lazzari genera un impressionante scatto di verità. Altro dipinto memorabile: le Opere di misericor-

dia, dove Napoli appare come era, come è, con il suo frastuono, la sua azione. Un quadro denso, vario, avventuroso come la città. Da Napoli a Malta. [...] Ma una spregiudicata natura, e forse anche un bicchiere in più di vino maltese, possono mettere a un tratto a repentaglio un uomo, anche se cavaliere (d’Onore e Devozione): ci sarà, in tal caso, un più-cavaliere (di Giustizia) che troverà il modo di trascinarlo in carcere. Fuggirà, una notte, rifugiandosi a Siracusa, dove nascerà un altro dei suoi dipinti più strabilianti: il Seppellimento di santa Lucia. Di quanti ne conosce la storia della pittura (penso all’Entierro del conde de Orgaz del Greco e all’Enterrement à Ornans di Courbet) questo del Caravaggio è certo il più tragico, quotidiano, vero. Un seppellimento come esso è, con la gente come essa è: un seppellimento notturno nel cortile di un carcere; due terzi della tela in verticale sono coperti da un inesorabile muro che s’alza, senza un incidente, parete di latomia limitata soltanto dall’arco scuro, il cui spazio sprofonda, a sinistra, fino alla curva che svetta all’angolo superiore della tela, ed è fermato in basso dal grumo di luce sulla massiccia scapola dell’affossatore. Benché di più presente sentimento tragico, è assai prossimo alla Decollazione di Malta: la stessa idea di un grande spazio unito in alto, appena corretto da indicazioni di racconto. Uno spazio che genera un rapporto inusitato con le figure, manovrato in modo assolutamente nuovo, libero, che disconosce i canoni compositivi, così come, con procedimento opposto, li aveva annullati un anno prima nelle Opere di misericordia. Dopo Siracusa: Messina e Palermo; sempre lasciando tracce operative del suo passaggio. Fino alla morte sul tragico litorale tirreno che rotolò anche le ossa di Palinuro, di Shelley, di Nievo. Ma Roma non seppe prendere coscienza di quella morte, né di quella vita. Per secoli lasciò in ombra la straordinaria occasione rivoluzionaria che l’opera di Caravaggio offriva. E toccò, da allora in poi, a rari uomini nuovi, a creatori solitari e convinti, riprendere in mano i fili di quell’occasione e perseguire l’idea della pittura come affermazione della verità delle cose, coscienza della vita e della morte.

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*da Caravaggio cortesia Rizzoli-Skira


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Fortuna e sventura DI UN ANTIACCADEMICO A 400 anni dalla morte, una serie di esposizioni celebrano il pittore snobbato dai contemporanei, magnificato dal ‘900 di Margherita Criscuolo

N A destra: La buona ventura 1593-94

Nel 2010 si celebrano i 400 anni dalla morte di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio – dal borgo bergamasco dove la famiglia era riparata per sfuggire alla peste che imperversava a Milano – il rivoluzionario pittore vissuto a cavallo tra il ‘500 e il ‘600. Per l’occasione sono previste numerose mostre in Italia: la principale è la grandiosa retrospettiva che Roma dedica al pittore, firmata Claudio Strinati, alle Scuderie del Quirinale. Oltre alle tele giovanili anche imprese più tarde, provenienti dal meridione, laddove Caravaggio trascorse gli ultimi anni. La Resurrezione di Lazzaro, il Seppellimento di santa Lucia, il Martirio di sant’Orsola sono il suo testamento spirituale. I colori diventano macchie, i contorni scompaiono, le pennellate si sfrangiano: la morte è vicina, i carnefici alle porte. È lui il Golia decapitato da Davide e il Battista decollato dell’oratorio della Valletta dove, per la prima volta, compare la sua firma incisa nel sangue. Premessa capitolina della ricorrenza è la retrospettiva Caravaggio Bacon della galleria Borghese, che si esaurisce a fine gennaio. Nella villa sono custoditi da secoli alcuni dei maggiori capolavori del maestro lombardo, risultanti dal collezionismo illuminato del cardinale Scipione, insigne esponente della famiglia romana e nipote di papa Paolo V. Il Fanciullo con la canestra di frutta e il Bacchino malato rimandano ai primi anni romani, quelli trascorsi con il Cavalier d’Arpino a dipingere fiori e frutta. Entrambi probabili autoritratti, richiamano con forza l’alunnato presso Simone Peterzano nel loro riprodurre fedelmente la realtà. La marcata vena realistica, il tono domestico dell’insieme e l’uso veritiero della luce sono caratteri propri di tanta pittura milanese e bergamasca, quella di Lotto, Moretto e Savoldo che l’adolescente Caravaggio, in bottega a Milano, aveva la possibilità di studiare dal vivo. Alla pinacoteca Ambrosiana, la Canestra di frutta assume la stessa dignità di un quadro di storia. Alla stregua di un bassorilievo romano «la cestina comune dell’affittacamere colma di frutta a buon mercato», come la definì Roberto Longhi, emerge dal fondo uniforme in tutta la sua fisicità e chiude emblematicamente la fase delle ricerche giovanili del pittore. Insieme ai Bari e alle due versioni della Buona ventura dà inizio, suo malgrado, a un tipo di pittura ben preciso, destinato ad abbellire gli ambienti secondari dei palazzi nobiliari: la scena di genere. Tributo alle radici culturali lombardo-venete di Michelangelo è invece la mostra bergamasca Gli occhi di Caravaggio, curata da Vittorio

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Le mostre del 2010 Roma Caravaggio Bacon, fino al 24 gennaio, galleria Borghese, piazzale Scipione Borghese 5. Info: www.caravaggiobacon.it. Adorazione dei pastori, fino al 29 gennaio, Camera dei Deputati, piazza Montecitorio. Info: www.camera.it. Il potere e la grazia, fino al 31 gennaio, palazzo Venezia, via del Plebiscito 118. Info: www.galleriaborghese.it. Caravaggio, 18 febbraio13 giugno. Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16. Info: www.scuderiequirinale.it.

Sgarbi e Mina Gregori. Illustre precedente dell’iniziativa la rassegna di palazzo Reale a Milano nel 1951, origine della moltitudine di studi fioriti nella seconda metà del ‘900 e incanalati nei due binari inaugurati dai massimi studiosi del “pittore del vero”, Lionello Venturi e lo stesso Longhi, fautore della rivalutazione del Merisi dopo secoli di anonimato. All’origine del disprezzo, la critica negativa di Giovan Pietro Bellori che, strenuo difensore del classicismo, escluse Caravaggio dall’Olimpo dei pittori. Ma già nell’epoca contemporanea al suo operato non mancano le annotazioni pungenti dei colleghi. Alla fine del ‘500 si colloca la prima commissione pubblica, ottenuta con l’ausilio del cardinale Francesco Maria Del Monte, nella cappella Contarelli di san Luigi dei Francesi. Dopo le due versioni del san Matteo e l’angelo, la prima rifiutata perché giudicata indecorosa e offensiva, e il Martirio, forse ancora precoce, faticoso alla lettura, arriva il momento della Vocazione di san Matteo. Stroncata dal “principe” della pittura accademica, Federico Zuccari, che esclama: «Che romore è questo? Io non ci vedo che il pensiero di Giorgione». Accusato di volgarità e mancanza di originalità, il dipinto è invece rivoluzionario. A confronto col frigido e intellettualistico manierismo l’opera, benché costruita e meditata, risulta spontanea e naturale, quasi casuale. Quando Matteo, sorpreso e incredulo, si domanda se sia davvero lui il prescelto da Cristo che, coperto da san Pietro, si manifesta con un’apparizione doppiamente efficace e vera. La novità del Merisi è di tipo linguistico, riguarda il modo di concepire e comporre l’immagine e va al di là di un luminismo puramente formale. La rivoluzione consiste nel tuffare l’artificio nel bagno dell’osservazione naturale per tradurre in termini di esperienza il soprannaturale, rendendolo comprensibile. Attraverso il contrasto con l’ombra, il plasticismo delle figure, l’illuminazione di ascendenza masaccesca che (s)colpisce le immagini. Dopo intensi lavori, nel 1606 Caravaggio deve abbandonare Roma. Colpevole di omicidio è costretto a peregrinare fino alla morte che lo colpisce a Porto Ercole il 18 luglio 1610, stroncato dalle febbri e dall’ennesima rissa. Muore così uno dei più grandi artisti di ogni tempo, capace di modificare il corso della pittura col suo timbro indelebile e di fare scuola, nonostante non volesse insegnare niente a nessuno.

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Padova Caravaggio, Lotto Ribera, fino al 28 marzo Musei civici agli Eremitani, piazza Eremitani 8. Info: www.caravaggiolottoribe ra.it. Prato La moda al tempo di Lippi e Caravaggio, fino al 5 aprile, palazzo degli Alberti, via degli Alberti 2. Info: www.galleriapalazzoalberti.it. Napoli Ritorno al Barocco, da Caravaggio a Vanvitelli, fino all’11 aprile, castel sant’Elmo, via Tito Angelini 20. Info: www.ritornoalbarocco. com. Forlì Fiori natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh, 24 gennaio-10 giugno, musei di san Domenico, piazza Guido da Montefeltro 2. Info: www.cultura.comune.forli.it. Bergamo Gli occhi di Caravaggio, luogo e data da definire.


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eventi RITORNO AL BAROCCO

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Seicento napoletano Da Caravaggio a Vanvitelli: sei mostre e un tour cittadino ripercorrono il secolo che precedette i lumi nel capoluogo partenopeo di Fabrizia Palomba

Napoli ritorna protagonista della scena artistica con l’interessante e imponente rassegna Ritorno al barocco, da Caravaggio a Vanvitelli. Un progetto espositivo ricco di eventi e di iniziative che includono arte, architettura, musica e spettacolo, che si snoda in un percorso vasto e articolato. Sei le mostre in altrettante sedi espositive tra le più prestigiose della città: il museo di Capodimonte, castel Sant’Elmo, Certosa e museo di san Martino, museo Duca di Martina, museo Pignatelli e palazzo Reale. La rassegna coinvolge non solo la città di Napoli, ma anche il territorio regionale attraverso 51 itinerari organizzati nei luoghi del barocco quali chiese, certose, collegiate, palazzi, musei regionali. L’evento è posto sotto il patrocinato della presidenza della Repubblica, con il patrocinio della presidenza del Consiglio dei ministri, del ministero per i Beni e le attività culturali e della presidenza della giunta della regione Campania. In mostra oltre 500 opere, in parte inedite o restaurate di recente tra cui dipinti, disegni, sculture, arredi, gioielli, tessuti, ceramiche e porcellane provenienti da collezioni private e musei italiani e stranieri. Fil rouge è il barocco come passione per la vita e per l’arte e i progressi conoscitivi degli

ultimi trent’anni su aspetti, momenti e generi che hanno caratterizzato questo stile nella Napoli seicentesca. L’intento è quello di restituire della città l’immagine del connubio perfetto tra arte e cultura, così come apparve ai tanti viaggiatori italiani e stranieri quando, con curiosità ed emozione, la visitarono nel Seicento, nel Settecento e nel primo Ottocento. Chiese, palazzi e musei evidenziano e riaffermano la singolarità, l’originalità e i valori di altissima civiltà europea e mediterranea che caratterizzano lo stile del barocco a Napoli. Sono trascorsi trent’anni da quando Raffaello Causa nel 1979 inaugurava a Capodimonte Civiltà del Settecento a Napoli, mostra presentata in più sedi museali napoletane (dopo il terribile sisma del 23 novembre 1980) ed esposta all’Art institute di Chicago e all’Institute of arts di Detroit, che fece conoscere e apprezzare le splendide testimonianze di storia e d’arte di quella stagione di altissima civiltà. Il curatore, Nicola Spinosa, rende omaggio alle mostre di Raffaello Causa, compresi gli ambiziosi e straordinari progetti ereditati e realizzati successivamente dal consistente nucleo di funzionari storici dell’arte allora presenti in soprintendenza, con la collaborazione

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Caravaggio Flagellazione di Cristo 1607-08 Nella pagina a fianco: Carmine Gentili alzata con Diana cacciatrice s. d.


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Le mostre Da Caravaggio a Vanvitelli Ritorno al barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli, un percorso di storia che copre due secoli d’arte a partire da Caravaggio fino ad arrivare agli esponenti dell’ultima stagione del barocco napoletano. Sei mostre a cura di Nicola Spinosa, ospitate in altrettante sedi museali tra le più note e prestigiose della città: museo di Capodimonte, Castel Sant'Elmo, Certosa e museo di San Martino, museo Pignatelli, Palazzo Reale. Numerose le iniziative culturali promosse, tra cui anche 51 itinerari alla scoperta dei luoghi barocchi della regione. L’intento è quello di documentare i progressi conoscitivi degli ultimi trent’anni, dal 1979 al 2009, che caratterizzarono la stagione del barocco a Napoli. Oltre 500 le opere esposte, suddivise in base ai molteplici e diversi aspetti rappresentati dalla produzione artistica dei centocinquanta anni di elaborazione e diffusione di questo linguaggio figurativo e culturale. Tra queste dipinti, disegni, sculture, arredi, gioielli, tessuti, ceramiche e porcellane provenienti da collezioni private e musei italiani e stranieri. Fino all’11 aprile 2010. Info: www.ritornoalbarocco.com.

In basso: Manifattura trapanese Trionfo di Apollo sul carro del sole Palermo, fondazione Withaker A destra: Aniello Falcone, Battaglia collezione privata Bernardo Cavallino, Nascita di Galatea collezione privata

di studiosi esterni. A questi importanti progetti si deve la riscoperta e la rivalutazione del patrimonio di una città troppo spesso segnata negativamente da miserie civili e malaffare. «A venticinque anni dalla scomparsa e dall’inaugurazione della sua mostra sul Seicento, a trenta esatti da quella sul Settecento – racconta Spinosa – decisi di ricordare Raffaello Causa con la realizzazione di una serie unitaria di mostre sulla Napoli barocca che documentasse, attraverso la presentazione di opere per lo più di recente acquisizione conoscitiva o mai esposte nella nostra città, un affascinante percorso di storia e d’arte dal Caravaggio a Francesco Solimena e ai tardi esponenti dell’ultima stagione del barocco napoletano». Un omaggio, dunque, a quanti sul barocco napoletano hanno concentrato le proprie passioni di amanti e collezionisti d’arte e un omaggio anche alla città di Napoli, alla sua memoria storica e alla sua straordinaria e singolare identità culturale. Iniziamo il nostro percorso partendo dal museo di Capodimonte, all’interno dell’omonima collina che chiude la città verso nord. Le sale della galleria napoletana ospitano le


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opere di straordinari artisti tra cui il Caravaggio, Battistello Caracciolo, Filippo Vitale, Andrea Vaccaro, Francesco Solimena e tanti altri. Alcuni di questi li ritroviamo anche al museo nazionale di San Martino, sito sulla sommità della collina del Vomero, e anche nella Farmacia della Certosa affrescata da Paolo de Matteis, dove sono esposti oggetti e sculture selezionati per l’occasione. Negli spazi sontuosi e monumentali di Castel Sant’Elmo, che domina la città, è possibile visitare la mostra fotografica di Luciano Pedicini e ammirare tele e oggetti di culto restaurati, di pertinenza di chiese o musei napoletani. Gli allestimenti sono di grande impatto e le opere di gran prestigio. Sempre al Vomero, al Museo nazionale delle ceramiche Duca di Martina, nella villa Floridiana, sono esposti dipinti, mobili, maioliche, argenti, vetri cere colorate. Scendendo a Riviera di Chiaia, al museo Pignatelli è possibile visitare un’ampia selezione di “nature in posa”, da Giacomo Recco e Luca forte a Tommaso Realfonso e Giacomo Nani. Ultima tappa museale il palazzo Reale, nel cuore della città, che si affaccia maestoso sulla bel-

lissima piazza Plebiscito. Qui è possibile ammirare, tra le altre cose, una sezione riservata alla cartografia e all’architettura e una serie di sale decorate da Belisario Corenzio, da Battistello Caracciolo, da Francesco De Mura, Domenico Antonio Vaccaro e altri importanti e noti artisti. L’itinerario barocco non si esaurisce però con i musei, per comprendere fino in fondo un periodo storico e artistico tanto vasto e complesso è necessario spingersi nelle piazze, nelle strade, nei palazzi che concorrono a rendere questa città stravagante, viva, unica. Diverse e interessanti le altre tappe della regione Campania da visitare: dalla chiesa della Nunziatella al Gesù Nuovo e alla cappella di Sansevero, fino all’Annunziata di Capua, alla reggia di Caserta e alla chiesa di san Giorgio a Salerno. Per i prossimi mesi il pubblico, richiamato dalla presenza delle mostre, potrà ritrovare le atmosfere barocche e ammirare Napoli in tutta la sua bellezza in un continuum di antico e nuovo, lasciandosi catturare dalla vitalità e dalla passione della gente e da una realtà affascinante, complessa e ricca di contraddizioni.

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eventi IL GIAPPONE A MILANO

EROS & SPLENDORI da un’isola senza guerra Come nasce uno stato: al Pac e a palazzo Reale i segreti del paese del Sol levante di Silvia Moretti

Sopra: Keisai Eisen Oban yoko-e Nishiki-e, 1835-1840 Nella pagina a fianco: Yayoi Kusama Flowers that bloom at midnight, 2009

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La mostra L’infinito a pallini

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Celebre per i suoi “Dots”, moduli di carta e stoffa punteggiati da un’infinità di pallini colorati, Yayoi Kusama è in mostra al Pac fino al 14 febbraio 2010. “I want to live forever” è il titolo dell’esposizione che ripercorre l’attività della visionaria artista giapponese. Oltre ai dipinti figurativi, di recente realizzazione, sono esposte anche sculture di grandi dimensioni e installazioni create nell’ultimo decennio. Tutte rigosoramente a “pois”. Info: 0276020400; www.comune.milano.it/pac.

Un’isola senza guerra, dominata da una dinastia di shogun, i Tokugawa, che volle improntare il proprio governo sull’imposizione della pace e il rifiuto di ogni conflitto, interno ed esterno. Era la fine del XVI secolo e Tokyo si chiamava ancora Edo. In Giappone si stava chiudendo un’epoca e se ne apriva un’altra, che sarebbe durata circa tre secoli. Anni di follia e di caos, due concetti che in giapponese vengono resi con il termine “ran”, ebbero fine, una fine che il regista Kurosawa ha immortalato in una delle sue più ispirate creazioni, dove rievocava la pittura del periodo Azuchi Momoyama (1568-1615). È proprio tra il periodo Momoyama e il periodo Edo (16151868) che nasce il Giappone moderno, un processo perfettamente sincronico a quello che accadeva in Italia e in tutta Europa. Questa simultaneità e la naturale disposizione verso il confronto tra le diversità hanno accelerato un processo di riscoperta della cultura giapponese a Milano iniziato lo scorso anno con la mostra Samurai e proseguito per tutto il 2009 con eventi di diverso genere, tra incontri, concerti e rassegne cinematografiche, in linea con l’orientamento dell’assessore alla cultura Massimiliano Finazzer Flory secondo il quale «conoscere la cultura dell’altro significa essere stupiti, sconcertati, sorpresi dall’altro e consapevoli della propria ignoranza». Il comune di Milano e palazzo Reale, in collaborazione con l’associazione culturale Giappone a Milano, sono giunti, a chiusura dell’iniziativa, a un doppio appuntamento: Shunga, arte ed eros nel Giappone del periodo Edo e Giappone, potere e splendore. Il sistema feudale imposto dallo shogunato di Tokugawa, che prevedeva la rotazione forzata della residenza dei signori tra Edo, capitale amministrativa, e i propri domini, assolveva per l’imperatore due funzioni strategiche, monitorare i feudatari e tenere impegnate la loro attenzione e le loro finanze nel mantenimento delle dimore, indebitandoli a tal punto da distoglierli da qualsiasi velleità marziale. A quel punto l’etica del samurai cominciò a perdere peso e senso, la competizione tra i grandi iniziò a svilupparsi su un piano sempre più frivolo, estetico, colto. Il denaro,

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La mostra/1 Potere e splendore Palazzo Reale ospita fino all’8 marzo anche Giappone, potere e splendore 1568-1868, duecento capolavori realizzati nella lunga fase di trasformazione del Giappone in uno stato moderno. A cura di Gian Carlo Calza, la mostra raccoglie opere provenienti dal Tokyo national museum, dal Kyoto national museum e dall’Osaka municipal museum of art. Paraventi, lacche, ceramiche, rotoli e maschere illustrano per immagini, attraverso alcuni grandi percorsi tematici, il periodo d’oro dell’arte nipponica sviluppatosi principalmente a Edo e a Tokyo. Info: www.mostragiapponemilano.it.

La mostra/2 Arte ed eros nel periodo Edo La mostra Shunga, arte ed eros nel Giappone del periodo Edo è visibile fino al 31 gennaio a palazzo Reale di Milano. Le cosidette immagini della primavera erano realizzate prevalentemente con la tecnica della stampa xilografica policroma e affermavano una concezione edonistica della vita. Realizzata con un allestimento circolare che, non prevedendo un’uscita, constringe il flusso dei visitatori a tornare all’ingresso della sala, le stampe e i libri esposti affrontano il dilemma tra eros e pornografia. Koryusai, Kiyonaga, Kokusai, Kuniyoshi e Utamaro sono affiancati da una selezione di preziosi kimono originali. Info: www.mostrashunga.it.


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Nella pagina accanto: Sumisho, Fanciulla nella neve Furisode, kimono da giovane donna Periodo Showa Sopra: Utagawa Kunisada senza titolo, 1827

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di cui i guerrieri non dovevano addirittura conoscere né valore né tagli, diventava metro di giudizio per i nobili che, ormai esperti e ambiziosi committenti d’arte, imparavano a rappresentare sui paraventi e sulle pareti delle loro abitazioni il proprio potere: eccessivi e sgargianti nei colori, intensi nei disegni, ma piuttosto vari nei soggetti, temi della tradizione giapponese e cinese, paesaggi e natura. Col passare del tempo e l’assestarsi della situazione politica, l’arte rifletteva sempre più il mondo del nuovo ceto borghese che andava affermandosi nel paese. Il chado, la via del tè, un concetto e uno stile di vita, la calligrafia, la filosofia zen sono tutti prodotti o rielaborazioni dei ricchi e raffinati cittadini di Sakai, Osaka, Kyoto ed Edo. Quest’ultima «era il cuore della nuova cultura borghese e popolare», scrive nel catalogo il curatore della mostra Potere e splendore, Gian Carlo Calza, «il fulcro della politica e della massima parte di produzione d’arte, letteratura, teatro il paradigma della nuova moda amalgama indissolubile tra uomo, lavoro, piacere, pensiero». Un mondo a sé stante prendeva forma, fatto di piacere, spettacolo, amore clandestino, insomma valori in profondo contrasto con la tradizione, un mondo fluttuante, in giapponese “ukiyo-e”, così diede vita a una inedita produzione artistica che rappresentava scene di vita quotidiana con protagonisti mai contemplati dalla pittura, tra cortigiane, lottatori di sumo e attori celebri. Un tipo particolare di “ukiyo-e”, che per sineddoche indicava anche le raffigurazioni stesse, era lo “shunga” che propendeva per i soggetti erotici. Il sesso veniva dipinto nella sua quotidianità in maniera del tutto accessibile ed esplicita e rivelava con forza la natura maschilista della società giapponese. Nati come omaggi alle fanciulle in età da matrimonio e come manuali d’amore dei giovani samurai, infatti, gli shunga dipinsero l’eros moderno, appagante e disinibito, ma svelarono anche il lato violento della luna. Finazzer Flory, che ha fortemente voluto questa mostra, sospende il giudizio etico, perché «l’estetica non deve essere soggetta all’etica. Qui si parla di stampa, di pittura e di sguardo, non dell’inaccettabile condizione della donna in Giappone». Milano ospita poi ancora un’altra mostra sull’arte giapponese. Nello specifico si tratta di una giovane artista contemporanea Yayoi Kusama. Le sue opere, esposte al Pac, si compongono di grandi installazioni e colpiscono per un eccentrico particolare: tutto è decorato a “pois”.

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grandi mostre ANTONI TÀPIES

MURI VISIONARI Le opere dell’artista catalano sono potenti talismani dove rileggere la storia della civiltà di Alberto Fiz*

L’

œopera di Antoni Tàpies è un salto nel vuoto al cospetto della materia che esce dalla sua sfera romantica per confrontarsi direttamente con la vita reale. [...] Tàpies agisce sul significato primario delle cose recuperandone la presenza ancestrale, la memoria scarnificata, l’energia sotterranea attraverso un comportamento che potrebbe apparire a prima vista meno radicale. In realtà, così non è: sia Tàpies sia Burri avranno un peso determinante sui destini dell’arte, influendo entrambi sull’arte organica e processuale che si determina a partire dagli anni Sessanta. Dietro ai cartoni ondulati, alla polvere di marmo, alle tracce di gesso e terra, si nasconde una forma di bellezza inattesa, direi ansiosa, che l’artista mette in rilievo svelando l’occulto della superficie. Non è più necessario rivolgersi all’universo onirico o rivelare i destini dell’inconscio, come accadeva con il surrealismo, ma appare sufficiente recuperare la capacità di osservazione di una realtà che nasconde i propri destini nel pulviscolo indistinto delle cose. «Tutto è possibile», scrive l’artista, «perché tutto avviene in un campo ben più vasto del campo delimitato dal formato o dal contenuto formale del quadro. Questo è in effetti solo un supporto che induce colui che guarda al gioco infinitamente più ampio delle mille ed una visione dei mille sentimenti; il talismano che erige o fa franare dei muri negli angoli più reconditi del nostro spirito, che apre e a volte chiude le porte, le finestre degli edifici della nostra impotenza, del nostro asservimento e della nostra libertà». [...]

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La mostra Materia e tempo Dop Alex Katz è il turno di Antoni Tàpies ad aprire la stagione invernale al Marca di Catanzaro. Nella mostra, curata dal direttore del Museo delle arti di Catanzaro, Alberto Fiz, si presentano un gruppo di lavori monumentali dell’artista catalano, focalizzati sull’indagine degli ultimi tre decenni. Le opere esposte sono oltre 50, tra dipinti, sculture, installazioni, composizioni grafiche e libri illustrati provenienti da importanti collezioni pubbliche e private italiane e straniere. Materia e Tempo si intitola questa personale di Tàpies, e si articola come un vero e proprio omaggio all’ottantaseienne maestro iberico, ancora pieno di vitalità espressiva. Non a caso le sue opere dimostrano l’attualità di una ricerca che, rinnovandosi, ha attraversato tutta l’arte del dopoguerra ponendosi come elemento di costante autocoscienza. Fino al 12 marzo, Marca, via Alessandro Turco 63, Catanzaro. Da martedì a domenica 9,30-13; 16-20,30; chiuso lunedì. Ingresso 3 euro. Info: 0961746797; www.museomarca.com. (Alessio De Grano)

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L’artista Un catalano dada Antoni Tàpies nasce a Barcellona il 13 dicembre 1923. È tra i fondatori della rivista e del gruppo “Dau al Set” di impronta neodadaista. Nel 1950 tiene la prima personale alla galleria Layetanas di Barcellona e compie il primo viaggio a Parigi dove incontra Picasso. Nei primi anni Cinquanta la pittura di Tàpies si volge verso l’“Art autre”. Si susseguono mostre importanti: nel 1952 partecipa alla Biennale di Venezia, dove espone più volte negli anni, e nel 1993 ottiene il premio per la pittura. Nel 1990 viene inaugurata la fondazione Antoni Tàpies a Barcellona. Nel 1985 è il Guggenheim di New York a dedicargli una retrospettiva. Attualmente è impegnato nella preparazione di un tour di mostre in Cina.

Strano destino quello di Tàpies, uno dei termini che in catalano sta ad indicare muro, elemento con cui il confronto è costante. Un muro che sviluppa un’assoluta ambiguità ponendosi esso stesso come soggetto-oggetto del fare artistico. Non solo ragioni estetiche, dunque, ma esplicita presenza fisica in un cortocircuito deflagrante: “I miei muri, le mie finestre e le mie porte – o almeno l’immagine che li suggerisce – conservano la loro realtà senza nulla perdere della loro carica archetipica e simbolica“, scrive Tàpies rilevando le nette differenze che lo separano sia dalla pipa di René Magritte (Ceci n’est pas une pipe, 1926) sia dalla finestra di Marcel Duchamp (Fresh Widow, 1920). Se nel primo caso l’allusione concettuale del maestro belga va verso la definizione del rapporto tra pittura e realtà, Duchamp, con la sua finestra alla francese in legno di colore azzurro, ribadisce la presenza di un oggetto straniante che “in nessun modo possa identificarsi con un quadro“, come lui stesso afferma in un’intervista al critico Serge Stauffer. Quella perseguita da Tàpies è la terza via dove l’arte, senza elidersi, s’incrocia con l’esistenza. Il muro è una superficie che assorbe il colore-materia diventando esso stesso luogo in un ribaltamento della mimesi classica per cui è la realtà esterna che necessita dell’oggetto rappresentato. [...] I muri di Tàpies, ma più in generale tutta la sua opera, comprese le sculture, appaiono come potenti talismani dove è possibile rileggere in filigrana la storia della civiltà in una trasversalità storica che si palesa a chi osserva. Lo spazio dell’opera è occupato dal tempo in un contesto da cui possono emergere graffiti, calligrafie, simboli, intesi come modelli ancestrali, scaturiti non dall’osservazione ma dalla memoria. La croce, per esempio, è un segno distintivo del suo lavoro, tanto da essere stata adottata come iniziale della sua firma. Essa assume una forza evocatrice di carattere universale con una serie di significati e associazioni che vanno ben oltre la tradizione cristiana. Come scrive Tàpies, “la croce (e la lette-

ra X) come coordinate spaziali, come immagine di ciò che non è conosciuto, come simbolo del mistero, per segnare un territorio, come segno per sacralizzare dei luoghi, degli oggetti, delle persone o delle parti del corpo, come stimolo per ispirare sentimenti mistici, per pensare alla morte (e più specificatamente a quella di Cristo), come espressione di un concetto paradossale, come simbolo matematico, come segno che serve a cancellare un’altra immagine, a manifestare un disaccordo, a negare qualcosa.” Ma la ricerca di Tàpies è caratterizzata da continue incursioni segniche e linguistiche con parole strozzate, trascinamenti, forme calligrafiche che evocano l’oriente, improvvise rapsodie, lettere al contrario, cancellazioni, precorrimenti inattesi, tracciati che giungono da lontano, al pari delle sue pennellate pastose e allungate o delle sue forme arcaiche. Con Adorno, si potrebbe affermare che tutta l’opera d’arte è scrittura. Del resto, per Tàpies, così come per Cy Twombly, “la calligrafia è l’espressione dell’anima rivelata dalla mano, un movimento che esprime la nostra vita interiore.” Ma tutto ciò non si può discostare da un’autentica fisicità, tanto che il corpo o parti di esso possono coincidere con il modello compositivo come accade per Matèria en forma de peu, 1965 (Materia in forma di piede) o per Matèria en forma d’aixella, 1968 (Materia in forma di ascella). Talvolta è la materia che si plasma, talvolta i segni-corpo, i tatuaggi della pelle, sono disseminati e si mimetizzano tra le forme dei dipinti, oppure si affacciano in luoghi imprevisti, presenze costanti di un’assenza che attende di essere svelata. Su un divano in terracotta (Divan, 1987), per esempio spunta l’impronta di un calzino dipinto di bianco. Ha poca importanza stabilire la sua provenienza in quanto, come ha scritto Arthur Rimbaud, “ogni cosa è stata capace d’incantarmi”.

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*curatore, direttore del Marca; estratto dal catalogo, cortesia Electa


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Cames, 2001 Nelle pagine precedenti: Negre sobre vermell, 2008

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grandi mostre GIORGIONE

IL PITTORE

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A cinquecento anni dalla morte, Castelfranco Veneto rende omaggio a uno dei maestri del Rinascimento di Maria Luisa Prete

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U In alto: Fregio delle Arti liberali e meccaniche (particolare parete orientale dedicato all’astrologia) s. d. A destra: Giorgione Le tre età dell’uomo, s. d. Nelle pagine precedenti: Venere dormiente 1505-10

Un alone di mistero avvolge la figura di Giorgione, al secolo Zorzi da Castelfranco (Castelfranco Veneto, 1478-Venezia, 1510). Virgilio Lilli lo definiva «una di quelle figure d’artisti che confinano con le figure degli eroi» e a Gabriele D’Annunzio appariva «piuttosto come un mito che come un uomo». Per i posteri tutti è il più enigmatico protagonista del Rinascimento, degnamente omaggiato nel cinquecentesimo anniversario dalla morte con una mostra che riunisce nella città natale un nucleo incredibile di lavori del maestro e di alcuni suoi celebri contemporanei. L’autore della Tempesta morì giovanissimo, a soli 34 anni, durante un’epidemia di peste. La sua esistenza, umana e artistica, è da secoli discussa da critici e studiosi, troppe domande senza risposta, troppe tele ancora in cerca di un autore. Il caso più eclatante: le Tre età dell’uomo. Chi la dipinse? Giorgione o il giovane Tiziano? Non parliamo di un quadro minore, ma di uno dei più celebrati della storia dell’arte. E la risposta non soddisfa tutti. Adesso il pubblico ha davanti agli occhi una delle più complete selezioni del maestro. Un’esposizione che non si propone di essere risolutiva e definitivamente chiarificatrice, al contrario un po’ coltiva il mistero e un po’ prova a catturare alcune certezze nel tentativo – questo sì assodato – di meravigliare lo spettatore. Pochi dati sicuri e tanto talento sono gli ingredienti giusti, i più adatti, alla nascita di un mito. Evanescente figura dai tratti sfumati, la sua opera appare pregnante e unica, capace di influenzare, con la potenza lirica, l’uso del colore e quel nuovo equilibrio tra uomo e natura, stuoli di artisti di diverse generazioni. Con Giorgione entra prepotentemente nella tela il fattore psicologico e un caleidoscopio di simbologie al tempo sconosciute, nella resa e nella fattura rivoluzionarie. Una mostra che è una sfida dal punto di vista scientifico e organizzativo. In campo un trio di curatori: Lionello Puppi (presidente del comitato regionale per il V centenario), Antonio Paolucci (direttore dei Musei Vaticani) e Enrico Maria dal Pozzolo (dell’università degli studi di Verona). Nel piccolo borgo veneto opere, documenti e testimonianze danno vita a un racconto straordinario. E i maggiori musei internazionali – dall’Ermitage di San Pietroburgo agli Uffizi e palazzo Pitti a Firenze, dalla National gallery di Londra alla galleria Borghese e palazzo Venezia a Roma, dal Kunsthistorisches di Vienna alla National gallery di Edimburgo, dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia al Louvre di Parigi fino alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, al museo di Capodimonte a Napoli, a Castel Howard nello Yorkshire – hanno accettato e contribuito a questo evento. In mostra, accanto ai numerosi dipinti di Giorgione, trovano posto, in una sinfonia che riporta al fecondo ambiente veneziano del tempo, opere importanti di Giovanni Bellini, Vincenzo Catena (alla cui bottega pare essersi formato), Albrecht Dürer, Sebastiano del Piombo, Tiziano, Lorenzo Costa, il Perugino, Cima da Conegliano, Palma il Vecchio, Boccaccio Boccacino, Garofalo, ma anche i volumi dei suoi biografi – da Castiglioni, Pino, Vasari, Dolce – e quelli di letterati, musici, intellettuali – da Petrarca a Bembo – che contribuirono a creare il brodo culturale del quale si alimentò.

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La mostra Giorgione Una mostra senza precedenti, come dimostrano i numeri: 18 i dipinti attribuiti dalla critica a Giorgione; 126 le opere esposte con dipinti di Raffaello, Perugino, Bellini, Sebastiano del Piombo e Tiziano; 51 gli studiosi coinvolti; 277 i milioni di euro di valore assicurativo delle opere; 46 i musei italiani ed europei che hanno prestato opere alla mostra; 39 i promotori, gli sponsor e gli erogatori dell’evento. Catalogo edito da Skira. Fino all’11 aprile, Museo casa Giorgione, piazza San Liberale, Castelfranco Veneto (Treviso). Info: 800904447; www.giorgione2010.it.

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grandi mostre I COLORI DEL SACRO

La quinta edizione internazionale d’illustrazione: un omaggio al più sacro degli elementi naturali

TERRA MADRE di Alessia Cervio

R Sopra: Teresa Lima Madre terra, s.d.

Nella pagina a lato: Momo Takano Terra, casa di tutti, s.d.

Recita una poesia finlandese: «Sciacquo le sofferenze al fiume, pulisco la mente al vento, ascolto i consigli del fuoco, mi addormento tra le braccia della terra…». La terra, materna e accogliente, è considerata da molte tradizioni il più sacro e divino degli elementi naturali e come tale è stata scelta per intitolare la quinta edizione della rassegna internazionale d’illustrazione I colori del sacro. La mostra, promossa dal mensile Il messaggero di Sant’Antonio, dalla diocesi di Padova e dalla regione Veneto insieme alle istituzioni locali, è un invito a scoprire il nostro pianeta – sempre più spesso interpretato nell’ottica di uno sfruttamento senza regole – nella sua dimensione spirituale, come luogo del sacro che ha dato origine a un gran numero di credenze, miti e rituali. Una Grande Madre fertile e rigogliosa cui i popoli attribuivano proprietà divine ma anche, da secoli, un orizzonte concreto da esplorare e dominare. Un sogno per conquistatori, naviganti ed esploratori come Marco Polo, Cristoforo Colombo o i coloni americani, che affrontavano l’ignoto alla ricerca di nuove culture, popoli, ricchezze o semplicemente di una nuova vita. L’esposizione riunisce

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La mostra Terra! I colori del sacro

presso le gallerie del museo diocesano di Padova le opere di un centinaio di illustratori, provenienti da 35 paesi del mondo. Un vero e proprio “melting pot” culturale per la reinterpretazione di un tema comune attraverso differenti sensibilità. Impossibile citare il lunghissimo elenco di artisti e illustrazioni presenti alla mostra. Molte opere, come Eden di Emanuele Luzzati o Terra, casa di tutti di Momo Takano, rimandano a un’armonia originaria e idilliaca di convivenza tra l’uomo, la natura e gli animali. In Vita in terra d’Africa di Jesus Cisneros Laguna si trovano invece i paesaggi, il calore e i colori delle assolate terre d’Africa, mentre nelle opere evocative Madre terra di Teresa Lima, La Terra, la Luna, i semi di Federica Pagnucco e Tutte le creature, nate da te, si muovono su di te di Lilia Migliorisi, la terra assume le morbide sembianze femminili di una madre che dà la vita a tutte le crea-

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Fino all’11 aprile il museo Diocesano di Padova ospita la quinta edizione della rassegna internazionale d’illustrazione I colori del sacro. Curata da Andrea Nante e Massimo Maggio, la mostra raccoglie opere di un centinaio di artisti da ogni parte del mondo, dall’Italia al Giappone, dall’Iran al Sud Africa, dalla Russia all’Argentina. Le opere affrontano temi profondi e affascinanti legati alla sacralità della terra e fanno riflettere sulla necessità di rispettare e amare questa grande madre, fonte della nostra stessa esistenza. Durante il periodo di apertura della mostra il museo Diocesano organizza spettacoli teatrali, letture animate, presentazioni di libri, installazioni, laboratori e incontri, rivolti ai bambini e alle famiglie ma anche agli adulti. Terra! I colori del Sacro. Fino all’11 aprile, museo Diocesano, piazza Duomo 12, Padova. Info: 049652855; www.icoloridelsacro. org.


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Sopra: Federica Pagnucco La terra, la luna, i semi, s. d. In alto a destra: Elham Asadi, Terra nuova di mente e di cuore, s. d. Jesùs Cisneros Laguna Vita in terra d’Africa, s. d. Nella pagina accanto: Rosaria Iorio Il seminatore, s. d.

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ture, le nutre e le protegge in un ciclo che si rinnova incessantemente. Pochi esempi per un percorso espositivo ricco e coloratissimo, che affascina e fa riflettere sull’importanza del rispetto per la nostra madre terra. Una lezione semplice e profonda ci viene proprio dalla Bibbia, ove si narra la creazione dell’uomo. Secondo le sacre scritture Dio plasmò l’uomo con la polvere, infondendogli successivamente la vita. L’essere umano che nasce e torna alla polvere non può quindi prescindere da un rapporto simbiotico con la natura, perché è parte di essa. Nel secolo delle emergenze ambientali e dei summit per la salvaguardia del pianeta, è importante che il rispetto per la terra, l’unica che abbiamo, venga in primis da noi e dal nostro sentirci parte del tutto.

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INSIDEART ora lo trovi anche nei principali musei di Roma Museo di Roma in Trastevere piazza Sant’Egidio 1/b, 00153 Roma Ara Pacis lungotevere in Augusta, 00186 Roma Macro via Reggio Emilia 54, 00198 Roma Macro Future piazza Orazio Giustiniani 4, 00154 Roma Museo Bilotti viale Fiorello La Guardia 6, 00197 Roma Centrale Montemartini via Ostiense 106, 00154 Roma

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i luoghi del bello PINACOTECA DI BRERA

Duecento anni dopo, risplendono di capolavori le sale napoleoniche

UN FIORE SU TERRA INCOLTA di Silvia Moretti

“C Ingresso della pinacoteca di Brera

ampus vel ager suburbanus in Gallia Cisalpina. Insomma uno slargo, uno spiazzo vicino all’abitato, un pezzo di verde intra moenia, dove si tenevano le fiere di bestiame e magari ci bazzicavano le prostitute, a notte”. Luciano Bianciardi raccontava così, nella Una vita agra, con leggerezza e ironia, la provenienza di Brera da “braida”, una storia conosciuta sui libri letti proprio nella biblioteca omonima, quando sedeva intimorito “nella sala dei cataloghi, fra i grossi tomi dei vecchi repertori manoscritti dove l’inchiostro arsenicato, invecchiando, luccica e rode la carta, pur ottima, di duecento anni or sono”. Una terra incolta dove a fatica i contadini ricavavano qualcosa e forse l’unica soddisfazione erano proprio quei “fiori oscuri” che, a notte, bazzicavano quei luoghi. Tutto ebbe inizio da un convento, quello dell’ordine degli Umiliati, e da una chiesa, santa Maria. Quando la congregazione fu abolita il terreno passò ai Gesuiti e alle loro scuole e il progetto di ristrutturazione a Francesco Maria Richini. Solo a metà del XVIII secolo il complesso iniziò ad assumere la forma che lo caratterizza, quelle severe linee tipiche del tardo Barocco lombardo che donano uniformità a tutto il comprensorio del palazzo dove oggi

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hanno sede la Pinacoteca, la Biblioteca Braidense, l’Orto botanico, l’Istituto lombardo di scienze e lettere, l’accademia di Belle arti e l’Osservatorio astronomico. Con lo scioglimento dei “compagni di Gesù” e l’appropriazione del collegio da parte dello stato, i lavori furono affidati all’architetto Giuseppe Piermarini e il 1776 vide la fondazione dell’accademia di Belle arti. È proprio l’Accademia a caldeggiare per ovvi motivi l’acquisizione di opere d’arte le quali iniziarono ad affluire soprattutto per intercessione di Giuseppe Bossi e di Andrea Appiani. Il 2009 ha celebrato il Bicentenario della Pinacoteca, perché fu proprio nel 1809 che nella chiesa di santa Maria, suddivisa per esigenza di spazio in due piani, furono aperte quelle che da subito vennero chiamate “sale napoleoniche” per permettere agli allievi di formare il loro gusto attraverso la luce che filtrava dagli enormi lucernari. Fu di Bossi, artista, amico di Canova e grande viaggiatore, il merito di aver portato a Brera, oltre al Cristo morto di Mantegna, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, il cui restauro a vista in una teca trasparente ha incantato i visitatori fino allo scorso marzo quando, a lavoro ultimato e in coincidenza del Bicentenario, è stato esposto di nuovo agli sguardi del pubblico. Nel 1809 iniziò anche il cosiddetto Inventario napoleonico che raggiunse l’apice di registrazioni due anni dopo quando, tra gli altri, sono arrivate anche tredici tavole di

Carlo Crivelli, pittore veneto di origini marchigiane formatosi nell’ambiente squarcionesco di Andrea Mantegna. I commissari napoleonici, inviati in tutta Italia a requisire opere e collezioni, furono autori di una vera e propria scoperta poiché Crivelli era un artista semisconosciuto ma questo non faceva altro che confermare l’ambizione enciclopedica e didascalica alla base della formazione del museo. Tuttavia, «Brera non è stata generosa nei confronti del pittore», afferma la soprintendente Sandrina Bandera. «La Pinacoteca si è disfatta dei dipinti ed essi entrarono nel mercato antiquario, a quell’epoca molto vivace. Diversamente dall’ambiente accademico milanese e italiano in genere, il mondo d’oltralpe era particolarmente sensibile alla bellezza e alla raffinatezza delle opere di Crivelli che furono gradatamente acquisite dai più importanti musei d’Europa. Oggi la National gallery di Londra è il museo che può godere del maggior numero delle sue opere». Una mostra celebra ora il ritorno a Brera (fino al 28 marzo) dei capolavori crivelliani, a chiusura dei festeggiamenti per i duecento anni della Pinacoteca. Un cerchio che si chiude, dunque, un ritorno effettivo ma carico di forte valore simbolico e di un po’ di rimpianto per «l’impossibilità dei musei italiani – scrive la curatrice Emanuela Daffra – a competere con i collezionisti stranieri pubblici e privati» da cui deriva anche «la man-


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IL VOLUME

Brera. La storia e i capolavori Sandrina Bandera Luisa Arrigoni Skira editore 100 pagine 35 euro Il volume invita ad attraversare i secoli e le sale della pinacoteca, incontrando opere celeberrime e dipinti da scoprire, ripercorrendo epoche di gloria e momenti di difficoltà, personaggi decisivi della storia, dell’arte, della conservazione del patrimonio culturale. Ai lettori viene offerta un’ideale visita guidata sala per sala, accompagnati dalle parole della soprintendente Sandrina Bandera, con le riproduzioni commentate di oltre cento capolavori.

La mostra Da Crivelli alla salvaguardia delle opere Raffaello Sanzio Lo sposalizio della Vergine, 1504 A sinistra: foto del restauro dell’opera di Raffaello

Oro e dovizia di particolari fanno delle dodici tavole di Carlo Crivelli in mostra alla Pinacoteca di Brera fino al 28 marzo nelle sale XIX, XX e XXII delle opere al limite della visionarietà. La più antica, Il polittico di San Domenico, offre l’illusione di una quinta teatrale con quegli inserti tridimensionali e le applicazioni di pietre. Nella sala XV è possibile visitare fino al 21 marzo Brera e la guerra che documenta la salvaguardia delle opere della Pinacoteca durante le due guerre mondiali. Catalogo Electa Mondadori.

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La pinacoteca

Interni della Pinacoteca foto Giuseppe Creti

Il gioiello di Brera Brera, quartiere di Milano un tempo frequentato da artisti e intellettuali, oggi decisamente più mondano e votato al turismo, ospita la pinacoteca dove sono depositate alcune delle opere più importanti della storia della pittura: a un primo nucleo di dipinti, requisiti a chiese e conventi soppressi durante la prima metà del XVIII secolo, si aggiunsero quelli sottratti alle regioni conquistate da Napoleone, quando Milano fu dichiarata capitale d’Italia. Arrivarono Rubens, Van Dyck e Rembrandt oltre a Bernardino Luini, Gaudenzio Ferrari, Vincenzo Foppa, e Bramantino. Nel 1882 la pinacoteca fu separata dall’accademia di Belle arti. Prima della seconda guerra mondiale confluirono opere di Correggio, Pietro Longhi, Tiepolo, Canaletto e Fattori e la Cena in Emmaus di Caravaggio. A causa dei bombardamenti che colpirono la città nel 1943 il palazzo di Brera fu danneggiato e le sale napoleoniche distrutte, ma la pinacoteca, con il nuovo allestimento di Pietro Portaluppi, riaprì nel 1950. Negli anni Settanta arricchì le collezioni la donazione di Emilio e Maria Jesi con opere dei maggiori artisti del primo Novecento, come Boccioni, Braque, Carrà, De Pisis, Modigliani e Morandi. Pinacoteca di Brera, via Brera 28, Milano. Info: 0292800361.

canza di un indirizzo rigoroso, di un progetto di identità all’interno del museo stesso». Altamente evocativo è stato anche l’evento inaugurale del Bicentenario, l’incontro di quattro opere di Caravaggio tra cui le due versioni della Cena di Emmaus, l’una conservata a Londra, l’altra residente a Brera. 1882: l’anno della dichiarazione di autonomia della Pinacoteca rispetto all’Accademia. A partire dal 1898, con la direzione di Corrado Ricci, l’assetto del museo viene sconvolto per assumere finalmente l’aspetto di un museo nazionale grazie a un primo allargamento dei locali, a una diversa ripartizione delle opere nelle sale e a una più vivace e intensa attività di acquisizione. In tempi più recenti Brera ha attraversato lunghi periodi di crisi a causa della


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scarsa manutenzione e della ristrettezza degli spazi ormai inadeguati alla quantità delle opere. «Rispetto al dopoguerra – continua Bandera – al fine di guadagnare spazi, si sono esposti i dipinti in due registri, trasferiti gli uffici nei sottotetti, acquisito l’appartamento dell’astronomo che ospita oggi la libreria della pinacoteca, nonché riportati i depositi all’interno della stessa». Oggi il museo è ancora il luogo magico di due secoli fa ma la sua magia è fortemente ancorata alla realtà di un sistema che è sempre più un’impresa, tra ricerca di sponsorizzazioni, attenzione all’audience e ricerca del profitto, secondo la linea vincente della soprintendente Bandera. Si torna a parlare del progetto di Grande Brera che prevede il trasferimento dell’accademia nella

caserma Magenta a vantaggio della pinacoteca ma i 9.000 metri quadri dell’adiacente palazzo Citterio fanno gola sia all’Accademia che alla pinacoteca. Bandera non nega «la storicità di un’istituzione davvero importante che per questo va aiutata e capita. Tuttavia – sottolinea – l’accademia fino a qualche mese fa non aveva effettivamente mostrato attenzione per l’edificio nel suo complesso, portando al degrado gli ambienti comuni e il Cortile d’onore». In futuro vedremo ancora, scriveva Bianciardi nel 1962, i ragazzi “sostare accanto a una colonna, indugiare sul portale, tante macchie di colore con sullo sfondo l’abside della vecchia chiesa, ferrigno e verde di rampicanti”?

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il corpo dell’arte ETTORE SPALLETTI

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Il silenzio del colore L’artista abruzzese racconta le dinamiche della pittura tridimensionale e le sue alchimie cromatiche di Claudia Quintieri

Ettore Spalletti, di origine abruzzese, vive e lavora a Cappelle sul Tavo, dove è nato. Diplomatosi nella vicina Pescara, ha cominciato lì la sua carriera per arrivare, nei primi anni ‘70, a una cifra stilistica personale. Nel 1974 la personale Rosso bianco verde bianco giallo alla galleria romana La tartaruga di Plinio de Martiis lo ha avviato al confronto con un pubblico maturo. I mezzi espressivi adottati sono la pittura e la scultura che si generano da una concezione spaziale-architettonica estrinsecata in forme geometriche e l’uso di una certa tipologia di colore. Per sua stessa definizione il suo lavoro si può chiamare pittura tridimensionale. Originale la tecnica. Le sue opere non sono classici monocromi. Tutto parte dall’impasto di gesso e colla che viene steso caldo sulla superficie da dipingere, il pigmento aggiunto, una volta assorbito, conferisce colore a tutto lo spessore, mentre il risultato cromatico dipende dalla quantità di bianco mescolato. L’effetto levigato è dovuto all’abrasione successiva che polverizza parte del colore. I materiali maggiormente utilizzati sono legno, tela,

marmo e le superfici parietali. Crea spesso oggetti tridimensionali in cui il volume dialoga con lo spazio. Da qui nascono gli ambienti completi, luminosi, sospesi, avvolgenti pur nella loro apparente semplicità. Le sfumature, le superfici delicate trasformano i luoghi fino a farli diventare illusori e parte di un sogno a occhi aperti. Gli elementi geometrici portano a un dialogo reciproco e anche chi guarda raggiunge un’intimità con il contesto o con la singola opera. L’armonia nasce dalla perfezione della forma che si mantiene nonostante una breccia o un angolo smussato. La costruzione dei volumi è sempre lieve e lineare. Può far pensare all’infinito e, afferma, «non sarà mai sempre lo stesso». Così accoglie la luminosità dei paesaggi ma anche la particolare luce che si trova a Roma dove ha fatto varie esperienze nel corso della sua vita. Spalletti riesce a cogliere l’atmosfera e a ricrearla. Le origini dell’opera dell’artista abbracciano il pensiero concettuale dell’arte astratta e minimalista che hanno caratterizzato il ‘900. Il risultato dell’intero corpus delle sue realizzazioni fa pensare a

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A pagina 49: Coppia legata, 1987 A lato: interno della Gnam Sotto: Ettore Spalletti

L’artista Tra classico e contemporaneo Ettore Spalletti è nato a Cappelle sul Tavo in Abruzzo il 26 gennaio 1940. Si è diplomato al liceo artistico di Pescara nel 1959. Le prime esperienze artistiche si sono svolte sempre a Pescara. La sua prima mostra importante risale al 1974 alla galleria La tartaruga di Plinio de Martiis e si chiamava Rosso bianco verde bianco giallo a testimoniare l’importanza che il colore ha sempre avuto nella sua opera. Ha partecipato a diverse edizioni della Biennale di Venezia, nel 1982, 1993, 1995 e 1997. Ha poi preso parte a due edizioni di Documenta a Kassel, nel 1982 e nel 1992. Numerose esperienze espositive sia in Italia che all’estero come la personale nel 1992 alla galleria Massimo Minini di Brescia o le collettive Arte e critica nel 1980 e nel 1981 alla Galleria Nazionale d’arte moderna a Roma.

una volontà di appagamento di tipo estetico, a una volontà di bellezza e positività. C’è l’aspetto seducente che si incentra proprio sul fattore estetico e porta in sé la capacità di ammaliare. C’è la ricerca del classico che si combina con il contemporaneo. Nonostante la gamma ristretta di elementi utilizzati riesce a essere sempre innovativo. L’attenzione a ciò che lo circonda viene così rielaborata in creazioni propositive che si incanalano nella direzione dell’appagamento della vista. Nascono grandi attese che lo accompagnano nel suo interrogarsi da artista e raggiungono il fruitore che ama l’arte concreta e realizzata. Da ciò il riflesso incondizionato dell’esperire che porta a una pace e a una quiete che interiorizzano il sentimento. Trovarsi davanti all’opera di Spalletti esige una pausa, il sopraggiungere e lo svolgersi di un silenzio che alleggerisce. È pregnante la comprensione che c’è uno spessore animato da un concetto di base. E appunto quel silenzio mette nella condizione di porre attenzione e ascoltare tutto ciò che si può


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recepire nei percorsi personali che ogni spettatore può fare. Queste stimolazioni sensoriali, questi stati cognitivi in cui lo spettatore si trova sono assolutamente naturali, mai forzati, tanto che ci si accorge di giungere alla riflessione su ciò che si vede e a una formulazione intellettuale senza strappi. Spalletti si pone sempre in maniera radicale e assoluta riuscendo però a imporsi in modo cosciente e delicato, come una musica dolce. Il pensiero che lo segue è quello di rappresentare la sua epoca, di vivere nell’oggi e in qualche maniera renderlo migliore. Queste qualità lo hanno reso celebre a livello nazionale e internazionale. Per seguire il suo percorso artistico possiamo citare Terra bianca del 1997: due tavole unite in un dittico, inclinate leggermente in avanti e con una fenditura. Così Spalletti ripropone un dialogo fra forma, spazio e colore, come ha fatto anche nel suo ultimo intervento alla Galleria Nazionale di arte moderna di Roma, organizzato insieme alla galleria Oredaria. Per quest’occasione ha realizzato un lavoro inedito, la nuova installazione Nostalgia, Roma che occupava tutta

la sala delle colonne insieme a Senza titolo e Terra bianca, oro. La mostra era intitolata Omaggio a Spalletti e l’ambiente da lui creato era quasi irreale. Il bianco del pavimento e il bianco delle otto colonne realizzate e posizionate in tutta la sala davano una sensazione di poca stabilità e di coinvolgimento. Sembrava di entrare in una realtà spaziale degna del film 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. La Galleria Nazionale di arte moderna ha acquistato nel 2008 due opere di Spalletti. Abbiamo incontrato l’artista all’inaugurazione alla Gnam, lo scorso 3 ottobre, in concomitanza con la quinta giornata del contemporaneo. Qual è il suo concetto di bellezza? «Sono tante le forme di bellezza. So dire quelle che riconosco io, che apprezzo, come un quadro di Raffaello, un quadro di Morandi, un taglio di Fontana». Perché il monocromo nei suoi quadri? «I miei lavori sono spesso indicati come monocromi, però la loro tessitura è molto complessa tanto da non farmi pensare a dei veri e propri monocromi».

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Come avviene la tessitura del quadro? «La superficie dei dipinti appare con un colore che è stato steso per lunghi periodi in cui si devono calcolare i tempi di essiccazione. La trama, alla fine di questo processo, dipende da questi tempi. Quando il quadro sembra finito allora faccio un’operazione per cui i pigmenti che sono contenuti si rompono e si arriva alla superficie. Così l’opera finita si manifesta all’improvviso». Che uso fa dei colori? «I colori sono caratterizzati dal bianco. Per me colore unico. Poi ci sono sempre i derivati, dall’azzurro al rosa. Il primo lo abbiamo sempre intorno, fa parte dell’atmosfera e non si ripete mai nella stessa maniera, ad esempio se stiamo a cielo aperto siamo immersi nell’azzurro. Una luce particolare è quella di Roma. Questa città è la più grande vicina al paese dove abito, Cappelle sul Tavo, e da giovane ci venivo spesso. Mi ha ispirato tante volte nella mia carriera. Invece il rosa lo avvicino all’incarnato e anche questo cambia, la sua tonalità dipende dall’umore che gli

diamo, dalla colorazione del viso. Poi, c’è il grigio che accoglie e restituisce sempre nel migliore dei modi gli altri elementi cromatici». In quale relazione sono spazio e forma nella sua opera? «Per quanto riguarda la mostra alla Gnam, in queste realizzazioni il desiderio è stato quello di liberarsi dalla parete e immergersi nel vuoto della sala, così come fanno le colonne qui esposte che a me risultano spaesate: a vederle in questo ambiente, simile a un tempio, rendono l’idea della forma che plasma lo spazio». Quale radice ha l’uso della geometria? «Uso la geometria perché fa parte della mia sensibilità. Partire dalle forme pure che vengono quasi sempre rotte dal pigmento che le nutre e le ricopre. I miei sono elementi costruiti con grande rigore geometrico e dopo un po’ la loro colorazione spezza la geometria e induce a un rapporto di desiderio tattile. Una prerogativa che rimane nelle mie opere e di cui parlo sempre è che, al contrario del desiderio a cui spin-

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Nella pagina accanto: Così com’è, 1999 A lato in senso orario: Disegno cipria, 2002 Rosso porpora 1991 Così com’è, bianco, 1999 Girandola, giallo 2006

gono, i miei lavori non vanno toccati». In che ruolo pone il fruitore che si trova davanti alle sue opere, dato che inducono al desiderio tattile ma senza una possibilità di esaudire questa volontà? «I visitatori devono stare con le braccia conserte». La pittura e la scultura possono definire un ambiente? «All’inizio accompagnavo sempre i miei lavori, adesso mi sembrano diventati adulti, si collocano nello spazio liberandosi anche da me. Percorrono la luce e decidono il modo migliore di esporsi. Il giorno che sono venuto a fare il sopralluongo della sala della galleria per il mio intervento, è successa una cosa abbastanza straordinaria. Ho trovato uno spazio che assomiglia molto al mio studio e ho deciso che avrei fatto otto colonne, lo stesso numero di quelle all’esterno della Gnam. Pensai ad una coincidenza, poi ho capito che in qualche modo nel lavoro è tutto collegato, esso ti restituisce quello che dai. Queste colonne perdono la loro staticità per il colore bianco e per il pavimento che possie-

de una qualità bellissima, le riflette. Il punto di riferimento scompare quasi totalmente». Sembra che l’ultima fatica di Ettore Spalletti si ricongiunga con l’inizio della sua carriera, infatti in una delle prime mostre che ha fatto a Bologna aveva cosparso tutto il pavimento di talco tanto da renderlo invisibile, così camminandoci sopra non si trovava mai l’equilibrio giusto. Il luogo era completamente trasformato per generare l’effetto voluto. Questa vicinanza fra le fasi della vita artistica di Spalletti è indice di coerenza e della capacità di rinnovarsi ogni volta pur mantenendo un riferimento sempre vigile alla propria identità di artista. Egli coglie il tutto di uno spazio e ha cura del particolare, il singolo pezzo è relazionato con l’intero ambiente che lo ospita. Spesso tridimensionalità e bidimensionalità si combinano nella creazione e si richiamano l’una con l’altra per dar vita all’opera nel suo complesso, complice il colore, cifra stilistica irrinunciabile per Spalletti artista e per Spalletti uomo, che lascia un grande spazio alle sensazioni.

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L’artista Genovese col debole per Berlino Nato a Genova il 26 dicembre 1975, Alessandro Lupi si è diplomato all’accademia ligustica di Belle arti. Dopo un Erasmus a Granada, si indirizza verso la sperimentazione tecnica, soprattutto sugli effetti della luce. Giunto a Berlino la prima volta nel 2001, per esporre alla Kunsthaus Tacheles, vi si trasferisce nel 2008. La sua galleria è la Guidi & Schoen, di Genova. Dal 1997 ha esposto in numerose città italiane oltre che in Francia, Germania, Slovenia, Finlandia, Serbia, Russia, Cuba e Spagna. Ha condotto svariati seminari e laboratori dal titolo La luce nell’arte contemporanea, in Italia e nella rinomata Escuela nacional de Bellas artes a Cuba. Ha inoltre collaborato a progetti universitari sull’indagine del rapporto tra matematica e arte. Info: www.alessandrolupi.com.

SCULTURE DI LUCE Alessandro Lupi e i suoi giochi fra ombre e spazi di Federica Chezzi

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ttobre 2009. Freeshout festival. Autostrada A11, uscita Prato est, ex Macelli. Nella penombra di un antro i visitatori sostano di fronte a due installazioni: fotografano, guardano stupiti il display della macchina, mormorano. In una tenue luce azzurrina, un grande albero secco e spoglio proietta un’ombra ricca di foglie. La gente fotografa l’ombra, convinta di catturare, e svelare, il suggestivo effetto. Ma, scattato il flash, sulla foto non appare nessuna ombra. Poco più avanti c’è un baule di legno, appoggiato in verticale. Dal coperchio socchiuso si intravede la sagoma luminosa e tridimensionale di una bimba, nascosta nell’oscurità della cassa. Doppia meraviglia. È lo spazio dedicato alle opere di Alessandro Lupi, giovane scultore di luce. Come nasce il tuo interesse per questo tipo di ricerca estetica e poetica?

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«Quando studiavo all’accademia mi sono reso conto che dipingere non mi piaceva granché. Il disegno semmai, quello sì. Fin da piccolo, poi, smontavo e rimontavo oggetti, e avevo un’idea fissa: inventare una pila che facesse buio. Dal Libro d’artista di Giacometti, che parlava di “regressione all’infanzia”, è arrivata l’intuizione: potevo continuare a giocare, con l’arte stavolta, coltivando la mia passione per la sperimentazione tecnica. Ho provato a immaginarmi una luce che facesse buio: che mi facesse vedere le cose da un’angolazione capovolta. Così ho iniziato a lavorare con la luce di Wood, detta luce nera. E alla ricerca tecnica s’è saldato il mio percorso poetico: indagare e invertire le contrapposizioni dei concetti buio/luce, interno/esterno, materia/spazio». Hai iniziato il tuo percorso con delle presenze luminescenti cinetiche. «Sì, nel 1997-98. I primi lavori ruotavano, accompagnati da suoni e rumori, erano più performativi. Un esempio: una donna incinta col bimbo in posizione fetale,


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Alessandro Lupi Albero, 2009 foto Lorenzo Giordano

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dentro il pancione. La donna è rossa, il bimbo bianco. Si sentono i loro battiti cardiaci, intrecciati. Poi la donna scompare e resta solo il feto, sospeso, immerso nel suono di entrambi i battiti del cuore. Per alcuni la sensazione era gioiosa, per altri terrorifica. E questo è un altro dei miei caposaldi: rendere compresenti, per la stessa opera, due possibili e opposte reazioni emotive». Adesso, invece, hai inserito la presenza luminosa in un contesto reale. Dentro un baule, sdraiata su di un letto, appoggiata a una sedia. «Dal 2004, in effetti, ho tralasciato l’aspetto più teatrale, rendendo le mie opere più simili a delle sculture, anche per rendere la visione del pubblico più attiva: può girarci attorno, avvicinarsi, guardare, cercare di capire. Mi piace osservare le persone che si interrogano sulla tecnica, per niente semplice, tra l’altro. Sapessi quanto tempo impiego in esperimenti. I dettagli e gli imprevisti sono

infiniti, lavorando con materiali nuovi». Come realizzi queste sculture di luce? «Vernici fluorescenti, che riflettono la luce di Wood, e colori fosforescenti, che si caricano, così che quando spegni il Wood, continuano a emanare luce, come il rosario della nonna, per intenderci. Disegno prima il soggetto, dai diversi punti di vista, poi faccio la pianta, quindi la struttura, fatta di fili neri in poliestere. Solo allora inizio a dipingere i fili con le vernici. Una tecnica scultorea, tutto sommato». Nell’installazione Ombre del 2003 al teatro stabile di Genova, invece, l’invenzione era ancora diversa. «Ho costruito un paravento con l’opalina, dietro al quale ho nascosto un videoproiettore che riproduceva ombre di ipotetici passanti. Il paravento era all’interno del foyer di un teatro. Tra passaggi di ombre credibili, si mescolavano sagome di persone in bicicletta, sullo skate, a testa

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Sogno, 2007 A sinistra: Sedia, 2008 A destra: Baule, 2006

in giù, spiazzanti insomma. Nel momento in cui i visitatori si affacciavano dietro per verificare queste strane presenze, un sensore ne percepiva l’arrivo e il proiettore emanava una semplice luce bianca, proiettando così le loro stesse ombre. Il pubblico si è stupito e soffermato a riflettere, ha interagito, insomma. L’opera è riuscita, dunque. Come quella esposta per Francoforte, Vetro. Era un bambino luminescente blu intenso, appoggiato al finestrone della galleria, che alitava sul vetro. Sai, come in un gioco. Impressionava, soprattutto di notte. L’effetto dell’alito? Sapone di Marsiglia ad aerografo». Nelle tue opere la scelta significante ricade spesso anche sull’oggetto reale. «Il baule, esposto a Madrid, era un bagaglio utilizzato da migranti italiani, dentro c’era una donna rannicchiata. Era utile, quindi, a richiamare tutto il carico di sofferenza e pericoli di chi è costretto a emigrare. In altre opere ho

utilizzato il cemento, per esempio a Cuba per la Biennale dell’Avana, un materiale indubbiamente pesante, al quale ho voluto attribuire l’ambivalente significato di schiacciamento della materia o liberazione dalla stessa. Negli ultimi lavori, ancora in prototipo, voglio invece costruire non più soltanto la figura ma anche gli spazi geometrici sui quali questa si muove: sempre con la luce, ovvio». Il 23 aprile Lubiana sarà proclamata Capitale mondiale del libro per l’Unesco. In quella occasione sarà possibile vedere una spettacolare scultura di Lupi: all’artista è stata commissionata una densità fluorescente cinetica raffigurante Primož Trubar, letterato e riformatore protestante, che nel 1550 scrisse il primo testo in lingua slovena. La scultura resterà stabilmente all’interno della “Trubar’s house of literature”, futuro centro della letteratura slovena.

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conversando sul sofà GIORDANO BRUNO GUERRI

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La follia del creato Dopo vari romanzi abortiti, un saggio racconta la presunta pazzia di Vincent van Gogh: «Macché cantore, lui denuncia la natura» di Maurizio Zuccari

«Van Gogh non scopre la bellezza ma la mostruosità, la ferocia della natura che ha un unico interesse: vivere bestialmente. Ecco la mia tesi, in parallelo con La nausea di Sartre: l’esistenza fine a sé stessa, priva di giustificazioni». Stravaccato sul sofà di casa, in una delle sue pose plastiche che l’hanno reso famoso dai tempi della Macchina del tempo e Italia mia benché, due trasmissioni “cult“ capaci di far alzare lo share alla storia, davanti a uno dei quadri che dipinge per passione, Giordano Bruno Guerri parla di Follia? Vita di Vincent van Gogh. Sessant’anni da compiere, senza calzettoni di lana cuciti dalla mamma ma con la cravatta, rossa: «L’ho riscoperta dopo vent’anni di astinenza, la sua unica utilità è di dare una dimostrazione di ordine, quindi eccola qua», dice. E da anarchico d’ordine, quale si definisce, dai pressi della kasba romana di piazza Vittorio, dove vive con Paola, la sua compagna, e Nicola Giordano, loro figlio, Guerri racconta uno dei mostri sacri dell’800 artistico a cui dedica l’ultimo saggio, dopo la bellezza di quattro romanzi abortiti. Una passione? «Sì, una vera passione estetica, fin da ragazzino. Ho cominciato ad avvicinarmici per caso: a 37 anni, l’anno

in cui si è ucciso lui e un sacco di personaggi illustri. Sono andato a documentarmi e ho visto che era un grandissimo personaggio, complesso, sul quale c’è una vulgata sbagliata. Poi quello era un periodo strano della mia vita, non avevo niente da fare. C’era stata la battaglia per la Mondadori tra Berlusconi e De Benedetti, ero direttore editoriale, quando è arrivato quest’ultimo mi sono dimesso, perché amico di Leonardo Mondadori che era stato licenziato. In quei mesi mi sono messo a scrivere il terzo romanzo su Van Gogh, finito male come gli altri. Avendo fatto l’editore ho uno spirito autocritico, così non ne ho fatto niente. Ci ho provato pure una quarta volta». Questo saggio lo scrivi a Stimigliano, in Sabina. È stata proficua la campagna per il lavoro? «In questi ultimi tempi sto cambiando il mio atteggiamento verso il luogo in cui vivere. Sono nato in campagna, a Monticiano, o meglio Iesa, in provincia di Siena, un posto con cento abitanti e diecimila cinghiali; lì c’è ancora mia madre che ha festeggiato i suoi novant’anni. Ho passato l’adolescenza a Colle Val d’Elsa, poi ho scelto grandi città, Milano e Roma, dove vivo da quindici anni, New York e Rio. Paola voleva andare a vivere fuori

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IL LIBRO

Giordano Bruno Guerri Follia? Bompiani 143 pagine 17,50 euro Vincent van Gogh non era pazzo. O meglio, la sua era una pazzia di tipo speciale. Questa è la tesi che Giordano Bruno Guerri, il più antiaccademico e informale storico italiano, sostiene in un libro che ha dedicato a uno dei maestri della pittura moderna. Follia? Vita di Vincent van Gogh racconta la storia di un genio che ha vissuto una realtà dissociata a causa di una sensibilità esasperata. Guerri entra così nella vicenda di questo artista estremo che, come Nietzsche, aveva a cuore la vita interiore al punto da sacrificare alla pittura la sua stessa, breve esistenza.

Giordano Bruno Guerri foto Manuela Giusto Nelle pagine seguenti dall’alto: Vincent van Gogh Notte stellata, 1889 Campo di grano con volo di corvi, 1890


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Roma, io mi sono tragicamente impuntato: l’idea di stare in campagna mi faceva inorridire, per me era la morte civile. Invece ho scoperto che avendo un bambino e una così adorabile compagna, la fortuna di lavorare a casa, ma chi me lo fa fare di stare in questo bordello tremendo che non uso mai, la città: non vado neppure al cinema. Anche la scelta del quartiere è stata un altro mio tragico errore. Volevamo vivere nel centro di Roma non turistico e l’Esquilino mi ricordava un po’ New York: multietnico, incasinato. Solo che qui ci sono dei ghetti: gli indiani odiano i cinesi, questi odiano gli africani e gli italiani odiano tutti. Ognuno sta in una gabbia da solo, è il peggio che si possa trovare. Voglio andarmene». Torniamo a Follia?, col punto interrogativo. Per te Van Gogh non era pazzo, o meglio la sua pazzia era particolare. Apri il libro con una citazione di Foucault: dall’uomo al vero uomo, la strada passa per il pazzo. «Beh, è un po’ la stessa teoria di Nietzsche sulla scimmia, l’uomo e il superuomo. Foucault dice che l’uomo per giungere al vero uomo deve passare attraverso il pazzo, colui che ha una visione diversa delle cose e del mondo, della realtà, della vita: vede le cose in un’ottica diversa, insomma, ha una visione che permette nuove scoperte, come cambiare l’obiettivo. Quindi la pazzia, senza generalizzare, è necessaria. Van Gogh se non avesse avuto quel suo delirio creativo non avrebbe saputo interpretare la natura nel modo geniale che ha fatto. Questa è la sua pazzia, gliela provoca la natura che gli permette di scoprire la propria realtà. Lui, visto come il cantore della natura, è in realtà quello che la denuncia». Van Gogh si muove tra esigenza di normalità, quotidianità, amore, il bisogno tutto umano di amare e di essere amati, e questo suo immergersi totalmente nella pittura. Sta un po’ sempre sulla soglia, ma nel momento in cui s’affaccia sull’ordine si ritrae. E dici: non poteva essere che così. Più che un destino un fato, il suo? «Un fato inteso come la propria essenza. Van Gogh parla continuamente della vera vita, quella dell’uomo normale che cura la salute, gli interessi, la famiglia, il lavoro, e la falsa vita dell’artista che è tutta creazione, ma in sostanza disperazione. Lui non avrebbe fatto il cambio, di questo sono quasi sicuro; una volta capito di essere un genio non avrebbe rinunciato a dipingere per avere dei figli, una casa, eccetera. Certo, la domanda più banale è: ma non si possono fare entrambe le cose? Mica si deve essere per forza disperati per creare qualcosa. In lui questa esigenza creativa era così totalizzante e le sue forze così limitate – perché era un uomo pieno di paure, ansie, angosce, basti pensare alle sue crisi mistiche, ai suoi problemi con le donne, con la famiglia, con chiunque – che non sarebbe riuscito a percorrere entrambi i binari. Così l’arte a un certo punto ha vinto e l’ha divorato. Lui sape-

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va di essere un grande, a un certo momento disse: nel mio lavoro ci rischio la vita. E così è stato». In Follia?, sembra che ci sia quasi un meccanicismo: è d’obbligo essere pazzi per essere grandi artisti, a tratti pare che ciò riguardi solo Van Gogh, la sua incapacità di vivere una vita normale. Ma nel tuo lavoro c’è quest’idea romantica di arte, genio uguale folle? «Ci mancherebbe altro che dover essere folli per essere artisti, ne avremmo molto pochi. Picasso tutto era fuorché pazzo, e nel suo caso il successo l’ha aiutato. L’uomo che ha capito meglio Van Gogh, prima di me, è stato Artaud che si è fatto non so quanti anni di maniconio, si è autodistrutto. Lui è interpretabile solo attraverso questa chiave, ma non è una regola universale, in questo lo accosto ad altri personaggi sopra e fuori le righe: Bataille, Drieu la Rochelle, Whitman». La cosa peggiore che possa capitare a un pittore è il successo, per Van Gogh. Lui questo problema non l’ha avuto perché il successo l’ha conosciuto ben oltre la morte. Ma c’è una perdita di creatività, voglia di fare, adagiarsi sulle cose col successo? «Se fossi un artista vorrei avere successo a ogni costo, altrimento sarei infelicissimo e disperato, quindi non mi sento di condividere questo giudizio. Credo che lui volesse dire che se si è veri innovatori non si può essere capiti e questo è vero molto spesso, non sempre. Vedi Picasso, ma potremmo citare anche Gaudì, un altro che delirava nelle sue creazioni ma che ha saputo costruire non pochi edifici tuttora in piedi. Certo, non sono un genio creativo, quindi non posso valutare col mio metro. Io ho condotto una vita estremamente disordinata fino a pochi anni fa, producendo molto e credendo che non sarebbe stato possibile conciliare una produzione così vasta con la vita famigliare, invece da quando c’è Paola, abbiamo un bambino, mangiamo due volte al giorno, faccio un libro l’anno come Vespa, come dice lei». A proposito, nel libro c’è quasi la sensazione che l’amore, amare, sia quasi un antidoto alla genialità. È così? L’amore ci rende più normali e più felici? «Certo, anche perché non si può essere dediti solo a sé stessi, questa è la vera molla della follia. Chi è così, è pazzo senza essere necessariamente geniale. L’amore è un equilibratore, nel caso di Van Gogh bisogna tenere presente che aveva poco tempo a disposizione. Ha fatto tutto quello che ha fatto in cinque, sei anni, senza nessuna scuola, divenendo pittore quasi per caso e sapendo che sarebbe morto giovane». La consapevolezza della morte, come poteva averla? «Si stava consumando, c’era un pessimismo cosmico nella sua vita fin dall’infanzia, gli derivava dalla tomba del fratellino morto col suo nome davanti alla quale passava tutte le mattine, una storia micidiale. Poi nascere

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Se Van Gogh fosse campato fino a cinquant’anni avrebbe sopravanzato la pittura di decenni È stato generoso a non farlo, così ha lasciato spazio ad altri

Ancora Guerri in uno scatto di Manuela Giusto In alto a destra: una sua opera Sopra: Vincent van Gogh Autoritratto con capo bendato, 1889


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L’autore Van Gogh, tra gerarchi del duce e Maria Goretti Direttore editoriale alla Mondadori fino all’arrivo di De Benedetti, direttore di Storia Illustrata (da 60mila a 100mila copie in pochi mesi) e dell’Indipendente, opinionista del Giornale dai tempi di Montanelli, docente di storia contemporanea all’università Marconi di Roma, presidente del Vittoriale di D’annunzio. Questo e molto altro nel biglietto da visita di Giordano Bruno Guerri (Iesa, frazione di Monticiano, Siena, 21 dicembre 1950), compreso un lungo elenco di libri che dalla vera storia di Maria Goretti giunge fino a Vincent van Gogh. L’ultima fatica, presentata a metà gennaio al caffè Fandango di Roma con una lettura di Alessandro Parise e Daniel Dwerryhouse nel ruolo del protagonista, testo e regia di Paola Veneto (la sua compagna). Tra le sue opere, vanno citate almeno: Giuseppe Bottai, un fascista critico, Feltrinelli, Milano, 1976; Rapporto al Duce, Bompiani, Milano, 1978; Povera santa, povero assassino, Mondadori, Milano, 1985 (seconda edizione Bompiani, 2008); Gli italiani sotto la Chiesa, Mondadori, Milano, 1992; Filippo Tommaso Marinetti, invenzioni, avventure e passioni di un rivoluzionario, Mondadori, Milano, 2009. Info: www.giordanobrunoguerri.it.

figlio di prete è una delle disgrazie più grosse che possa capitare a un essere umano. Uno che per anni vive mangiando pane, formaggio e olive, si scola quantità inaudite di assenzio, vive provvisoriamente in luoghi scomodi, sente che il corpo e la testa non lo sostengono più. Peraltro tutti cercano di convincerlo che è malato, noi adesso parliamo di pazzia quasi fosse una bellezza, un’arma in più. Ma per lui è una tara, una piaga al suo interno e tutto ciò lo convince che morirà presto. Poi, visto che non si decide a morire, si ammazza». E più terribile della vita fatta è la morte, lo strazio di tornare in camera ferito, e lì lo guardano quasi aspettando che muoia, medico compreso. «È una storia crudelissima, tutti dicevano che doveva finire così: quest’uomo si presentava brutto, sporco, malvestito, coi denti guasti, l’aria grifagna. Se ne stava nei campi, senza amici; un giorno torna ferito, dice di essersi sparato e tutti la trovano una cosa normale, avvisano il fratello che arriva come e quando può. Probabilmente se l’avessero curato si sarebbe salvato, ma credo che abbiano pensato che non ne valeva la pena, la sua esistenza era un impiccio per tutti. Infatti lo sciagurato dottor Gachet, che non a caso Artaud considera uno dei responsabili della sua morte, non ha pensato neanche di chiedergli in regalo o di offrirgli pochi franchi per uno dei due ritratti che gli fece. Tra l’altro uno dei quadri è stato venduto a oltre 80 milioni di dollari, di recente». Il fratello Theo, che tanta parte ha avuto nella sua fortuna e gli è sopravvissuto pochissimo tempo, lo definiva egoista e spietato. In effetti c’erano aspetti del carattere di Van Gogh inquietanti, una personalità bipolare. «Fa parte del personaggio, era talmente concentrato su di sé che non poteva non essere egoista e spietato nei normali rapporti umani. Basti vedere come si è comportato con la povera Sien, la prostituta con cui ha tentato di costruirsi una vita normale, prima amata e poi abbandonata perché la famiglia lo costrinse, minacciando di non dargli più il necessario per vivere e dipingere. E lui la mollò. Questo, certo, significa essere crudeli e spietati, però non l’ha fatto per sé ma per continuare il suo lavoro, davvero un sacrificio per l’arte». È l’ultimo degli espressionisti, il primo degli impressionisti, si ferma prima di arrivare all’astrattismo. E dice: voglio restare un calzolaio dell’arte, non voglio diventare un musicista dei colori. Come resta sulla soglia nella vita, si tira indietro anche nell’arte, alla fine? «Alla fine non ce la fa più, è un problema di resistenza fisica e intellettuale. Le sue ultime opere dimostrano che sarebbe andato verso l’astrattismo, se fosse campato fino a cinquant’anni avrebbe sopravanzato la pittura di decenni. È stato generoso a non farlo, così ha lasciato spazio ad altri».

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un caffè con ANDREA DALL’ASTA

LA SEDUZIONE DEL

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Passato e presente di una fascinazione che dalla crocifissione arriva al Grande fratello. L’ultima tappa del suo manifestarsi? di Andrea Dall’Asta*

a sempre al male si attribuiscono le tragedie della storia, gli eventi dove la violenza emerge negli scontri tra uomo e uomo, tra le diverse civiltà, nelle grandi problematiche poste dall’ambiente, dai mutamenti sociali, dagli insanabili conflitti tra ideologie. Da millenni la filosofia, le religioni hanno tentato di comprendere l’origine di questa realtà così difficile da interpretare e giustificare. Ogni riflessione sul male, direbbe Paul Ricoeur, è una sfida senza pari per il pensiero. La croce Nella storia dell’Occidente, una tra le immagini più ricorrenti a cui sono legate le sue rappresentazioni è forse la croce. Simbolo dell’identità cristiana, della salvezza dell’uomo e della sua redenzione, è compresa, infatti, anche come il luogo in cui l’azione del male prende corpo, si personifica, si rende visibile all’uomo. Si assiste a un incredibile paradosso: Gesù, il Cristo, colui che incarna la speranza messianica del popolo di Israele, il figlio di Dio, diventa il luogo in cui il male si rende visibile. Gesù, il predicatore della pace, è maledetto, come tutti coloro che sono appesi a un albero per crimine capitale (Deuteronomio 21, 23). La crocifissione cade sotto questa maledizione. Il male prende la forma di un corpo che si presenta come quello dell’ingiusto, di un peccatore giustamente maledetto, in quanto il palo è il luogo della giustizia. Come è possibile che quel corpo sia il bene? Il figlio di Dio assume le apparenze del male, le sembianze del peccato. Il bene è sfigurato, deforme, orribile a vedersi. È lo scandalo della croce. Gesù porta

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il peccato del mondo su di sé, lo assume, lo carica sulle proprie spalle. Dietro le apparenze di male, il credente è chiamato a vedere il bene in quel corpo lacerato. Morte ingloriosa. Ignominiosa. Il bene assume la forma dell’orrore. Attraverso quella morte, il male è messo in scena. La crocifissione si fa rappresentazione di male attraverso la messa a morte di un uomo sfigurato. È interessante notare come questo soggetto sia apparso molto tardi nell’iconografia cristiana. C’è sempre stato come un rifiuto a rappresentare la crocifissione nella sua atroce bruttezza, se si fa eccezione per le rappresentazioni d’Oltralpe, soprattutto di aree tedesche o spagnole. Non è forse la negazione stessa della vita divina? Come è possibile rappresentare quel corpo che si fa peccato? La tradizione iconografica cristiana ha esitato molto su questo aspetto. Non è certo il Cristo in maestà, come mostra l’arte bizantina e medioevale. Il Christus triumphans di origine medioevale è collocato in posizione frontale, con la testa eretta e gli occhi aperti rivolti verso l’osservatore. È il Cristo vincitore della morte. Anche la successiva iconografia del Christus patiens presenta il dolore con pudore. Come nelle crocifissioni di Cimabue o di Giotto, in cui il Cristo sofferente è rappresentato senza alcun eccesso. La crocifissione, rappresentata nella sua atroce bruttezza, sarà riscoperta solo nel XX secolo. L’uomo contemporaneo vi potrà inscrivere gli interrogativi e le tragedie del suo tempo. Rappresentazione del male La croce appare come l’incarnazione del male. Ma con quali forme si manifesta? I testi biblici lo rivelano sotto forma di innumerevoli travestimenti. Satana, la personificazione del male, è maestro delle metamorfosi col fine di condurre l’uomo al peccato, alla perdizione e alla


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Matthias Grünewald Crocifissione 1512-1516 Nelle pagine seguenti: Pieter Bruegel il Vecchio Il trionfo della morte 1562 circa

morte. Satana prende forma in immagini fantastiche e terribili, debitrici di elementi tratti dalle tradizioni pagane precedenti, dalle antiche civiltà mediterranee alle saghe nordiche. Prende forma di animali mostruosi. Nella Bibbia è raffigurato come il serpente (Genesi), il drago (Apocalisse). Rappresentazioni terribili e raccapriccianti, ma in grado di ammaliare gli uomini che cadono inesorabilmente sotto le sue maglie come in una trappola mortale. Satana è il gran seduttore, tentatore. È interessante notare come l’iconografia di Satana faccia riferimento alla categoria dell’ibrido, al disordine, alla mescolanza, facendo eco alle raffigurazioni dell’Antichità greco-romana nell’elaborazione di alcuni miti che mettono in scena esseri viventi in parte uomini e animali, oppure viventi costituiti dalla mescolanza di animali di varie specie. Come la chimera, il Minotauro, così il dragone dell’Apocalisse, dal colore rosso acceso, figura mostruosa con sette teste e dieci corna, demonio cosmico. Così Satana, che presenta elementi umani e animali, a seconda delle diverse iconografie: a volte nudo, blu, obeso, gigantesco, con barba e corni enormi. Satana è una creatura pervertita. Oscena. In lui, ogni ordine appare sconvolto, sovvertito. Il male si manifesta come caos, mondo non ancora divenuto cosmo. Un universo al contrario, un mondo capovolto, da riportare a un ordine, meglio, da redimere. Per opera del Logos creatore. Il male non accetta l’alterità. Di conseguenza, ingoia per eliminare il diverso e assimilarlo a sé. E il male si trasforma in bocca che divora ogni realtà umana. Come ingurgitano il mare misterioso e inquietante da cui sorge il Leviatan, il mostro marino, l’orribile drago, così la bocca, il tubo digestivo, l’intestino, sono simbolo del tartaro tenebroso e dei meandri infernali. Il male

è dunque associato a immagini che ingoiano, sommergono, divorano e dalle quali non ci può essere salvezza. Male: tra oscurità e luce Il male si presenta ancora nella storia dell’Occidente come tenebra, oscurità, ombra. Come luce di morte. Seducendo. Come quando il pescatore getta la sua rete durante la notte e pone luci a fianco della barca, per fare risalire i pesci in superficie. Dirigendosi verso quella luce seducente e sconosciuta, conoscono la tragedia della morte. Gelida luce che affascina, inganna e uccide. Il mondo greco, chiedendosi come raggiungere la vita felice, cerca di sfuggire ai mali da cui è attraversata l’esistenza: errori, dispiaceri, schiavitù, violenze. Il male è mancanza o dipende da una mancanza. Indica una privazione. Agostino dimostra che il male, a rigore, è nulla. Come le tenebre che non sono altro che assenza di luce. Tutte le teodicee antiche cercheranno di privare il male di ogni essenzialità, per collocarlo all’ombra del Bene. Il male è trasformato in un’ombra. Come in una chiesa bizantina. Tutto deve diffondere la luce. Può esserci solo pallida ombra. Come nelle icone, nelle opere di Beato Angelico: tutto appare dominato dalla luce, simbolo della presenza avvolgente di Dio. L’ombra è debole, senza una vera esistenza. Un fondamento biblico-teologico è all’origine di un’estetica che fa della luce un aspetto centrale. Il Cristo ci riscatta, illuminandoci. Il Cristo è vera luce (Giovanni 8, 12). Luce e vita sono indissolubilmente legate. È la luce che viene dall’abisso delle origini. Luce che manifesta la presenza del logos creatore. Nelle icone bizantine, nelle tavole medioevali, la luce prende forma nella calda tonalità dei fondi oro, simbolo della grazia, manifestazione visibile delle origini, della verità e dell’autenticità di

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tutte le cose. Grazie all’oro, Dio, che è al di là dell’essere, si fa vedere. L’oro crea uno spazio atmosferico in cui tutto si perde e si dissolve nella luce. La luce dell’oro è emanazione spirituale, che si fa colore, incontrando l’opacità della materia. L’oro è manifestazione della grazia che avvolge l’ordine della natura. Non ci può essere nero, ma solo accentuazione dei singoli colori, perché il fondo oro crea uno spazio d’irradiazione di luce che investe le cose. Se Dio è all’origine della realtà, l’universo si manifesta come una cascata luminosa che sgorga dalla sorgente originaria. E il fine della nostra vita è la luce. Dialettica luce-ombra Con l’avvento della modernità cambia il modo di abitare la luce. Nel Rinascimento la luce si fa elemento fisico e metafisico allo stesso tempo. Se da un lato è simbolo secondo di Dio che si rivela grazie alla luce, dall’altra diventa elemento fisico che va studiato nelle sue componenti scientifiche. Questo spazio rappresentabile nelle sue coordinate geometriche e nella sua densità atmosferica diventa il luogo della rivelazione di Dio. Spazio idilliaco, aurorale, di una mitica età dell’oro che il Rinascimento vuole rivivere. La luce appare in perfetta armonia con l’ombra che intensifica la bellezza dei colori. Nel Seicento accade un fenomeno nuovo. La calda luminosità del Rinascimento lascia il posto a una luce che si concentra in un forte raggio. Il fondo si fa di un nero intenso e drammatico. Una forte sorgente luminosa illumina la scena. Si instaura un nuovo regime dei colori e della luce, segno di una trasformazione culturale e spirituale, di cui Caravaggio è forse il più grande interprete. Al fondo di gesso che preparava la stesura dei colori, il pittore sostituisce un fondo bruno-scuro, sulle quali pone le ombre più forti o le luci più intense. Il quadro cambia statuto. Il fondo non è più l’oro luminoso di cui le figure sono irradiazioni colorate. Le figure sorgono dal fondo scuro, come se gli appartenessero. Anche i colori scaturiscono dal fondo, come se fossero testimoni della natura oscura dalla quale emergono. C’è un’inseparabilità del chiaro e dell’oscuro. Si tratta dello stesso fondo di tenebra da cui emerge la luce. È come se la luce e le tenebre appartenessero allo stesso fondo indistinto da cui scaturisce la dialettica cosmica. Nel Caravaggio un forte fiotto luminoso investe i personaggi, gli oggetti. Se alla luce è sempre associata la luminosità di Dio, le tenebre sono sempre in relazione al mondo di peccato in cui l’uomo vive. L’uomo non vive più in una realtà dominata dalla luce ma dall’oscurità. L’uomo emerge da una realtà di tenebra. L’oscurità non è solo una luce che si sottrae. Come se le tenebre fossero una luce che si fa sempre più debole. Il male è sfida, rivolta, negazione dell’essere. È un nero di tenebra che lotta

con la luce. Sempre presente nel cuore dell’uomo. Solo la luce della grazia di Dio può salvare. Il male assume tutta la sua forza, la sua consistenza, il suo potere di morte. La vita è dramma, battaglia tra luce e tenebra. La vita è scelta, decisione. L’ombra non è più semplicemente pallida ombra sottomessa alla luce. Si fa ombra tenebrosa, luogo di peccato. Su questo dramma, su questa battaglia tra luce e oscurità si gioca la storia dell’uomo. Se la luce non riesce a emergere, la morte rischia di prendere il sopravvento. Il contrasto luce-oscurità è forse l’ultima grande metafora dell’Occidente per esprimere il contrasto tra bene e male. La lotta che attraversa la vita dell’uomo. Questo rapporto luce-ombra si scomporrà nella luce fisica degli Impressionisti, nella divisione dei colori, nel desiderio di comprendere le modalità con le quali la realtà naturale si presenta al nostro sguardo. La luce della grazia si trasformerà in luce del nostro mondo quotidiano, soggetta alla provvisorietà e alla transitorietà della nostra esperienza sensibile. È la luce fisica del nostro mondo. Male e contemporaneità: identità e frammentazione Nella contemporaneità il male cambia vestito. Ma non abbandona il suo patto con la morte. Se Satana è identità mutante, il male trasforma incessantemente il proprio volto. E questa continua metamorfosi appare avvolgere l’esistenza dell’uomo. Se nel passato l’identità era come consegnata all’uomo da una comunità che riconosceva Dio come principio fondante, oggi, senza più punti di riferimento, appare sfuggente, fluida, inafferrabile. E l’arte contemporanea ne consegna molteplici esempi. Dal camaleontismo di Giorgio De Chirico ai travestimenti della fotografa Cindy Sherman, l’identità appare come liquida, senza consistenza, provvisoria. Un’identità senza memoria, senza storia, come se mancasse una dimensione di senso a cui affidarsi. Rappresentazioni di identità frammentarie, fluttuanti. Se l’identità è inafferrabile, il male diventa impossibilità di stabilire una relazione, un rapporto di responsabilità. Il male si fa chiusura a una relazione. Non solo. L’identità si fa mostruosa, come se il cammino dell’uomo fosse segnato da un percorso a ritroso nella storia, ribaltando quel lento e progressivo cammino verso l’umano che aveva contrassegnato le diverse civiltà. Il cosmo si fa caos. Ogni ordine appare sconvolto. Elementi animali e umani convivono naturalmente senza soluzione di continuità. Nuovi uominimostro mutuati dalle antiche mitologie si presentano con disinvoltura sul set del villaggio globale. E ancora una volta l’arte contemporanea appare profeta: nelle sue performance, Matthew Barney mostra corpi ibridi, violenti e raccapriccianti; Charles Ray manichini dalla presenza eccessiva e gigantesca; Aziz e Cucher indivi-

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dui senza aperture, incapaci di comunicare con l’esterno; nei suoi video, Mariko Mori corpi virtuali del Pantheon new age. L’artista francese Orlan al prezzo di molteplici interventi chirurgici, plasma continuamente il proprio corpo, nell’affermazione del principio dell’autodeterminazione della propria identità come possibilità continuamente aperta di mutare il proprio essere. Identità ibride, inquietanti, improbabili, ci riportano al caos babelico da cui le civiltà antiche avevano faticosamente cercato di affrancarsi per affermare l’umano. Fascinazione del male? Se nel passato l’identità nasceva da un incontro con l’altro, che in ultima istanza era Dio stesso, il male si presenta oggi come volontà dell’uomo di auto-determinarsi, superando qualunque limite che gli viene imposto dalla natura. Come in questa performance: l’uomo appare incapace di accettare il proprio limite. È come se desiderasse un di più per strappare qualcosa fino a lui inaccessibile. Il dolore: farsi male Male come “farsi male”. Certamente, l’iconografia del dolore, l’accanimento sul corpo, la lacerazione della carne, attraversa tutta storia dell’Occidente, fino a oggi. Il Novecento è una riflessione sulla “crisi” del corpo fisico a detrimento del corpo “glorioso”. È sufficiente pensare a The passion, il recente film di Mel Gibson incentrato sulla Passione di Cristo. La dialettica tra corpo luminoso e corpo sofferente attraversa il mondo bizantino e quello medievale che introducono il corpo ferito di Cristo in un’icona dominata dalla luce. La vita dell’uomo non si conclude nell’oscurità della disperazione, ma in un incontro dominato dalla luce stessa, simbolo della presenza di Dio che avvolge la nostra vita. Modo ben differente dalle rappresentazioni contemporanee. Il dolore è uno degli aspetti fondamentali della Body art degli anni Sessanta, periodo in cui si mette in discussione la società attraverso una serie di azioni di rivolta. Tutte le certezze e sicurezze derivate dalla tradizione borghese sono messe in discussione. Contro le regole di società che anestetizzano la vita dell’uomo, il corpo diventa il luogo in cui liberare le angosce, le ferite, le repressioni, le paure, la perversione, la violenza. Il rimosso riaffiora con prepotenza, così come la potenza inconscia e notturna. La Body art, uno dei più importanti movimenti artistici del secondo Novecento, da una parte mette in luce le fratture, le lacerazioni presenti all’interno del soggetto, dall’altra vuole fare emergere la ricerca di sincerità e di autenticità nelle relazioni umane sempre più in difficoltà, in una società votata alla cultura di massa. Stelarc si fa appendere a ganci d’acciaio conficcati nella carne, imitando rituali d’iniziazione praticati presso alcune popolazioni indiane o pre-colombiane.

Gina Pane si veste di bianco, si ferisce le labbra e il volto con una lametta. Mostra il suo corpo cosparso di vermi, si conficca le spine di fasce di rose sul braccio, rotola su di un pavimento cosparso di pezzi di vetro, si taglia, si frusta. Il corpo non rappresenta più qualcosa, ma si trasforma. L’esperienza interiore affiora sul corpo dagli abissi dell’inconscio per divenire pensiero cosciente che si esibisce attraverso lesioni e ferite. Dall’arte alla vita. Questa ricerca giunge fino alle forme più estreme, fino a riconoscersi nel male, nella ferita, nella mutilazione, fino a darsi la morte. Poi, ancora, mimando giustizia su se stessi, auto-punendosi per azioni compiute e per cui si provano sensi di colpa, ricercando situazioni umilianti o tragiche. Tutto questo può portare solo alla morte, come forma estrema del sacrificio di sé. Schwarzkogler si suicida nel 1969 dopo una crisi depressiva provocata da una drastica dieta. Gli artisti accettano di vivere esperienze dolorose e crudeli che attraversano quella linea di confine tra vita-morte. Si esplorano i limiti estremi della vita. Ci si lascia sedurre dalla morte per accettare di diventarne vittime. In questi artisti c’è come lo sperimentare la morte. Vivere al confine tra morte e vita. Perché farsi male? Perché è come se attraverso il dolore fisico desiderassero nascondere un dolore più profondo. Il dolore fisico copre un disagio, come dice l’antropologo David Le Breton, un malessere, un’impossibilità di essere. La realtà svuotata in nulla Il male sceglie ancora altri modi per mettersi in scena, trasformando l’immagine in luogo di un accecamento estetico e politico, direbbe il filosofo francese Paul Virilio, in spazio in cui è perpetrata una violenza. L’immagine non rappresenta mai infatti un contenuto in modo neutrale, ma presenta un senso da interpretare. In che modo? Alla televisione, al cinema, sui giornali scorrono tantissime immagini di male. Disastri, genocidi, guerre, vittime, carnefici, catastrofi naturali. Scene di odio, di tortura, di sopraffazione. Il Novecento è stato forse il secolo che ha più celebrato questo potere della morte: dalle sofferte immagini di “Ne sommes nous pas les derniers” di Zoran Music alle performance sulle guerre nei Balcani di Marina Abramovich (Balkan Baroque), dalle immagini spigolose e dure di George Grosz sull’immensa tragedia del dopoguerra tedesco alle Crocifissioni di Manzù, potenti rappresentazioni del dramma della Seconda guerra mondiale. Intensi moniti di fronte al potere distruttivo del male. Tuttavia, il male non si dà solo nel contenuto violento ma nelle modalità con cui la realtà è presentata al nostro sguardo. L’occhio si fa complice del male nel momento in cui si lascia sedurre dal suo fascino. Come tanti reportage che

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mettono in scena l’orrido, il truculento, l’orribile. Corpi uccisi, smembrati, scene intime di drammi vissuti ripresi senza pudore, si fanno oggetto di spettacolo. Il corpo martoriato diventa oggetto del vedere. Come in un eccesso della visione, di curiosità desacralizzante. La visione si fa un troppo vedere. Una curiosità di morte prende il sopravvento. Si dimentica che, per vedere, occorre un silenzio che custodisca l’esistenza dell’altro, consegnandolo alla sua libertà. Il male è la vera pornografia che strappa all’altro, lacerandola, la sacralità della

Dall’alto: Andy Warhol Orange disaster 1963 Matthew Barney Self portrait, s. d. Marina Abramovich “Nude with Skeleton” 1997 Alessia Marcuzzi nello studio del Grande fratello foto Cosima Scavolini Ap/Lapresse


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sua vita. Male è indiscrezione dello sguardo. Anche la morte di un uomo catturato sulla sedia elettrica in diretta può diventare splendido soggetto televisivo in grado di captare l’attenzione. È la tragica schiavitù dell’auditel, padrona assoluta dell’odierna programmazione televisiva. La morte in diretta si fa oggetto di curiosità morbosa. Come quando si guarda la scena del crollo delle Twin Towers, lasciandoci affascinare dalla bellezza dello spettacolo. Bellezza tragica, mortale. Irruzione brutale, senza appello, che non tiene conto delle persone colte

sul punto di morte… in diretta. La morte si fa spettacolo troppo visibile. Davanti a un televisore, tutto è sapientemente messo in scena per uno sguardo apparentemente distaccato, disincarnato. Il contenuto dell’immagine non è visto come qualcosa da amare o da rispettare. Tutto è mostrato per incuriosire, senza che alcun impegno etico venga richiesto. Senza alcuna presa di coscienza. Le immagini si fabbricano per un rapido consumo, in un trionfo del vuoto. L’immagine si chiude a ogni riflessione sul senso della vita. Tutto deve essere visto, anche se si scopre alla fine che non c’è nulla da vedere, come dice Jean Baudrillard. Che cosa siamo invitati a vedere nelle ore senza fine del Grande fratello, se non il nulla? Attraverso la creazione di una società virtuale, fabbricata sinteticamente, a circuito chiuso, siamo condotti a diventare dei voyeur, dei Grandi fratelli che contemplano il nulla, la banalità esaltata a mito, la piattezza glorificata a nuova religione di un mondo che ha bandito la trascendenza. È la vittoria del banale, del grado zero. Il trionfo dell’insignificante. Il male assume la forma della banalità glorificata ad avvenimento del mondo. Assunzione della banalità come destino, dice ancora Jean Baudrillard. Come quando Andy Wahrol trasforma fotografie di tragici incidenti (Orange disaster) in piacevoli decorazioni per le pareti delle ville dei ricchi europei o americani o le sedie elettriche (electric chair). La realtà è trasformata in superficie, epidermide. Pelle. Il reale scompare dietro l’immagine. Se il paradiso e l’inferno sembrano cancellati dall’orizzonte, il male agisce illudendo l’uomo di vivere una totale libertà e una facile realizzazione di sé. In realtà, se tutto si fa apparentemente disponibile e possibile, il senso ultimo della vita sembra sempre più scomparire. Non c’è più bisogno di alcuna redenzione. Siamo forse gli epigoni di un umanesimo sfinito? L’intelligenza del male è forse proprio quella di farci credere che stiamo volendo il nostro bene quando in realtà, cancellando il cielo e la terra dalla nostra vista, guardiamo solo un piatto orizzonte, diventando schiavi della vittoria del nulla. Ultima manifestazione del male? *padre gesuita, direttore raccolta Lercaro

Il male è la vera pornografia che strappa all’altro, lacerandola, la sacralità della sua vita

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l’arte del libro 1. LA NASCITA

Se qualcosa può, a ben diritto, entrare nella storia dell’arte a pieno titolo, essa è la parola scritta. Dunque, il libro come tappa di un cammino che rende l’uomo meno ferox e più sapiens. Di questo connubio tra le vicende storiche e la loro trasmissione e rappresentazione su vari supporti, dal papiro alla carta, traccerà su Sofà una breve mappatura Flaminio Gualdoni (Cuggiono, Milano, 1954), raccontando modi e opere essenziali di questo percorso. Dal 1980 docente di storia dell’arte all’accademia di Belle arti di Brera, già direttore, fino al 2009, della rivista Fmr, Gualdoni è autore, tra l’altro, di Una storia del libro (Skira, Milano, 2008).

Dal VOLUMEN al CODEX

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di Flaminio Gualdoni

Possiamo ben dire che la nascita del libro si decide nel passaggio dal volumen al codex. Il volumen è un rotolo di papiro di lunghezza variabile – da pochi metri ai 41 del papiro Harris I del British Museum: ma testimonianze bizantine dicono di volumina anche di un centinaio di metri – scritto e figurato su un solo lato, avvolto intorno a un bastoncello con pomelli, l’umbilicus, del quale un cartellino appeso, il titulus, indica il contenuto, a cui una capsa, ovvero una custodia rigida, offre protezione. Utilizzato universalmente nel mondo antico, il volumen è soppiantato dal codex nei primi secoli del cristianesimo. La sequenza di fogli rettangolari di pergamena, pelle animale opportunamente trattata, scritti e istoriati su entrambi i lati, sovrapposti e legati all’interno di due robuste tavole di protezione, le coperte, misura anche plasticamente la distanza che si vuole instaurare tra le scritture sacre della religione nuova e i rotoli della Torah ebraica. Anche l’Islam, a suo tempo, sceglierà il codex: la sua tradizione predicherà infatti che “ciò che sta tra le due coperte del Corano è la parola di Allah”. Il codex è scritto e, da subito, spesso largamente figurato, così da instaurare sin dalle origini, nello spazio della pagina, il doppio registro della lettura e della visione. Questo, sicuramente, testimoniano le pietre miliari che si collocano all’inizio della storia meravigliosa del libro. Se il Codex Sinaiticus, solo manoscritto con ampi brani del Vecchio Testamento e l’intera redazione del Nuovo, nasce nel IV secolo nel monastero di Santa Caterina del Sinai, luogo sacro che mai nei secoli ha conosciuto l’onta di saccheggi e distruzioni, di poco posteriore, V secolo, è l’illustratissima Ilias Picta acquistata nel 1608, per la cifra leggendaria di tremila scudi, dal cardinale Federico Borromeo per la nascente Biblioteca Ambrosiana. Ritagliate e incollate su un manoscritto del XII secolo, le 58 illustrazioni

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Utilizzato universalmente nel mondo antico, il volumen è soppiantato dal codex nei primi secoli del cristianesimo

Sopra: un frammento del Codex Sinaiticus A sinistra: particolare del papiro Harris I

dell’Iliade, nate ad Alessandria d’Egitto, furono distaccate rivelando brani del testo omerico scritto in caratteri maiuscoli. Tanto unitario è il Codex Sinaiticus quanto complessa è la vicenda dell’Ilias Picta, le cui immagini narrano di un clima artistico tardoellenistico che va man mano volgarizzandosi in una fattura stilisticamente discontinua, più artigianale che artistica: vi si avverte, davvero, il concludersi di una vicenda, l’arte antica, e il nascere di un’altra. Il VI secolo, poi, fonda il modello del codex contenente le Sacre Scritture. Ben tre esempi cruciali sono giunti a noi. La Genesi di Vienna nasce in Siria nella prima metà del secolo. Nei 24 fogli superstiti, riportanti un frammento del libro della Genesi scritto in lettere argentee su fondo porpora (il colore porpora era, nel mondo bizantino, appannaggio dell’imperatore: dunque si tratta di un’opera di committenza elevatissima), al testo si affianca una serie di miniature in cui lo stile romano si fa narrazione popolaresca, con tratti naturalistici nuovi. Di poco successivi sono il cospicuo Codex Rossanensis, ricco di 188 fogli, che prende il nome dal luogo ove è conservato, Rossano Calabro, e il Codex Sinopensis, 44 fogli, ritrovato a Sinope, sul Mar Nero, e ora a Parigi. Entrambi datanti all’incirca alla metà del VI secolo, entrambi riportanti il Nuovo Testamento in caratteri argentei e dorati su fondo porpora, entrambi riccamente miniati, essi indicano che il bacino orientale del Mediterraneo va fissando la tradizione nuova del libro sacro, quella che gli scriptoria dei monasteri europei faranno evolvere nei secoli successivi.

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materiale creatore IL CONIO DELLE 500 LIRE “CARAVELLE”

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Col vento di bolina Il cofanetto con il conio e il punzone della moneta nell’edizione del 1957 con le bandiere rovesciate di Francesca Vitale

Molto spesso, le cose che abbiamo vicino e che utilizziamo ogni giorno sono quelle che suscitano in noi meno curiosità circa le loro origini o la loro storia, forse perché ci appaiono profondamente familiari e già del tutto note. Così avviene per le monete, oggetti che tutti portiamo in tasca ma che solo pochi di noi si soffermano a osservare cercandovi un valore diverso da quello nominale che recano impresso. Eppure, come veri documenti metallici, esse racchiudono una stupefacente varietà di messaggi e significati “alti”, quelli che nel tempo lo stato emettente vuole vi siano affermati attraverso le immagini e attraverso i simboli. Le monete raccontano quindi la storia e, nello stesso tempo, ciascuna di esse ha una “sua” storia personale. Una vicenda che inizia con la scintilla creativa dell’artista incisore e che, attraverso diversi passaggi, si concretizza in una piccola opera di scultura dalla forma circolare. Con la riproduzione del Conio delle

500 lire “Caravelle”, Editalia celebra la nascita di una fra le più famose monete della Repubblica Italiana ritornando a un momento fondamentale delle sue origini, a quel “materiale creatore” – il conio e il punzone, appunto – che occorre affinché ogni moneta, che è per sua natura un’opera d’arte seriale, possa essere riprodotta in un altissimo numero di esemplari. Nel lungo percorso creativo, il conio è l’ultimo testimone che la mano dell’artista consegna alla tecnologia della macchina, ed è qui dunque che si estrinseca la sua importanza all’interno del processo di realizzazione della moneta, della sua storia dal punto di vista artistico. Ma le 500 lire “Caravelle” ci parlano anche di un momento particolare nella storia d’Italia e, inoltre, sono state protagoniste di una vicenda che fece scalpore catturando l’interesse dell’opinione pubblica. Erano gli ultimi mesi del 1957, quando il ministero del Tesoro decise di coniare una moneta di circolazione in

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La diatriba ormai innescata era inarrestabile. Si decise di capovolgere le bandiere sulle monete destinate alla circolazione per rendere l’immagine più facilmente comprensibile anche ai non esperti

argento, la prima nella monetazione repubblicana, per sottolineare il felice momento economico che segnava la grande ripresa dell’Italia dopo gli anni difficili della guerra e della ricostruzione. Il progetto doveva racchiudere i valori di quell’età irripetibile che fu per il nostro paese il Rinascimento, quasi a istituire un ideale parallelo con la rinascita di quegli anni. Il ministro Giuseppe Medici aveva già scelto il modello per il dritto del nuovo taglio monetario eseguito dall’artista Pietro Giampaoli che era allora incisore capo della Zecca di stato. La composizione presentava un busto di donna dal classico e raffinato profilo, cui fanno da corona gli stemmi delle città e regioni italiane. Abbigliata e acconciata come una dama fiorentina del Cinquecento, la giovane del ritratto mostra i delicati lineamenti della moglie dell’artista, Letizia Savonitto, che si trovò così a impersonare l’Italia sulla moneta più importante di quegli anni. Per il rovescio, fu scelto il modello del grande medaglista Guido Veroi che

propose l’idea del viaggio di Cristoforo Colombo come simbolo dell’inizio dell’età moderna e del Rinascimento: le tre caravelle spiegarono così le vele sulle 500 lire e dettero il via a una vicenda che le rese famose per un piccolo ma importante particolare, aprendo la prima “caccia all’errore” numismatico che appassionò il grande pubblico. I primi esemplari di prova, poco più di mille pezzi datati 1957, furono coniati e offerti in dono ai parlamentari al termine del mandato. La moneta piacque molto e ottenne grandi elogi ma un articolo pubblicato sul Tempo del 10 dicembre, che comunque la lodava nel suo complesso, scatenò una vivace polemica: il capitano di Marina Giusco di Calabria faceva notare che le bandiere in testa agli alberi delle tre caravelle erano disposte “controvento” rispetto alle vele. Questa osservazione fu accolta con attenzione e si volle andare in fondo all’argomento portando come prova antiche stampe e interpellando anche ingegneri, specialisti ed esperti di mare.

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Uno schema che mostra il disporsi delle vele e delle bandiere a seconda della direzione del vento A sinistra: il conio e il punzone contenuti nel cofanetto A pagina 72: il bozzetto originale di Guido Veroi per le prime “Caravelle” del 1957 A pagina 73: la moneta del 1957 con la bandiera controvento e quella definitiva che entrò in circolazione dal 1958

Il volume La preziosa riproduzione a tiratura limitata L’opera di Editalia riproduce artisticamente il materiale creatore della moneta emessa nel 1957. I due coni e i due punzoni sono realizzati in ottone con estremità superiore laminata in oro bianco, mentre i soggetti centrali, che riportano il dritto e il rovescio della moneta in positivo e in negativo, sono in oro 900‰. L’opera, che ha una tiratura di 1999 esemplari numerati, è custodita in un cofanetto in legno pregiato. A corredo, un saggio di Silvana Balbi De Caro, direttrice del Bollettino di numismatica del ministero per i Beni e le attività culturali e presidente dell’Associazione italiana arte della medaglia. Nel volume, l’autrice inquadra l’arte della coniazione dal punto di vista storico e tecnico e ripercorre le vicende e le particolarità che hanno contraddistinto la nascita delle 500 lire “Caravelle” del 1957. Info: www.editalia.it.

Tra questi ebbe la parola lo stesso autore, tra l’altro laureato in ingegneria delle costruzioni marittime. Veroi poté difendere bene la sua scelta sostenendo che la rappresentazione era in realtà corretta: le imbarcazioni navigavano “di bolina” con un’andatura cioè che consente alla nave di sfruttare il vento contrario. Se si volevano vedere le bandiere girate verso destra, allora anche le vele delle caravelle dovevano essere modificate e apparire di taglio, come sottili spicchi di luna. Inoltre proprio il giornale di bordo di Cristoforo Colombo testimoniava che, durante il lungo viaggio, l’esperto navigatore genovese dovette necessariamente navigare anche di bolina, così si legge infatti: «Mi fu assai conveniente questo vento contrario, ne fu rincuorata la mia gente che pensava non spirassero in questi mari venti per tornare in Spagna...». Ma la diatriba ormai innescata era inarrestabile. Si decise infine di capovolgere le bandiere sulle monete desti-

nate alla circolazione, per rendere l’immagine più facilmente comprensibile anche ai non esperti, facendo veleggiare le navi “di gran lasco” cioè spinte da un vento a favore. In tal modo si sarebbe evitato qualsiasi dubbio. Il modello del rovescio fu quindi rifatto e le 500 lire “Caravelle”, che ebbero corso legale dal 28 agosto 1958 fino alla seconda metà degli anni Sessanta, ottennero uno straordinario successo tanto che gli italiani più che a spenderle pensarono subito a tesaurizzarle scoprendosi così collezionisti. E le “Caravelle” con le bandiere controvento? Erano pochi pezzi di prova, divennero quasi introvabili e raggiunsero prezzi astronomici: ancora oggi sono considerate rarissime e ricercate dagli appassionati di numismatica. Errore sì, errore no, l’affascinante vicenda ebbe comunque il merito di aver attirato l’attenzione del grande pubblico su una delle monete considerate ancora oggi fra le più belle tra quelle emesse dallo stato italiano.

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codex FERDINANDO MAGELLANO

La circumnavigazione della terra nel planisfero di Giovanni Vespucci

IL BATTESIMO DEL di Cecilia Sica

«I

n questi tre mesi e venti giorni andassemo circa de quattro mila leghe in uno golfo per questo mar Pacifico (in vero è bene pacifico, perché in questo tempo non avessimo fortuna) senza vedere terra alcuna, se non due isolotte disabitate nelle quali non trovammo se non uccelli e arbori; le chiamassemo Isole Infortunate». Così Antonio

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Pigafetta, l’italiano imbarcato al seguito di Ferdinando Magellano, ricorda la traversata dell’oceano Pacifico nel celebre Diario che restituisce la meraviglia e lo sconcerto degli uomini che parteciparono all’impresa che rivoluzionò la nostra conoscenza del mondo: la circumnavigazione della terra. Magellano, partito dalla Spagna nel 1519 alla volta delle isole Molucche – le favolose isole delle spezie – riuscì a trovare il passaggio che a sud delle Americhe metteva in comunicazione l’oceano Atlantico con l’oceano che lui stesso chiamò Pacifico. La “carta marittima universale grandissima”, conservata


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PACIFICO alla biblioteca Reale di Torino e per la prima volta riprodotta in un facsimile fedele all’originale in ogni sua parte edito da Editalia, ha un’importanza scientifica straordinaria: è la prima carta conosciuta su cui compare la rappresentazione completa dell’oceano Pacifico con le notizie riportate dai sopravvissuti della Victoria, l’unica nave della flotta di Magellano che portò a termine la spedizione facendo ritorno in Spagna attraverso la via dell’Oriente. Il planisfero di Torino, vera e propria pietra miliare della storia cartografica, è stato identificato come copia del “padrón real”, la carta ufficiale spagnola che

sanciva il trattato di Tordesillas a seguito del quale, nel 1494, Spagna e Portogallo avevano concordato un meridiano, la “raya”, che stabiliva la divisione del mondo in due sfere di influenza, spagnola e portoghese. Però, nello stabilire il meridiano, alcuni calcoli vennero sbagliati e fu così che il Brasile venne involontariamente incluso nei domini portoghesi. Il “padrón real” era custodito a Siviglia nella “Casa de contratación” fondata nel 1503 per tenere aggiornata la carta sulla quale venivano registrate le nuove scoperte geografiche. Il documento era prezioso e segreto per il suo valore politico, militare

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e commerciale. Il planisfero torinese è stato unanimemente identificato come una copia rarissima di quello spagnolo. Scevro da decorazioni e abbellimenti di fantasia riproduce rigorosamente i soli contorni delle terre conosciute, i porti dove far scalo, dove rifornirsi di acqua e di legna, i tratti da evitare. Puntini e crocette indicano i bassi fondali e sono frequenti gli “abreolos” (apri gli occhi) destinati a segnalare ai piloti i punti più pericolosi per la navigazione, preziose informazioni per il “piloto del rey”, capitano delle navi della flotta spagnola. La rappresentazione geografica delle terre è sintetica: dei fiumi appare solo la foce o la parte terminale del corso. Solo i principali sono raffigurati interamente anche se talora con un andamento del tutto fantasioso: in Africa il Nilus risulta attraversare tutto il continente, avendo origine, secondo la tradizione tolemaica, da una serie di laghi posti ai piedi dei montes Lune, qui raffigurati nell’estremità meridionale del continente. L’unica rappresentazio-

ne di montagne è l’Atlas mons, la catena dell’Atlante, che si estende esageratamente in lunghezza, dal Marocco fino all’Egitto. Il Sud America è occupato dal disegno di grandi alberi, che con ogni probabilità vogliono rappresentare la principale fonte di ricchezza del continente, il legno verzino o “brazil” da cui prende il nome la regione. La carta, di imponenti dimensioni, è stata attribuita a Giovanni Vespucci, nipote del grande navigatore, dal 1513 “piloto mayor” della “Casa de contratación” e coordinatore del lavoro collettivo dei cosmografi che annotavano le nuove conoscenze geografiche per renderle disponibili alla consultazione dei piloti. Dopo aver partecipato con Nuño Garcia de Toreno alla preparazione delle carte per la spedizione di Magellano, nel 1524 Vespucci partecipò alla “junta de Badajoz”, in cui la delegazione spagnola e portoghese dovevano concordare la posizione ufficiale della “raya”.

Il planisfero Il giro del mondo con Editalia Il planisfero custodito nel caveau della biblioteca Reale di Torino risale al 1523 e registra le scoperte fatte durante la prima spedizione intorno al mondo da Ferdinando Magellano. Copia rarissima del “padrón real”, la carta aggiornata costantemente con le nuove rotte scoperte dai viaggiatori, il planisfero misura 1109 x 2613 mm ed è composto come l’originale da sei fogli montati su tela, stampati a otto colori con dettagli di oro in lamina nelle 26 rose dei venti e nei contorni delle terre conosciute. La carta in facsimile, in tiratura limitata a 699 esemplari numerati e certificati, è accompagnata dal commentario italiano e inglese, curato da Corradino Astengo, docente di geografia all’università di Genova. Info: www.editalia.it.

Qui sotto e nelle pagine precedenti: il facsimile del planisfero

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a regola d’arte SCULTURA IN MOVIMENTO

Editalia presenta la Enzo Ferrari, mitica vettura disegnata da Pininfarina

NEL NOME del padre di Marco Gentili

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opo la riproduzione in bronzo laminato in palladio della celebre “Daytona” in scala 1/18, la collezione “Ferrari sculture in movimento” realizzata da Editalia si arricchisce di un nuovo avvincente capitolo. La scelta questa volta è caduta su un’autentica pietra miliare della casa di Maranello, un capolavoro così unico da rappresentare un vero e proprio tributo al padre fondatore della casa del Cavallino, colui che per oltre 40 anni è stato al timone dell’azienda da lui creata. Semplicemente Enzo Ferrari Prodotta dal 2002 al 2004 in soli 400 esemplari (399 per il mercato e 1 donata al papa), la Enzo Ferrari è ancora oggi il simbolo della massima trasposizione del knowhow acquisito in 60 anni di competizioni su una vettura destinata ad un uso stradale, un’autentica formula uno a ruote coperte capace di sentirsi a suo agio tanto in pista quanto nell’impiego quotidiano. Il tutto nell’intento di dar vita a un gioiello in grado di cogliere appieno il testamento spirituale dettato dal suo fondatore. In effetti, all’inizio della sua attività la Ferrari costruiva automobili che con poche modifiche di dettaglio potevano essere utilizzate tanto per strappare sguardi ammirati in strada quanto per annichilire la concorrenza nelle corse. L’evoluzione delle competizioni motoristiche ha via via negato questa possibilità, segnando un solco sempre più marcato fra le logiche esigenze in fatto di comfort della clientela e le esasperazioni tecnologiche richieste dalla pista: per ritrovare l’essenza delle Ferrari allo stato puro bisognava quindi tornare alle origini. È nato così un

progetto esclusivo basato principalmente sull’eccezionale bagaglio di conoscenze maturate dalla casa del Cavallino nelle competizioni di tutto il mondo, per metterlo al servizio delle particolari esigenze di quella raffinatissima clientela composta da autentici collezionisti e facoltosi appassionati alla perenne ricerca di granturismo sempre più estreme. Dalle corse alla strada Ultima erede della più esclusiva linea di prodotto mai creata a Maranello, quello delle cosiddette “istant classics”, ovvero autentiche supercar realizzate in serie limitata che in tempi recenti trovano nella 288 Gto, nella F40 e nella F50 la loro linea evolutiva, la Enzo nasce per esprimere lo stato dell’arte in fatto di tecnologia avanzata applicata all’automobile da elevate prestazioni. Scorrendo la sua scheda tecnica si fa fatica a capire se si stanno leggendo i dati di una vettura da Gran Prix o di una Gt omologata per uso stradale. Qualche esempio? Il suo pianale si avvale di un telaio realizzato con materiali compositi sofisticati, come sandwich in fibra di carbonio e nido d'ape di alluminio, ed è equipaggiata con un monumentale 12 cilindri a V di 65° e 5.998 cmc, capace di ben 660 cv. La Enzo è anche la prima vettura in assoluto ad avvalersi di freni a disco in carbonio-ceramica, uno standard fino a ieri patrimonio esclusivo delle monoposto di formula uno. Le sospensioni, del tipo push rod con triangoli sovrapposti, vantano ammortizzatori telescopici a regolazione elettronica. Il cambio, naturalmente, è del tipo sequenziale elettro-attuato con comandi a leve poste dietro al volante, un’innovazione tecnologica che la Ferrari ha dapprima imposto in F1 negli anni ‘90 e poi ha progressivamente trasposto sulle sue vetture stradali: su questo modello si è raggiunta l’eccellenza, con

Il sogno di Enzo Una scultura in microfusione, in 400 esemplari Editalia dedica la seconda Scultura in movimento alla Enzo Ferrari per la valenza simbolica che questa autovettura, gioiello di tecnologia e aerodinamicità, riveste nel mondo del cavallino rampante. Dal modello in gesso alla fusione in metallo, dalla lucidatura della scocca all’assemblaggio e al ritocco di precisione dei dettagli, ogni elemento di quest’opera è stato creato con cura e con perizia artigianale. La scultura è realizzata con la tecnica della microfusione a cera persa, in bronzo laminato in palladio. I cristalli sono realizzati con la tecnica dello smalto a caldo. Un prezioso smalto “cattedrale” trasparente permette la visione dei particolari del motore. Sul supporto in metallo è inserito il logotipo Ferrari originale, lo stesso che viene applicato sulle autovetture, così come anche il colore rosso è realizzato con le vernici originali Ferrari. Sulla scatola è riprodotta la firma di Enzo Ferrari. La dimensione è 10,5 x 25 x 5,4 cm ca. in scala 1/18, la tiratura è di 399 esemplari numerati e certificati. Una tiratura eccezionale è dedicata alla numero 400 che in soli 10 esemplari rievoca l’auto donata da Luca Montezemolo al pontefice Giovanni Paolo II nel 2005. Info: www.editalia.it.

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un tempo di cambiata ridotto ad appena 60 millisecondi, grazie anche all’adozione di una frizione bidisco. La vettura vanta inoltre un'aerodinamica d'eccezione, con un carico aerodinamico che, grazie all’adozione di appendici mobili, è in grado di crescere fino ad un valore di 775 kg all’approssimarsi dei 300 km/h, per poi decrescere progressivamente al fine di consentire di raggiungere agevolmente la massima velocità (585 kg al limite dei 350 km/h). Il tutto senza deturparne la filante linea con antiestetici spoiler o alettoni vari. Clientela letteralmente “selezionata” Tutto ciò fa ovviamente della Enzo una delle auto più ammirate e ricercate dagli appassionati del pianeta. In effetti, riuscire a mettersi in garage uno dei 400 esemplari prodotti, ciascuno rigorosamente siglato e numerato, non è stato così semplice, e ciò al di là del prezzo di listino, fissato alla tutt’altro che modica cifra di 660.000 euro: la Ferrari infatti, attuando un strategia di marketing davvero unica, ha lei stessa selezionato minuziosamente gli acquirenti ad uno ad uno, scegliendo fra i suoi clienti più fedeli (si disse che bisognava aver posseduto in passato almeno cinque Ferrari), con pochissime eccezioni concesse a vip o a personaggi dell’entourage del Cavallino. I fortunati prescelti sono stati chiamati a Maranello per personalizzare il proprio esemplare, rendendolo unico attraverso un’apposita linea di produzione a lei dedicata. Le varianti comprendevano la scelta del sedile su misura tra quattro taglie disponibili (s, m, l, xl) e la regolazione della pedaliera tra sedici possibili configurazioni. Fra i suoi possessori, elencati in appositi albi consultabili persino via internet, figurano così nomi eccellenti del calibro di Jean Todt, il manager di

L’apertura degli sportelli ad ali di gabbiano della Enzo Ferrari A sinistra la scultura in microfusione in scala 1/18 dedicata da Editalia alla Enzo

Schumacher, Willi Weber (detto Mr. 30%, in onore della percentuale sui lauti guadagni percepiti dal pilota più vincente nella storia delle corse); rockstar del calibro di Eric Clapton, Rod Stewart, Nick Mason (già leader dei Pink Floyd), o Jason Key (front man dei Jamiroquai); il premio Nobel per la chimica Stanley Cohen, lo stilista Tommy Hilfiger, l’attore Nicolas Cage. L’ultimo nome della lista dei proprietari originari potrebbe far sobbalzare sulla sedia: si tratta infatti di Papa Giovanni Paolo II. In realtà il presidente della Ferrari Luca di Montezemolo ha voluto donare simbolicamente al pontefice l’ultimo esemplare prodotto, prima di essere messo all’asta per beneficienza. Il ricavato? 950 mila euro. Il perché di un tributo Nelle parole rilasciate da Montezemolo in occasione della conferenza stampa di presentazione della vettura, avvenuta al Salone di Parigi del 2002, c’è tutto il senso e il peso di questa importante missione racchiusa in un capolavoro su quattro ruote: rendere un doveroso omaggio al fondatore di una delle aziende più note e adorate al mondo: «L'inizio del secondo millennio è stato caratterizzato da una grande competitività della Ferrari sui circuiti di tutto il mondo, e mai come in questi anni la Formula 1 ha rappresentato l'autentico laboratorio di ricerca avanzata per l'azienda. Per mettere insieme i successi sportivi con il fondamentale ruolo delle corse, ho voluto che l'automobile che raccoglie il meglio della nostra tecnologia venisse dedicata al fondatore che ha sempre voluto che fossero le corse a tracciare le linee della progettazione delle vetture da strada. Pertanto il nome di questo modello, del quale siamo orgogliosi, è Enzo Ferrari».


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Editalia con Fadar L’azienda arriva negli Emirati Editalia ha raggiunto un accordo con la Fadar retail ed è entrata nel mercato arabo in occasione dell’apertura del Ferrari store di Dubai, il più grande del mondo. Le opere in vendita, tutte a tiratura limitata e certificata, e realizzate su

licensing

Ferrari,

sono tre: “Campioni del mondo, uomini e motori”, un cofanetto da collezione con 31 smalti e 31 stampe d’arte che riproducono le immagini più significative dei 15 titoli piloti e dei 16 mondiali

costruttori

vinti in Formula 1; il libro d’arte dedicato allo stesso argomento che con elaborazioni grafice artistiche presenta le biografie di uomini e motori; la Ferrari 365 Gtb4 Daytona, scultura della

mitica

vettura

uscita dalla matita di

Parla Sarkis responsabile dei Ferrari store negli Emirati

Pininfarina, realizzata con la tecnica della microfusione

a

di Silvia Bonaventura

cera

persa in bronzo e laminatura in palladio (il numero zero è stato battuto

all’asta

da

Sotheby’s a Maranello).

FERRARILANDIA SBARCA A DUBAI


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Le decine di persone che hanno visitato il negozio di Dubai continuano a tornarci per rinnovare l’esperienza

P Il negozio Ferrari più grande del mondo aperto nel Festival city centre di Dubai, negli Emirati Arabi

Proprio per coltivare l’amore che i fan di tutto il mondo provano per il marchio, Ferrari ha creato una rete di continuità attraverso i Ferrari store sparsi in tutto il globo. Il più grande spazio dedicato al Cavallino è stato inaugurato a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. Oltre 1000 metri quadrati su un unico piano dove poter ammirare, conoscere e apprezzare il marchio italiano. Per l’occasione abbiamo sentito il parere di Jamil Sarkis, responsabile dei Ferrari store negli Emirati. Qual è la percezione del marchio Ferrari e del made in Italy negli Emirati Arabi Uniti? «Per gli abitanti degli Emirati la storia e lo spirito Ferrari come nel resto del mondo sono sinonimo non solo di competizioni ma anche di lusso. La maggior parte delle persone che vivono a Dubai sono consumatori esigenti, noti per acquisti intelligenti. Di conseguenza vedono i prodotti Ferrari, che rispondono ai vari gusti e interessi, come oggetti sofisticati e rappresentativi delle ultime tendenze». Com’è stato accolto il primo Ferrari store a Dubai? «Le persone di Dubai sono state felicissime di accogliere il più grande negozio Ferrari del mondo nel cuore degli Emirati. Non solo perché è situato proprio a Dubai, ma anche perché per i clienti è stata l’occasione di un’esperienza memorabile che va oltre il semplice shopping. Le decine di persone che hanno visitato il negozio del Dubai Festival city centre continuano a tornarci per rinnovare l’esperienza Ferrari attraverso abbigliamento e accessori di alta qualità. Ma non vedono il Ferrari store come un semplice negozio, bensì più come un punto di ritrovo con gli amici». Quali sono i progetti futuri per i Ferrari store negli Emirati? «Sulla scia del lancio del più grande Ferrari Store a Dubai, Fadar e Ferrari sono in corsa per l’apertura, a gennaio, di altri due negozi nella regione, uno nel City centre del Bahrain, e l'altro a Jeddah. In programma c’è anche la possibilità di investire in Kuwait e in Qatar in un futuro non troppo lontano». Altre due nuove aperture hanno seguito quella di Dubai: a fine novembre in Grecia, ad Atene, e ai primi di dicembre in Romania, a Bucarest. L’obiettivo è di raggiungere quota 50 store in tutto il pianeta entro i prossimi 2 anni.

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i mestieri dell’arte FRANCESCO LIBERTO

CICCIO il calzolaio dei piloti Da Cefalù alla Ferrari una vita per le scarpe di Massimo Canorro

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L’arte di saper fare le scarpe. Come nessuno al mondo. Una chiacchierata con Francesco “Ciccio” Liberto, ripercorrendo le tappe che hanno scandito la sua vita, professionale e non, equivale a un affascinante tuffo nel passato senza soste né fermate, tali e tanti sono gli argomenti che l’artigiano nato a Cefalù, in provincia di Palermo, affronta con schiettezza e ironia disarmanti. Cucendo a mano e su misura, «ma sempre comode», scarpe multicolori, preziose e introvabili, per i più grandi campioni di automobilismo – da Niki Lauda («un vero perfezionista, che calzando un mio 41, nel 1977, vinse al volante della Ferrari 312 T2 il titolo mondiale di Formula Uno») a Clay Ragazzoni, dal “professore” Ninni Vaccarella a Vic Elford – l’artista Liberto («ma quale artista, scrivi solo artigiano») ha attraversato oltre mezzo secolo di storia dello sport e del costume italiano, senza dimenticare le umili origini: «Partire da zero è una fortuna, non una disdetta. Ogni singola conquista ti gratifica». Nato il 19 febbraio del 1936, all’età di sei anni inizia a lavorare nella bottega dell’omonimo zio, esperto calzolaio, nelle vesti di ciabattino: «Per tenermi lontano dalle rupi a strapiombo sul mare, dove molti bambini incautamente giocavano – ricorda – la mamma mi accompagnava in bottega. Era divenuta una sorta di asilo». Pochi mesi dopo Liberto rimane orfano: «Non è stato semplice guardare avanti senza mio padre», ricorda, ma sempre educato dalla madre all’impegno e al riguardo altrui. «Ogni volta che uscivo mi ammoniva: “Ciccio rispetta le persone e le cose”. Non ho mai scordato i suoi insegnamenti». Quindi all’età di 16 anni decide di aprire

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un’attività in proprio sul lungomare Estisimone, frequentando al contempo la scuola d’arte di Cefalù, «anni di capo chino sui libri», dice. Oggi illustra la sua scelta di vita con spiazzante semplicità, «cosa ti debbo dire, creare scarpe mi ha sempre reso felice». Ma già da allora il rombo dei motori scorre nelle sue vene, pulsando alla velocità di una monoposto lanciata su pista, «ma con il pilota nell’abitacolo», scherza. E ancora, un pizzico di fortuna, quello di trovarsi al posto giusto nel momento giusto: «Poco più che ventenne seguivo con passione la mitica Targa Florio, campionato mondiale di prototipi su strada. Una sera, nel ristorante Eukaliptus di Cefalù, converso con Ignazio Giunti e Nanni Galli, due piloti dell’Alfa Romeo, casa automobilistica che tutt’ora omaggio. Beh, mi chiedono di fargli un paio di scarpe da competizione». Tutto qui? Neppure per sogno, visto che i corridori – «dei gentiluomini vestiti con eleganza ma con ai piedi delle calzature inadatte» – hanno per Liberto delle specifiche richieste tecniche: scarpe leggere, in morbida ma resistente pelle di vitello e con una suola sottile, senza tacco, così da trasmettere sensibilità al piede. Era il 1965. Da allora i modelli delle “racing shoes” si sono evoluti, «senza smarrire la loro identità», grazie anche al supporto dei piloti della Ferrari. La stessa con la quale Liberto, conosciuto a livello internazionale, collabora per anni divenendone il fornitore ufficiale. «La casa del cavallino rampante è sinonimo di correttezza e professionalità, ancora oggi custodisco gelosamente una nota d’encomio di Enzo Ferrari». Ma la vena creativa di Liberto non si esaurisce nelle

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Francesco “Ciccio” Liberto Nella pagina a fianco e in quella succesiva: una serie di bozzetti realizzati in occasione della mostra Ciccio e gli amici di Brera


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Per tenermi lontano dalle rupi a strapiombo sul mare dove molti bambini giocavano la mamma mi accompagnava in bottega, era divenuta una sorta di asilo

calzature da pilota, come il modello dedicato a Tazio Nuvolari, per il cinema (calzando, tra gli altri, Alain Delon nel Gattopardo) e il tempo libero. Negli anni Settanta, infatti, l’artigiano lancia la moda degli stivali “muccatturi”, rivestiti cioè con i caratteristici fazzoletti di memoria araba che i carrettieri siculi annodavano al collo, e quelli “patchwork” di capretto scamosciato attraversato da tre tinte, verde mela, coloniale e bianco ghiaccio. E ancora, i sandali “sparciate”, contraddistinti da sottili listini di pelle foderata. Lavori spesso realizzati appositamente «in box o garage spartani, intrisi di vissuto come la mia Sicilia». Già, è proprio la terra natìa uno dei segreti del successo di Liberto: «Cefalù mi circonda di colori, odori e sapori inebrianti ai quali è impossibile sottrarsi». Insieme al sostegno ininterrotto della moglie: «lo scorso 19 marzo abbiamo festeggiato 40 anni di matrimonio. Un traguardo importante, raro di questi tempi». Caparbiamente, poi, Liberto non ha mai accettato le allettanti offerte di trasferire il suo atelier in una grande città, convinto che il lavoro di un artigiano «debba proseguire lì dove è iniziato». Attualmente le sue scarpe sono esposte nei più importanti spazi del settore: dal museo dei Fratelli Rossetti di Milano al museo Romans (Francia), a quello del cuoio e della calzatura (Deutsches museum) in Germania. Citato nei dizionari di moda e inserito da Franco Maria Ricci nelle pagine dell’Enciclopedia della Sicilia, Liberto ha visto i suoi modelli ripresi da aziende mondiali di primo livello, ma quando gli si chiede dove si immagina tra mille anni, risponde candidamente: «E perché non duemila, se il fisico mi assiste? E poi, dove vuoi che vada? Io riesco a viaggiare ogni giorno senza uscire dalla terra che amo».

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il motore dell’arte

FONDAZIONE ROMA

UN MECENATE

al Palaexpò

Il presidente Emanuele: «Vorrei donare agli altri la mia fortuna e l’esperienza» di Guido Talarico

rovo che il progetto di un grande polo museale romano sia più che legittimo. L’idea è quella di fare sistema tra stato, e quindi Maxxi, enti locali, e quindi Macro e Palaexpò, e privati, come il museo del Corso o altri. Maxxi è una fondazione, Macro lo può diventare. E il Palaexpò che è un'azienda speciale del Comune, potrebbe essere convertita in fondazione. Senza penalizzare il personale e senza spendere una lira». Parola di Emmanuele Francesco Maria Emanuele. La sua nomina a presidente del Palaexpò è stata accompagnata da squilli di tromba tanto a destra che a sinistra. Un plauso bipartisan alquan-

«T

to raro in un paese e in una capitale non proprio usi alla concertazione, tantomeno al fairplay. Emanuele è il colto, intraprendente, aristocraticamente fumantino presidente della fondazione Roma. L’ultimo dei mecenati, come lo chiamano in Campidoglio. Il sindaco Gianni Alemanno e l’assessore alla Cultura Umberto Croppi l’hanno voluto sullo scranno più alto dell’azienda speciale controllata dal comune che gestisce il palazzo delle Esposizioni, le Scuderie del Quirinale, la Casa del cinema e la Casa del jazz. Professore universitario, avvocato, economista, amministratore di aziende, editorialista e autore di saggi in materia di diritto, finanza e politica e anche, cosa a cui tiene molto, di poesia, Emanuele è un intellettuale con una storia professionale contrassegnata da indipendenza e risultati. Dove va fa bene e lo fa senza tenere conto di tessere e santini, come nel caso del Talent prize, il premio che Inside Art ha voluto per

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Da sinistra: le Scuderie del Quirinale la Casa del jazz la Casa del cinema A destra: il palazzo delle Esposizioni Nella pagina precedente: Emmanuele F. M. Emanuele

Emmanuele F. M. Emanuele Tra arte, cultura, mercato: i mille volti del presidente del Palaexpò Emmanuele Francesco Maria Emanuele, nato il 18 aprile 1937 a Palermo, è un avvocato cassazionista, economista, banchiere, esperto di problemi finanziari e tributari, saggista, nonché professore di scienze delle Finanze alla facoltà di economia dell’università Luiss-Guido Carli di Roma, di cui è stato vice presidente. È inoltre professore ordinario emerito all’università Francisco de Vitoria a Madrid e vice rettore dell’Università europea di Roma. Membro del consiglio di amministrazione della fondazione Civitas Lateranensis, che promuove e sostiene la Pontificia università Lateranense, presiede la Fondazione Roma e la Fondazione Roma Mediterraneo, costituita nel 2008 al fine di promuovere lo sviluppo economico, culturale e sociale del Mare nostrum. È presidente onorario dell'Orchestra sinfonica di Roma. Autore di numerosi saggi, tra cui Stato e cittadino. La rivoluzione necessaria, Le vicende dell’impresa bancaria e Il terzo pilastro. Il no profit motore del nuovo welfare, Emanuele ha ricevuto innumerevoli riconoscimenti a livello internazionale sia per l’attività scientifica che per la sua costante attenzione alle questioni filantropiche e umanitarie. Dal primo ottobre del 2009 è presidente del Palaexpò.

sostenere i giovani artisti italiani. Una sfida che gli è piaciuta subito e che ha sostenuto con entusiasmo sin dal primo giorno. Insomma un uomo forte per il pezzo forte della cultura capitolina. Com’è andata? «È andata che Alemanno e Croppi mi hanno voluto affidare questa responsabilità. La presidenza del Palaexpò per un uomo che si occupa di cultura rappresenta senz’altro un grande onore e per questo li ringrazio. Tuttavia per me, che ho sempre lavorato in questo campo nel privato, rappresenta anche una sfida nuova, indubbiamente impegnativa. Io ringrazio tutti anche perché, come è noto, non ho mai avuto una tessera di partito. Cerco soltanto di fare bene i miei doveri». Come prima cosa hai riunito dipendenti e maestranze in terrazzo. «Certo. Mi è stato detto che non lo aveva fatto nessuno in precedenza, ma mi è parso naturale. Volevo presentarmi e capire, perché in fondo l’istituzione è anche di chi lavora, cioè loro. Lavoreremo insieme e richiederò a tutti, come faccio sempre per me, il massimo impegno per raggiungere, spero, grandi risultati». Che clima hai trovato, cosa hai compreso delle attività in essere? «Sono passati pochi mesi dalla mia nomina, quindi è ancora presto per esprimere giudizi. Ci sono una serie di attività in corso, altre già progettate, come

è normale in ogni museo. Sono, come posso dire, in fase di valutazione. Certo, quelli che avrò il privilegio di guidare sono luoghi emblematici. Le scuderie del Quirinale evocano la storia di questo paese, il simbolo più alto delle istituzioni repubblicane. Così come il palazzo delle Esposizioni, con la grandiosità dei suoi spazi e la bellezza dei suoi tratti architettonici, rimanda naturalmente a manifestazioni culturali di profilo superiore». Palazzi grandi, progetti grandi. «Sono strutture storicamente e culturalmente vocate, che necessitano di progetti all’altezza della loro fama, non inferiori a quelli di cui tanto si favoleggia nel mondo intero. Occorre, pertanto, avere una progettualità artisticamente illuminata e una capacità di gestione accurata». Cultura e aziende, arte e capacità di gestione: è il tuo pane quotidiano. «Sì, sono sempre stato convinto che la qualità si misuri anche attraverso una corretta gestione economica. Principi che penso di aver bene applicato nella mia conduzione della Fondazione Roma. In dieci anni 29 mostre di successo, sempre con i conti in ordine. Nel piccolo mondo dell’arte e della cultura ritengo che questo sia in qualche modo un record. Ecco, occorre puntare sempre a grandi risultati, all’eccellenza». Come intendi farlo? «Il modello di riferimento è quello che ho appena

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L’azienda Quattro strutture, un ente in crescita L’azienda speciale Palaexpò è un ente strumentale del comune di Roma. Gestisce per conto dell’amministrazione quattro istituzioni: le Scuderie del Quirinale, il palazzo delle Esposizioni, la Casa del jazz e la Casa del cinema. Il sindaco Gianni Alemanno ha conferito lo scorso primo ottobre a Emmanuele Emanuele la carica di presidente, dopo le dimissioni di Ida Gianelli. L’ex presidente siede comunque nel cda – anch’esso nominato dal sindaco – insieme a Maurizio Baravelli, Daniela Memmo D’Amelio e Marino Sinibaldi. Direttore generale è Mario De Simoni. Nel 2008 l’azienda ha incassato 3,8 milioni di euro dalla biglietteria. I finanziamenti sono divisi al 50% fra pubblici e privati. Azienda speciale Palaexpò, via Nazionale 194, Roma. Info: 06696271; www.palaexpo.it.

descritto. Su ciò che faremo è prematuro parlare. Abbiamo molte idee e un buon patrimonio di esperienze. Vedremo. Ciò che posso dire oggi è di aver trovato un clima positivo e una buona sintonia con le autorità cittadine. Ho molto apprezzato questa apertura di Alemanno e Croppi ai privati. Penso che la collaborazione tra pubblico e privato rappresenti infatti una pietra miliare del nuovo modo di fare cultura, la strada maestra per un corretto sfruttamento del patrimonio culturale di questo paese. È questa una concezione di fare “sistema”, per me l’unica possibile per combattere alcuni effetti negativi della globalizzazione». Una questione di risorse? «Sì, ma non solo di quelle economiche. L’unione tra pubblico e privato consente sinergie ulteriori rispetto all’ottimizzazione degli investimenti. La condivisione della progettualità, lo stimolo verso l’innovazione sono alcuni frutti che possono nascere da questa collaborazione». A proposito di sinergie, che ne pensi di questo ventilato passaggio del Macro, il museo di arte contemporanea di Roma, sotto il controllo di un ente unico che nasca dall’azienda speciale a te affidata? «Le cose stanno cambiando. Per una capitale del livello di Roma è fondamentale innalzare al massimo la propria offerta culturale. Per fare questo occorre coordinare bene ogni attività in modo da ottenere il meglio dalle risorse a disposizione.

Seguendo questa logica è naturale pensare ad un cambiamento degli assetti attuali. Mi sembra in altri termini che i tempi siano maturi per dare vita a una fondazione unica sotto la quale fare confluire la gestione del sistema dell’arte capitolino». Che rapporti ci saranno tra la Fondazione Roma e l’azienda speciale Palaexpò? «I rapporti mi auguro continuino ad essere ottimi, come del resto sono sempre stati sinora. La Fondazione Roma sotto la mia guida ha prodotto risultati eccellenti. Lavoreremo dunque ancora più in sintonia, in modo da trarre profitto da questa congiuntura che si sta avviando a divenire favorevole e che vede la sintesi nel presidente delle due istituzioni. Nell’assumere questo nuovo incarico che augurio personale ti fai? «Come sai mi considero un uomo fortunato, un uomo che ha avuto molto dalla propria vita. Da anni la mia massima aspirazione è quella di donare agli altri parte di questa fortuna. Donare le mie capacità professionali, la mia esperienza, me stesso per fare del bene. Mi auguro che con la mia guida l’azienda speciale Palaexpò possa trarne un beneficio evidente sia per l’istituzione che rappresento che per i dirigenti e i lavoratori che ne fanno parte, di modo che io possa soddisfare questo mio desiderio». Ecco perché lo chiamano l’ultimo dei mecenati.

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in cassaforte L’ANGOLO DEL COLLEZIONISTA

BAGLIORI NEL TUNNEL Opere, arredi e diamanti che hanno illuminato un anno chiuso all’insegna della crisi di Stefano Cosenz

ualità e rarità hanno guidato il mercato internazionale del collezionismo nel 2009, chiavi vincenti in un periodo di recessione, premiando soprattutto opere e preziosi oggetti di storica provenienza. La dimostrazione più significativa è arrivata da Parigi nel febbraio scorso, quando la prestigiosa collezione di opere d’arte antiche e moderne di Yves Saint Laurent e Philippe Bergé ha realizzato oltre 373 milioni di euro (totalmente devoluti alla ricerca scientifica e alla lotta contro l’Aids) in un’asta superbamente organizzata da Christie’s in collaborazione con Pierre Bergé Associés sotto la navata del Grand Palais. Stime bruciate velocemente, record assoluto di questa storica asta “Les couscous, tapis bleu et rose” di Henri Matisse del 1911 con 35,9 milioni di euro contro una stima di 12-18 milioni, mentre un capolavoro di Giorgio de Chirico, Il Ritornante del 1918, è stato acquistato dal Centre Georges Pompidou di Parigi per oltre 11 milioni di euro (record mondiale per l’artista). Anche il design del XX secolo attira sempre più l’attenzione del mercato che vede nei suoi grandi esempi moderni e contemporanei un perfetto complemento all’arte moderna, godendo un aumento delle quotazioni nell’ultima decade tra il 50 e il 100%, con picchi più alti per le opere dei grandi artisti internazionali. Il suo record mondiale ci è offerto nuovamente dall’asta parigina di Ysl: una poltrona art decò di Eileen Gray, “Fauteuil aux dragons“ del 1917-19, in cuoio bruno e struttura in legno laccato con inclusione di lamine d’argento patinate raffiguranti due draghi, ha realizzato 21,9 milioni di euro, contro una stima di soli 2-3 milioni. Una risposta positiva è ora attesa a Londra il prossimo 11 febbraio, quando Sotheby’s proporrà 49 opere della collezione dei coniugi tedeschi Lenz (con realizzo totale atteso di oltre 12 milioni di sterline) realizzate dal Gruppo Zero a partire dal 1957, un movimento artistico europeo di grande innovazione a cui avevano aderito artisti come Lucio Fontana, ormai ambito dal collezionismo internazionale, e Yves Klein. Del primo, uno spettacolare Concetto spaziale, ritratto di Carlo Cardazzo del

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Christie’s Ysl “Dragon armchair” Nella pagina a fianco: Raffaello Testa di una musa battuta record da Christie’s a Londra

1956, 125x85 cm, una delle sue migliori opere della serie Pietre del periodo 1951-58 (solo sette gli esemplari ancora in mani private, e Cardazzo fu il suo primo mercante), ha stima di 1-1,5 milioni di sterline. Di Klein, il monumentale “Feu 88” del 1961, 140x300 cm, il più significativo della serie “Fire paintings” e della rivoluzione pittorica avvenuta a metà del XX secolo, è stimato 3,5-4,5 milioni di sterline. Malgrado la crisi dell’arte contemporanea internazionale (alla caduta del 27,1% nel 2008 è seguito un ulteriore tonfo del 4,4% fino al giugno 2009), ci sono artisti viventi che sfidano la crisi, come l’inglese Peter Doig (il suo splendido “Reflection” ha realizzato a New York da Christie’s oltre 10 milioni di dollari) e del quale una monumentale opera del 1993, “Concrete cabin West” Side, 199,5x275 cm, sarà offerta da Christie’s a Londra l’11 febbraio con stima 2-3 milioni di sterline. Anche i dipinti e disegni di grande qualità e rarità degli antichi maestri non accennano flessioni. Il caso più emblematico è rappresentato da un piccolo disegno di Raffaello Sanzio, Testa di una musa, del 1508-11 per uno studio di una figura del Parnaso, affresco custodito in Vaticano, che ha realizzato a Londra da Christie’s a dicembre ben 29,2 milioni di sterline, record mondiale per un lavoro su carta, contro una stima di 12-16 milioni. Più dell’oro, sono i diamanti i grandi beni rifugio in epoca di tempesta finanziaria, soprattutto le pietre di grande caratura (oltre 10) che offrono la sicurezza della loro rarità assoluta. Lo dimostra il realizzo di 7.698.000 dollari (contro una stima di 3-5 milioni) ottenuto lo scorso 21 ottobre a New York da Christie’s per uno spettacolare diamante trasparente di 32,01 carati di taglio rettangolare, che non rappresenta solo un record mondiale con i suoi 240 mila dollari per carato, ma esemplifica perfettamente ciò che conferisce a questa gemma il massimo prestigio: la caratura, più alta è, maggiore è la sua rarità con la possibilità di accrescere anche in tempo di crisi la sua valutazione; il colore, il D rappresenta il top dell’eccellenza; la purezza, la caratterista “flawless” rappresenta il massimo della purezza, ovvero esente da difetti interni ed esterni a 10 ingrandimenti; un adatto taglio, capace di conferire alla pietra il massimo splendore. Si aggiunge il prestigioso pedigree di questa gemma, appartenuta a Leonore “Lee” Annenberg, un’appassionata collezionista d’arte e filantropa americana, che le conferisce un ulteriore valore aggiunto.

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cose dell’altro mondo ASIA

CORRENTI D’ORIENTE Sensibilità locali e influenze occidentali nella produzione artistica del Sudest asiatico di Filippo Salviati *


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on oltre mezzo miliardo di abitanti distribuiti in undici nazioni, una estensione geografica che va dal Vietnam e dalla Thailandia alle Filippine includendo la Malesia, Singapore e l’arcipelago indonesiano, il Sudest asiatico si presenta come una macroregione caratterizzata da una complessa e articolata realtà culturale che ben si riflette nella produzione artistica contemporanea. Nelle singole realtà nazionali, infatti, oltre agli influssi e irradiazioni culturali esercitate nel corso dei secoli dalla Cina, dall’India e dalla diffusione dell’Islam, si è sommata, in particolar modo nel corso degli ultimi due secoli, l’influenza delle potenze coloniali europee che hanno così contribuito a modellare la fisionomia artistica e culturale dei singoli paesi in età moderna. Il caso di Bali, in Indonesia, è emblematico. Qui, sul finire degli anni venti, si stabilirono il tedesco Walter Spies (1880-1942) e l’olandese Rudolf Bonnet (1895-1978) che rivoluzionarono, sul piano tecnico come dei contenuti, il modo di dipingere degli artisti locali, spingendoli ad ampliare i propri orizzonti oltre i temi della pittura sacra di matrice induista e investigare così nuovi soggetti, come la lussureggiante natura dell’isola, la quotidiana vita dei villaggi di Ubud e Batuan, il magico mondo dei sogni e delle credenze popolari. Spies e Bonnet, come mise in luce la mostra organizzata nel 1999 alla Kunsthal di Rotterdam “Magic and modernism: artists from

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Bali, 1928-1942”, ebbero un ruolo fondamentale non solo nella nascita della pittura moderna balinese ma anche nella sua diffusione in Europa, grazie alle mostre e alla vendita delle opere che dal 1937 curarono attraverso la associazione “Pita Maha” da loro fondata. Diverso il caso di Singapore, la città-stato situata sulla punta meridionale della penisola malese, che dopo la dominazione olandese e portoghese passò dal 1819 sotto l’influenza britannica grazie all’amministratore coloniale Sir Thomas Stamford Raffles (1781-1826). Qui la modernità si manifestò e si manifesta soprattutto nell’architettura, da quella palladiana ormai quasi scomparsa fino ai moderni edifici disegnati da architetti del calibro di Ieoh Ming Pei che hanno reso nel tempo questa città un vero e proprio laboratorio di esperimenti urbanistici. Aperta agli influssi culturali provenienti da

Sumatra, India, Cina, Sri Lanka e caratterizzata da una popolazione altrettanto poliedrica, Singapore si configura come il vero centro multietnico e multiculturale dell’intero sudest asiatico che proprio in questi ultimi anni ha cominciato a produrre talenti artistici riconosciuti internazionalmente. Prova ne è la menzione speciale che il giovane videomaker singaporiano Ming Wong (nato nel 1971) ha ricevuto in occasione dell’ultima Biennale di Venezia nella sezione Mondi emergenti. Nei suoi lavori Ming Wong, utilizzando forme e tecniche innovative, esamina la storia delle identità multietniche di Singapore, riflettendo sul senso di vergogna ed esclusione che accompagna l’imposizione di stereotipi razziali e sessuali. *docente alla facoltà di studi orientali, università di Roma “La Sapienza”

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IL VOLUME Primo Giovanni Marella Eleonora Battiston Post-tsunami art Damiani editore 169 pagine 35 euro Yee I-Lann “The Chi-lin of Calauit”, 2005 A sinistra: Ronald Ventura “Uman study”, 2005 A pagina 92: Haris Purnomo “Alienated baby”, 2008 cortesia Damiani

Indonesia, Malesia, Filippine: i diciotto artisti presentati nel volume (pubblicato in occasione dell’omonima mostra alla galleria Primo Marella di Milano nella primavera del 2009 e edito dalla Damiani) provengono da un’area ancora poco esplorata dal mercato dell’arte contemporanea ma ricca di interessanti sorprese. Gli artisti selezionati da Eleonora Battiston, con la collaborazione di critici e curatori locali, si differenziano per stile, linguaggio e riferimenti culturali: dalla pittura alla scultura, passando per la fotografia, l’installazione e la performance, quasi ogni medium artistico è rappresentato dalle oltre 150 opere raccolte nel volume.


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il cammeo

Il cenotafio di papa Sisto IV torna a risplendere di Adiem


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Recupera l’originaria bellezza il monumento sepolcrale bronzeo di Antonio del Pollaiolo

U Antonio del Pollaiolo particolari del monumento sepolcrale di papa Sisto IV (1493) dopo il restauro

Una nuova solennità, meno distante e più vibrante, aleggia sul monumento sepolcrale di papa Sisto IV, creatura bronzea di Antonio del Pollaiolo, realizzata fra il 1484 e il 1493. Pezzo forte del tesoro di San Pietro in Vaticano, il capolavoro, grazie a un’eccellente ripulitura, durata più di due anni e appena ultimata, rivive, è proprio il caso di dirlo, gli antichi splendori: spogliato delle ossidazioni e dei troppi strati di cere protettive che i secoli vi avevano depositato, il cenotafio – il pontefice, secondo la regola francescana, fu seppellito nella nuda terra – si riconsegna nella rilucente morbidezza della tonalità originaria del metallo e lascia libero lo sguardo di fare zapping da una formella all’altra, senza far perdere il senso unitario della composizione. Anzi lo rinforza, anche per la presenza dell’apposito ballatoio che ne consente una visione dall’alto. In più il restauro ha portato all’eliminazione, fin nei sottoquadri, dei residui della terra di fusione, potenziando al massimo, laddove il cesello e il bulino la facevano da padroni, la perizia orafa del Pollaiolo e svelando, nel contempo, le iniziali difficoltà incontrate dall’artista nel cimentarsi con la scultura su grandi superfici, come nella formella della Grammatica, che richiese nell’innesto fra testa e collo evidenti rimaneggiamenti. Ma non basta. Questo pieno recupero della leggibilità del monumento ne enfatizza la portata culturale di inno all’Umanesimo cristiano, con l’accoglienza ecumenicamente intesa di iconografie profane: le arti, le scienze, le virtù, sublimate in un fremito di resurrezione, che trova nella dinamica dei panneggi la sua cifra descrittiva. Poco importa perciò se certa critica ottocentesca storceva il naso di fronte all’assenza di soggetti e simboli biblici. Papa Giulio II, nipote di Sisto IV ma soprattutto uomo del suo tempo, non poteva non ripensare i valori cristiani anche sullo sfondo dell’exploit umanistico. Da qui la committenza al Pollaiolo per il sepolcro dello zio e a Michelangelo per gli affreschi con Sibille e profeti nella Cappella Sistina, che proprio dal suo auspice Sisto IV prende il nome. Museo storico artistico del tesoro di San Pietro, Roma. Info: 0669881840.

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fiere a cura di

Marilisa Rizzitelli Bergamo, Bologna e Firenze: tre appuntamenti d’inverno

L’altra Europa a Rotterdam Dal suo esordio a oggi la fiera d’arte Art Rotterdam si è notevolmente trasformata ed avvicinata sempre più alle tendenze del panorama emergente contemporaneo. Si è liberata dall’ombra della più nota Art Amsterdam e, grazie all’appoggio di una platea di facoltosi collezionisti, è diventata uno dei luoghi internazionalmente riconosciuti, dove scoprire nuovi talenti e gli ultimi sviluppi nel campo delle arti visive. Dal 4 al 7 febbraio prossimo 70 gallerie, selezionate in base a qualità ed originalità, presentano i loro artisti migliori nel vecchio edificio Cruise terminal della Holland America line. Info: www.artrotterdam.nl. .

Sofà

TRIMESTRALE ANNO 3 NUMERO 10

Tre fiere, tutte italiane, a cavallo dei primi due mesi del nuovo anno. Inizia così il 2010 nelle città che da sempre si occupano d’arte: Bergamo, Bologna, Firenze. Una “full immersion” per galleristi, artisti, collezionisti, critici, appassionati, a partire dal 15 gennaio, con la mostra mercato Bergamo arte fiera, dove luce e spazio dominano in un allestimento essenziale per permettere alle opere esposte di essere l’anima della manifestazione. Più di 100 gallerie garantiscono qualità presentando artisti storicizzati accanto agli emergenti. Info: www.bergamoartefiera.com. Si prosegue a Bologna con la 34a edizione di Arte fiera Art first, dal 29 al 31 gennaio, festa del contemporaneo diretta da Silvia Evangelisti. Attenta agli sviluppi del mercato e del collezionismo, è vetrina di anticipazioni e promozione dei giovani oltre che un evento per l’intera città. Al via il 29 gennaio e fino alla fine di febbraio, Bologna Art first rappresenta la vera novità di quest’anno: un originale percorso in luoghi affascinanti del centro storico della città, attraverso installazioni ed opere di artisti delle gallerie rappresentate in fiera che, per la prima volta, si trasforma da manifestazione collaterale a progetto curatoriale grazie al coordinamento di Julia Draganovic. Info: www.artefiera.bolognafiere.it. Una festa dell’arte è anche Artour-o, ormai una consuetudine a Firenze, dal 18 al 21 febbraio prossimo. Piazza Santa Maria Novella, con il Grand hotel Minerva, è sede principale della manifestazione. Info: www.firenzecontemporanea.com.

Direttore responsabile Guido Talarico

Pubblicità e marketing

direttore@guidotalaricoeditore.it

Maurizio Rozzera

Direttore generale Carlo Taurelli Salimbeni c.t.salimbeni@guidotalaricoeditore.it

Caporedattore Maurizio Zuccari m.zuccari@guidotalaricoeditore.it

Redazione Giorgia Bernoni, Silvia Bonaventura,

Sofà è una pubblicazione trimestrale di Editalia Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato via Marciana Marina 28, 00138 Roma Numero verde 800014858 - fax 0685085165 www.editalia.it

Progetto editoriale e realizzazione Guido Talarico Editore spa www.guidotalaricoeditore.it

Autorizzazione del Tribunale ordinario di Roma n. 313 del 3.8.2006

Simone Cosimi, Maria Luisa Prete, Camilla Mozzetti redazioneinsideart@guidotalaricoeditore.it

Grafica Gaia Toscano grafica@guidotalaricoeditore.it

Foto Manuela Giusto, Ap/Lapresse Hanno collaborato Massimo Canorro, Alessia Cervio,

alessandro.rozzera@fastwebnet.it

Raffaella Stracqualursi marketing@guidotalaricoeditore.it

Stampa Bimospa spa, via Gottardo 142 00100 Roma Responsabile trattamento dati Guido Talarico. Le notizie pubblicate impegnano esclusivamente i rispettivi autori. I materiali inviati non verranno restituiti. Tutti i diritti sono riservati

In copertina

Federica Chezzi, Margherita Criscuolo, Stefano Cosenz, Andrea Dall’Asta, Anna Dalla Mura, Alberto Fiz, Marco Gentili, Flaminio Gualdoni, Silvia Moretti, Fabrizia Palomba, Claudia Quintieri, Marilisa Rizzitelli, Filippo Salviati, Cecilia Sica, Alessandra Vitale, Francesca Vitale

elaborazione grafica Gaia Toscano

Coordinamento editoriale Editalia

Sofà è visibile online sul sito

Cecilia Sica, Daniela Tiburtini

www.insideart.eu

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numero chiuso in redazione il 31.12.09


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PIER PAOLO PUXEDDU + FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO

PIER PAOLO PUXEDDU + FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO

foto RM studio

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IL

CONIO della lira

La riproduzione artistica del conio e del punzone della prima moneta della Repubblica Nel 1946 nasce la Repubblica e con essa la nuova moneta italiana. Editalia - Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato vi accompagna in un percorso alla riscoperta delle origini della lira e presenta un’eccezionale proposta inedita: per la prima volta possiamo tenere fra le mani il “materiale creatore” di una moneta,

I due conii e i due punzoni, che riproducono le matrici del dritto e del rovescio della moneta da 1 Lira del 1946, sono realizzati in ottone laminato in platino, con il soggetto centrale in oro 900‰.

Tiratura: 1999 esemplari numerati e certificati Andreas Cellarius. Atlas Coelestis seu Harmonia Macrocosmica

Marco Polo. Le Livre des Merveilles

RD 167 - Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II, Roma NOVITÀ

L’Acerba

Giacomo Maggiolo. Carta nautica del bacino del Mediterraneo

Trattato di Aritmetica di Lorenzo il Magnifico

Cart. naut. 2. Bibl. Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II, Roma

La Bibbia di San Paolo Biblia Sacra. Codex membranaceus saeculi IX Abbazia di San Paolo fuori le Mura, Roma

Exultet di Salerno Museo Diocesano, Salerno De balneis Puteolanis Ms.1474 - Biblioteca Angelica, Roma Codice Oliveriano I Ms. I - Biblioteca Oliveriana, Pesaro

Ms. fr. 2810 - Bibliothèque nationale de France, Paris Ms Pluteo 40.52 - Biblioteca Mediceo Laurenziana, Firenze Ms. Ricc. 2669 - Biblioteca Riccardiana, Firenze

De Re Rustica Codice E 39 - Biblioteca Vallicelliana, Roma

Le miniature della Bibbia di Oxford Ms W. 106 - The Walters Art Museum, Baltimora / Musée Marmottan, Paris

Codice di Medicina e Farmacia di Federico II Ms Pluteo 73.16 - Biblioteca Mediceo Laurenziana, Firenze

www.editalia.it

800 014 858 numero verde


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FERRARI 365 GTB4 “Daytona”

Pensavate di conoscerla, ma così non l’avete mai vista.

Sculture in movimento, così possono essere definite le Ferrari che portano alto, sulle strade di tutto il mondo, il vessillo del Cavallino Rampante. E solo con una vera scultura si poteva celebrare il mito della “Daytona”. Con un modello perfetto, splendente nella sua preziosa carrozzeria, esclusivo per la sua tiratura limitata. Prestigioso, come solo la Ferrari sa essere.

Un’automobile leggendaria, un gioiello da collezionare. Adesso.

Sofà Anno III Numero 10 2009

TRIMESTRALE DEI SENSI NELL’ARTE

D I E C I V O LT E C O N V O I

La scultura è realizzata con la tecnica della microfusione a cera persa, in bronzo laminato in palladio. I cristalli sono realizzati con la tecnica dello smalto a caldo. Scala 1/18 Dimensioni: 24 x 9,5 x 6,5 cm ca.

TIRATURA LIMITATA PER L’ITALIA A 120 ESEMPLARI NUMERATI E CERTIFICATI

numero

Produced under license of Ferrari Spa. FERRARI, the PRANCING HORSE device, all associated logos and distinctive designs are trademarks of Ferrari Spa. The body designs of the Ferrari cars are protected as Ferrari property under design, trademark and trade dress regulations

FERRARI ARTISTIC LIMITED EDITIONS SCULTURE IN MOVIMENTO

Sofà

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PIER PAOLO PUXEDDU+FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO

copertina s10:copertina s6

FERRARI ARTISTIC LIMITED EDITIONS

L’ARTE SI ACCENDE DI ROSSO

numero verde 800 014 858 | info@editalia.it

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Anniversari

Grandi mostre

Argomenti

Personaggi

Caravaggio l’antiaccademico

Giorgione il pittore del mistero

La seduzione del male

Emanuele al Palaexpò


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