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Sofà
la storia della lira
Sofà
U nità d’ I talia 150° 1861-2011 anniversario
Anno IV Numero 13 2010
Con il patrocinio di:
La storia, il presente e il futuro della nostra Patria
Presidenza del Consiglio dei Ministri Comitato per le Celebrazioni del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia
È questo il significato della collezione che Editalia dedica all’Unità d’Italia, e che si identifica con lo spirito delle celebrazioni del 150° Anniversario. Un percorso scandito dalle riconiazioni della prima moneta dell’Italia Unita [ 5 lire del 1861] considerata molto rara nell’ambiente del collezionismo, e da quelle per gli anniversari del cinquantenario [ 50 lire del 1911] e del centenario [ 500 lire del 1961].
5 LIRE 1861
50 LIRE 1911
Scudo Unità d’Italia
Cinquantenario dell’Unità d’Italia
TRIMESTRALE DEI SENSI NELL’ARTE
150
500 LIRE 1961
Centenario dell’Unità d’Italia
Un privilegio esclusivo A tutti i collezionisti sarà consegnata la speciale coniazione in argento emessa quest’anno per celebrare il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia.
anni di unità
PIER PAOLO PUXEDDU+FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO
Tiratura limitata La collezione è stata realizzata in 2011 esemplari certificati dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Gli esemplari delle monete sono coniati nelle dimensioni e nei metalli originali, in oro 900‰ e in argento. Cofanetto personalizzabile.
CENTO LIBRI PER MILLE ANNI Le grandi opere della letteratura italiana Intervista con il direttore della collana Walter Pedullà
Completa l’opera il volume Le lire dell’Italia unita curato da Silvana Balbi de Caro Il volume di pregio, creato appositamente per questa occasione, percorre un’inedita storia della moneta italiana dalla nascita, al Regno e alla Repubblica, con particolari approfondimenti sulle monete presentate. Tiratura limitata
Eventi
www.editalia.it
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Grandi mostre
Tullio De Mauro Pablo Echaurren La lingua della Crusca visto da Pennacchi e lo stato nazionale alla fondazione Roma
Un caffè con
Il corpo dell’arte
Alessandro Zuccari Valerio Adami L’eredità di Caravaggio Quando il disegno nella Città eterna si fa dono e bellezza
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la storia della lira nel Regno di
ViTTORIO Emanuele III Le più belle monete del “Re numismatico” Con la Lira di Vittorio Emanuele III, l’ultimo re a battere moneta prima dell’avvento della Repubblica, l’Italia tornò ad esprimere dei veri capolavori degni della più grande tradizione artistica nella quale il nostro Paese vanta da sempre un primato internazionale.
L’Arte, i valori e la storia della nostra Nazione da ammirare nello splendore dell’oro.
Caratteristiche dell’opera Gli esemplari della Lira di Vittorio Emanuele III sono coniati nelle dimensioni originali, in oro 900‰
Tiratura limitata Collezione: 1999 esemplari Serie singole: ciascuna 1999 esemplari
Garanzia dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello stato Il certificato di provenienza e autenticità attesta la provenienza e le caratteristiche tecniche delle coniazioni, la dimensione, il peso, il titolo dell’oro e la tiratura limitata
SCULTURE IN MOVIMENTO: ENZO FERRARI Il tributo al fondatore del Cavallino Rampante Sintesi di arte e tecnologia, questo è sinonimo di Ferrari. Ma anche passione, amore per la sfida, impegno per raggiungere il risultato e superare ogni traguardo, capacità di guardare sempre avanti. E di questo si parla quando il protagonista è l’uomo che ha creato una leggenda: Enzo Ferrari. Solo un’auto estrema come questa poteva portarne degnamente il nome. E solo con un’opera d’arte come questa potevamo farne risplendere ogni dettaglio, nella sua aggressiva perfezione.
Il fascino assoluto del mito La scultura è realizzata con la tecnica della microfusione a cera persa, in bronzo laminato in palladio. I cristalli sono realizzati con la tecnica dello smalto a caldo.
Un prezioso smalto “cattedrale” trasparente permette la visione dei particolari del motore. Scala: 1/18 Dimensioni: 10,5 x 25 x 5,4 cm ca.
TIRATURA LIMITATA PER L’ITALIA A 399 ESEMPLARI NUMERATI E CERTIFICATI
FERRARI ARTISTIC LIMITED EDITIONS N
L’ARTE SI ACCENDE DI ROSSO
www.editalia.it
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PIER PAOLO PUXEDDU+FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO
3-02-2011
Produced under license of Ferrari Spa. FERRARI, the PRANCING HORSE device, all associated logos and distinctive designs are trademarks of Ferrari Spa. The body designs of the Ferrari cars are protected as Ferrari property under design, trademark and trade dress regulations
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PIER PAOLO PUXEDDU+FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO
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Una collezione unica e preziosa Nove monete, selezionate fra le piÚ significative dal punto di vista storico e artistico del Regno di Vittorio Emanuele III, costituiscono questa inedita collezione con la quale Editalia e l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato proseguono e arricchiscono il progetto della Storia della Lira. www.editalia.it
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LA
LIRA SIAMO
UN’OPERA D’ARTE IN FORMA DI LIBRO
NOI
Un prezioso album dei ricordi con una copertina scultorea interamente realizzata a mano: un bassorilievo in argento che raffigura il dio Vulcano al lavoro sul verso delle 50 lire del 1954. All’interno, fotografie che raccontano la grande storia e le storie di tutti i giorni. E insieme immagini insolitamente ravvicinate di monete e banconote della Lira, per una spettacolare e inconsueta galleria d’arte.
Il bassorilievo è realizzato in argento patinato a mano. Il volume di grande formato (29 x 39 cm) è composto da 324 pagine stampate su carta pregiata, con oltre 400 fotografie in bianco e nero e a colori. Rilegatura in pelle serigrafata, con impressioni in argento sul dorso. Un cofanetto in plexiglass permette di custodire ed esporre, come su un moderno leggio, il prezioso volume. Tiratura limitata: 4999 esemplari
Con il patrocinio di: Presidenza del Consiglio dei Ministri Comitato per le Celebrazioni del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia
Viale Gottardo 146 00141 Roma www.editalia.it
numero verde
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editoriale
L’ARTE
N
di fare impresa
Nell’editoriale del primo numero di Sofà alla fine del 2006 enunciavamo il nostro proposito di realizzare una rivista dedicata a “chi ama il bello” indirizzata agli eventi artistici nazionali e internazionali e che al contempo fosse il diario di bordo di un viaggio nel mondo di Editalia, azienda che ha scelto come elemento identitario la valorizzazione della tradizione culturale italiana attraverso l’arte e la qualità. Nel tempo la rivista ha sviluppato con la rubrica Arte e Impresa un’attenzione specifica verso le aziende che, come noi, attraverso “l’esperienza dell’arte”, e il recupero di saperi e di valori durevoli danno voce a un nuovo modo di fare impresa.
Un modello, basato sulla qualità come fattore competitivo e d’eccellenza, capace, nel caso di Editalia, di valorizzare il mondo dei mestieri dell’arte e del sapere artistico artigianale, rendendolo profittevole.
In quest’ottica il 2010 è stato un anno veramente speciale, se pensiamo al fatturato in crescita per il quinto anno consecutivo, del 35%; ai 3.700 nuovi collezionisti che hanno scelto le nostre opere, agli oltre 2.500 che hanno confermato l’apprezzamento con nuovi acquisti, ai nuovi clienti “corporate”, fra tutti citiamo Campari, e al rafforzamento della “partnership” con Ferrari anche sui mercati esteri. Risultati davvero eccellenti, ancor più in una fase di congiuntura economica internazionale molto complessa, che confermano una volta di più che è possibile un modello di sviluppo economico, aziendale e sociale, fondato sulla qualità, sulla tradizione produttiva dei territori italiani, sul connubio fra tradizione e innovazione. Occorre però resistere a due apparenti scorciatoie, che sono piuttosto errori destinati a far fallire tale modello virtuoso. Il primo rischio è che nella prassi quotidiana i valori citati si riducano a slogan e dichiarazioni astratte, cedendo il passo a scelte di segno opposto, apparentemente più facili ma perdenti nel medio periodo. Il secondo rischio è pensare che il mercato e le sue regole di efficienza e competitività possano corrompere la purezza di un’offerta artistica e culturale di qualità. Al contrario, la qualità e l’innovazione possono affrontare e vincere le sfide del mercato, perché solo così si potrà ottenere quella piena libertà di espressione che è figlia dell’indipendenza economica.
Marco De Guzzis Amministratore delegato Editalia
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sommario
92 NOTIZIE
PRIMO PIANO
PERSONAGGI
Cronache d’arte La strana coppia va in tv
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Fotografia Viaggio nelle terre del fuoco
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Esposizioni in Italia e all’estero Chagall a Roma, Rauschenberg a Miami
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Eventi Expo 150, gli eventi per celebrare l’unità L’idioma che fece l’Italia Tullio De Mauro, la nascita della nazione sui banchi di scuola La lingua vive grazie a Manzoni Cento libri per mille anni: il piacere della lettura il valore della nazione Le interviste possibili: padri della patria/2, Giuseppe Mazzini
16
Grandi mostre/1 Lucas Cranach, l’altro Rinascimento a Roma
30
Grandi mostre/2 Antonio Ligabue, l’arte come riscatto
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Grandi mostre/3 Pablo Echaurren, Dio salvato dai pupazzi
38
Conversando sul sofà Walter Pedullà, vent’anni di ostinazione
42
Un caffè con Alessandro Zuccari, Caravaggeschi a Roma
48
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Il corpo dell’arte Valerio Adami, d come dono
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L’arte prende corpo Mimmo Centonze, dipingere la vita
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81 BELPAESE
I luoghi del bello/1 Palazzo Farnese, il dado delle meraviglie
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I luoghi del bello/2 Casa Moravia, il rifugio del maestro
68
EDITORIA & ARTE L’arte del libro/4
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Flaminio Gualdoni: quando l’Arabia era felix
ARTE & IMPRESA
IN CHIUSA
Speciale 150 1861-2011: omaggio alla nazione dal catalogo Editalia
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Comunicare ad arte Ferrari world Abu Dhabi, il sogno rosso sbarca nel golfo Persico
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A regola d’arte Fondazione Borsalino, storie di famiglia da togliersi il cappello
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I mestieri dell’arte Fondazione Cologni, i segreti dell’artigianato
84
Il motore dell’arte Premio Enel contemporanea, farfalle olandesi
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In cassaforte Modì milionario
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Cose dell’altro mondo Arte dal Marocco, effervescenza creativa
92
Il cammeo di Adiem Il Magnifico cratere di Belgrado, nuova vita all’antica meraviglia
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cronache d’arte Cresce l’Amaci, aderisce anche il museo Marini Cresce l’Amaci. L’associazione dei musei d’arte contemporanea italiani, nata nel 2003 “con lo scopo di fondare una vera cultura istituzionale dell’arte moderna e contemporanea nel nostro paese”, s’arricchisce di un nuovo, prezioso elemento. Si tratta del museo Marino Marini di Firenze, gestito dall’omonima fondazione nell’ex chiesa di San Pancrazio del capoluogo toscano. La struttura è dedicata allo scultore pistoiese, noto in particolare per le sue essenziali statue equestri e scomparso nel lontano 1980. Lo scopo è “assicurare la conservazione, la tutela, la valorizzazione, l’esposizione al pubblico delle opere di Marino Marini”. Il nuovo entrato va ad affiancare le strutture già attive nell’associazione che organizza, fra l’altro, la Giornata del contemporaneo. Fra queste, Castello di Rivoli e Gam di Torino; Macro, Maxxi e Gnam a Roma; Villa Giulia a Verbania; Mart a Rovereto e molte altre. Info: www.museomarinomarini.it; www.amaci.org. (S. C.)
ualcosa bolle in pentola. Dopo la nuova trasmissione firmata da Philippe Daverio sulla rete culturale dell’azienda di stato, la neonata Rai 5, presto anche la strana coppia Vittorio Sgarbi-Oliviero Toscani potrebbe tornare in onda sulle reti della tv nazionale. Non solo Emporio Daverio, insomma. «C’è stato un incontro alla Rai tra Vittorio Sgarbi, Oliviero Toscani e il dg Rai Mauro Masi – ha fatto sapere l’ufficio stampa del vulcanico sindaco di Salemi – il direttore Masi è stato particolarmente attento e curioso alle proposte
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La strana coppia va in tv
del critico d’arte e del celebre fotografo per mettere a punto un progetto sui valori dell’arte nella cultura in vista di un programma sulla civiltà italiana». In cantiere, insomma, una trasmissione che si riallacci all’ultimo libro di Sgarbi, pubblicato da Bompiani e intitolato Viaggio sentimentale nell’Italia dei desideri, un itinerario attraverso il nostro paese per scoprirne l’incredibile densità di bellezze storico-artistiche. Per ora, comunque, l’unico appuntamento sicuro rimane quello del mercoledì sera con Daverio. (Simone Cosimi)
Il Fai delle meraviglie Torino, al salone l’Italia dei libri Dall’Isola Madre, paradiso sul lago Maggiore, all’incredibile Scarzuola, in Umbria (nella foto) l’utopica città nata dal genio dell’architetto Tomaso Buzzi. Il Fai (Fondo ambiente italiano) mette insieme in un libro 100 luoghi italiani “da vedere nella vita” (Rcs, 264 pagine, 39 euro): un itinerario tra le meraviglie da scoprire e di cui innamorarsi.
Sarà la mostra L’Italia dei libri il contributo che il Salone internazionale del libro di Torino, a maggio, darà alle manifestazioni celebrative del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Il progetto è stato approvato a dicembre all’unanimità dal cda della Fondazione per il libro, la musica e la cultura, che organizza la kermesse. La mostra, curata da Gian Arturo Ferrari e allestita all’Oval, rientrerà nell’ambito del “Bookstock village”, il contenitore del salone piemontese dedicato ai giovani e tradizionalmente destinato a ospitare esposizioni, laboratori, spazi incontri e progetti speciali. (S. C.)
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Editalia - Edizioni in Facsimile
Andreas
Cellarius atlas coelestis
PIER PAOLO PUXEDDU + FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO
RD 167 - Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II, Roma
L’Universo elegante Dodici, sontuose tavole che illustrano le costellazioni e i sistemi planetari: un viaggio fantastico attraverso i cieli, fra gli astri, i pianeti, le costellazioni e le figure mitologiche che le identificano. Immagini di grande interesse storico e scientifico, capaci di affascinare con la potenza della loro suggestione. Tre Cartelle, ciascuna delle quali contiene quattro tavole montate su tela (formato 133x111 cm). Le tavole (ciascuna del formato di ca. 59x48 cm), sono riprodotte in facsimile su carta speciale per stampe d’arte con nove colori e ritocchi di oro a caldo. Sono realizzate dall’Officina Carte Valori dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.
Tiratura limitata a 999 esemplari numerati e certificati dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato
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www.editalia.it
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colpo d’occhio FOTOGRAFIA DA MEDIO ORIENTE E AFRICA
Viaggio
nelle terre del fuoco
A Modena una collettiva di autori africani e mediorientali traccia i confini emotivi di due aree segnate da contraddizioni di Giorgia Bernoni
Pieter Hugo Abdullahi Mohammed con Gumu Nigeria, 2007
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La mostra “Breaking news” In un percorso di oltre 115 opere tra video, film, installazioni e fotografie, “Breaking news”, fotografia contemporanea da Medio Oriente e Africa, offre uno sguardo approfondito sulle criticità che, a partire da quest’area geografica, attraversano il mondo contemporaneo. La collettiva è il terzo capitolo modenese dopo “Asian dub photography” del 2008 e Storia memoria identità dello scorso inverno. La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Skira. Fino al 13 marzo. Ex ospedale Sant’Agostino, largo porta Sant’Agostino 228, Modena. Info: 059239888; www.mostre.fondazione-crmo.it.
ue aree geografiche vaste e ricche di contraddizioni, due continenti segnati da un passato difficile e da un presente conflittuale. Sono l’Africa e il Medio Oriente le aree al centro del viaggio fotografico “Breaking news”, la rassegna che presenta a Modena fino al 13 marzo un’ampia selezione di scatti di autori africani e mediorientali. Panorami mozzafiato popolati da un’umanità costantemente in bilico tra conciliazione e rassegnazione rispetto all’ambiente circostante, a volte tutt’altro che ospitale. Tanti i fotografi chiamati dal curatore Filippo Maggia a raffigurare un affresco contemporaneo e intimo del vasto continente africano: dagli scatti degli anni Cinquanta di Bob Gosani a quelli degli anni Ottanta di Craig Nunn, fino alle ricerche attuali di David Goldblatt, Mikhael Subotzky, Gabriel Naudè e Pieter Hugo che delineano la parabola storica di un paese uscito dall’apartheid con il sogno di Mandela che si trova oggi ad affrontare spinosi problemi, tra i quali una forte disgregazione sociale e nuove forme di classismo. Dominata per oltre un secolo dalle visioni prodotte dal colonialismo, l’Africa esprime attualmente una molteplicità di voci creative capaci di indagare tanto i retaggi del passato quanto la complessità contemporanea. Visioni a cavallo tra il poetico e il documentaristico sono quelle catturate dai fotografi mediorientali: diversi artisti che con approcci differenti indagano le implicazioni umane e simboliche della propria terra. Tra loro la videoartista israeliana Yael Bartana, i palestinesi Ahlam Shibli e Taysir Batniji, il libanese Akram Zaatari, l’egiziano Wael Shawky.
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expo in Italia pagine a cura di
Camilla Mozzetti
ROVERETO MODIGLIANI SCULTORE Conosciuto e amato per i suoi dipinti, Amedeo Modigliani era anche uno scultore. A confermare ciò ci ha pensato il Mart di Rovereto che presenta, fino al 27 marzo, una mostra specifica con le opere dell’artista livornese. Otto teste di donna, frutto di un lavoro costato sei anni di impegno perché in tutto il mondo esistono appena 25 sculture di Modì. Una grande occasione per ammirare un nucleo in gran parte sconosciuto ai più delle sculture di un grande artista. Info: www.mart.tn.it.
ROVIGO L’ELEGANZA
DI
FORTUNY
È un Ottocento elegante e folcloristico quello proposto dal 29 gennaio al 12 giugno a palazzo Roverella, a Rovigo. L’Ottocento vitale ed elegante dei grandi salotti à la page, delle corse, dei balli e dei ricevimenti. E, al medesimo tempo, delle feste popolari, dei carnevali, dei balli mascherati. In mostra opere di Mariano Fortuny, Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis. Info: www.palazzoroverella.com.
RIMINI ARNOLDO CIARROCCHI Ad Arnoldo Ciarrocchi viene dedicata una ricca antologica che raccoglie, dal 5 febbraio al 27 marzo, a castel Sismondo, opere provenienti dalla collezione di famiglia dell’artista.Considerato tra i migliori incisori contemporanei per la delicatezza del segno grafico, Ciarrocchi è un sensibile interprete della cultura marchigiana non solo nell’incisione ma anche nei dipinti a olio e negli acquerelli. Info: www.castelsismondo.it.
MILANO ARCIMBOLDO Inaugura il 10 febbraio a palazzo Reale di Milano la mostra Arcimboldo, artista milanese tra Leonardo e Caravaggio in cui si cerca di svelare la profonda e inesauribile creatività dell’uomo lombardo. Disegni, pitture e preziosi oggetti testimoni dell’arte cinquecentesca insieme ai lavori che ricompongono l'intera produzione di Arcimboldo. Fino al 22 maggio. Info: www.comune.milano .it/palazzoreale.
ROMA IL MONDO DI CHAGALL
BRESCIA L’ARTE DI MATISSE SULLA SCIA DI MICHELANGELO
Dopo il grande successo riscosso a Nizza, l’esposizione Chagall, il mondo sottosopra arriva al museo dell’Ara pacis di Roma, fino al 27 marzo. In mostra circa 140 opere tra dipinti e disegni, provenienti da collezioni private, dal Musée national d’art moderne centre Georges Pompidou e dal Musée national Marc Chagall di Nizza. Info: www.arapacis.it.
Al museo di Santa Giulia è in programma, dall’11 febbraio al 12 giugno, l’esposizione Matisse, la seduzione di Michelangelo capace di mostrare quanto profondo sia stato il legame intercorso tra l’artista francese e il genio italiano del Cinquecento. Matisse arrivò alla formulazione di un’arte che fosse una semplificazione assoluta della pittura, alla luce del suo studio giovanile e poi maturo, proprio della scultura di Michelangelo. In mostra 180 opere tra dipinti, disegni e incisioni, che ripercorrono la carriera del maestro francese dalle prime opere a quelle del periodo di Nizza, fino alla parte finale della sua vita. Info: www.matissebrescia.it.
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BARLETTA ORIENTALISMI Dal 4 marzo al 5 giugno, la pinacoteca Giuseppe De Nittis di Barletta presenta un’esposizione sulla pittura ispirata dalla cultura e dalle narrazioni dei paesi asiatici nella mostra Incanti e scoperte, l’Oriente nella pittura dell’800 italiano. Esposti i lavori di Alberto Pasini, Stefano Ussi, Cesare Biseo, Francesco Hayez e Roberto Guastalla. Info: www.pinacotecadenittis.it.
GENOVA IL MEDITERRANEO DA COURBET A MONET
RAVENNA L’ITALIA S’È
DESTA.
GLI
ANNI TRA IL
1945
E IL
1953
Arte italiana tra il ‘45 e il ‘53, ovvero gli otto anni in cui l’Italia s’è desta, il tempo più vivace, magmatico, contrastato di tutto il nostro Novecento, vengono raccontati a Ravenna, al museo Mar, il museo d’arte della città, dal 13 febbraio al 26 giugno, con l’ambizione di ricostruire le diverse fasi delle vicende artistiche dalla fine del secondo conflitto mondiale alla grande mostra di Picasso in Italia del 1953. Info: www.museocitta.ra.it.
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Il palazzo Ducale di Genova propone fino al primo maggio Mediterraneo, da Courbet a Monet a Matisse: 80 dipinti, provenienti da musei e collezioni private di tutto il mondo, per rivivere il fascino che il Mediterraneo ebbe su cinque generazioni di artisti, dalla metà del Settecento fino ai primi quattro decenni del Novecento, passando ovviamente attraverso la stagione impressionista. www.palazzoducale.genova.it.
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expo nel mondo pagine a cura di
Simone Cosimi
MIAMI FOCUS SU RAUSCHENBERG
LIVERPOOL SGUARDO SU NAM JUNE PAIK
Una selezione che spazia sulla lunga carriera (è morto nel 2008 all’età di 83 anni) dell’espressionista astratto Robert Rauschenberg, includendo anche il celebre “Untitled” del 1986 e una serie di opere dalla fondazione omonima fra cui il celeberrimo Kennedy. Ai limiti della pop art, con un tocco di materia. Fino al 10 aprile 2011. Miami, Art museum. Info: www.miamiartmuseum.org.
La vivace sede di Liverpool della Tate modern offre uno sguardo sul percorso creativo del videoartista e compositore sudcoreano Nam June Paik, celebrità del settore. Dalle produzioni musicali ai lavori sulla televisione fino alle sculture robotiche e alle installazioni di grandi dimensioni. Fino al 13 marzo. Liverpool, Tate. Info: www.tate. org.uk/liverpool.
LONDRA I SEMI DI WEIWEI
MONTREAL PIONIERI DELLA FOTOGRAFIA
In molti lo ricordano per lo stadio olimpico di Pechino. Ai Weiwei invade la Tate con un’installazione popolata da quindici milioni di semi di girasole fabbricati a mano in porcellana. La “Turbine hall” è invasa da questo monumento alle carestie sotto Mao Tse-Tung. Fino al 2 maggio. Londra, Tate modern. Info: www.tate.org.uk.
Ottanta lavori scattati da alcuni dei più celebri pionieri della fotografia francese fra il 1840 e il 1900. Fra i nomi in mostra Édouard Baldus, Maxime du Camp, J. B. Greene, Gustave Le Gray e Nadar. Fino al 20 marzo. Montreal Museum of fine arts. Info: www.mbam.qc.ca.
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BILBAO L’OSSESSIONE DEL PASSATO L’esposizione documenta come molta fotografia e videoarte contemporanea sembrino perseguitate dal passato, dalla storia dell’arte classica, da apparizioni che si rianimano nei media di oggi, nelle performance e nei complicati mondi virtuali. Fino al 6 marzo. Bilbao, Guggenheim. Info: www.guggenheim-bilbao.es.
BARCELLONA I SEGRETI DELLA TV Una mostra che esplora l’estetica che nasce quando l’arte contemporanea lascia le stanze dei musei per trasferirsi in tv. Un progetto realizzato quindi dal punto di vista televisivo e che produce una lettura del mezzo in dieci sezioni. Fra i tanti, Chris Burden e Andy Warhol. Fino al 25 aprile. Barcellona, Macba. Info: www.macba.cat.
PERTH PEGGY, DA VENEZIA ALL’AUSTRALIA Prima mostra di una nuova serie intitolata “Great collections of the world”: la Art gallery dell’Australia ovest traghetta la raccolta di Peggy Guggenheim da Venezia a Perth. I lavori mostrano la forte predilezione della collezionista per surrealismo e astrattismo. Fino al 31 gennaio. Perth, Art gallery of western Australia. Info: www.artgallery.wa.gov.au.
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expo 150
Gli eventi per celebrare l’unità In mostra i protagonisti e i simboli che hanno costruito il paese pagine a cura di
Margherita Criscuolo
ROMA
1861 I PITTORI DEL RISORGIMENTO Apre le celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia la mostra alle Scuderie del Quirinale curata da Fernando Mazzocca e Carlo Sisi. Esposte in un’orgia di tricolori le opere di Francesco Hayez, Giovanni Fattori e tanti altri che ricordano gli eventi che portarono all’unità. Fino al 16 gennaio. Roma, Scuderie del Quirinale. Info: www.scuderiequirinale.it.
GIUSEPPE GARIBALDI La mostra Tutt’altra Italia io sognavo, allestita nella sala Paolina di Castel sant’Angelo, presenta numerose opere, tra cui il dipinto di Renato Guttuso La battaglia del ponte dell’Ammiraglio e un dipinto ispirato a Garibaldi realizzato per la mostra dall’artista Francesca Leone. Fino al 24 aprile. Roma, Castel sant’Angelo. Info: www.castelsantangelo.com.
L’UNIFICAZIONE MONETARIA ITALIANA A cura della Banca d’Italia, l’esposizione si propone di documentare le vicende politiche ed economiche dell’unificazione monetaria del nostro paese e i suoi risvolti quotidiani, all’interno del processo di costruzione dell’unità nazionale. Dal 17 marzo a novembre. Roma, palazzo delle Esposizioni. Info: www.palazzoesposizioni.it.
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I PADRI FONDATORI
UNICITA’ D’ITALIA
La mostra intende celebrare i grandi italiani – Cattaneo, Gioberti, Mazzini, d’Azeglio, Manin, Tommaseo, Spaventa, Garibaldi, Pisacane, Cavour – che hanno contribuito a realizzare un’importante pagina della storia patria, proponendo la loro attività letteraria e politica tra il XVIII e il XIX secolo. Dal 7 giugno al primo agosto. Roma, palazzo Madama. Info: www.senato.it.
Il made in Italy al centro di due mostre romane. Il palazzo delle Esposizioni ospiterà la sezione storica che si snoda lungo 50 anni, dal 1961 al 2011, attraverso soggetti, opere, film, musica, suggestioni. Lo spazio della Pelanda a Testaccio sarà dedicato a ricerca, innovazione, nuove tecnologie. Da aprile a novembre. Info: www.palazzoesposizioni.it; www.macro.roma.museum.
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TORINO
VITTORIO EMANUELE II IL RE GALANTUOMO Torino celebra Vittorio Emanuele II di Savoia, passato alla storia come il Re galantuomo. Il profilo del sovrano viene tracciato ripercorrendo le tappe della sua vita, dall’infanzia al matrimonio con Maria Adelaide, al rapporto con i figli, al suo ruolo sulla scena europea. Fino al 10 maggio. Torino, castello di Racconigi, palazzo Reale di Torino e palazzo Chiablese. Info: www.ilcastellodiracconigi.it.
FARE GLI ITALIANI
L’ITALIA SI SPECCHIA
È uno degli eventi centrali piemontesi e rientra nell’iniziativa Esperienza Italia 150 che vedrà protagonista la città di Torino. La mostra intende aiutare i visitatori ad ampliare la loro conoscenza del passato. L’allestimento prevede una cronologia e 13 aree tematiche in cui approfondire temi specifici. Dal 17 marzo al 20 novembre. Torino, Officine grandi riparazioni. Info: www.italia150.it.
L’Italia si specchia è un viaggio nella storia dell’alta moda e dello stile italiano dall’Unità a oggi, dagli abiti della nobiltà ottocentesca, alle creazioni dei grandi stilisti contemporanei. La mostra ripercorre le tappe attraverso le quali la moda è diventata un elemento unificante per gli italiani. Dal 17 marzo all’11 settembre. Torino, Reggia di Venaria reale. Info: www.lavenariareale.it.
FIRENZE
GENOVA
DONNE DEL RISORGIMENTO Le abitudini e il costume femminile dell’800 attraverso la vita di alcune sue celebri protagoniste, da Emilia Toscanelli ad Angelica Palli Bartolomei. I loro salotti, l’uno a Firenze, l’altro a Livorno, furono luoghi di formazione delle idee liberali. Dal 17 marzo a novembre. Firenze, Galleria del costume a palazzo Pitti. Info: www.uffizi.firenze.it.
MILANO
BOLOGNA
ITALIA UNITA
NAPOLEONE III
CRISTIANI D’ITALIA
In occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità, la Galleria d’arte moderna presenta uno spaccato della vita italiana tra tradizione e progresso, mentre il Museo dell’accademia linguistica si focalizzerà sulla rivoluzione dei cavalletti portati “en plein air”. Dal 4 marzo al 25 settembre. Genova, Galleria d’arte moderna e Museo accademia linguistica. Info: www.museidigenova.it.
Napoleone III e l’Italia, la nascita di una nazione 18311870, è realizzata in collaborazione con le civiche raccolte storiche, il Musée de l’armée et des invalides di Parigi e il gruppo Alinari 24 ore. Dopo Milano, la mostra sarà tappa nella capitale francese. Fino a marzo 2011. Milano, museo del Risorgimento. Info: www.museodelrisorgimento.mi.it.
Il progetto espositivo di Cristiani d’Italia, chiese, società, Stato 1861-2011, al palazzo bolognese Re Enzo, si propone di rappresentare i cristiani d’Italia non nella falsa dialettica chiesa stato, ma nella presenza e partecipazione come protagonisti della storia nazionale. Tra questi don Luigi Sturzo. Dal 17 marzo a novembre. Bologna, palazzo Re Enzo. Info: www.comune.bologna.it.
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L’idioma che fece l’Italia A Firenze una tre giorni dedicata alla nostra lingua Napolitano: «Determinante nel processo unitario» di Camilla Mozzetti
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e è vero ritenere una lingua strumento attraverso il quale un gruppo isolato d’individui riesce a sentirsi comunità, è anche vero che «la nostra lingua è stata espressione di un’identità culturale unitaria che ha preceduto la nascita dello stato nazionale». Con queste parole il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha salutato il IX convegno dell’Asli, l’Associazione per la storia della lingua italiana, tenutosi a palazzo Vecchio di Firenze ai primi di dicembre, con il contributo dell’accademia della Crusca, del teatro Goldoni e dell’università di Firenze, dal titolo L’italiano e lo stato nazionale. L’incontro ha avuto il merito di ricordare, alla soglia dei festeggiamenti per i 150 anni dell’unità del nostro paese, come
l’affermarsi di un’idioma unitario nel territorio italiano sia stato espressione dell’esistenza, ben prima dello stato politico, di una civiltà nazionale che, seppur «divisa al suo interno da una popolazione colta, l’unica beneficiaria della neonata lingua, a fronte di una pluralità dei particolarismi idiomatici in uso nel paese» come ha ricordato Napolitano, seppe gettare le basi per l’unità politica e geografica della nazione. Obiettivo del convegno, a cui hanno partecipato alcuni dei più importanti linguisti italiani come Tullio De Mauro, Lucio Villari, Francesco Sabatini e Michele Ainis, è stato quello di valutare il percorso compiuto dalla nostra lingua in un secolo e mezzo di storia comune, la sua tenuta di fronte alle attuali sfide come la globalizzazione, l’integrazione europea, della nuova immigrazione e, soprattutto, l’itanglese. Un convegno che ha saputo «proporre un’approfondita riflessione sul nesso tra storia della lingua italiana e storia dell’Italia unita per trasformare un idioma elitario in lingua scritta e parlata in tutta la penisola», ha aggiunto Napolitano, tenendo a sottolineare come proprio in vista dei festeggiamenti promossi dal Quirinale per i 150 anni di unità nazionale, gli approfondimenti sullo studio della lingua saranno punto di riferimento delle iniziative che la presidenza della Repubblica intende portare avanti per sottolineare il valore dell’unità linguistica del paese. Un bene che supera l’impegno politico mostrandosi punto imprescindibile per la nostra storia comune, cresciuta unitariamente con forze spontanee e capace di esprimersi con linguaggi che ne hanno alimentato la consapevolezza e l’hanno fatta riconoscere anche nel contesto internazionale.
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Palazzo Vecchio o della Signoria sull’omonima piazza a Firenze foto Fabio Rosati A sinistra: Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano foto Ap Lapresse
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Nell’intervento fiorentino di Tullio De Mauro il nesso tra alfabetizzazione e conoscenza della lingua
La nascita della nazione
sui banchi di scuola di Giorgia Bernoni Se le parole sono importanti, la lingua che suggella e racchiude i vocaboli è da considerarsi fondamentale. Anche Tullio De Mauro, tra i più eminenti linguisti e filosofi del linguaggio, ha fornito il suo prezioso contributo partecipando al convegno che si è tenuto a Firenze dal titolo Storia della lingua italiana e storia dell’Italia unita, l’italiano e lo Stato nazionale. Recentemente insignito della laurea Honoris causa all’università Sorbonne nouvelle di Parigi, De Mauro è autore di numerose pubblicazioni di carattere semiologico e ha presieduto la Società linguistica italiana dal 1969 al 1973, e la Società di filosofia del linguaggio dal 1995 al 1997. Dal novembre 2007 dirige la fondazione Maria e Goffredo Bellonci e presiede il comitato direttivo del premio Strega. È lo stesso De Mauro che, con disponibilità, illustra l’importanza del convegno fiorentino e la stretta relazione tra alfabetizzazione scolastica e unità nazionale. «Quella di Storia della lingua italiana è un’associazione di studiosi di relativamente recente costituzione e raccoglie specialisti che si occupano in particolare di storia dell’italiano. In pochi anni ha acquisito grande autorevolezza e il congresso di Firenze è stato dedicato a produrre e mettere a confronto contributi e studi sul tema dell’unificazione linguistica della società italiana che ha fatto seguito all’unità politica del 1861. In quegli anni soltanto una minoranza esigua della popolazione al di fuori della Toscana e di Roma conosceva e praticava l’italiano, nel 1950 questa percentuale già era cresciuta: un terzo della popolazione infatti parlava italiano, ma ancora due terzi parlavano esclusivamente uno dei tanti dialetti. Il cammino nell’età della Repubblica è continuato e oggi quasi il 90 per cento della popolazione italiana parla italiano, anche se per due terzi i dialetti continuano a essere una riserva di espressività da una regione all’altra. La conoscenza dell’italiano si avvia quindi a estendersi alla totalità della popolazione. Questo cammino, e le conseguenze che esso ha avuto sulle strutture della lingua, sul vocabolario e sulla pronuncia, è quello che il congresso ha tematizzato attraverso differenti contributi di rilievo. Parte importante di questo pro-
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Livelli di scolarità della popolazione italiana adulta (percentuale su popolazione del tempo) 1861
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1981
1991
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Laurea Diploma Media inferiore Elementare Senza titolo Analfabeti 78/73
1,0 3,3 5,9 30,6 46,3 12,9
1,3 4,3 9,6 42,3 34,2 8,3
1,8 6,9 14,7 44,3 27,1 5,2
2,8 11,5 23,8 40,6 18,2 3,1
3,8 18,6 30,7 32,2 7,7 2,1
7,55 25,93 39,12 25,41 9,65 1,45
Tabella tratta da Eppur la si muove, atti del convegno di Firenze, 2 dicembre 2010 Una classe negli anni’ 50 A pagina 20: Tullio De Mauro foto Ap Lapresse
cesso lo ha avuto lo sviluppo della scolarità. Gli stati preunitari avevano sistemi scolastici molto deficitari: nel sud ma anche nel nord, con poche eccezioni rappresentate per lo più dalle province e dalle zone austriache in cui dal ‘700 il governo di Maria Teresa d’Austria aveva creato e supportato un sistema scolastico elementare abbastanza efficiente. Per il resto le scuole erano in cattive condizioni. Un impegno, se non prioritario ma certamente importante dello stato d’Italia, è stato proprio quello di diffondere le scuole, anche se a uno sviluppo pieno della scolarità elementare si arriva soltanto con la costituzione del nuovo stato nazionale e con l’impegno a creare una scuola di base della durata di otto anni. Lo sviluppo scolastico era ed è stato importante perché, fuori dalla Toscana e da Roma, dove l’idioma aveva già attecchito tra il ‘500 e il ‘600 per una serie di motivi locali, l’italiano era una lingua che si insegnava solo a scuola, quindi o si andava a scuola o restava sconosciuta. Di qui l’interesse oggettivo del tema che mi è stato chiesto di trattare: i rapporti tra nascita, creazione e strutturazione della scolarità elementare, postelementare e superiore, insieme con lo sviluppo delle conoscenze e delle capacità linguistiche del paese». Al termine del convegno, è stato presentato in anteprima il nuovo Vocabolario del fiorentino contemporaneo: uno strumento importante per comprendere in quale direzione sta andando la lingua italiana. «Una conseguenza – conclude Tullio De Mauro – del grande movimento di espansione dell’uso dell’italiano dalla stragrande maggioranza della popolazione, è che quel che si intravedeva già nell’800 è ora una realtà sotto gli occhi di tutti: ossia che il fiorentino parlato ha delle caratteristiche municipali, vernacolari, molto specifiche che rappresentano una variante popolare, dialettale dell’italiano standard. Di qui l’interesse di studiare il fiorentino contemporaneo nei suoi tratti specifici che in parte andavano esplorati in modo sistematico e scientifico, cosa che appunto questo vocabolario ha fatto».
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Lo sviluppo della scolarità ha avuto un ruolo fondamentale nel processo di unificazione nazionale con l’impegno del neonato stato di diffondere le scuole sul territorio
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LA LINGUA VIVE grazie a Manzoni L’unificazione ha preceduto il formarsi di una coscienza unitaria Lo scrittore pose la questione dell’idioma sul piano sociopolitico di Rosanna Marsico
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l senso di appartenenza a una patria o a una nazione non sarebbe neppure immaginabile senza una lingua comune. Infatti, come scriveva il poeta fiammingo Pieter Jan Renier: «La lingua è il vessillo dei popoli soggetti: chi non ha nessuna lingua, non ha la patria». A differenza di quanto avvenuto negli altri stati europei, in Italia l’unificazione politico-amministrativa è stata messa in atto prima che si formasse una coscienza nazionale collettiva, a tal punto che il nuovo stato unitario nasce senza una lingua parlata indistintamente da tutti gli italiani. Fino alla seconda metà dell’Ottocento l’unico modello di italiano comune era stato quello letterario, riservato all’uso scritto, utilizzato da una ristretta élite di letterati e intellettuali e, conseguentemente, poco adatto alla comunicazione quotidiana. Proprio l’assenza di una norma comune, la profonda frattura tra scritto e parlato e la conseguente scarsezza delle possibilità espressive hanno indotto Alessandro Manzoni a intraprendere un iter di riflessioni linguistiche lungo e con continui mutamenti d’orizzonte, nel costante tentativo di trasformare una sterile disputa tra letterati in un problema civile di più ampio respiro e di
contribuire fattivamente alla definizione di un modello di lingua nazionale. Attraverso le sue teorie e, ancor più, mediante la prosa colloquiale semplice ed efficace dei Promessi sposi, lo scrittore milanese ha avuto il merito di spostare la “questione della lingua” su un terreno sociale e politico, dando pratica attuazione al suo ideale di lingua “viva e vera” parlata da “una gente che libera tutta, o fia serva tra l’Alpe ed il mare; una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” (marzo 1821). In un contesto sociopolitico come quello italiano, caratterizzato da una plurisecolare frammentarietà culturale e idiomatica, Manzoni indicava il modello linguistico di maggior prestigio, cui le varie parlate locali dovevano uniformarsi, nel parlato vivo e colto di Firenze, città che più di ogni altra vedeva una sostanziale contiguità tra lingua popolare e lingua colta. La lingua di cui parla il Manzoni è un bene di tutti, un unicum inscindibile, un codice comune, duttile e non compromesso da convenzioni accademiche, che doveva adeguarsi ai bisogni comunicativi dell’intera società dei parlanti e alle esigenze dello stato moderno appena costituito. Dovendo essere unificata “in tutti gli ordini del popolo” e improntata alla “buona pronuncia”, poteva essere diffusa solo attraverso una capillare politica linguistica, messa in atto attra-
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Francesco Hayez Ritratto di Alessandro Manzoni 1841 A sinistra: frontespizio di un’edizione ottocentesca dei Promessi sposi
verso il reclutamento di insegnanti toscani nelle scuole e la compilazione di un vocabolario del parlato fiorentino. Con tali premesse la soluzione manzoniana consentiva di conciliare lingua viva, lingua letteraria ed esigenze stilistiche; triangolo funzionalissimo per i letterati, ma – come ha poi dimostrato la storia – non altrettanto funzionale per gli italiani. Infatti, proprio la volontà di trasformare l’idioma locale di una città nel “linguaggio vivo e vero” di una nazione intera ha rappresentato l’effettiva debolezza della teoria manzoniana: imporre a tutti gli italiani una lingua radicata in un contesto sociale, territoriale e culturale ben preciso, significava non tenere conto delle diversità storicoculturali delle singole regioni e del ricco patrimonio di tradizioni locali sedimentato nella lingua. Gli sviluppi linguistici del secolo successivo hanno confermato questa sostanziale debolezza, dimostrando che l’unificazione della lingua italiana non poteva prescindere dall’apporto congiunto delle forze culturali delle varie regioni e che, in ogni caso, questo processo di omogeneizzazione doveva essere il risultato della maturazione collettiva e popolare e della piena consapevolezza di appartenenza ad un unico destino storico.
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eventi I 100 volumi
CENTO LIBRI PER MILLE ANNI
Salimbene De Adam Claudia Sebastiana Nobili
La poesia dalle origini al Trecento Nino Borsellino La scoperta di nuovi mondi Furio Colombo Le lingue degli italiani Gianluigi Beccaria Cronisti medievali Giuseppe Edoardo Sansone La prosa del Due e del Trecento Corrado Bologna Giovanni Villani Giuseppe Edoardo Sansone Dante Alighieri Mario Luzi Francesco Petrarca Edoardo Sanguineti Giovanni Boccaccio Nino Borsellino Leon Battista Alberti Roberto Cardini La prosa dell’Umanesimo Francesco Tateo Lorenzo, Poliziano, Sannazaro nonché Poggio e Pontano Francesco Tateo Matteo Maria Boiardo Gesualdo Bufalino Luigi Pulci e quattordici Cantari Ermanno Cavazzoni Novellieri del Rinascimento Michele Prisco Gli scrittori d’arte Ferruccio Ulivi Ludovico Ariosto Gianni Celati Francesco Berni Raffaele Nigro Burchiello e i Burleschi Raffaele Nigro Niccolò Machiavelli storico e politico Giuliano Procacci La lirica rinascimentale Roberto Gigliucci Francesco Guicciardini Giuseppe Pontiggia L’arte della conversazione Floriana Calitti Teofilo Folengo e i Macaronici Giulio Ferroni
IL PIACERE DELLA LETTURA IL VALORE DELLA NAZIONE di Clara Sabelli
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Se è vero quanto si dice in quasi tutto il mondo e cioè che sono in lingua italiana molte delle pagine più belle scritte nel secondo millennio, non possiamo non sentire il dovere di conservare in splendida forma una così preziosa eredità (Walter Pedullà) 24
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Alcuni volumi della collana
Pietro Aretino Carlo Serafini e Luciana Zampolli Torquato Tasso Achille Tartaro Giordano Bruno Michele Ciliberto Il trattato del Quattro e Cinquecento Corrado Bologna Le autobiografie Marziano Guglielminetti Tommaso Campanella Germana Ernst Galileo Galilei Paolo Rossi Paolo Sarpi Corrado Vivanti Giambattista Basile Saverio Strati Gli epistolari Milo De Angelis Il Barocco, Marino e la poesia del Seicento Marzio Pieri Prosatori e narratori barocchi Giorgio Bàrberi Squarotti Manieristi e Irregolari del Cinquecento Michele Mari
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La Commedia dell’arte Cesare Molinari
Con Cento libri per mille anni l’Istituto poligrafico e Zecca dello stato ha dato vita a un ambizioso progetto editoriale curato da Walter Pedullà: impegnare i massimi studiosi italiani d’oggi in un lavoro di selezione e interpretazione dell’immenso corpus di testi letterari, scientifici, teatrali, filosofici, prodotti nei mille e più anni di storia della nostra lingua, per realizzare un’imperitura Biblioteca della cultura italiana: un’esclusiva raccolta di volumi da leggere dalla prima all’ultima pagina. Il Poligrafico e Zecca dello stato ha da sempre il delicato compito di produrre tutti i “valori” della nostra Repubblica, dalle monete alle carte valori, ai documenti ufficiali, tutti valori tangibili. Aver realizzato un’opera che racchiude il valore più grande e durevole del nostro paese, la sua cultura scritta e parlata, che si è venuta formando dai dialetti fino alla lingua dello stato unitario è più che una grande iniziativa editoriale: si tratta di una operazione di conservazione dei beni culturali di enorme significato nazionale e internazionale. Ciò che l’eccezionale collezione mette in evidenza, mentre ci aiuta a riscoprire le nostre radici, è la straordinaria e inalterata bellezza di un patrimonio culturale che va protetto, illustrato e trasmesso ai lettori di oggi e di domani. Il professor Pedullà con un comitato scientifico d’eccezione, da Attilio Bertolucci a Luigi Malerba, da Giovanni Macchia a Rosario Villari, da Nino Borsellino ad Aurelio Roncaglia ha selezionato i cento temi cui intitolare i volumi. Una collana “unica” piena di volumi “unici”. Nessun altro libro finora pubblicato può essere infatti identificato con uno dei cento libri. La cura dei singoli volumi è stata affidata a cento fra i migliori poeti, narratori, saggisti d’oggi che sono stati incaricati di scegliere “il meglio” di un autore o di un tema. E sono più di mille gli autori e i testi presenti con componimenti brevi e con capitoli
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La Letteratura popolare Milva Maria Cappellini e Raffaele Crovi Scrittori politici dell’età barocca Rosario Villari La Prosa scientifica Silvia Tamburini e Carlo Bernardini Traiano Boccalini Guido Baldassarri Prosatori e narratori del Settecento Andrea Battistini Il teatro dal Medioevo all’illuminismo Maurizio Scaparro Dall’Arcadia al Parini Roberto Roversi Giambattista Vico Fulvio Tessitore e Manuela Sanna Pietro Metastasio Franca Angelini e Daniele Del Giudice Carlo Goldoni Renzo Rosso Carlo Gozzi Ferdinando Taviani
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Vittorio Alfieri Franco Ferrucci Illuministi e riformatori Lucio Villari Ferdinando Galiani Michele Mari La poesia dialettale Maurizio Cucchi La letteratura proibita Giorgio Patrizi Dai Giacobini a Cuoco Alberto Merola L’epica classica Luigi Enrico Rossi Il pensiero liberale nell’età del Risorgimento Valerio Castronovo Ugo Foscolo Nanni Balestrini Il Romanticismo Giuseppe Fasano Poeti neoclassici dell’Ottocento Annamaria Andreoli Alessandro Manzoni Luca Canali
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una specifica introduzione del curatore, da una ricca serie di apparati (annotazioni dei passi più complessi, bibliografie e antologie critiche, biografie e cronologie degli autori, traduzioni - nei casi di opere dialettali) che consentono anche al lettore meno esperto di capire e scoprire l’universo culturale e personale di ciascun autore. Ci sono tutti i libri da cui non può prescindere chi vuole conoscere la poesia, la narrativa, il teatro, la saggistica, la storiografia, la filosofia, il pensiero politico degli italiani, nonché i cosiddetti generi minori. Oltre a circa quaranta scrittori (i cosiddetti maggiori) cui dedicare un intero volume, sono stati scelti i raggruppamenti entro i quali far convivere autori affini, senza sacrificare le loro peculiarità individuali. Da Fra Salimbene – del quale per la prima volta nella storia dell’editoria italiana si pubblica con traduzione a fronte il testo della Cronica – a Boccaccio, da Basile a Manzoni, da Verga a De Roberto. Alcuni volumi, come ad esempio quello su Ippolito Nievo, presentano, oltre alle opere principali dell’autore, versioni, spesso integrali, di opere in qualche modo ad essi correlate o alle quali si sono ispirati. Alcuni volumi antologici raccolgono scritti memorabili di autori – dal Rinascimento al Barocco fino all’Ottocento – che non sono ritenuti tra i maggiori ma che hanno elaborato testi di grande bellezza non ancora logorati dal tempo, che appaiono ancora di grande attualità: opere mirabili che documentano il percorso compiuto dalla narrativa italiana alla ricerca di un proprio linguaggio che aderisse ai tempi, alle idee e alle vicende del nostro popolo. Ci sono, poi, quelle opere e quegli autori che potremmo definire i “massimi sistemi”, cioè che rappresentano la più elevata produzione, poetica ma non solo, della letteratura italiana. Questi volumi ci permettono di percorrere l’evoluzione della lingua italiana
Carlo Porta Maurizio Cucchi Da sinistra: Francesco Solimeno ritratto di Giovan Battista Vico XVIII sec.
Il pensiero democratico e socialista dell’Ottocento Zeffiro Ciuffoletti Giacomo Leopardi Alfredo Giuliani
Giovanni Verga
I libretti d’opera Marzio Pieri
Attilio Ferrazzi Giacomo Leopardi 1820
Giuseppe Gioachino Belli Marcello Teodonio Ippolito Nievo Giampaolo Rugarli
Luigi Pirandello
Dagli Scapigliati ai Crepuscolari Gabriella Palli Baroni Carlo Cattaneo e il federalismo Luigi Ambrosoli Francesco De Sanctis Carlo Muscetta Giovanni Verga Simona Cigliana Narratori dell’Ottocento Cesare De Michelis Carlo Dossi Alberto Arbasino Niccolò Tommaseo Giovanni Raboni e Gino Tellini
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a partire dalla Divina Commedia di Dante al Dolce stil novo, dalla Gerusalemme liberata del Tasso ai Sepolcri del Foscolo, dalla produzione dialettale del Porta o del Belli fino a Carducci e Pascoli, i Padri della nostra poesia. Ma la grandezza della letteratura italiana la si misura non soltanto sui suoi più celebri autori e sui generi letterari più frequentati, bensì anche su scrittori e generi ritenuti, a torto, “minori”: gli epistolari, le autobiografie, la poesia dialettale. Sotto il titolo la Bibbia dei poveri, ad esempio, uno dei massimi narratori d’oggi, Luigi Malerba, ha raccolto un ricchissimo corpus di proverbi di tutte le regioni d’Italia. Non potevano mancare poi volumi sul teatro italiano, ad offrire un panorama ricchissimo a partire dal Medioevo fino ai nostri giorni: dall’Aretino a Metastasio, da Goldoni a Svevo e Pirandello; senza dimenticare Machiavelli, Ariosto, Manzoni, Verga, Giacosa, D’Annunzio, Svevo, Petrolini. Per quanto riguarda i volumi monografici e antologici dedicati ad autori contemporanei, sono stati individuati alcuni filoni di pensiero, attraverso i quali vengono presentati gli ultimi duecento anni di letteratura italiana. Giuseppe Bonaviri ha selezionato uno dei due filoni centrali della letteratura italiana, quello fantastico, che comprende tra gli altri Bontempelli, Savinio, Gadda; mentre Silvio Ramat ha sondato il filone del realismo ottocentesco nella transizione dal verismo al romanzo moderno. Gianni Vattimo ha antologizzato il meglio del pensiero italiano dell’ultimo secolo, dall’idealismo al marxismo, dalla fenomenologia al pensiero debole. Non è certo possibile in poche righe trattare del contenuto di tutti i Cento libri: questa è, evidentemente, una summa; ci scusiamo con quanti non abbiamo potuto nominare e rimandiamo all’elenco completo degli autori e dei titoli contenuto in queste pagine.
I Memorialisti del XIX secolo Luciana Martinelli Giosuè Carducci Sebastiano Vassalli Storici dell’Ottocento Furio Diaz Michele Amari Mauro Moretti Federico De Roberto Dacia Maraini Favola, fiaba, fantastico Giuseppe Bonaviri Le scrittrici dell’Ottocento Francesca Sanvitale Il Teatro moderno Franco Cordelli Giovanni Pascoli Elio Pagliarani Viaggiatori dell’Ottocento e del Novecento Lorenzo Mondo Romanzieri fra Realismo e Decadenza Silvio Ramat Italo Svevo Walter Pedullà Luigi Pirandello Renato Barilli Il saggio del ‘900 Walter Pedullà e Giorgio Patrizi I pensatori del ‘900 Giorgio Straniero Federigo Tozzi Giuliano Gramigna I moralisti del Novecento Renato Minore La poesia civile e politica Mario Lunetta Narratori del Novecento Walter Pedullà Giocosi e umoristi satirici Giuseppe Cassieri La critica militante Paolo Febbraro
La collana Cento libri per mille anni L’opera diretta da Walter Pedullà non è una semplice raccolta antologica, ma è stata ideata come un compendio della letteratura nazionale, dei suoi autori e delle sue correnti visto alla luce dell’interpretazione critica più attuale. Una raccolta unica, presentata in una forma preziosa con copertina rigida e dorso tondo con impressioni in oro sul piatto e sul dorso, composta da 100 volumi, che testimonia la straordinaria bellezza del nostro patrimonio culturale. Il valore dell’opera è confermata dall’alto patronato della presidenza della Repubblica, e dal patrocinio della presidenza del Consiglio dei ministri e della Commissione nazionale italiana Unesco. Info: www.editalia.it.
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Gli innovatori Francesco Leonetti e Eleonora Fiorani Teoria della letteratura Alfonso Berardinelli Poesia, prosa e teatro del Novecento Elio Pagliarani e Walter Pedullà Proverbi Italiani Luigi Malerba
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le interviste possibili PADRI DELLA PATRIA/2 GIUSEPPE MAZZINI
l raggio sbuca dalle nubi, invade l’aiole, lambisce le croci, taglia il viale. S’affaccia nel mausoleo, illumina le figure sotto al colonnato dorico. Quella al centro, in marsina nera, spicca al mezzo dell’altre. Improvvisa, la nota d’un chitarrino si leva dal gruppo, risa femminili invadono l’aria, a far eco alla voce del maestro. Il ghiaietto del viale crocchia sotto le scarpe tirate a lucido, il gruppo s’apre e scompare, si scioglie all’apparire del nuovo venuto. Si riconoscono tra l’altre Giuditta, Anna, Maria Maddalena e il chiocciare di un’inglesina, prima che s’allontanino. Resta, nel biancore dei marmi, la nera figura al centro della tomba monumentale. Assorta, quasi sospesa nell’atrio, volge la testa canuta, chitarra in mano. Il sole alluma la scritta sul marmo: “Il corpo a Genova, il nome ai secoli, l’anima all’umanità”. Buondì maestro, ma quella era... «Giovanna Carlyle, certo. Non avete punto notato i suoi dolci boccoli?». Il volto allampanato di Giuseppe Mazzini s’apre in un largo sorriso. Non vorrei aver disturbato, magari torno in un altro momento… «Non vi preoccupate, le signore s’apparecchiano a una breve passeggiata. Volete entrare?». No, se non vi spiace preferirei restare qua, all’aperto. «Come credete, anch’io trovo questa mia ultima dimora un poco tronfia, il buon Gaetano Grasso vi ha calcato la mano. In compenso vi si gode una bella vista. Venite, sediamoci qua, si può rimirare anco uno spicchio di mare». Il fondatore della Giovine Italia, l’uomo ricercato come terrorista da ogni polizia d’Europa, ai suoi tempi, si sistema azzimato sulla seggiola di bambù, fronte all’azzurro. Lo sguardo pare perdersi in lontananza, pizzica le corde della chitarra in grembo, accenna un vago sorriso. Vi trovo di buonumore, oltre che in bella compagnia. Altro che “il volto che giammai non rise”, per dirla come Carducci. «Ah! Poeti, intellettuali. Per tutta la vita, e anco dai posteri, mi si disse un fior d’aristocratico, sprezzante di tutto ciò non fosse cultura, intelligenza e rigore di pensiero. Ah! Come poco indovinano gli uomini le condizioni dell’anima altrui, se non la illuminano, ed è raro, coi getti d’un amore profondo». In effetti, molti non v’amano. C’è chi vi definisce un pazzo utopista, un fallito di genio, al più un profeta un po’ spostato. «Asserzioni riecheggiate dai molti vili e dai moltissimi stolti che tendono a calunniare non dirò i vivi, che importa a noi di siffatte accuse, ma la fama di martiri che gl’Italiani non dovrebbero nominare, se non prostrati, adorando. Altri m’han pareggiato a Socrate, al Cristo.
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IL MAESTRO DEL VERO Colloquio col fondatore della Giovine Italia. Che, oggi come allora, dichiara: «Ciò che importa è moralizzare il Paese» di Maurizio Zuccari
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Non scrivete? Italiani mettetelo maiuscolo, mi raccomando». Se non vi pare eccessivo… Comunque gl’Italiani vi vogliono bene, vi stanno facendo un bel museo a Pisa, la casa di via Lomellini, a Genova, sarà ristrutturata, sarà pronta per il 150esimo dell’unità che tanto agognava. «Temo quel ch’ei, al ministerio, potran fare della bella casetta natìa, mi par già di sentire le strida della mia povera mamma, Maria. Quanto a me, sto bene qui a Staglieno, non vedo perché dovermi movere. Alla mia età, poi. Già viaggiai bastantemente in vita, costretto all’esilio. Ma non vorrei parlare di codesti trastulli, buoni solo a spender palanche, come si dice qui». Beh, pure voi ne sperperaste di quattrini, in vita, per il trionfo dell’Idea. E con che risultati: Ramorino si giocò i soldi per l’insurrezione, Garibaldi spese una fortuna a offrir fojette nelle bettole di Genova per ritrovarsi solo al porto, dovette fuggire. Molti altri giovani, meno fortunati, finirono nelle patrie galere, davanti ai plotoni d’esecuzione, massacrati come i fratelli Bandiera, Pisacane. Tutti sacrifici sterili di quelli considerati terroristi dai governi d’allora, briganti. «Ben sapete come la santa vita di quei forti sacrificata alla causa provocò in me la tempesta del dubbio. A parole chiare, risposta chiara: l’errore è sventura da compiangersi, ma conoscere la verità e non uniformarvi le azioni, è delitto che cielo e terra condannano. Il differire di tempo in tempo sui modi d’antivedere l’avvenire non ci toglieva d’essere intesi sulle condizioni presenti e sulla scelta dei rimedi, sul modo che abbiamo tutti di serbar fede al vero. Com’avrei potuto affascinare per quarant’anni ogni ondata di gioventù se avessi predicato errore, s’io non fossi stato apo-
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Giuseppe Mazzini ritratto da Domenico Lama, con l’autore Elaborazione grafica di Gaia Toscano
stolo di verità? Nelle imprese alle quali noi lavorammo, non certo per riparto di gloria, volevamo la patria, una e rapidamente. Ora i frutti di quell’impresa son vostri, ma la patria non è più salva d’allora». Beh, oggi la patria… «Scrivete: noi diremo, come un tempo, il vero all’Italia. Oggi, ciò che importa anzitutto è moralizzare il Paese. Sorgeranno altri a continuare l’opera nostra. Quando il tempo è maturo pel compimento d’una missione, Dio suscita dalla prigione o dalla sepoltura d’un uomo un altr’uomo più potente di lui. E un governo nel quale un senso di rovina imminente signoreggia ogni uomo, dal ministro all’ultimo birro, non regge a un urto dato con energia. Un grido s’innalza dal core dell’umanità per dire a codesta monarchia: lasciate passare la giustizia di Dio. E chi si frappone, si dichiara proteggitore del male». Ecco, gli atteggiamenti per i quali Marx vi sfotteva, dicendovi teopompo. Pure Bakunin vi criticò aspramente, per l’avallo dato alla repressione dei Comunardi. «Non mi si parli di quei senzadio in questo luogo sacro, delle loro credenze consunte e tiranniche. Piuttosto, io voglio parlarvi dei vostri doveri». Che doveri? «Voglio parlarvi, come il core mi detta, delle cose più sante, che noi conosciamo: di Dio, dell’umanità, della patria, della famiglia. Ascoltatemi con amore, com’io vi parlerò con amore. La mia parola è parola di convinzione maturata da lunghi anni di dolori e di osservazioni e di studi. Uditemi dunque fraternamente». E va bene... «Dunque, dell’umanità già dissi. Una volta di nuovo redenta, l’Italia potrà dare il via a una terza civiltà formata dall’associazione di liberi popoli. Ma come non si rimuta l’uomo imbiancandone o indorandone l’abitazione, così non si rigenerano i popoli
insegnando loro l’idolatria dei piaceri; non si spingono al sacrifizio parlando ad essi di ricompense materiali. Il mondo non è uno spettacolo, ma un’arena di battaglia. Bisogna tornare a educare il popolo all’amor di patria, col pensiero e l’azione, come vi dissi. L’educazione è il pane dell’anima». Dite bene, maestro, ma la patria... «La patria è la fede nella patria. Dio che creandola sorrise sovr’essa, le assegnò per confine le due più sublimi cose ch’ei ponesse in Europa, simboli dell’eterna forza e dell’eterno moto, l’Alpi e il mare. Ora, la vita è come l’onda del mare: si spoglia dell’amaro che la invade, levandosi in alto. La vita è missione, e quindi il dovere è la sua legge suprema. Noi, o meglio voi tutti, non siamo che una missione incarnata. Adempiamola, come se non esistesse che Dio e la nostra coscienza». Sapete come direbbe Woody Allen? Dio è morto, Marx pure e io mi sento troppo bene... «Mai conobbi codesto signore, eppoi non bestemmiate! Disperazione e ateismo sono una stessa cosa. Colui che può negare Dio davanti a una notte stellata, davanti alla sepoltura de’ suoi più cari, davanti al martirio, è grandemente infelice o grandemente colpevole. Il primo ateo fu senz’alcun dubbio un uomo che aveva celato un delitto agli altri uomini e cercava, negando Dio, liberarsi dall’unico testimonio a cui non poteva celarlo e soffocare il rimorso che lo tormentava». Se lo dite voi. E la famiglia? «La famiglia è la patria del core». Un fruscìo, poco discosto. Carolina e Margherita sostano all’ombra d’un platano. «Ora vi lascio, queste mie care amiche m’aspettano. Sapete, da queste parti si dice: meschin chi ghe saiâ quande a guersa saiâ tappâ». Prego? «Poveretto chi sarà vivo quando la fica sarà chiusa. Buonasera».
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L’ALTRO RINASCIMENTO ARRIVA A ROMA Per la prima volta nella città dei papi in mostra alla galleria Borghese il maestro tedesco ritrattista di Lutero e dei potenti, artefice di celebri nudi di Fritz Baumgart*
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ccanto al Dürer e Hans Holbein il giovane, Lucas Cranach era conosciuto ed apprezzato già durante la sua vita anche al di fuori dei confini della Germania ed ha mantenuto sino ad oggi, specialmente all’estero, la fama di essere uno dei tre astri della pittura antica tedesca. Già nel 1508 il giurista Cristofh Scheurl di Norimberga, che dal 1507 al 1512 insegnò all’università di Wittenberg, disse in un discorso indirizzandosi a lui: «In verità, se si prescinde da Albrecht Dürer, unico nel suo genere e col quale nessuno può misurarsi, secondo il mio parere solo a te il nostro secolo può dare il primato nella pittura». Osservazione ardita in quel momento, se si considera che solo da poco più di tre anni il Cranach era pittore di corte dell’Elettore di Sassonia. L’influenza esercitata dal Dürer, la più vasta fra tutte si basava principalmente sulle sue stampe – silografie, calcografie, acqueforti – che giungevano ovunque; quella di Holbein sui ritratti eseguiti in Inghilterra quale pittore di corte di Enrico VIII; il Cranach invece era amato per particolari soggetti del suo periodo creativo più tardo, posteriore al 1510, soggetti che sotto vari pretesti – Eva, Venere, Giudizio di Paride, Lucrezia, Fonte della giovinezza, Età dell’oro e dell’argento – gli permettevano di rappresentare gracili nudi femminili, del tardo gotico manierato, non propriamente sensuali eppure di effetto conturbante. Ciò che a partire dal Sedicesimo secolo giungeva di lui in Italia e in Francia e ha formato e mantenuto la sua fama, era costituito principalmente da raffigura-
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Lucas Cranach Venere, 1532 a pagina 30 e 31: Caccia in onore di Ferdinando I, 1545 a pagina 33, da sinistra: L’artista ritratto dal figlio 1550 Lucas Cranach ritratto di Martin Lutero 1529
La mostra Lucas Cranach, l’altro Rinascimento Un altro Rinascimento, nato e sviluppatosi fuori dai confini italiani. Azzeccato il sottotitolo della rassegna su Lucas Cranach (1472-1553), quinto appuntamento della serie Dieci grandi mostre alla galleria Borghese. Dopo Raffaello, Canova, Correggio, Caravaggio/Bacon, è il turno di un artista straniero. A cura di Anna Coliva e Bernard Aikema, l’esposizione presenta una figura finora in parte trascurata dalla critica nostrana: uno dei protagonisti del Rinascimento tedesco, vissuto nel ’500, amico di Martin Lutero e pittore di corte. Presentate circa 45 opere fra le più significative, provenienti da collezioni pubbliche e private, europee e statunitensi. Inoltre, circa dieci xilografie dimostrano l’incredibile virtuosità e inventività di Cranach nel disegno. Fino al 13 febbraio, Galleria Borghese, Roma. Info: www.mostracranach.it; 0632810.
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zioni di questo genere con personcine nude, né donne né fanciulle, innocenti e ingenue, e nello stesso tempo affascinanti e corrotte. Forse era anche il fascino di queste forme dall’effetto addirittura anacronistico, in contrasto assoluto con l’ideale di bellezza ormai incontrastato del Rinascimento, a renderle particolarmente seducenti. Fu così che il non più giovane pittore di corte degli Elettori della Sassonia si cattivò ovunque il favore dei collezionisti. Inoltre interessavano e divertivano i suoi quadri di costume su soggetti amorosi: il vecchio innamorato, la vecchia pazza d’amore, ecc. che intendevano farsi beffe della debolezza della natura umana di fronte alla potenza dell’eros ed essere moralizzanti, senza darne tuttavia affatto l’impressione. Nel campo del figurativo fu questa quindi anche per i tedeschi l’immagine che essi ebbero del Cranach fino alla fine del Diciannovesinmo secolo, resa più ampia e varia dai ritratti della stessa epoca tarda: principalmente incantavano quelli femminili, col loro carattere di preziosa eleganza da mettere in raffronto alle gracili figurine nude. Inoltre, la sua notorietà, stranamente non legata al mondo favorito dei suoi quadri, si basava sulla sua amicizia con Martin Lutero, sulla sua fama di ritrattista del Riformatore. Infatti la fama di Lutero viva ancora oggi è stata fissata dai ritratti del Cranach e della sua bottega; lo stesso può dirsi anche per alcuni degli altri riformatori della sua cerchia. Come pittore religioso del Protestantesimo egli non ebbe invece un ruolo importante nella coscienza storica […] Considerare mancanza di coscienza per avidità di guadagno il
fatto che il Cranach già protestante abbia eseguito quadri ancora cattolici sarebbe sbagliato, sarebbe interpretare il fatto dal punto di vista di un’epoca molto più tarda, giacché agli inizi del movimento riformatore e specialmente per la cerchia di Lutero, nemico degli iconoclasti, non si deve tirare una linea di separazione troppo netta fra i due campi religiosi. Molto grande era ancora il potere del mondo religioso delle immagini, cui la gente era da tempo abituata e che aveva dominato ininterrottamente fino al 1520. La problematica del “caso” Cranach non è qui, bensì nella trasformazione artistica – indipendente dalla Riforma – da un’espressione pittorica e grafica di altissima emozione estatica, che può essere annoverata fra i momenti culminanti dell’arte dell’epoca düreriana, ad una forma di fredda preziosità dal carattere specificamente mondano e manierato […] Il “caso” Cranach mostra anche un’altra problematica: come pittore e grafico egli fa la sua comparsa solo a trent’anni, in un’età dunque in cui tutti i suoi contemporanei, ad eccezione del Grünewald, avevano già dietro di loro una produzione considerevole. Presso chi abbia imparato il mestiere, che cosa abbia fatto dopo, che corso prendesse la sua evoluzione, tutto ciò è ancora completamente oscuro. Non esiste neppure il più piccolo indizio di opere da lui eseguite prima dei trent’anni. Forse un giorno, come spesso avviene, occhi più giovani dei nostri ne scopriranno le tracce.
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*Estratto da Lucas Cranach, Edizioni La nuova Italia, Firenze, 1970
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grandi mostre ANTONIO LIGABUE
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L’arte come riscatto Il “buon selvaggio” della pittura italiana propone un linguaggio figurativo che parla di cose semplici a persone semplici di Vittorio Sgarbi*
Ligabue incarna quel genio artistico che, nella sua assoluta istintività, nella sua arcaica complicità con la natura, è in grado di inserirsi a pieno titolo nell’arte contemporanea, proponendo un linguaggio figurativo che parla di cose semplici a persone altrettanto semplici. Ligabue è il perfetto artista popolare che non può non raccogliere i favori di Zavattini e di coloro che trovano in lui un sicuro punto di riferimento nella cultura italiana del dopoguerra. Ed è una “popolarità”, quella di Ligabue, che supera anche le contrapposizioni sociali e politiche che esistono tra gli osservatori delle sue opere. Ligabue, genio popolare, viene conosciuto attraverso una combinazione nella quale la vicenda autobiografica e la malattia mentale svolgono un ruolo decisivo. Si è già detto come simili interpretazioni di Ligabue fossero condizionate storicamente e ideologicamente. Al momento della sua scoperta, che ha visto coinvolti personalità quali Marino Mazzacurati e Cesare Zavattini, il Ligabue “poeta contadino” rispondeva ancora a istanze in linea con il concetto di arte “popolare” caro al Neorealismo, e più in generale alla cultura della Sinistra politica. Anche la grande riscoperta popolare di
Ligabue, avvenuta alla fine degli anni Settanta e introdotta dallo sceneggiato Rai di Salvatore Nocita (1977), ha avuto motivazioni ideologiche: Ligabue diventa l’emblema del riscatto dalla malattia mentale proprio nel momento in cui Franco Basaglia, padre dell’“antipsichiatria” italiana, dopo l’esperienza all’ospedale psichiatrico di Trieste innesta un meccanismo a catena che di lì a poco avrebbe conseguito anche l’avallo della legge. Agli occhi dell’opinione pubblica, il recupero di Ligabue finisce per inserirsi in una più complessiva battaglia civile che, per la prima volta in Italia, riconosce la dignità del malato di mente. Nessuno, meglio di Ligabue, avrebbe potuto simbolizzare questo progresso, importante nell’evoluzione della società italiana di quegli anni. Nell’uno come nell’altro caso, il Ligabue “genio contadino” e “riscatto dalla malattia mentale” continuava a essere configurato in modo straordinario, ossia come un caso assolutamente fuori dalla norma. Ciò ha reso difficile una sua interpretazione critica che non fosse legata a letture estemporanee o al ricorso a luoghi comuni, anche terminologici, che non erano in grado di attribuirgli un’immagine meno “fumosa” e più
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terrena. Oggi, però, possiamo dire di avere un Ligabue più concreto di quanto non risultasse in passato. Un artista in cui l’istinto gioca certamente un ruolo di notevole rilievo, ma che non è certo privo di quella che viene chiamata la “ragione dell’arte”, cosciente di avere una base di formazione, per quanto empirica e non colta, e di poter perfezionare la propria sensibilità espressiva avvertendo nuove sollecitazioni, così come avviene durante la sua vita artistica. In questo senso, Ligabue va considerato un autonomo continuatore del filone espressionista italiano, anche se naturalmente lontano dalle cerchie intellettuali che maggiormente lo hanno promosso. Sappiamo tutti che, come Van Gogh, del quale può considerarsi quasi una variante “padana”, Ligabue ha avuto gravi turbe psichiche tanto da sfiorare in più di un’occasione la pazzia, condizione che mi ha portato a metterlo in grande rilievo nella mostra Arte genio e follia. Il suo dissociato stato mentale lo portò all’isolamento e all’emarginazione sociale, acuendone non poco le sofferenze. È negli autoritratti dove esprime il proprio disagio assolutamente autentico, il proprio malessere: cerca di battersi la testa con un sasso, cerca di scacciare gli spiriti maligni. Qualche volta è più tranquillo e va in motocicletta, qualche volta più solenne è davanti a una tela, molto spesso è a mezzo busto con lo sguardo allucinato o umiliato. In questa impressionante visione di dolore, una sola consolazione, un solo fattore di riscatto: l’arte. È l’arte come era avvenuto per Van Gogh (nell’ammirare gli autoritratti di Ligabue viene difficile liberarsi dalla suggestione anche fisiognomica del grande Van Gogh) a concedere il riscatto da una condizione che lo spietato pragmatismo della società borghese continuava a ritenere malattia da rigettare in toto. In questi ultimi anni si è iniziato a pensare a Ligabue, e il film dossier di Salvatore Nocita ne è testimonianza, come a un artista che non è frutto inevitabile dei suoi problemi psichiatrici; un Ligabue di cui certamente non si negano i tormenti, dalla vita fatta di enormi sofferenze, ma che non creava certo le sue opere in stato di trance, e che anzi riusciva a trovare nella creazione artistica un momento, un freno alla travolgente forza degli impulsi interiori, di pace al dominio del kaos universale, in continuo rapporto dialettico con la natura e la società. Sarà questo Ligabue, recuperato a una dimensione interpretativa più credibile, il punto di partenza per i progressi critici degli anni a venire.
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Riusciva a trovare nella creazione artistica un freno alla travolgente forza degli impulsi interiori
*Testo in catalogo, cortesia Augusto Agosta Tota editore, Parma
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In alto: Antonio Ligabue Tigre, s. d. A pagina 35: Autoritratto con cane 1957
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La mostra La lotta per la vita In programma fino al 16 gennaio, alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti a Firenze, la rassegna dedicata ad Antonio Ligabue (Zurigo, 18 dicembre 1899 – Gualtieri, 27 maggio 1965), dal titolo Ruggito, Antonio Ligabue: la lotta per la vita. A cura di Augusto Agosta Tota, la mostra è incentrata sulla tematica degli animali, in particolare belve colte in scene di lotta e aggressione e numerosi autoritratti in cui l’artista mostra se stesso senza nascondere il dolore fisico e psichico. Catalogo Augusto Agosta Tota editore con testi di Vittorio Sgarbi, Marzio Dall’Acqua e Pascal Bonafoux. Info: www.csaligabue.it.
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grandi mostre PABLO ECHAURREN
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Dio salvato dai pupazzi Alla fondazione Roma una retrospettiva sull’eclettico artista Il vincitore dello Strega: «Un amico che vuole solo decorare il mondo» di Antonio Pennacchi*
Dice: “Ma che significano quei pupazzetti di Echaurren?”. Ah, e lo chiedi a me? Cosa vuoi che ne sappia io? Io di arti figurative non capisco niente. Vado solo a “mi piace” o “non mi piace” e in tutta la storia dell’arte gli unici che mi siano sempre piaciuti senza riserve – ma non ne so bene il perché – sono Hopper, Salvador Dalí e le torri di Babele dei Bruegel. Prima mi piaceva anche De Chirico – fin che lo conoscevo solo dalle riproduzioni a stampa o sopra i libri – ma quando la conoscenza s’è fatta più intima, dopo che sono andato a una mostra e ho visto i quadri veri con la pittura tutta screpolata, ho detto: “Ma vaffallippa va’, ma che si lavora così?”. Resta comunque che di arte non capisco nulla. Tra impressionismo e espressionismo – per dirne una – faccio una confusione che neanche fra tangente e cotangente quando studiavo topografia al geometri, e quella volta che mi sono dovuto fare l’Argan all’università, certi dolori di testa che nemmeno le botte della Celere. L’artrosi cervicale. Le fitte suboccipitali. Dice: “Vabbe’, Argan scriveva un po’ difficile, diciamo così. Tu però perché ti sei accinto anche tu ad un saggio di critica d’arte? Non ti pareva un po’ azzardato, non capendoci poi molto?”. Certo, e chi ti dice di no? Tu pensa che sono pure daltonico. Ma quelli avevano insistito, hanno detto che non gli importava: “Chi vuoi che se ne accorge? Siamo in Italia: se il figlio di Bossi fa il deputato regionale tu non puoi fare il critico d’arte? Ma scherziamo?”. E così m’hanno convinto. Hanno detto che il mio metodo – “mi piace” o “non mi piace” – è più che sufficiente. E a me Pablo Echaurren mi piace. Stop. Ho finito qua. Dice: “Sì, vabbe’. Però a te Pablo
Echaurren ti piace perché è amico tuo. Se non era amico tuo, mica ti piaceva. A fare le critiche così, sono buoni tutti a questo mondo. Amico o non amico?”. No compa’, ferma. Un passo indietro. Io conosco Pablo Echaurren dal 1973. O meglio: nel 1973 l’ho conosciuto io. Lui no, lui manco m’ha filato e se glielo chiedi adesso, nemmeno si ricorda. Me lo fece vedere Paolo Forte dentro la tipografia di Lotta Continua a Roma quando andammo a portargli i soldi delle sottoscrizioni per le armi al Mir dopo il golpe in Cile. “Quello è Pablo Echaurren”, mi fece piano piano Paolo Forte dandomi di gomito sul fianco – ahò, noi venivamo da Latina – manco fosse stato Che Guevara. […] Poi qualche anno fa – prima d’andarsene – me lo ha fatto ri-conoscere Giano Accame, persona squisita oltre che intellettuale fine e onesto, capace di ripensare anche il suo stesso pensiero e d’approcciarsi a ognuno e ad ogni nuova cosa con sguardo aperto e scevro da ogni pregiudizio ed ideologia. Giano Accame ci ha fatto ri-conoscere e diventare amici. Mia figlia Marta – che lei almeno ha proprio studiato storia dell’arte – sostiene che ci sia più di qualche parallelismo tra le cose che fa Pablo Echaurren e la mia scrittura. Ci accomunerebbe il tono ironico, apparentemente infantile, dell’espressione artistico-creativa e l’uso dei linguaggi “bassi” – non aulici – anche quando si tratti di temi e questioni cosiddette “elevate”. Marta dice anche che quella di Pablo è una creatività artistica che utilizza i più svariati linguaggi, dalla pittura al disegno, alla scrittura, alla ceramica, alla musica, il collage eccetera. E questa capacità metamorfica mescolerebbe quei linguaggi diversi – pittura e
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scultura ad esempio; o musica ed arti visive – con risultati assolutamente innovativi. C’è un rapporto osmotico e scambi continui tra arti cosiddette “nobili” e quelle che non lo sono, fino alla definitiva nobilitazione del fumetto, attraverso particolari raffinatezze visive e la sua contaminazione con la ceramica. […] Il mio povero fratello Gianni invece – che ora non c’è più e che aveva amato molto l’India e l’induismo – diceva che tutti noi, ossia il reale, non siamo che un sogno di Dio. Lui – Dio – starebbe dormendo, poiché durante un’eternità è anche giusto che ogni tanto si stanchi e si appisoli, si addormenti. Non è a nostra immagine e somiglianza? Ma nel sonno – e soprattutto nel sogno – lui, come noi, non riesce più a governare attraverso l’Io tutto il suo Es. E così l’Es – ossia ogni parte di Lui, ogni più piccolo recesso sia del bene che del male – se ne va in giro libera e gioconda. Dio sogna. E sognando si disperde, s’allarga, si spande e si espande. Noi – il nostro cosmo – non saremmo che questo: un suo sogno, o meglio un incubo, in cui ogni parte di Dio, priva di unitario controllo, sognando se stessa che gioca alla materia si fa reale. Ma un incubo appunto, poiché questo cosmo reale – in cui la vita, per vivere, è costretta a cibarsi d’altra vita – è dominato dal segno della violenza e del male. Povero Dio. Deus sive natura, dice Spinoza. Bisognerebbe svegliarlo. Dice: “Ecco, appunto. Ma quand’è che si sveglierà?”. Ah, questo non lo so. Questo, mio fratello Gianni non l’ha detto. Forse – però – si sveglierà proprio quando la torre sarà finita. Marta dice pure difatti che i Bruegel stanno dentro il barocco. C’è già Borromini in quella torre, poiché essa non è – come nel racconto biblico – un segno d’inanità o di sventura, la collera di Dio. Essa, anzi, ne è l’esatto contrario. È ancora incompiuta ma è a spirale (o meglio è a elica, perché si chiama spirale quando si disegna in piano, ossia sulle due dimensioni di lunghezza e larghezza; ma quando poi si libra in altezza nello spazio a tre dimensioni, allora si chiama elica) e l’elica e la spirale rappresentano fin dai primordi – fin dall’arte orientale – il progresso verso la conoscenza. E la conoscenza assoluta – quella piena e finale – è appunto ciò che chiamiamo Dio. Lui, forse, si sveglierà felice e contento – “salvato” – quando la torre della conoscenza umana sarà terminata. Possiamo svegliarlo – e salvarlo – solo noi. Dice: “Con i pupazzetti di Echaurren?”. Certo, pure con quelli. Perché i Bruegel li facevano? Non avevano proprio nient’altro da fare? Decorazioni fini solo a se stesse? No. Pure Echaurren – che come me e Paolo Forte voleva trent’anni fa rifondare il mondo (ma menomale che non ci siamo riusciti) – dice che adesso lo vuole solo decorare il mondo. Ma non è vero. Che ne capisce lui? Dice: “Ma lui è l’artista”. Embe’? La sua arte all’artista gliela deve spiegare il critico. Sennò che ci sta a fare? Non mi chiamavi e restavamo in pace. Lui poi dice pure però che da piccolo – quand’era ragazzino – voleva fare il paleontologo o l’entomologo. Gli insetti. I dinosauri. Il classificatore. E i Bruegel – coi pupazzetti loro – non cataloga-
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Pablo Echaurren Il mio ombelisco 2004 In alto: “The dark side of the light”, 2007 A pagina 38: Avventure 1995 a pagina 39: un ritratto dell’artista foto Manuela Giusto
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La mostra Crhomo Sapiens a palazzo Cipolla Palazzo Cipolla, storica sede museale della fondazione Roma, e da ora unicamente dedicata all’arte contemporanea, ospita l’antologica Pablo Echaurren, Crhomo Sapiens. L’articolata esposizione attraversa gli oltre quarant’anni di attività creativa dell’artista romano, evidenziandone gli aspetti tematici che lo hanno reso un personaggio così popolare in campi diversi. Questa folta ed effervescente panoramica, curata da Nicoletta Zanella, presenta oltre duecento opere. Tra le altre “Finché morte non ci unisca”, le grandi e inedite tele dedicate a Roma e “The dark side of the light”. Il catalogo, con testi della stessa Zanella e contributi di Antonio Pennacchi, Vincenzo Mollica e Claudia Salaris, è edito da Skira. Fino al 13 marzo, fondazione Roma Museo, palazzo Cipolla, via del Corso 320, Roma. Info: 066786209; www.fondazioneromamuseo.it.
vano l’eternità? L’eternità in un solo istante, la simultaneità di tutte le manifestazioni dell’Essere. La sua fenomenologia. […] È questo che fa Pablo con tutti i suoi teschi, bestiari e pupazzetti: cataloga enumerandole tutte le facce di ciò che chiamiamo di Dio o – meglio – del suo Es in piena espansione onirica. Dice: “E quando finisce?”. Mai, calcolato col tempo umano. Ma che vuoi che sia? L’eternità non è un solo istante? E poi noi mica abbiamo fretta. Generazione dopo generazione, esattamente come Yu Kung rimosse le montagne – una carriola al giorno, giorno dopo giorno – noi raggiunta ed esplorata l’ultima galassia, ed esperita l’infinitesima manifestazione ontica ed ontologica (ma pure disgenativa) di tutto il Dasein del Tempo, noi metteremo l’ultimo mattone sulla cima della torre della conoscenza umana. E il Dio Sconosciuto – il Tutto – sarà ricomposto e finalmente si sveglierà. Salvato. È la Torre di Babele dei Bruegel – con dentro tutti i pupazzetti loro e quelli di Echaurren – La città di Dio, la civitatem Dei. Altro che dissacrante. L’arte di Echaurren è arte sacra. È pure quella, come i Bruegel, i Bosch e gli Jacovitti – magari un po’ più facile, diciamo, estetica – l’Essere e tempo di Heidegger. (Dice: “Ma disgenativo che significa?”. Ah, non lo so proprio. Forse ha a che vedere con Genus, con genesi, più il prefisso separativo dis, ossia una cosa del tipo mutazione genetica: veniva da un ramo e doveva andare in quella direzione, ma poi invece all’improvviso ne ha presa un’altra e arrivederci e grazie, chissà dove va adesso. Io non lo so, ripeto, tu fai un po’ tu. Dice: “E allora perché ce l’hai messo? Ma uno adesso può scrivere delle parole senza neanche sapere che cosa significhino?”. E che ti posso fare? Io avevo chiesto a Marta di prepararmi una scheda. Lei me l’ha fatta e ho lavorato su quella. A un certo punto ho trovato scritto “stile disgenativo fumettistico” e anche io ho detto: “Ma che vuol dire sto disgenativo?”, e sono andato a cercare sopra i dizionari. Non c’era. Ho cercato pure su internet. Niente da fare. E nemmeno in Heidegger. Allora ho pensato: “Sarà un termine tecnico della critica d’arte, gergo specialistico”, e l’ho copiato pari pari. L’ho copiato anche tutto contento, perché la parola in sé mi piaceva proprio: “Ammazza che bello sto disgenativo. Chissà che vuole di’?”. Poi la mattina dopo, però, ho chiesto a Marta: “Ma che significa, bella di papà, disgenativo?”. “Ma quale disgenativo e disgenativo” m’ha fatto lei: “Quello è disegnativo, stile disegnativo papà, mi sono solo sbagliata a battere a macchina”. Mo’ che dovevo fare io secondo te? La ammazzavo? Ha due figlie piccole. E a me oramai m’era piaciuto, è una bella parola – suona bene – disgenativo. Lo dovevo levare? Ce l’ho lasciato. Poi un significato – come si suole dire – si fa sempre in tempo a trovarlo. Intanto la parola, e poi arriva il significato. Lui non disse Fiat lux, e solo dopo la luce fu?). *estratto dal catalogo, cortesia Skira
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conversando sul sofà WALTER PEDULLÀ
Vent’anni di ostinazione
Colloquio con il direttore della collana Cento libri per mille anni: «Il meglio del pensiero italiano, quanti ostacoli ma sono orgoglioso» di Maurizio Zuccari
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na collana unica, piena di volumi unici. Nessun libro in circolazione può infatti essere identificato con uno dei “Cento libri”. La cura dei singoli volumi è affidata a cento fra i migliori poeti, narratori, saggisti d’oggi, quasi sempre anche illustri docenti universitari, che sono stati incaricati di scegliere il meglio di un autore o di un tema. La loro storia intellettuale è una garanzia da ogni punto di vista. I curatori, che compiono la selezione e la motivano in un lungo saggio introduttivo, sono spesso i massimi esperti di un argomento o di uno scrittore proposto, con opere complete o capitoli che illuminano in modo essenziale la loro fisionomia artistica. Altrettanti giovani studiosi assicurano ampie biografie, esaustive bibliografie, imponenti antologie della critica, dense premesse e note ai testi, di cui viene usata la più recente edizione critica, quando non una nuova edizione. Il titolo della colla-
na è limitativo, in realtà i libri raccolti in essa sono più di 500. E sono più di mille gli autori e i testi presenti con componimenti brevi e con capitoli di un’opera. La collana è quindi sostanzialmente da sola una ricchissima biblioteca della letteratura italiana. Ci sono tutti i libri da cui non può prescindere chi vuole conoscere la poesia, la narrativa, il teatro, la saggistica, la storiografia, la filosofia, il pensiero politico degli italiani, nonché i cosiddetti generi minori: dalla memorialistica alla favola, dalla critica militante alla letteratura di viaggio, dagli scrittori d’arte ai proverbi». Così Walter Pedullà, direttore della collana Cento libri per mille anni, presentava la sua creatura tempo fa. Incanutito e massiccio, dall’alto dei suoi ottant’anni, cinquanta passati a misurarsi coi maestri italiani del racconto, Pedullà macina parole e ricordi col piglio del calabrese doc e del critico letterario di razza. Nella sua casa romana a due passi da piazza Fiume, rievoca nella penombra dell’appartamento, tra il girovagare degli amati gatti, opere d’arte appese agli scaffali e i volumi della collana col marchio del Poligrafico in bella vista, spirito e tappe di un’avventura editoriale iniziata vent’anni fa. Cento
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L’autore
La vera novità di questo nostro tempo è che nessuno si chiede dove stiamo andando. Ma l’arte forse ci salverà E la nostra letteratura non va così male, non vedo giganti ma una bella vitalità
Critico letterario, dall’Avanti! alla presidenza Rai Walter Pedullà (Siderno, 10 ottobre 1930) è saggista, critico letterario e giornalista. Laureato in lettere a Messina, dal 1958 al 1967 è stato assistente universitario di Giacomo Debenedetti all’università La Sapienza di Roma, di cui è stato docente di storia della letteratura italiana. Ha insegnato lingua e letteratura italiana anche negli atenei di Napoli, Salerno ed Enna. Consigliere d’amministrazione in Rai dal 1975 al 1992, poi presidente fino al luglio 1993. Già critico letterario all’Avanti! dai primi anni ‘60, dopo una lunga vicinanza al Psi, ha recentemente aderito al nuovo Partito socialista.
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Alcuni volumi della collana Cento libri per mille anni diretta da Walter Pedullà (a destra nella foto Ap Lapresse)
volumi sul meglio della letteratura italiana, curati da scrittori come Arbasino, Bonaviri, Malerba, Vassalli, tanto per fare alcuni nomi, sotto la sua direzione. Un’opera in procinto di concludersi, in tempo per celebrare i 150 anni d’unità nazionale. Cento libri per mille anni, un’operazione complessa e travagliata. «Travagliata, sì. Questa collana ha occupato vent’anni della mia vita. Sugli incidenti di percorso potrei scrivere un romanzo, abbiamo avuto cinque-sei direttori editoriali in tutto questo tempo, se il Poligrafico raccogliesse le mie lettere di questi anni ne verrebbe fuori un volume, una sorta di “work in progress”. È stato un miracolo finire l’opera, ce l’ho fatta solo perché sono calabrese. Ma non rinnego nulla ed è importante averla finita ora, in occasione del centocinquantesimo dell’unità. Nei primi anni Novanta ci riunivamo alla Rai, di cui ero presidente, per predisporre il piano editoriale. A una cinquantina d’anni dai classici di Raffaele Mattioli, ci chiedevamo: chi sono nel nuovo millennio i primi della classe? Il quadro culturale italiano si era profondamente modificato, guardando agli otto secoli
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Alcuni degli scrittori presenti nella collana del Poligrafico-Editalia con il loro contributo Da sinistra: Alberto Arbasino Sebastiano Vassalli e gli scomparsi Luigi Malerba e Giuseppe Bonaviri Nelle pagine seguenti: Pier Paolo Pasolini in un disegno di Paolo Steffan e Italo Calvino in un disegno di Graziano Origa
Il vecchio che avanza Ponte Sisto pag. 224 euro 18
E lasciatemi divertire! Manni pag. 278 euro 18
precedenti si è trattato di fare anche una revisione delle gerarchie, per cui autori minori sono diventati maggiori, come Carlo Dossi. Nel complesso il rapporto tra il tema, il gruppo e i singoli autori è del 50%, o giù di lì. Come ho scritto, ci sono mille nomi dentro, qualcosa come 250mila cartelle che corrispondono a un migliaio di libri da 250 pagine ciascuno, quanto un libro medio. C’è il meglio del pensiero italiano, dalle origini ai nostri giorni, dai cronisti del Medioevo ai filosofi contemporanei. Grazie a me è stata convocata la cultura nazionale, per dire agli italiani cosa ricordare della loro letteratura dell’ultimo millennio. Ma la collana ha una sua agilità interna, nonostante il peso non trascurabile. Il Poligrafico deve essere orgoglioso di averla fatta, come me». Lei ha curato direttamente la letteratura del ‘900. Uno degli autori più noti del periodo è Moravia, uno dei meno noti è D’Arrigo, entrambi toccati marginalmente, come pure Soldati, Camon. Persino Calvino. Che criterio ha usato?
Per esempio il Novecento Rizzoli pag. 569 euro 21,50
L’estrema funzione Le lettere pag. 356 euro 35
«Il ‘900 è molto ricco e non fazioso: ho tenuto conto dell’importanza degli scrittori sotto diversi punti di vista, aprendo ad autori che non prediligo, ma della cui serietà sono convinto. L’opera è molto pluralista, in questo senso. È poliprospettica. E il massimo di modernità culturale e di tolleranza è dato da un volume sulla letteratura cosiddetta proibita che raccoglie il burlesco, il comico, il fantastico che rappresentano proprio la cifra della modernità. Non abbiamo messo tanti nomi che pure avrebbero meritato di starci per problematiche legate ai diritti, mentre abbiamo messo 300 scrittori dell’800, dove al massimo se ne selezionano una quarantina. Tra gli autori a cavallo dei due secoli abbiamo inserito nelle monografie Tozzi, oltre a Svevo e Pirandello, per questo motivo. Uno come Gadda, per esempio, rientra tra gli umoristi e i prosatori, recuperando spazio, ma anche la sua presenza è sacrificata per una questione di diritti, come Calvino. Comunque ci sono tutti, magari in appendice, anche i poeti e gli autori teatrali. Pure Camon e Soldati, che nella prospettiva di lungo
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L’attività letteraria
Oltre una ventina di saggi, alla guida del Caffè illustrato e dell’Illuminista Rispetto alla sua attività più propriamente letteraria, Walter Pedullà dirige due riviste di letteratura: Il caffè illustrato e L’illuminista. Ha scritto oltre una ventina tra saggi e testi di critica letteraria, tra i più recenti: Le armi del comico, (Mondadori, 2001); Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti, (Rizzoli, 2004); Quadrare il cerchio, (Donzelli, 2005); E lasciatemi divertire! Divagazioni su Palazzeschi e altre attualità (Manni, 2006); Per esempio il Novecento. Dal futurismo ai giorni nostri, (Rizzoli, 2008); L’estrema funzione. La letteratura degli anni Settanta svela i propri segreti (Le Lettere, 2010).
periodo non regge. Chi ha vissuto, come me, due terzi del ‘900 sa che è rilevante, forse corrivo, a volte effimero. Scriveva troppo, alcuni suoi libri sono meravigliosi, ben curati, altri buttati giù per fare soldi. Moravia avrebbe meritato un volume ma sarebbe costato troppo, un mucchio di soldi. D’Arrigo esiste quasi solo per l’impegno che ho messo nel sostenerlo. Ho scritto decine di articoli su di lui, sto curando l’edizione generale delle opere. Per dieci anni l’ho frequentato quasi ogni giorno, dunque lo conosco bene. Poi non ho potuto fare molte modifiche. Il piano dell’opera rigido, vincolato a un numero definito, ha salvato la collana da chiusure anticipate ma l’ha pure bloccata. Umberto Eco, per fare un altro esempio, aveva accettato di fare Manzoni ma non entro i tre anni che gli avevo dato. L’Ariosto avrebbe dovuto farlo Volponi che è morto, come Fortini, infine l’ha fatto Celati assieme a mio figlio Gabriele. Molti autori che avrebbero dovuto partecipare, già anziani, sono venuti meno, come Quinzio e Rea. Alcuni mi chiedono perché non c’è
uno come Guido Cavani, autore di un solo bellissimo romanzo, Zebio Còtal, ma se mettevamo tutti gli autori di un solo libro di una qualche bellezza non finivamo più. Poi un’antologia sui contemporanei è un gioco al massacro, e con la letteratura recente si ha un difetto di prospettiva: le cose vicine appaiono più grandi, gli scrittori si affollano e sembrano tanti. Ogni testo è accompagnato da una storia critica molto consistente, tanto da guidare il lettore in quello che è successo anche da un punto di vista interpretativo. Vorrei sottolineare il fatto che i testi sono senza note, un limite soprattutto per gli autori antichi, ma ci sono volumi con 500 pagine di antologia della critica. Così i libri hanno subìto questa specie di metastasi, sono cresciuti su sé stessi. Avrei voluto mettere anche un dizionarietto ma sarebbero esplosi, solo il dizionario di filologia romanza avrebbe triplicato il volume. E il numero di libri illustrati come quello sui proverbi curato da Luigi Malerba o quello sull’Ariosto, con figure coeve che piacevano a lui stesso, doveva essere limitato, compreso il volume
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sugli scrittori d’arte, perché parliamo di questi, non di libri d’arte». Tenendo il punto fermo ai 150 anni d’unità, se ci dovesse essere un’opera, un autore da salvare, quale sarebbe? E quale ridimensionerebbe? «È una domanda complicata. Potrebbe essere Verga, dal punto di vista della letteratura che si è fatta carico dei soprusi, della povertà delle masse, mentre lo scrittore moderno più conosciuto al mondo, il più rappresentato tuttora a teatro, è forse Pirandello. Sul romanzo non avrei dubbi: La coscienza di Zeno di Svevo. Pirandello ha la genialità, la visione, ma le sottigliezze, lo stile, il dire la verità attraverso la bugia, la modernità è di Svevo. Un autore che ha avuto più di quanto meritasse, pur avendo talento e ricchezza d’immaginazione, è probabilmente D’Annunzio. Ha spettacolarizzato la vita culturale più di chiunque altro, stroncando sé stesso, inventando il gossip, la cronaca mondana. Se vogliamo è lui il più moderno, modernamente effimero. Vistosamente falso, roboante. Ma la sua paccottiglia funzionava e poi non gliene fregava niente di niente, poteva rischiare la vita per una causa in cui non credeva. Una specie di mostro psicologico». L’opera è stampata su carta di Fabriano garantita 200 anni. Ma non c’è il rischio che il libro scompaia prima? «È vero e ci scherzo su: voglio vivere 200 anni per poterlo constatare. Ma quando sento parlare della morte dell’arte, della letteratura, non ci credo. Questa per l’uomo è stata una scoperta, come l’America: se ne aveva bisogno e qualcuno l’ha trovata. Diventerà minoritaria, ma quando mai non lo è stata? Nell’800 erano tutti analfabeti. Persino Manzoni in casa parlava in dialetto. Resterà per le minoranze, ma nel mondo globale anche queste fanno pubblico. Potrei dire, parafrasando Lévi Strauss
secondo cui il mondo è nato senza l’uomo e morirà senza l’uomo: il mondo è nato senza letteratura e può darsi che morirà senza. Ma ne dubito, non ho mai visto tanti libri in circolazione come da quando si è detto che internet ha condannato a morte il libro. Le librerie pullulano, magari si vende poco ma ci sono 1.500 editori e c’è ancora gente che si paga i libri da sola pur di pubblicare. Leggere su internet non è la stessa cosa, eppoi non sono un profeta, ma posso fare una proiezione: da Gutenberg a oggi c’è stata una crescita esponenziale dei libri. Le grandi scoperte scientifiche sono complementari: il presente non farà mai a meno del libro, anche se sarà minoritario rispetto a internet». Nonostante questa crescita esponenziale la nostra letteratura, però, resta fragile. «È vero, ciò è dato dal numero di italiani nel mondo: chi capisce e legge la nostra lingua sono potenzialmente un centinaio di milioni di persone. Ma la cosa peggiore è che gli stessi italiani leggono poco: il nostro è il paese con il più basso tasso di lettura tra quelli europei». Però ognuno ha un libro nel cassetto. «Perché dalla scuola tutti ricevono l’“imprinting” mitologico del libro come sopravvivenza, come immortalità della memoria di chi è vissuto. E molti sono capaci di leggere dieci volte sé stessi ma non gli altri. Perché ci sia un processo l’orologio deve fare tic tac, qui fa solo tic». Lei è stato giornalista, docente universitario, critico e saggista. Però non ha mai voluto scrivere romanzi. «Non ho mai avuto voglia di raccontare qualcosa attraverso la fantasia o un’emozione in versi. Non perché non ne sia in grado, ma non mi sono mai ritenuto capace di scrivere un racconto o una poesia degni di questo nome. È un atto di umiltà e di orgoglio allo stesso tempo: ho voluto ottenere risultati con
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il mio mestiere, che è quello di critico letterario. Ma la difficoltà di scrivere lunghi articoli oggi è tale che è più facile far passare telegrammi piuttosto che idee. La nostra è una cultura che non vuole stare più a pensarci su: il lettore vuole sapere se un libro piace o no, non perché. Non serve più mediazione intellettuale, se qualcosa è complicato non interessa neanche più». Quindi è morta la critica letteraria. «Diciamo che non se la passa bene, c’è questa tendenza. Adesso il critico racconta la vita degli autori, raccontiamo il genio infinito di Leopardi attraverso il suo personaggio. Vanno tanto le biografie per questa ragione. Oppure funziona la fantasia più sfrenata, alla Potter». Alla presidenza della Rai parlò di stato-spettacolo. Le cose non sono migliorate in questi ultimi vent’anni. Nel complesso, anzi, nel paese c’è una situazione precognitiva, non solo per l’assenza di critica ma di ogni dialettica, per l’incapacità ormai generalizzata di distinguere il male da ciò che non lo è. «Nell’affrontare i problemi ci sono due modi, quello preconcetto del moralista che dice di essere nel giusto, l’altro del fenomenologo che cerca di capire cosa succede. Che sta succedendo? Il problema non è tanto difendere questa civiltà, uno può accucciarsi nella sua nicchia, amare il suo mito costitutivo, concluso, ma nella globalizzazione hai come vicini indiani, cinesi, uruguaiani e africani. È povertà se resta una Babele ma può essere una ricchezza, inorridisco mentalmente di fronte a certi aspetti della contemporaneità ma se sia una nuova barbarie non saprei, né direi. Nella riflessione sull’esistente posso dire che il futuro non è peggiore, solo poliverso. Ma in un mondo dove esiste solo il presente, nessuno più pensa o fa delle ricerche, non c’è futuro. La vera novità del nostro tempo è questa: nes-
suno più si chiede dove stiamo andando. Se su mille la pensano così in cento puoi ancora controllare il fenomeno, ma se sono 999 resta appena un po’ d’aria, stiamo crepando». Torniamo alla letteratura, come si connota quella degli anni Zero, del decennio appena concluso? «C’è talento in Andrea Baiani, Sandro Veronesi, Walter Siti, Alessandro Piperno, Michele Mari, Nicola Lagioia, tanto per dirne alcuni. Non scrivono cose prevedibili, tipiche della letteratura di consumo che pure ha una sua rispettabilità. Non vedo giganti ma molti scrittori rilevanti che messi insieme danno l’idea di una bella vitalità della nostra letteratura. Quando uno scrittore m’insegna come devo guardare, e non cosa vede, quando aggiunge un terzo occhio al mio vedere, allora la letteratura funziona. Aspettiamo il salto antropologico, qualcuno che dica cosa circola. Che ci dica: avete davanti l’immensa distesa di un mondo diverso e voi non siete più quelli di prima. All’inizio del secolo scorso Mario Morasso, tra gli ispiratori del futurismo, nel libro L’imperialismo artistitico preconizzava la presenza invasiva e costante dell’arte in ogni campo. Prendo atto, anche se non in quel modo, della straordinaria vitalità dell’arte italiana, dalla transavanguardia a Cattelan. Anche nel cinema, benché dominato dagli Usa e dunque tutto effetti speciali, privo della tensione etica e civile che pure l’ha caratterizzato, si registra qualcosa di promettente. Per quanto riguarda l’arte e la letteratura, insomma, il quadro non è tra i più deprimenti. Non vorrei fare l’esteta dicendo: guardate, se il mondo va male si salva l’arte, ma può darsi che questa, presentandosi con caratteristiche inizialmente innocue, sia capace a un certo punto di inoculare qualche veleno a questo tipo di società. Così non può continuare».
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un caffè con ALESSANDRO ZUCCARI
Caravaggeschi a Roma Tre le fasi dell’eredità di Caravaggio nella capitale: dall’apprezzamento di pochi “intendenti” a fenomeno di massa di Alessandro Zuccari*
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urante il pontificato di Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605) sperimentalismi e tradizionalismi continuavano a coabitare in Roma: mentre ci si continuava ancora a misurare con Raffaello, Michelangelo e l’antico, l’estro creativo di Michelangelo Merisi da Caravaggio (15711610) trovò le condizioni opportune per giungere a maturazione e passare dall’apprezzamento di pochi “intendenti” al discusso successo, subito tracimato in plauso popolare, in occasione delle prime opere pubbliche in San Luigi dei francesi (1600). A schierarsi tra i primi emulatori della lezione caravaggesca fu Giovanni Baglione (1566 circa-1644) nelle opere, fortemente chiaroscurate in Santa Cecilia, eseguite per il cardinal Sfondato, o le due versioni dell’Amor sacro sconfigge amor profano per Benedetto Giustiniani, concepite per rivaleggiare con l’Amor vincitore del Caravaggio. Tali lavori destarono l’ira del Merisi che reagì facendo circolare dei sonetti ingiuriosi cui seguì il famoso processo del 1603. Di segno opposto fu il rapporto tra il Merisi e il Gentileschi (1563-1639), sia sul piano umano sia su quello professionale. Orazio era amico di Michelangelo e invece di un fulmineo ed esteriore adeguamento allo stile del più giovane maestro ne condusse una lenta e temperatissima assimilazione, come mostra la pala d’altare per Santa Maria della Pace databile al 1607. Oltre agli esempi appena citati non furono pochi gli artisti che si misuravano con il Caravaggio o ne subivano almeno il fascino già dai
primi anni del Seicento; ma l’ingresso in campo di quelli che furono i più stretti seguaci del maestro lombardo avvenne solo nella seconda decade del secolo. Sintetizzando, si può pertanto distinguere tre diversi livelli del cosiddetto “caravaggismo”: il primo, che in realtà mal si adatta a tale definizione, riguarda i pittori che si misurarono in modo diretto con il magistero merisiano ma coltivarono una cifra stilistica autonoma ed originale; il secondo è in sostanza circoscritto al piccolo gruppo degli stretti seguaci indicati dal medico senese Giulio Mancini: Ribera, Cecco del Caravaggio, Spadarino, Manfredi e “in parte” Carlo Saraceni (escludendo di fatto il fondamentale Orazio Borgianni); il terzo si estende alla variegata schiera di pittori italiani e stranieri che parteciparono in forma più o meno convinta e prolungata all’esplodere di quella che fu, prevalentemente, una moda culturale di respiro internazionale, governata dal mercato, dal collezionismo e dalla competizione tra gli artisti e che rientra in larga misura sotto la definizione coniata dal Sandrart di manfrediana methodus. Se resta aperto il discorso sulle numerose delle personalità ancora anonime e operanti all’interno del caravaggismo nuove ipotesi sono possibili riguardo ai cosiddetti “Maestro del Giudizio di Salomone” e al “Pensionante del Saraceni”. Il primo, già identificato con il giovane Ribera credo invece possa essere, almeno per il quadro Borghese da cui trae il nome, il romano Angelo Caroselli, mentre il Pensionante sarebbe, nelle sue prove migliori, lo stesso pittore veneziano. I primi risultati che la pittura del Merisi provocò sono rintracciabili, oltre che nell’eccentrico Adam Elsheimer, persino in due giovani e “insospettabili” emergenti
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I VOLUMI
Giovanni Baglione Amor sacro sconfigge amor profano, 1602
I Caravaggeschi Skira editore (due volumi) 864 pagine 350 euro
Tutti i seguaci del Merisi Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610) è probabilmente il pittore più ammirato, studiato e noto del Seicento italiano. Ebbe infatti una rilevantissima schiera di seguaci in tutta Europa. Scritta dai massimi studiosi di tutto il mondo, coordinati da Alessandro Zuccari, l’opera, in due volumi, costituisce il primo repertorio completo della pittura caravaggesca in Italia e in Europa. Introdotta dai capitoli dedicati alla nascita della mentalità caravaggesca e al caravaggismo a Roma, la pubblicazione traccia una vera e propria mappa dell’eredità del Merisi dal sud al nord d’Italia e nei paesi europei. L’opera segue poi il repertorio vero e proprio di 48 artisti, composto da un breve saggio, dalle schede scientifiche dei dipinti e dal regesto bibliografico. Info: www.skira.net.
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come Peter Paul Rubens e Guido Reni. Il primo manifestò a più riprese grande apprezzamento per il Caravaggio: basti ricordare l’Incoronazione di spine per la basilica di Santa Croce in Gerusalemme (ora a Grasse) e l’Adorazione dei pastori per la chiesa degli oratoriani di Fermo, che scandiscono tra il 1602 e il 1608 questa sua produzione. Partendo da premesse affatto diverse, Guido entrò in gara col maestro lombardo a partire dalla Crocifissione di san Pietro (Pinacoteca Vaticana), eseguita nel 1604-1605 per il cardinale nepote Pietro Aldobrandini. Riguardo ai caravaggeschi intesi lato sensu si dovrà subito notare che ad una selva di notizie relative alla loro presenza a Roma, già nel primo decennio del Seicento, non corrisponde, tuttavia, una certezza di elementi sulle prime opere prodotte. Gli esiti del nuovo stile rimasero pertanto più fluidi e circoscritti per qualche tempo: in realtà, solo a partire dal 1610, quasi in coincidenza con la tragica scomparsa del Merisi, si registra un incremento di opere ispirate al maestro lombardo e si comincia a percepire la vastità degli effetti che la sua dirompente pittura aveva messo in moto. Se ci si sofferma sulle informazioni relative al 1612-1613 ci si rende conto che quel biennio fu decisivo per le sorti del caravaggismo come dimostra l’addensarsi in Roma di presenze collegabili agli sviluppi e alla diffusione della nuova corrente pittorica. Fu in questo contesto che Bartolomeo Manfredi (1582-1622), per la sua capacità di “replicare” la pittura del maestro lombardo e di riformularne i modelli, riuscì ad affermarsi come uno dei grandi protagonisti del secondo decennio del Seicento, con alcune opere come lo Sdegno di Marte (Chicago, art institute). Con la sua felice vulgata caravaggesca, espressa per lo più in quadri “da stanza” a mezze figure, seppe cogliere con intelligente prontezza le opportunità che si erano create nel mercato. Un altro personaggio chiave di questo momento è Jusepe de Ribera (1591-1652). Mentre osservava con attenzione ciò che stava accadendo nel terzo lustro del Seicento, lo Spagnoletto elaborò uno stile personale, venato da cruda ironia e da intensa spiritualità, che attingeva direttamente alle fonti merisiane. Ciò non avvenne solo attraverso espedienti formali (significativa è la sua feconda pratica del disegno), ma con un’adesione al vero persino brutale, decisamente mirata a muovere i sensi, e con una spinta interiore capace di interpretare la realtà umana in tutta la sua drammatica potenzialità, valga da esempio il Mendicante della galleria Borghese. Uno snodo di particolare interesse è rappresentato dal triennio 1617-1619 a motivo degli emblematici dipinti ad
esso certamente ascrivibili. D’orientamento colto e raffinato è la più antica opera del francese Simon Vouet, la Buona ventura di palazzo Barberini, segnata sul retro con il nome dell’autore e la data 1617. Inoltre, tre grandi pale realizzate nel 1617-1618 da Gherardo delle Notti dimostrano quanto sia precaria la sola base stilistica per ricostruire l’itinerario di un pittore: il San Paolo rapito al terzo cielo (1617) della chiesa carmelitana di San Paolo (poi Santa Maria della Vittoria) – aggiornato alle novità di Lanfranco e di altri emiliani – prima dei recenti ritrovamenti documentari non sembrava potesse precedere un’opera tanto caravaggesca come la Decollazione di Giovanni Battista, dipinta nel 1618 per i carmelitani di Santa Maria della Scala. Le due pale di Santa Maria dell’Anima che Saraceni (1579-1620) eseguì tra il ‘17 e il ’18: il luminoso Miracolo di san Benno, carico di palpabile stupore, assieme al più fosco Martirio di san Lamberto, percorso da violenza e sgomento, sono annoverabili tra le più alte espressioni religiose della pittura caravaggesca. Ma l’evento che in modo ufficiale, nell’autunno del 1624, determinò una svolta nella vita artistica romana fu la designazione di Vouet a principe dell’Accademia di San Luca, dopo che Antiveduto Grammatica, già sostenitore e emulatore del Merisi, era stato costretto a dimettersi. In una simile congiuntura ci si potrebbe aspettare il rapido tramonto del caravaggismo nella città capitolina, ma non fu così. In aperto contrasto con questa tendenza di parziale classicismo che si stava progressivamente imponendo nella scena romana, due eccezionali opere pubbliche mostrarono, in San Lorenzo fuori le mura, gli esiti dell’ultima fiammata del caravaggismo romano: quella del tutto estranea all’accademia manfrediana che Giovanni Serodine (1600-1630) accese con la sua originalissima e radicale interpretazione del Merisi. Fu la commissione di alcune pale per la basilica Vaticana – che vide coinvolto anche Francesco Barberini – a concedere, infine, un’ultima prestigiosa occasione “pubblica” a tre differenti esponenti del caravaggismo: Caroselli, Valentin de Boulogne e lo Spadarino. Con la morte di Serodine nel 1630 e di Valentin nel 1632 si chiudeva definitivamente una stagione. Gli esiti suscitati dal Merisi, ormai sovrastati dai prorompenti flussi del Barocco, continuarono però ad alimentare in modo più o meno sotterraneo la ricerca di giovani pittori, tra i quali Mattia Preti e Diego Velázquez, a Roma tra il 1629 e il 1630. *curatore dell’opera sintesi dal catalogo, cortesia dell’autore e Skira
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In senso orario: Carlo Saraceni, Martirio di san Lamberto, 1618-1619 Jusepe de Ribera, Mendicante, s. d. Bartolomeo Manfredi, Sdegno di Marte, 1613
La mostra Caravaggio a Roma, una vita dal vero L’archivio di stato di Roma promuove nella sede di Sant’Ivo alla Sapienza una mostra unica costruita su documenti originali, restaurati e conservati nello stesso archivio, che svelano fatti salienti della vicenda umana e artistica del grande pittore e aspetti finora sconosciuti legati all’ambiente intellettuale e culturale frequentato dal maestro lombardo nel periodo vissuto a Roma. Ideata e diretta da Eugenio Lo Sardo, a cura di Orietta Verdi e Michele Di Sivo, la rassegna è costruita come una “detective story”. Dall’11 febbraio al 15 maggio. Sant’Ivo alla Sapienza, corso Rinascimento 40, Roma. Info: www.archiviodistatoroma.beniculturali.it.
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il corpo dell’arte VALERIO ADAMI
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D come dono Vita e opere del maestro che ha consacrato al disegno la sua arte e da Parigi dichiara: «Il mio tratto non mena il can per l’aia» di Maurizio Zuccari
«Parigi era la città delle caffetterie, il posto più accogliente d’Europa, a quei tempi. Con Camilla, mia moglie, appena arrivati anche se eravamo stanchi morti per prima cosa andavamo al Cafè du Dome, a Montparnasse, dove c’era sempre qualche amico con cui parlare. Allora la comunicazione era fatta dalla “bouche à l’oreille”, dalla bocca all’orecchio». Parigi, rue Becquerel, a Montmartre, una fredda e grigia mattina di gennaio. Chi parla all’altro capo del filo è Valerio Adami. Alla soglia dei settantacinque anni, l’artista che dagli anni Sessanta ha fatto della “ville lumière“ la sua residenza abituale (con Meina, sul lago Maggiore, dove ogni luglio organizza un incontro nella sua fondazione), si racconta. E narra perché abbia consacrato al disegno la sua cifra artistica riconoscibilissima, come sia divenuto il maestro capace d’assemblare col suo tratto un linguag-
gio pittorico più che mai attuale, con la figura umana sempre al centro di opere dai forti cromatismi. Un viaggiatore dell’animo, oltre che dei luoghi. Un viandante della mente che, dopo aver attraversato il ‘900 in compagnia di alcuni dei suoi mostri sacri, tutto ricorda, persino la musica di Verdi ai funerali di Marconi. Era la fine di luglio, l’anno il 1937. La città, Bologna. «Tutti mi dicono: non è possibile che a due anni si possa ricordare quel Requiem, invece lo ricordo perfettamente. Per il resto Bologna non ha lasciato molte tracce in me, i miei si sono spostati a Milano quello stesso anno, quindi la mia formazione, durante la guerra, è stata a Milano e Venezia, con le scuole chiuse. Mio padre mi mise un precettore, una figura che credo possa andare ancora al di là dell’insegnamento pubblico. Anche Klimt voleva chiudere le scuole primarie per introdurre un sistema di
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Valerio Adami Jacques Derrida, 2004 A sinistra: il bozzetto preparatorio
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precettori. A Venezia ho avuto le prime esperienze di pittura a Venezia con Felice Carena, ma il grande incontro della mia vita è stato con Oskar Kokoschka che mi volle vicino durante il periodo in cui rimase a Venezia, esponendo alla Biennale quei grandi quadri che, forse, sono tra le pitture più importanti della storia moderna. Mi invitò all’accademia da lui fondata a Vienna, ma ho preferito iscrivermi a Brera con Achille Funi, tra i maggiori maestri italiani dal Rinascimento. Poi alla fine della guerra, che vuole, un italiano doveva in qualche modo seguire il mito di Ulisse, pensare che tutto veniva dal confronto con altre culture che conoscevamo in modo molto limitato. Sono andato nel ’57 a Londra. Questa città allora malinconica, impoverita, per me è stata più importante di Parigi, anche se poi mi sono installato qui, dove ho trovato la maggior risposta al mio lavoro. A quel tempo era un posto fantastico, s’incontravano grandi artisti, scrittori e poeti». Tra i tanti Wilfredo Lam, Sebastian Matta. «Matta era l’ultimo rappresentante dei surrealisti e della grande tradizione pittorica, un uomo ricco di pensieri e di contraddizioni. Ricordo che appena entrava nello studio di un giovane pittore diceva sempre: girate il quadro e guardatelo al contrario. La mia generazione, dopo le
certezze dell’arte come pura astrazione, propria degli anni ’50, ha ricostruito la rappresentazione, ha ridato al corpo dell’uomo, uscito ferito e sofferente dalla guerra, i suoi significati allegorici». È per questo che il corpo umano, la figura, è centrale nelle sue opere? «Senza dubbio. Non c’è altro protagonista che l’essere umano nel mio lavoro, con tutto quello che porta con sé di tragico, dimensione oggi dimenticata dall’opera d’arte. La grande ossessione della mia vita è quella di trovare nella forma, nel disegno, nella linea, la conoscenza. All’inizio della grande complessità del pensiero del millennio c’è la linea, poi il disegno è il grande supporto dell’arte italiana, da Pollaiolo che l’ha inventato. Ho dedicato gran parte della mia vita allo studio del disegno, anche attraverso la fondazione messa in piedi con Jacques Derrida, Luciano Berio e altri a Meina, sul lago Maggiore, nata sul concetto di disegno alla francese, “dessine” e “desseine”: disegno d’arte e progetto. Tutto il mio lavoro si basa sul disegno». Il disegno, anzitutto: è conoscenza, non esprime ma significa, dice. E ancora: amo un disegno con le radici che non meni il can per l’aia. Che vuol dire? «Nel disegno ci sono due strade: una è quella dalla
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Valerio Adami La nuvola, 1991 A sinistra: Auto-portrait, 1983 A destra un ritratto dell’artista foto Michel Nguyen
L’artista A Parigi dal 1960 Valerio Adami nasce a Bologna il 17 marzo 1935. Trasferitosi a Milano, dal 1954 è all’accademia di Brera a Milano, sotto la guida di Achille Funi, e nel ‘58 tiene la prima personale alla galleria del Naviglio. Da allora espone a Londra, Berlino, New York e Parigi, dove si stabilisce dal 1960, dividendosi con la sede della sua fondazione a Meina (Novara). Numerosi i cataloghi firmati da scrittori e filosofi e le commissioni in spazi pubblici, come le vetrate per il municipio di Vitry-sur-Seine e l’atrio della stazione d’Austerlitz, a Parigi. Sue opere sono al centre Pompidou.
forma chiusa che non mena il can per l’aia, nasce da un punto e traccia una linea che ritorna su quel punto, disegna un cerchio che diventa una sfera. Il disegno di Dürer, Picasso, per intenderci. Di forma aperta, invece, è quello di Rembrandt fatto di piccole virgole, tratti separati uno dall’altro. La sua è una conquista dello spazio dove la forma finisce per annegare in questo, mentre in Dürer la linea è spazio nella parte esterna e forma plastica nell’altra. Adesso non possiamo parlare del rapporto tra linea, forma e spazio, ma il mio disegno è sempre stato il primo e dunque non mena il can per l’aia». E non ha mai dipinto un quadro che non fosse preceduto dal disegno. «Sì, tutto il mio lavoro nasce sul disegno orizzontale, su un foglio di carta che non è più grande di 40 per 50 centimetri. Ho bisogno dell’orizzontalità di questo rapporto per depositare sul foglio una sorta di rivelazione. Una lettera d’amore nasce così, si può incidere il messaggio su una corteccia ma è un’altra cosa. Il disegno che nasce direttamente sulla tela invece è verticale, un processo molto più lento e difficile. Ma l’avventura dell’attesa avviene quando nella sinistra ho una gomma e nella destra una matita. Posso passare giorni interi sullo stesso foglio, la gomma mi permette di modificare molto in
attesa di un’idea, con essa scavo. In fondo, l’arte è solo questo: aspettare che dalla gomma che cancella restino tracce da recuperare. È un lungo viaggio nell’attesa che avvenga qualcosa, fuori di te. Poi il disegno viene modificato dal colore, che nasce da uno stato d’animo. Si può ancora parlare della presenza dell’anima nel lavoro di un pittore, di un artista». E per lei c’è una relazione, anche semantica, tra questo e la parola arte. «Rispetto all’artista dico spesso che la parola arte inizia con a: l’amore è l’inizio della sua vita, la sua vocazione che esprime attraverso la forma ciò che si è; poi c’è la lettera r, la razionalità, il ragionamento che arriva sui 15-18 anni, ed ecco che il disegno permette di trovare un linguaggio più razionale, rivolto agli altri. Poi c’è la t della tradizione: attorno ai 40-50 anni ci si accorge che questa, il passato, sono fondamentali per esprimersi. L’ultima lettera è la e di estasi. Questa si raggiunge alla fine della vita, probabilmente alla mia età attuale, quando ci si rende conto che c’è qualcosa che neppure proviene da sé stessi: è ciò che i greci della classicità definivano l’essere abitati da un dio». E il suo rapporto con la scrittura? Accosta il suo tratto a quello di una mano che batte sulla tastiera, ha
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Capriccio, 1983 A destra: Ascensione, 1984
Seminari e mostre A Meina la fecondità del cancellare Chiusa alla metà di gennaio la monografica a cura di Rudy Chiappini alla pinacoteca comunale di Locarno – che in primavera toccherà Lecce, poi Napoli e probabilmente Roma – e alla fine del mese la retrospettiva al museo Boca Raton di Miami, sono attese le esposizioni nelle gallerie europee che rappresentano Valerio Adami: Templon a Parigi, Mayor a Londra e Hus a Berlino, ancora in primavera. Tra gli appuntamenti da ricordare c’è poi, come ogni anno, a Meina (Novara), sul lago Maggiore, un seminario il 15 luglio, data di nascita dello scomparso Jacques Derrida. Questa edizione, dedicata alla fecondità del cancellare, dovrebbe anche vedere una mostra coi disegni e le foto di Cartier Bresson e le sculture di Alberto Giacometti, per l’estate, ma molto dipenderà dall’aiuto della regione Piemonte, precisa lo stesso Adami.
conosciuto molti scrittori, alcuni li ha pure raffigurati. «Attraverso la scrittura ci si collega con un’altra parte del nostro pensiero, non solo del nostro occhio. La parola scritta può aggiungere qualcosa al titolo del quadro o contraddirlo, credo che a partire dal Quattrocento italiano essa faccia parte della forma della pittura. Riguardo alla scrittura come tale, gran parte della mia vita l’ho passata leggendo almeno un paio d’ore al giorno. Ho visto grandi scrittori come padri spirituali, ho incontrato persone straordinarie come Jacques Derrida, Norman Mailer, Carlos Fuentes. La letteratura, come la musica e la poesia, sono tra i nutrimenti più importanti per il mio lavoro di pittore. Ho avuto anche la grande fortuna di essere accompagnato da Camilla ovunque nella mia vita nomade, dall’Europa alle Americhe. L’India è ancora il mio paese rifugio, anche se è cambiata molto con la globalizzazione. Ovunque si vada, anche in Mongolia, oggi si possono trovare la stessa cucina internazionale o la stanza d’hotel che c’è a Napoli o in Costa Azzurra. Viaggiare era importante ma non lo è più, ora non consiglio a nessuno di cercare fuori dal proprio paese il confronto, il mito di Ulisse. Oggi il mito da seguire è piuttosto quello di Enea che portava sulle sue spalle il
padre Anchise, lasciando Troia. Questo vuol dire che in qualche modo dobbiamo ritrovare il nostro passato, riscoprire appunto il mito di Enea». Un film di qualche tempo fa titolava: Ogni cosa è illuminata (dal passato). C’è un rapporto tra la luce della memoria e la bellezza? La ricerca del bello è ancora possibile nel mondo d’oggi? «Mi auguro che l’arte possa dare ancora una visione poetica del vivere, che resti una realtà che ha a che fare con la costruzione di un principio estetico. Certo, non possiamo prevedere dove andrà la modernità, la strada è difficile, il presente ha bisogno di affermarsi sulla base del sistema mediatico che privilegia emozioni forti, trovate. In fondo la bellezza oggi passa attraverso l’orrore. Un tempo si diceva che New York era una città meravigliosa: era tale perché terribile, non si poteva uscire a “Downtown” perché era un luogo davvero violento. Oggi tutto si fonda sulla forza in un mondo crudele e violento, la bellezza si è persa, non so se sarà possibile ricostruirla. Le mode sono surrogati di una bellezza temporanea, limitata, direi commerciale. Ma penso che una delle grandi riforme più necessarie sia economica, credo molto di più alla decrescita che non alla crescita, basata su una falsa idea di sviluppo».
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l’arte prende corpo MIMMO CENTONZE
Dipingere la vita Il talento lucano: «Dai capannoni industriali al boss Riina tutto merita di essere immortalato sulla tela, la Bibbia mi ispira» di Maria Luisa Prete
L’artista Dalla bottega di Nosek alla Biennale Nato a Matera il 10 giugno 1979, Mimmo Centonze si avvicina all’arte da autodidatta. A 15 anni comincia a riprodurre opere dei grandi del passato. Nel 2000 si iscrive all’università di Bologna e frequenta il Dams. Nel 2004 entra a far parte della bottega del pittore Renato Nosek, già esponente della Nuova maniera italiana e dell’associazione di incisori Grafica di via Sette dolori a Matera. Nel 2007 le sue opere sono selezionate dalla commissione della LVII edizione del premio Michetti per la mostra Nuovi realismi. Nello stesso anno, partecipa alla mostra Nuovi pittori della realtà al Pac di Milano. Nel 2009 espone al museo della Permanente. Lo stesso anno la prima personale Lo spazio e il nulla, ideata e curata da Vittorio Sgarbi con testi di Oliviero Toscani e Marco Vallora alla galleria Il mappamondo di Milano. Nel 2010 espone nella sezione arte del festival dei Due mondi di Spoleto ed è finalista del premio Lissone. È vincitore del premio speciale Fondazione Roma alla terza edizione del Talent prize. Nel 2010 è inoltre curatore delle mostre Stirpe lucana a Firenze e Italo Squitieri, luce radente. Selezionato da Sgarbi tra gli artisti italiani alla Biennale di Venezia in programma a giugno. Vive e lavora a Matera.
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n talento del contemporaneo, plasmato dalla tradizione. Mimmo Centonze, lucano, classe 1979, ha vinto il premio speciale Fondazione Roma per la terza edizione del Talent prize e si prepara a una personale al palazzo delle Esposizioni. Una promessa del contemporaneo italiano che verrà consacrata alla prossima Biennale firmata Sgarbi: è infatti nella lista ufficiosa degli artisti chiamati a rappresentare il Belpaese. Formatosi da autodidatta, studiando i grandi autori del passato,
Centonze mixa con maestria e grande sensibilità tradizione e modernità, riuscendo a creare opere suggestive, nel solco della migliore figurazione italiana. «Le sue grandi tele ci disorientano e ci attraggono come la luce sul fondo di una caverna», dice di lui il critico ferrarese, suo mentore fin dagli esordi. L’artista racconta gli inizi e le tappe fondamentali della sua carriera. Come sei approdato alla pittura? «A 14 anni sono andato a Roma con le mie due sorelle. Siamo andati a salutare un caro amico, un ingegnere informatico che aveva l’hobby della pittura e riproduceva opere d’arte del passato. Al ritorno, mentre dormicchiavo sui sedili posteriori dell’auto,
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mi sono detto: questo lo so fare anch’io». Quali maestri ti hanno influenzato sia del passato che contemporanei? «Appena tornato da quel viaggio, mi sono dedicato allo studio dei trattati di pittura, antichi e moderni. Per sette anni non ho fatto altro che studiare le tecniche e poi applicarle copiando le opere dei maestri del passato. Ho iniziato con Leonardo, che mi ha attirato per il suo eclettismo, per l’interesse scientifico con il quale si rapportava sia al mondo che alla pittura e soprattutto per lo studio dell’anatomia. Ne ero talmente attratto che, per studiarle e disegnarle, ho portato nel mio studio un sacco pieno di ossa umane trovate in una fornitissima e segreta fossa
comune nei Sassi di Matera. La potenza plastica nelle opere di Michelangelo mi ha sbalordito. Quando ho afferrato la grandezza della personalità artistica di Tiziano e lo stregante uso che faceva del colore, qualcosa mi ha toccato profondamente. Gli ultimi autoritratti di Rembrandt mi hanno insegnato la sincerità. E poi Velasquez, Van Dyck e Frans Hals, che con quel suo immenso genio ha dato vita a pennellate taglienti e indipendenti, John Constable, per l’uso materico del colore e per i forti contrasti tonali nei suoi paesaggi, fino a Giorgio De Chirico e Lucian Freud. Anche Emilio Vedova mi ha stimolato: dipingere opere astratte è stata una parte importante del mio percorso che mi ha portato, dopo le figure,
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Ragazze sul parquet, 2006-2007 a sinistra: Totò Riina, 2010 Museo della Mafia, Salemi In basso: Il padre dell’artista, 2002 Nelle pagine precedenti: Mimmo Centonze davanti all’opera Capannone vincitrice del premio Fondazione Roma foto Manuela Giusto
a realizzare con sicurezza di segno i capannoni di ferro vecchio e i monocromi. E poi maestri come Vivaldi e Mozart hanno rappresentato un grande nutrimento spirituale per la mia arte». Cosa vuoi raccontare nelle tue opere? «Mi interessa tutto ciò che è anche solo sfiorato dalla vita. Quando ho presentato il ritratto di Totò Riina, conservato nel museo della Mafia di Salemi, molti hanno chiesto quale bisogno c’era di ritrarre un boss mafioso. Per me, invece, ogni volto è adatto a un ritratto. Non esiste uno più meritevole di un altro. Ciascuno è un universo pieno di vita in continua trasformazione. Se fossi eterno ritrarrei più volte tutta l’umanità. Anche i resti di ferro vecchio, abbandonati nei capannoni, sono come degli oggetti di una natura morta doppiamente sfiorata dalla vita: prima come frammenti già vissuti e poi risuscitati dalla luce che li invade». Cosa riesce a ispirarti? «Lo studio della Bibbia mi ha sempre ispirato. Sono
anni che la leggo ogni giorno e la rileggo per intero ogni anno. Studiarla mi dà equilibrio emotivo e un vero scopo nella vita perché mi avvicina al creatore, che considero il più grande artista dell’universo visto che ha creato tutto ciò che ci circonda dal niente. Proprio come quando un artista crea un’opera straordinaria da una tela completamente bianca». Oltre che artista, sei anche curatore. Come vivi questo doppio ruolo? «Come una cosa normalissima. È naturale che chiunque si dedichi con molte energie e attitudine all’arte, poi possa avere la libertà e la competenza di discuterne, se interpellato. Fin dal 1500, un caso emblematico di un artista non già curatore, vista l’epoca, ma storico dell’arte fu quello di Giorgio Vasari, pittore e architetto che conosceva a fondo le tecniche artistiche delle opere delle quali parlava. Un esempio più recente è stato quello di Lucian Freud, considerato da molti “il più grande artista vivente”, curatore di una grande
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retrospettiva sul pittore inglese John Constable». Vincitore di numerosi premi, non ultimo quello della fondazione Roma all’interno del Talent prize. Come vivi questi riconoscimenti del tuo lavoro? «È sempre un grande privilegio veder riconosciuto il proprio lavoro quando si è molto giovani e soprattutto ancora in vita. La storia ci insegna che non capita sempre e perciò lo apprezzo e cerco di non prenderlo mai per scontato. Sotto questo aspetto, devo moltissimo a Vittorio Sgarbi che, da quando mi ha conosciuto, è stato il mio vero padre artistico. Con lui non ho mai parlato espressamente delle mie opere ma quando ne ha scritto o riferito in pubblico è stato come se fosse entrato nella mia mente e nel mio cuore e avesse letto, semplicemente come in un libro, i miei pensieri più reconditi. C’è stata sempre una grande affinità reciproca. Sgarbi è un essere irripetibile e la sua sensibilità per le cose dell’arte è geniale. È rassicurante sentire l’appoggio di persone così energiche e
piene di vitalità, così come lo è stato anche Emmanuele Emanuele, presidente della fondazione Roma e dell’azienda speciale Palaexpo, che assegnandomi il premio all’ultima edizione del Talent prize è come se mi avesse dato una paterna stretta di mano, incoraggiandomi a proseguire. Lui è davvero un moderno mecenate oltre che possente poeta, e attraverso la fondazione svolge una vigorosa attività di supporto all’arte, alla cultura e agli artisti. Sono immensamente grato e onorato di avere incontrato persone così speciali». I prossimi progetti. «Nel 2011 porterò in Sicilia la seconda tappa, dopo Milano, della mia personale Lo spazio e il nulla al museo della Real cantina borbonica e poi ci sarà una nuova personale alla Gam di Milano. Per il 2012 ho già firmato il contratto per una mostra al palazzo delle Esposizioni di Roma, con una selezione di opere degli ultimi dieci anni».
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i luoghi del bello
PALAZZO FARNESE
IL DADO delle MERAVIGLIE L’ambasciata di Francia già dimora di Paolo III apre le sue porte al pubblico con una mostra sulle sue collezioni di Margherita Criscuolo
«C
olossale, imponente, magnifico, decorato da nobil piazza, e fontane con conche di granito: è insomma una delle meraviglie di Roma». Così Giuseppe Antonio Guattani parlava di palazzo Farnese nella sua Roma descritta e illustrata del 1805. A due secoli di distanza, non si potrebbe dire altrimenti. Palazzo Farnese è un gioiello dell’architettura rinascimentale. Sorge maestoso a due passi da Campo de’ Fiori, verso cui si orienta voltando le spalle a via Giulia, dove affaccia lo storico ingresso riaperto in occasione della mostra sulle collezioni dei Farnese. Il prospetto imponente domina la piazza omonima dove Paolo III, deus ex machina del complesso, fece trasportare due vasche monolitiche dalle Terme di Caracalla. Appartenente a una famiglia originaria di Canino, nel viterbese, l’ex cardinale Alessandro voleva elevare la propria stirpe a quella delle più importanti casate romane. Si deve a lui l’acquisto di un fatiscente palazzetto e dei suoi dintorni, e la creazione del cosiddetto “dado” Farnese, considerato una delle quattro meraviglie di Roma, insieme al cembalo dei Borghese, alla scala dei Caetani e al portone dei Carboniani. Rifugio di Francesco II dopo il crollo del Regno delle Due Sicilie, nel 1861, oggi il palazzo è sede dell’ambasciata di Francia. Comprato dai cugini d’oltralpe nel 1911, venne rivenduto allo stato italiano nel 1936, anno in cui i due stati sottoscrissero un accordo intergovernativo che prevedeva la locazione delle due ambasciate, quella italiana a Parigi e quella francese a Roma. Da allora il palazzo è diventato simbolo della ricchissima storia di ambedue i paesi e la cornice di eventi che vanno dalla visita del generale De Gaulle a quella di papa Giovanni Paolo II. L’ex dimora della famiglia ospita fino al 27 aprile la mostra Dalle collezioni rinascimentali ad ambasciata di Francia, ideata dall’ambasciatore Jean-Marc de La Sablière e volta a ricontestualizzare alcune delle opere d’arte originariamente conservate nella dimora e nei secoli disperse in vari musei d’Italia. Tra un’apertura del portone e l’altra si intravede il cortile terminato dal Buonarroti, mentre dalle finestre del piano nobile, inquadrato dal portale e dal balcone michelangiole-
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Cortile interno di palazzo Farnese coi tre ordini dei capitelli: dorico, jonico e corinzio A sinistra: Facciata e dettagli del palazzo foto Manuela Giusto
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La sede Ambasciata di Francia, già rifugio di Francesco II Palazzo Farnese, sede dell’ambasciata di Francia a Roma, già rifugio di Francesco II Borbone, domina con l’elegante prospetto rinascimentale la piazza omonima. La sua costruzione, iniziata nel 1514 da Antonio da Sangallo per volere di Alessandro Farnese, si dispiega per tutto il ‘500 e vede impegnati Michelangelo, con l’architrave della finestra centrale della facciata, il cornicione e il completamento del cortile, il Vignola e Giacomo Della Porta. All’interno della dimora, nell’attuale studio dell’ambasciatore, Francesco Salviati e Taddeo Zuccari hanno immortalato i fasti dei Farnese, mentre nel camerino dell’Ercole i Carracci hanno celebrato il committente Ranuccio come principe filosofo. Ma è la galleria dei Bolognesi il fiore all’occhiello del palazzo, con il trionfo dell’unione delle Veneri celeste e terrena, e con il ciclo di affreschi profani più bello di Roma. Palazzo Farnese, piazza Farnese 67, Roma. Info: 06488991; www.palazzofarnese.it.
schi, filtrano i colori vividi dei Fasti, affrescati da Francesco Salviati e dai fratelli Zuccari, Taddeo e Federico, sulle pareti del Salotto dipinto, come era chiamato l’attuale studio dell’ambasciatore. Qui la famiglia viene celebrata sin dalle sue presunte origini medievali in un sistema iconografico complesso, degno della più autorevole tradizione manierista. Francesco de’ Rossi, alias Salviati, fiorentino, viene introdotto a corte dal protettore Giovanni Salviati da cui mutua il nome. Lavora ai Fasti tra il 1555 e il 1556, traendo ispirazione dall’architettura compositiva della sala Paolina del vicino Castel sant’Angelo. Completa le pareti lunghe prima di partire per la Francia e viene sostituito dagli Zuccari. Un altro ambiente di particolare pregio è la camera di Bacco, ornata da un sontuoso soffitto ligneo intagliato su disegno di Antonio da Sangallo, sotto al quale corre un fregio ad affresco con Storie di Bacco e cornici in stucco. Come testimonia Giorgio Vasari nel 1568, ne è autore Daniele da Volterra, il quale s’era guadagnato la stima dei mecenati con gli affreschi della cappella di Elena Orsini a Trinità dei Monti. A metà del Cinquecento Paolo III muore dopo aver gettato le fondamenta di un’impresa cui ha legato inscindibilmente il nome dei Farnese. In quindici anni il palazzo viene tirato su da Antonio da Sangallo, poi ci lavorano Michelangelo, Jacopo Barozzi da Vignola e Giacomo della Porta e, contemporaneamente, viene arricchito da una collezione di oggetti d’arte: dipinti di Tiziano, mobili, arazzi e statue antiche molte delle quali estratte dalle rovine delle Terme di Caracalla di cui il papa è riuscito a impossessarsi e che
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andranno ad alimentare il cosiddetto museum Farnesianum. L’Ercole, la Flora e l’Atlante Farnese scandivano i sottarchi del cortile e la Venere callipige mostrava con classica eleganza il suo tornito fondoschiena. Nella seconda metà del Cinquecento i cardinali Alessandro, Ranuccio e Odoardo, eredi del pontefice, proseguono l’opera di mecenatismo. Alle soglie del Seicento, Odoardo chiama in città da Bologna i fratelli Annibale e Agostino Carracci che infondono al palazzo una ventata d’aria nuova. A loro si deve il più bel ciclo di affreschi profani a Roma, la cosiddetta Galleria dei Carracci, celebrazione dell’unione delle Veneri celeste e terrena e omaggio di Odoardo per le nozze del fratello Ranuccio con Margherita Aldobrandini. Nei lavori della galleria si inframmezza il camerino dell’Ercole, dove lavorano fianco a fianco i due fratelli. Nella piccola stanza la celebrazione di Odoardo assume i toni di encomio e ammonimento: il cardinale è l’Ercole al bivio della tela centrale, colto nel momento della scelta fatidica tra vizio e virtù, impersonati rispettivamente da una donna sensuale che indica un sentiero breve e fiorito – citazione dipinta della Venere “callipige”, cioè dalle belle natiche – e da una matrona modesta e dignitosa che addita un cammino lungo e impervio. Nel camerino Annibale realizza un monocromo che imita ad affresco una ricca varietà di stucchi, interrotti dalle aperture colorate delle lunette e degli ovali color ambra che fingono le gemme. Protetti da imposte sempre chiuse per preservarne il colore prezioso, gli affreschi della galleria decorano interamente la sala, dalla volta alle pareti. Al centro del pro-
gramma iconografico sta l’idea dell’amore e dei sentimenti. Il ciclo racchiude i diversi episodi in finte cornici dorate collocate illusionisticamente con la tecnica del quadro riportato. Tratteggi, puntinati e colpi di pennello fanno vibrare la superficie creando effetti di luce e ombra. Il naturalismo della luce e il chiaroscuro colorato rimandano a Correggio ma le divinità carnali e possenti ricordano la volta della Sistina di Michelangelo e la loggia della Farnesina di Raffaello. Annibale non copia mai ma combina le suggestioni diverse che ha a disposizione e riesce a dar vita a un miracolo di natura e sensualità, tale da costituire, come ha evidenziato Silvia Ginzburg, il testo più antimanierista dell’arte italiana. «Come ha capito Lanzi – spiega la Ginzburg – la Galleria è il monumento del progetto italiano dei Carracci: “Tutto il resto ancora spira greca eleganza, raffaellesca grazia, imitazioni non pure del suo Tibaldi, ma del Buonarroti ancora, e quanto di gaio e di forte avean aggiunto alla pittura i Veneti ed i Lombardi. Questa fu la prima opera ove, come in una Pandora, tutti i geni delle scuole italiane unissero i loro doni”». La studiosa evidenzia come questo processo «investa inevitabilmente anche il repertorio delle statue antiche. Nelle nicchie che si aprono lungo le pareti della galleria si trovavano alcune delle sculture della collezione, ma molte statue compaiono trasfigurate negli affreschi; appartenenti a palazzo Farnese e oggi visibili al museo Archeologico di Napoli (l’Ercole, il gruppo di Pan e Dafni, il busto di Caracalla, il Guerriero morente), ma anche la Cleopatra del Vaticano e i Satiri “Della Valle”».
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Sotto: Giardino di palazzo Farnese e dettaglio galleria del Carracci Foto Zeno Colantoni
La mostra Da Tiziano ad Annibale Carracci
A destra: Le gallerie di Annibale Carracci
Palazzo Farnese Giunti 479 pagine 48 euro
Nella pagina precedente: da sinistra, statua di Afrodite cosiddetta Callipige il curatore della mostra Francesco Buranelli (foto Manuela Giusto) Annibale Carracci, Ercole al bivio Tiziano Vecellio, Ritratto di Paolo III
La mostra Palazzo Farnese, dalle collezioni rinascimentali ad ambasciata di Francia, è curata da Francesco Buranelli, segretario della Pontificia commissione per i beni culturali e della chiesa, e da Roberto Cecchi, segretario generale del Ministero per i beni e le attività culturali. Fino al 27 aprile il pubblico ha la possibilità di ammirare all’interno del prezioso palazzo rinascimentale opere antiche appartenenti al museum Farnesianum e di nuovo in loco, tra cui i famosi Daci prigionieri di ritorno da Napoli. Il cortile è ripopolato in modo virtuale con le sagome dell’Ercole latino e dell’Ercole e del Toro Farnese mentre tra gli arredi spiccano gli arazzi del Quirinale e lo studiolo del museo di Ecouen. Arricchiscono la quadreria il Ritratto di Paolo III di Tiziano, opere di Sebastiano del Piombo, El Greco e l’Ercole al bivio di Annibale Carracci, ora a Capodimonte ma in origine nel camerino dell’Ercole. Info: www.mostrapalazzofarnese.it.
Nel XVIII sec il palazzo passa al re Carlo VII di Napoli, della famiglia dei Borbone di Spagna, figlio dell’ultima discendente della famiglia, Elisabetta Farnese. Nel 1860 vi risiedette Francesco II di Napoli, dopo la perdita del regno, e in questa occasione furono condotti lavori ad opera dell’architetto Antonio Cipolla ed eseguiti alcuni affreschi. La mostra ospitata dal palazzo mira a svelare le bellezze della dimora rinascimentale. Lontana da essere una tradizionale esposizione, la mostra è un viaggio nel tempo che catapulta lo spettatore in un universo unico e ricco di fascino, fatto di contenitore e contenuto: quello del mecenatismo dei Farnese che ha reso il palazzo uno degli esempi più preziosi dell’arte italiana. Francesco Buranelli, curatore della mostra insieme a Roberto Cecchi, sottolinea il ruolo di centro propulsivo di cultura che il palazzo conserva vivo attraverso l’Ecole française de Rome: «È suggestivo pensare che, dal Rinascimento a oggi, a palazzo Farnese sopravvivono, non solo le classiche architetture di Sangallo e Michelangelo, non solo i vividi colori di Salviati e Carracci, ma anche, e forse più di tutto, si respira ancora quell’atmosfera di studio, di ricerca e di amore del sapere che vi infusero, con quella straordinaria condivisione di intenti che ha fatto del Rinascimento un momento irripetibile della nostra storia, potenti mecenati e grandi umanisti. Uno spirito che continua a vivere attraverso la biblioteca e le ricerche della scuola francese e attraverso l’intelligente e colta attività degli ambasciatori di Francia presso l’Italia da sempre promotori di convegni, dibattiti, concerti».
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i luoghi del bello CASA ALBERTO MORAVIA
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Il rifugio del maestro Diventa museo l’ultima abitazione romana dell’autore degli Indifferenti di Simone Cosimi
Non serve troppo impegno per immaginarselo ogni mattina, per almeno cinque ore, ricurvo sulla sua fedele Olivetti 82 a partorire lavori come L’attenzione, Io e lui, L’uomo come fine o la controversa Vita interiore. Libri che avrebbero segnato la seconda fase della sua produzione. Alberto Moravia si trasferì nello spazioso attico di lungotevere della Vittoria nel 1963 insieme alla seconda compagna della sua lunga vita, l’allora giovanissima Dacia Maraini. Pochi mesi prima aveva lasciato Elsa Morante e, col suo primo e turbolento matrimonio, aveva chiuso la porta del campo di battaglia di via dell’Oca. Sul lungotevere – viaggi e vagabondaggi a parte – sarebbe sempre tornato e rimasto per ventisette anni. Fino a quel 26 settembre 1990, quando fu trovato morto, dalla sua governante nel bagno della sua casa. Un appartamento al quinto piano di un edificio signorile ma bisognoso da tempo di generose cure. «Si respira il clima di quegli anni – dice Nour Melehi,
segretaria dell’associazione Fondo Alberto Moravia, che si occupa di guidare il visitatore in quello che da dicembre è un museo a tutti gli effetti, dopo la donazione delle eredi al comune di Roma – avvolti dalla biblioteca e dell’archivio, che conta oltre 12mila documenti, e dalle tante opere d’arte che tappezzano le pareti». Dall’arcinoto ritratto firmato dall’amico Renato Guttuso all’enorme tela celeste di Mario Schifano sistemata all’ingresso. Passando per Sergio Vacchi, Corrado Cagli, Lorenzo Tornabuoni, Giulio Turcato, Onofrio Martinelli e tanti altri protagonisti del panorama italiano fra gli anni Sessanta e Settanta. Senza contare l’autentica invasione di maschere etniche, frutto delle frequentissime visite di Moravia in giro per il mondo, dall’amato continente africano all’Asia. «A parte l’ambiente più conviviale e snodo principale della casa, dove accoglieva gli ospiti – continua Melehi – il resto delle stanze è caratterizzato da una sobrietà tipica del personaggio. Ogni pezzo, a partire
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dalla scrivania dello studio realizzata dall’amico scultore Sebastian Shadhauser, ha senz’altro una sua storia. Ma è una casa essenziale e ragionata». Verrebbe quasi da dire, se non fosse per quelle facce spalancate che fanno la linguaccia appena s’imbocca il salotto dal lungo corridoio o ci si perde fra lo studio e la camera da letto in cerca dell’archivio, che l’appartamento di lungotevere della Vittoria ricordi il periodare secco e tagliente del Moravia romanziere. Una specie di sineddoche invertita: si varca la soglia dentro e si pensa subito all’incipit graffiante di qualche suo volume. E, soprattutto, si respira quel sottile disincanto sul mondo, quel velo di partecipativa distanza che è stata la sua cifra stilistica per tutta una vita, dagli Indifferenti, fulmineo esordio del 1929 – di cui si conserva con sacrosanta cura la prima edizione
– all’incompiuta Donna leopardo. La noia, la chiamava e la chiamavano. Chissà se poi era davvero un sentimento di quel genere. «D’altronde – prosegue la rappresentante del fondo – una vasta parte della produzione letteraria di Moravia fu pubblicata proprio dopo il trasferimento nella nuova abitazione, che più tardi avrebbe anche accolto la nuova moglie Carmen Llera, sposata nel 1986». Le donne, croce e delizia del Moravia uomo. Tre personalità forti, granitiche, tre compagne nel vero senso della parola. Le ultime due saltano fuori – come nel ritratto della Llera firmato dalla sorella pittrice Adriana Pincherle – anche da qualche tela casalinga. «Moravia aveva avuto altre avventure già prima di conoscere la Morante, appena liberato dai lacci della tubercolosi che lo inchiodò al sanatorio di Codevilla fino al 1925 – rac-
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conta Melehi – tuttavia credo che a conti fatti abbia amato molto tutte e tre. Certo, sono stati a tratti rapporti impegnativi, ma condivisi con altrettante personalità della letteratura e dell’editoria italiana». Un impegno, quello di Moravia, che oltre al fronte romantico, s’è sviluppato nel corso di un’esistenza stuzzicata da interessi vastissimi oltre che da una serie d’illuminanti profezie, oggi più brillanti d’allora. Basti pensare alla tignosa campagna contro il nucleare portata avanti da parlamentare europeo, nel 1984. Ma i documenti dell’archivio dipingono un personaggio rotondo, segnato da una miriade di letture sulle arti visive, la psicanalisi, le intriganti culture extraeuropee che ha cercato per una vita e trapiantato a Roma, i lati nascosti della letteratura straniera. E poi lettere, periodici – senza
dimenticare il giornalismo, le recensioni per L’espresso e i reportage per i quotidiani che lo spedirono ai quattro capi del globo – oltre ai manoscritti. Un impasto di vita e lavoro, lettere e arti, passione e intransigenza, severità e cultura, amici e (dis)impegno. Il ritratto, fatto di mattoni, piastrelle e cassapanche, di un onesto intellettuale artigiano. Rimosso troppo facilmente dall’agorà culturale degli ultimi vent’anni, in un appannato velo di semplicismo: «L’associazione, costituita il 16 dicembre 1991, serve proprio a questo – conclude Melehi – ricordare Moravia, studiarne l’opera e riportarla al centro della discussione. Recuperarne gli aspetti più originali. Avere finalmente aperto la sua casa, l’officina da cui si disintossicava ogni pomeriggio, scappando al cinema o in trattoria, servirà a promuovere questa missione». In alto da sinistra: alcuni ambienti di casa Moravia e Nour Melehi dell’associazione Fondo Alberto Moravia
La casa Diciottesimo museo civico L’abitazione in cui Alberto Moravia visse dal 1963 al 1990 è la diciottesima acquisizione del sistema Musei civici di Roma capitale grazie all’impegno dell’assessorato alle Politiche culturali e dell’associazione Fondo Alberto Moravia con il supporto di Zètema. Nulla sarebbe stato possibile senza la donazione delle eredi, Dacia Maraini e l’ultima moglie Carmen Llera. Si visita solo su prenotazione obbligatoria in gruppi di 15 persone. Ospita anche cicli di didattica per le scuole. Roma, lungotevere della Vittoria 1. Info: 060608; www.museiincomuneroma.it.
A sinistra: la pianta dell’appartamento A destra: la macchina da scrivere Olivetti 82 Nelle pagine precedenti: la prima edizione degli Indifferenti e il ritratto di Alberto Moravia realizzato da Renato Guttuso nel 1982 foto Manuela Giusto
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l’arte del libro 4. IL PRIMATO ISLAMICO
QUANDO L’ARABIA
era felix di Flaminio Gualdoni
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La scrittura e il libro sono sacri perché riportano la parola divina, secondo l’insegnamento del Profeta, ma a un grado diverso sacri sono tutti i libri, attraverso i quali il mondo può essere compreso
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Un’immagine dell’università Al-Azhar fondata nel 970 al Cairo: già all’epoca la sua biblioteca possedeva un milione e seicentomila volumi, un primato assoluto per il tempo A destra: una pagina del Liber abbaci col quale Leonardo Fibonacci fece conoscere algebra e numerazione araba all’Europa
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a carta è invenzione cinese, ma è il mondo arabo a incaricarsi di farla giungere sino all’Europa cristiana. Si scrivono e collezionano testi soprattutto a Baghdad, città ricca e splendente che per un periodo non breve interpreta davvero il ruolo di capitale della cultura del suo tempo. È a Baghdad che vive il califfo Harun al-Rachid, contemporaneo di Carlo Magno. Governatore della Umma islamica e uomo di vasta curiosità e cultura, egli fa venire da Samarcanda i fabbricanti di carta e instaura alla sua corte un’ampia e organizzata officina di scrittura. Inizia così la fase di fissazione scritta di molti elementi della cultura araba – la stessa redazione della tradizione orale delle Mille e una notte, in cui i richiami ad Al-Rachid sono precisi, pare risalga al suo regno – e di traduzione della grande letteratura classica. Nella Bayt al-Hikma, la “casa della scienza”, egli e il figlio Al-Mamun organizzano la più grande biblioteca mai esistita dai tempi di quella d’Alessandria, facendo sorgere nel suo seno un’istituzione scolastica da cui deriverà l’università. Per fornire la sua biblioteca Al-Rachid assolda intellettuali poliglotti di grande erudizione come i cristiani siriaci Hamid Ibn Isaac e Isaac Ibn Hamid, padre e figlio, il cui compito è volgere in arabo i grandi testi della cultura antica, da Platone ad Aristotele, studiarli, commentarli. I libri sono poi trascritti dai warraqin, i copisti. Alcuni lavorano a corte, ma molti operano anche privatamente: nel IX secolo a Baghdad si contano un centinaio di rivendite di libri, e la carta è così diffusa che è dall’arabo antico che deriva il termine risma, indicante allora come oggi un blocco di 500 fogli. La scrittura e il libro sono sacri perché riportano la parola divina, secondo l’insegnamento del Profeta, ma a un grado diverso sacri sono tutti i libri, attraverso i quali il mondo può essere compreso. Nel volgere di pochi decenni le biblioteche del mondo islamico si moltiplicano, e tramandano ed elaborano cultura con una vastità che nessuna raccolta monastica europea può neppure sognare. Al Cairo, dove nel 970 viene fondata l’università AlAzhar, la Khinzana al-
Kutub può vantare oltre un milione e seicentomila manoscritti, e la biblioteca di Cordova quarantamila, nel tempo in cui la Vaticana ne possiede un migliaio. Dobbiamo all’espansione araba in Spagna se, almeno in piccola parte, la cultura greca ed ellenistica torna a nutrire gli studi europei. Le differenze religiose sono radicali e insormontabili, certo: ma su un piano diverso la reciproca curiosità intellettuale porta a scambi fondamentali. Per citare il più emblematico, è grazie ai suoi viaggi a Costantinopoli e alla sua conoscenza degli scritti di Abu Ja’far Muhammad ibn Musa Khwarizmi, responsabile della biblioteca di Baghdad ai tempi di AlRashid, che nel 1202 Leonardo Fibonacci diffonde nell’Europa cristiana con il Liber abbaci la numerazione araba, lo zero e l’algebra. Poi, come sovente accade, la guerra si incarica di cancellare l’opera umana. Quando nell’ultimo decennio del ‘300 il feroce Tamerlano si impadronisce di Baghdad, le biblioteche vengono incendiate e molti libri, simboli di una superiorità culturale che egli non può accettare, vengono gettati con disprezzo nel Tigri. Ma ormai semi della grande arte araba del libro si sono ben radicati anche altrove e fruttificano soprattutto nel campo della calligrafia. In una cultura non iconica come l’islamica la calligrafia con cui si scrive il Corano è essa stessa decorazione, oltre che preghiera: la tradizione ricorda che Ibn Muqla undici secoli fa codificava una scrittura perfettamente proporzionata e i sei stili principali; e Yaqout, Mir ‘Ali, Soltan ‘Ali Machhadi, ‘Abd al-Djabbar, sono considerati geniali calligrafi. Tuttavia, salvo l’interdetto della raffigurazione del divino, in Persia come in India e in Turchia anche il mondo islamico conosce forme evolutissime di miniatura figurata, assai codificata e stabile, in fervido scambio con la bizantina e in seguito con l’umanistica italiana. Nel 1479 Gentile Bellini viene invitato dal sultano Maometto II a Istanbul per portarvi l’arte di cui Venezia mena vanto. I grandi miniatori di corte che Orhan Pahmuk fa protagonisti del suo Il mio nome è rosso vivono alla fine del ‘500, quando tra la Persia e Istanbul è normale figurare utilizzando anche artifici occidentali come la prospettiva. Ormai cultura araba e cultura cristiana hanno intrecciato indissolubilmente i loro destini.
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editoria & arte SPECIALE 150
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omaggio alla nazione dal catalogo Editalia
1948
La costituzione della repubblica italiana
Prosegue il viaggio ideale dalla Storia della lira nel regno di Vittorio Emanuele III all’avvento della repubblica
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ontinuiamo il viaggio ideale nel catalogo dell’azienda che per tradizione e natura si occupa da quasi sessant’anni di realizzare progetti culturali volti a valorizzare il patrimonio storico e culturale italiano scegliendo delle letture trasversali della storia del paese, della sua ricchezza artistica, della sua rara tradizione artigianale. Dopo aver presentato nel numero scorso le opere che afferivano al racconto del primo periodo unitario abbracciando luoghi, uomini e simboli ideali dell’Ottocento, in questo spaccato del catalogo Editalia vogliamo mettere in luce alcune opere che percorrono cronologicamente il regno di Vittorio Emanuele III, fino alla caduta della monarchia e all’avvento della repubblica. Un’inconsueta galleria di momenti significativi improntata alla circolazione di valori e idee ma anche portavoce della vitalità della cultura degli antichi mestieri che Editalia contribuisce con le proprie opere a mantenere viva.
Centenario dell’istituzione dell’arma dei carabinieri
1861
Il Conte di Cavour 1810-1861
1946 1911 Il conio della prima lira
Unità d’Italia del cinquantenario
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1957 La lira della Repubblica
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1900
Le 500 lire Caravelle
Roma capitale
1922
Storia della lira nel regno di Vittorio Emanuele III
1848
Scritti e discorsi di Benito Mussolini L’Italia nell’Ottocento
1860 2000
Giuseppe Garibaldi 1807-2007
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2011 La lira dell’unità d’Italia 1861-2011
La lira siamo noi
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Cento libri per mille anni
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1900 Storia della lira nel regno di Vittorio Emanuele III Editalia e la Zecca dello stato con il progetto dedicato alla Storia della lira del regno e della repubblica hanno intrapreso il racconto della storia d’Italia attraverso la sua moneta corrente: la lira. Vittorio Emanuele III, salito al trono nel 1900, si dedica al rinnovamento della produzione numismatica del Regno. Il giovane re, appassionato ricercatore e studioso di monete nel 1905 istituisce una Commissione permanente per vigilare sulla qualità della produzione nazionale con l’obiettivo di rinnovarne l’iconografia, richiamandosi alla grande tradizione medaglistica rinascimentale e barocca. A tale scopo il re fonda nel 1907 all’interno della Zecca la Scuola dell’arte della medaglia, scuola altamente specializzata per la formazione artistica di giovani medaglisti da applicare nell’ambito della monetazione. Il palazzo della zecca, tuttora sede della scuola e del museo, diventa il centro dell’ideazione, modellazione e produzione delle nuove emissioni delle lire riformate nello stile e nella modellazione plastica. È qui che dai modelli di abili scultori quali Davide Calandra, Leonardo Bistolfi, Pietro Canonica e Egidio Boninsegna vedono la luce, nei primi due decenni del regno le più belle monete del mondo, e sempre nella zecca con Giuseppe Romagnoli si assesta la grande tradizione italiana della coniazione monetale dei decenni successivi. Costituiscono questa inedita collezione nove monete in oro e argento, selezionate fra le più belle e significative del periodo 1901–1936. Seguendo l’evoluzione del loro stile e delle loro iconografie, dal liberty al trionfalismo retorico del ventennio, i nove esemplari ci guidano attraverso il cambiamento della prospettiva storica italiana dall’insediamento del giovane re alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo.
1914 Centenario dell’istituzione dell’arma dei carabinieri Nel volume di pregio sono raccontati i primi cento anni della storia dell’arma dal 1814 al 1914, anni fondamentali della storia d’Italia. Il corpo dei carabinieri reali fondato da Vittorio Emanuele I ha il privilegio di essere considerato il primo corpo dell’armata e ciò ha costituito nel tempo la caratteristica istituzionale più alta e significativa. Seguire la storia dei carabinieri attraverso le testimonianze coeve, significa verificare la permanenza di valori quali la lealtà, il coraggio, la fedeltà, l’abnegazione, la fierezza, la solidarietà in un ampio arco di tempo che abbraccia le vicende tumultuose degli anni del Risorgimento, le esperienze nelle colonie d’Africa, la repressione del brigantaggio fino alle testimonianze dirette dei più importanti avvenimenti dell’epoca garibaldina, mazziniana e della Grande guerra. Vicende che hanno contrassegnato la storia dell’unità d’Italia.
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Un’inconsueta galleria di momenti significativi improntata alla circolazione di valori e idee, ma anche portavoce della vitalità degli antichi mestieri che Editalia contribuisce con le proprie opere a mantenere viva
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1922 Scritti e discorsi di Benito Mussolini L’opera Scritti e discorsi di Benito Mussolini. 19141939, in 12 volumi, fu edita da Ulrico Hoepli nel 1934 e ristampata dall’Istituto poligrafico dello stato nel 1939. Oggi Editalia, proseguendo la sua ormai tradizionale opera di recupero culturale della storia italiana, propone la versione integrale dell’opera, nella veste originale, comprendente scritti e discorsi di Benito e Arnaldo Mussolini dal 1914 al 1939, con una presentazione del 1933 dello stesso Mussolini. Gli scritti di Mussolini sono quelli pubblicati sul Popolo d’Italia negli anni della Grande guerra. Del 1919-20 sono gli articoli pubblicati sulla rivista Gerarchia e discorsi pronunciati in varie occasioni a Udine, a Cremona, a Milano, a Napoli. Con il 1922 iniziano le dichiarazioni presidenziali al Senato, alla Camera dei deputati, le arringhe alla folla e i discorsi storicamente noti fino ad arrivare agli scritti e ai discorsi dell’impero e alle interviste rilasciate a giornali stranieri, giungendo nel 1938, al discorso ad Hitler comandante delle forze armate del Reich, l’“Anschluss” del 16 marzo, la guerra in Spagna. Il dodicesimo volume termina con gli scritti e i discorsi del 1939. Un volume a parte, dal titolo Parla con Bruno, contiene i ricordi di Mussolini scritti in memoria del figlio aviatore, volontario nella guerra di Spagna, morto in un incidente nel 1941. L’opera è una rarità editoriale che porta in filigrana il marchio della Libreria dello Stato.
1948 La costituzione della repubblica italiana Editalia ha celebrato i sessant’anni dall’entrata in vigore della costituzione Italiana realizzando un’opera che racchiude la sintesi dei valori di unità e coesione nazionale della repubblica italiana. L’opera è composta dalla ristampa anastatica della costituzione originale conservata all’archivio di stato di Roma con il timbro a secco e le firme del capo provvisorio dello stato Enrico De Nicola, del presidente dell’assemblea costituente Umberto Terracini, del presidente del Consiglio Alcide de Gasperi e del ministro guardasigilli Giuseppe Grassi, e dall’emissione speciale della medaglia realizzata dai modelli di Laura Cretara – già direttrice della Scuola dell’arte della medaglia e incisore della Zecca per oltre 40 anni – che rappresenta al diritto il profilo di una giovane Italia coronata di spighe e contornata dalle stelle dell’Unione europea e al rovescio un ramo di ulivo intrecciato ai sessant’anni all’interno di un esagono che simbolicamente rimanda alla cella di un alveare, esempio di vita comunitaria. La collezione è completata da una cartella con la riproduzione di quattro manifesti di propaganda in dimensione originale e dalla carta della costituente con i risultati del voto. Con le celebrazioni del 150esimo anniversario dell'unità d’Italia, riaffermare il valore costituzionale dell'unità nazionale, alla base della storia del nostro paese, è il presupposto irrinunciabile per il suo futuro.
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comunicare ad arte FERRARI WORLD ABU DHABI
IL SOGNO ROSSO sbarca nel golfo Persico Egidio Donato, direttore commerciale Editalia: ÂŤUna partnership fondata sugli stessi valoriÂť di Silvia Bonaventura
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Sculture in movimento La F10 di Alonso e Massa La terza edizione della serie Sculture in movimento, realizzate da Editalia Gruppo Istituto poligrafico e Zecca dello stato per Ferrari, è la F10, la monoposto di Formula Uno guidata da Massa e Alonso nel mondiale 2010. Dal modello di gesso alla fusione in metallo, dalla lucidatura della scocca all’assemblaggio fino al ritocco di precisione dei dettagli, ogni elemento è stato realizzato con perizia artigianale. Si tratta di una scultura in bronzo laminato, creata con la tecnica della microfusione a cera persa, in scala 1/43 in edizione limitata per Ferrari Middle east, Africa e per i Ferrari “owners”. Info: www.editalia.it.
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na stella rosso fuoco con tre punte doppie e il logo del cavallino rampante spicca nel mezzo del deserto. È il Ferrari world, il primo parco a tema dedicato alla Ferrari che è stato inaugurato il 4 novembre nel cuore degli Emirati Arabi, ad Abu Dhabi sul golfo Persico. Un “paese delle meraviglie” che si estende per oltre duecentomila metri quadrati, di cui ottantaseimila coperti, realizzato in poco meno di cinque anni dall’equipe di architetti guidati da Jack Rouse, che vanta nel suo portfolio altri grandi progetti simili tra cui gli Universal studios di Orlando, in Florida, l’Ocean park di Hong Kong, in Cina, e la Legoland di Windsor, in Inghilterra. Sono oltre venti le attrazioni a disposizione dei visitatori, adatte a tutte le età: si va dalla Formula Rossa, le montagne russe più veloci al mondo allo “Speed of magic”, un viaggio in 4d che riproduce le avventure di un giovane in una caleidoscopica ambientazione da sogno tra natura e paesaggi eccezionali; si può provare il brivido (virtuale) di un’eccitante corsa su un sedile ispirato alla Enzo oppure scegliere una più “tradizionale” gara con la Scuderia challenge, il simulatore di corse simile a quelli usati dai piloti durante l’allenamento. E ancora effettuare una tranquilla gita virtuale oltre le porte del famoso stabilimento Ferrari a Maranello. Per i più piccoli c’è la
Junior gt, la scuola di guida con istruttori esperti dedicata ai bambini. E poi via allo spazio culturale con proiezioni sulla vita di Enzo Ferrari, percorsi dall’aereo in giro per l’Italia seguendo una Rossa, la galleria Ferrari seconda per dimensioni solo a quella di Maranello, disegni di prototipi, ricostruzioni di motori e tutto quello che è il patrimonio artistico, storico e culturale della Ferrari. E in questa dimostrazione d’eccellenza italiana non poteva certo mancare Editalia, che con le sue Sculture in movimento dedicate alle vetture di Maranello sta da tempo contribuendo a rafforzare l’immagine Ferrari nel mondo. Dopo il successo riscontrato prima con la scultura della 365 Gtb4 comunemente chiamata Daytona e poi quello dell’asta indetta dalla Christie’s dei motori, la casa Rm Auction di Monaco, che ha battuto la microfusione della Enzo per una cifra importante, ecco che si preannuncia l’ennesimo successo con la vettura che è forse la più veloce della casa: la F10, la monoposto guidata nel mondiale Formula Uno 2010 dai piloti Fernando Alonso e Felipe Massa. A raccontarci il sodalizio con Ferrari è Egidio Donato, direttore commerciale Editalia. Donato, stavolta avete puntato al top? «Era da tempo che puntavamo alla riproduzione della Ferrari da Formula 1, ed è stata proprio la casa madre a chiederci di realizzarla per un’occasione davvero speciale: l’inagurazione del primo Ferrari world ad Abu Dhabi. La nostra scultura in scala 1/43, con tiratura limitata a 600 esemplari, è stata il dono ricordo dell’evento per i selezionatissimi ospiti».
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Il direttore commerciale Editalia Egidio Donato con Fernando Alonso Sopra e sotto: due momenti dell’inaugurazione del 30 novembre A pagina 78: una vista del Ferrari world
Dopo aver risvegliato il mito della Daytona e l’affetto per la Enzo presentate la monoposto 2010. Non vi sembra di “correre” un po’ troppo? «Sarà l’effetto Ferrari…». Verrebbe da dire che dopo questa non ce ne saranno più. «Tutt’altro. È stata da poco presentata la vettura ufficiale per il prossimo campionato e abbiamo già tante richieste. Direi che siamo pronti per la nuova sfida». Ci tolga una curiosità: ci sono tante riproduzioni in scala di modelli Ferrari. Perché un collezionista dovrebbe scegliere quelli proposti da Editalia? «Semplicemente perché non sono delle semplici riproduzioni. Si tratta di vere e proprie sculture realizzate con la tecnica della microfusione a cera persa, la stessa per intenderci utilizzata per realizzare i Bronzi di Riace. Che siano vere opere d’arte lo dimostra anche l’esito delle aste di Maranello e Montecarlo nelle quali la numero zero della Daytona e della Enzo sono state contese da collezionisti di tutto il mondo portando la loro battuta d’asta a cifre superiori a quelle di listino. La partenership quinquennale tra Ferrari ed Editalia è solida perché fondata sugli stessi valori di qualità e artigianalità dei prodotti, elementi chiave del successo del made in Italy nel mondo». Lei è stato presente, oltre che all’inaugurazione del Ferrari Store più grande del mondo, anche alla presentazione del Ferrari world. Cosa si prova a rappresentare l’Italia in un contesto così grandioso? «Si respira l’aria solenne dell’occasione importante. Il nome dell’Italia si lega al più grande parco del mondo dedicato all’automobile: solo la Ferrari poteva realizzare una simile impresa». Durante la presentazione ufficiale del parco Luca Cordero di Montezemolo ha sottolineato che la scelta della location non è stata casuale poiché «Abu Dhabi è una grande città che guarda costantemente al futuro e noi tutti siamo molto orgogliosi dei nostri partner, che condividono con Ferrari la stessa passione, la stessa visione e la stessa volontà di andare oltre». Ma non si tratta solo di una mossa commerciale: «Ferrari world Abu Dhabi è un simbolo di ciò che rappresenta l’Italia nel mondo e abbiamo il dovere di spingere ancora di più per contribuire a tenere alta l’immagine del nostro paese». Senza tralasciare l’aspetto della globalizzazione, il presidente della Ferrari ha concluso affermando che «piace anche pensare che questo parco a tema possa dare un piccolo contributo per rafforzare il legame tra le nostre due culture». Dunque un ponte con un paese in piena espansione economica, dove le tecnologie, il lusso e il divertimento hanno ormai scavalcato e stanno travolgendo, e stravolgendo, l’aspetto più tradizionale del mondo arabo.
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a regola d’arte BORSALINO
Storie di famiglia da togliersi il cappello Intervista con la curatrice della fondazione, Elisa Fulco: «Marchio storico e inimitabile» di Massimo Canorro
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hiudere gli occhi e immaginare lo Charlot di Charlie Chaplin privo della sua inconfondibile bombetta o la dolce Sabrina, alias Audrey Hepburn, senza il suo copricapo. Ma anche cineasti come Sergio Leone, Federico Fellini e Orson Welles, depositari della propria icona in un’immagine col copricapo. Sono tutti esempi che riaffermano l’intrinseca validità del binomio cinema-cappello, accostamenti che la fondazione Borsalino continua a sostenere con una serie di importanti iniziative. È il caso della mostra allestita alla Triennale di Milano fino al 20 marzo, un viaggio attraverso i linguaggi della con-
temporaneità, uno sguardo pratico e incantato, dolce e trasgressivo, tra settima arte e storia del costume. Il cinema con il cappello. Borsalino e le altre storie è ideata da Elisa Fulco, curatrice della fondazione Borsalino, e curata dal critico cinematografico Gianni Canova. «Se il grande schermo risulta indissolubilmente legato al potenziale narrativo del cappello – dichiara Roberto Gallo, amministratore delegato di Borsalino e presidente dell’omonima fondazione – la nostra azienda ha con l’arte cinematografica un rapporto antico, essendo attenta al potenziale narrativo del linguaggio video, in ogni sua forma». A fargli eco la curatrice Fulco: «Si tratta di una mostra emozionale ed evocativa, che intende rappresentare la complessità e la ricchezza del cappello». La rassegna guida il visitatore lungo un percorso che
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esplora un simbolo, il cappello, che non è semplicemente un accessorio, bensì circoscrive professioni e stili, innescando una gestualità non comune a nessun altro capo di abbigliamento. Toccarlo, calzarlo e levarlo in pubblico: il cappello richiede una serie di canonici passaggi che rimandano alla sua stessa creazione. Come nel caso del Borsalino, storico copricapo di feltro fino – ispiratore, nel 1970, dell’omonima pellicola di Jacques Deray con protagonisti Alain Delon e Jean Paul Belmondo – ancora oggi al centro di un processo produttivo che prevede cinquanta fasi di lavorazione e sette settimane di lavoro. Un iter che risale al 1857, quando Giuseppe Borsalino fondò la storica azienda alessandrina di cappelli, coniugando nel tempo valorizzazione aziendale e recupero della tradizione, «senza aver mai avuto l’intenzione di dislocare la propria lavorazione», precisa Fulco. Principi che tutt’ora ispirano l’omonima
fondazione, costantemente a sostegno di iniziative che spaziano dall’arte contemporanea alla cultura d’impresa, dalla ricerca di nuove tecnologie e materiali per il copricapo alla formazione nell’ambito sartoriale e della moda (a Pitti Uomo, il marchio Borsalino ha presentato la nuova collezione per l’autunno inverno). «L’obiettivo è quello di dar vita a progetti che abbiano un ampio respiro – spiega ancora Fulco – consci di avere alle spalle un marchio storico e inimitabile». Forte di un organigramma «fluido e coeso», come afferma la curatrice, la fondazione può contare sul rilevante museo del cappello Borsalino ad Alessandria – inaugurato nel 2006 e allestito nella vecchia sala Campioni del palazzo Borsalino – che custodisce 2.000 pezzi selezionati tra 4.000 cappelli d’epoca, esposti all’interno degli storici armadi realizzata da Arnaldo Gardella negli anni Venti. Curato dallo studio Masoero-Tondo architetti,
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Alcune illustrazioni di Gianluigi Toccafondo realizzate per la mostra
l’allestimento propone un percorso circolare e tematico caratterizzato da pannelli illustrativi e da video che raccontano la storia della lavorazione del cappello, la diffusione dei cappellai, lo sviluppo dell’industria del cappello dall’Ottocento a oggi e la crescita della fabbrica, il mecenatismo, le attività benefiche della famiglia Borsalino e il suo rapporto con la città, nonché le storiche donne lavoratrice, “le borsaline”. Protagonista dell’ultima sezione del percorso è la produzione dell’attuale fabbrica Borsalino. Dunque un museo che, come la fondazione, oscilla tra tradizione e innovazione, senza dimenticare i primati ascrivibili all’azienda alessandrina, prima impresa a organizzare nel 1910 un concorso di grafica in Italia (quello denominato Zenit) e, ventiquattro mesi dopo, abile a realizzare uno dei principali filmati di cinema industriale. A volte, per guardare oltre, basta soltanto mettere il cappello.
La fondazione Nata nel 2008 per la valorizzazione del copricapo Nata nel 2008, la fondazione Borsalino si pone l’obiettivo di valorizzare l’intero patrimonio culturale e aziendale della Borsalino Giuseppe & fratello sia attraverso la promozione del museo del cappello Borsalino, con sede ad Alessandria, sia mediante lo studio dell’archivio storico Borsalino. L’approfondimento e la comunicazione degli aspetti storici, culturali e sociali del settore moda, con particolare riferimento al copricapo, la valorizzazione della cultura contemporanea (dalle pubblicazioni alle mostre, dagli eventi alle rassegne cinematografiche), il supporto dell’artigianalità e del “made in Italy”, rappresentano il credo incessante della fondazione. La fondazione Borsalino ha sede in via palazzo di Città 2, Asti. Info: 0141326463; www.borsalino.com.
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i mestieri dell’arte FONDAZIONE COLOGNI
I SEGRETI dell’artigianato Intervista col presidente:«Dalla gioielleria all’editoria la mano del maestro è fondamentale in qualunque campo» di Manfredi Lamartina
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L’ Un momento della lavorazione della plissettatura all’atelier Milday di Firenze Nella pagina successiva: l’interno del laboratorio di ceramica Gatti di Faenza e il presidente della fondazione Franco Cologni
L’eccellenza in Italia esiste. Il mondo relativo ai mestieri d’arte è una gemma che all’estero c’invidiano. Eppure rischia di scomparire, causando un danno non solo all’immagine del nostro paese ma anche e soprattutto alla sua economia. Ne sa qualcosa Franco Cologni, ideatore e presidente dell’omonima fondazione milanese che dal ‘95 si occupa di promuovere proprio i mestieri d’arte. «Il rischio di scomparsa di questo tipo di lavoro – spiega Cologni – è purtroppo elevato. La scarsa visibilità di queste nobili professioni determina una loro bassissima conoscenza presso le giovani generazioni. Non è il lavoro che manca, ma i lavoratori». Ecco, dunque, la fondazione Cologni. Istituzione “non profit” che punta a un «nuovo rinascimento» in grado di riportare in auge uno dei fiori all’occhiello dell’Italia creativa. L’obiettivo – dice Cologni – è di «formare nuove generazioni di maestri d’arte salvando le attività artigianali d’eccellenza dal rischio di scomparsa che le minaccia. Inoltre puntiamo a individuare i nuovi mestieri d’arte del nostro tempo, tracciandone una prima mappa e sottolineando caratteristiche peculiari e nuove specificità». A questo scopo la fondazione promuove e finanzia una serie di iniziative, come l’attività editoriale, l’organizzazione di convegni e di mostre, il finanziamento della ricerca scientifica attraverso la cattedra Sistemi di gestione dei mestieri d’arte e il centro di ricerca Arti e mestieri all’università Cattolica di Milano. In questi anni la fondazione ha privilegiato soprattutto «l’attività editoriale, la comunicazione e gli eventi culturali – racconta il presidente – abbiamo promosso mostre importanti, curato un premio giornalistico dedicato a Benvenuto Cellini, seguito progetti di respiro regionale per favorire un corretto orientamento dei giovani ai mestieri d’arte. Speriamo di aver potuto contribuire a diffondere, seppur in minima parte, una diversa cultura del mestiere d’arte nel nostro paese. Molto resta ancora da fare». Un lavoro importante per le eccellenze italiane. «Dalla gioielleria al vetro, dal restauro alle professioni del teatro, dalla moda al tessile, dall’enologia alla ceramica: la mano del maestro d’arte è fondamentale in qualunque campo l’Italia si distingua – dice Cologni – producendo, come scriveva Carlo Cipolla, all’ombra dei campanili cose che piacciono al mondo». Purtroppo questo contributo non è sempre così evidente: «I maestri soffrono di una preoccupante mancanza di visibilità – prosegue il presidente – che in molti casi si traduce in una scarsa desiderabilità di queste professioni. Il mercato del lavoro ha bisogno di nuove generazioni di maestri d’arte che sappiano portare avanti non solo la grande tradizione del bello ben fatto tipica del nostro paese, ma che sappiano anche confrontarsi con le sfide della tecnologia e con l’evoluzione del gusto. Ci vogliono lavoratori che siano critici, interpreti e artefici». Le risposte delle aziende e degli “atelier” che impiegano maestri d’arte sono chiare: «Ci vogliono giovani responsabili, preparati, motivati, che escano dalla scuola essendo già in grado di “far andare le mani” ma anche sufficientemente
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La fondazione Istituita nel 1995 da Franco Cologni
elastici da poter imparare a bottega i segreti del mestiere. Senza i maestri d’arte sarebbe estremamente difficile mantenere il vantaggio competitivo che al momento ci permette ancora di rintracciare aree di eccellenza non imitabili né esportabili». Sul versante librario, la fondazione ha prodotto parecchi titoli in questi anni. «Curiamo due collane editoriali – spiega Cologni – e pubblichiamo una rivista, Mestieri d’arte. L’omonima collana, pubblicata da Marsilio, si compone di monografie storico-artistiche di piccolo formato e di approccio divulgativo, pensate per offrire non solo un quadro storico dei diversi mestieri d’arte presenti sul territorio italiano ma anche uno sguardo inedito sui percorsi di orientamento e formazione a essi relativi, con una particolare attenzione alle opportunità occupazionali che queste attività d’eccellenza tuttora possono offrire. Ad oggi sono stati realizzati dieci volumi, con il prezioso contributo della Banca Bsi. Nella collana Ricerche, invece, presentiamo il frutto delle ricerche del centro Arti e mestieri dell’università Cattolica. Infine, la rivista è un nuovo prodotto editoriale giunto al suo secondo numero, che sviluppiamo insieme all’editore Swan group. Si tratta di un semestrale in allegato al mensile Monsieur».
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La fondazione Cologni è un’istituzione “non profit” nata nel 1995 per volontà di Franco Cologni. La sede si trova in via Lovanio 5, a Milano. L’obiettivo è formare i maestri d’arte. Cologni, nato il 27 novembre 1934 a Milano, è editore e direttore della rivista internazionale Cartier art. Nel 1969 fonda “Les must de Cartier Italia”. Da responsabile del mercato italiano diventa direttore generale, poi vicepresidente e infine presidente di “Cartier international”. Nel 2000 diventa presidente esecutivo del settore gioielleria e orologeria del gruppo. Fonda a Milano la “Creative academy”, scuola internazionale di design e “creative management”. È presidente della “Fondation de la haute horologerie” di Ginevra. In Francia è “Chevalier de l’ordre national du mérite”, “Chevalier de l’ordre des arts et des lettres” e “Officier de la Légion d’honneur”. In Italia è Cavaliere del lavoro dal 2002. Info: www.fondazionecologni.it.
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il motore dell’arte ENEL CONTEMPORANEA
Il progetto del duo Bik van der Pol vince la quarta edizione del premio
FARFALLE OLANDESI di Massimo Canorro
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n’architettura nell’architettura e una natura nel tempio, qualcosa che rimanda a Giorgio De Chirico e alla mitologia di Alberto Savinio». Il riferimento ai due padri della metafisica formulato dal direttore del Macro, Luca Massimo Barbero, è quanto mai calzante, solo apparentemente ardito, al progetto “Are you really sure that a floor can’t also be a ceiling?” (Sei davvero sicuro che un pavimento non possa essere anche un soffitto?) del duo olandese Bik van der Pol, vincitore del premio Enel con-
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temporanea award 2010. A decretarlo una giuria composta dallo stesso Barbero, Beatrice Trussardi (presidente fondazione Trussardi), Franca Sozzani (direttore Vogue Italia), Francesco Micheli (presidente Mito Settembre musica), l’architetto Michele De Lucchi, Francesco Bonami (direttore artistico Enel contemporanea) e Piero Gnudi (presidente Enel). «Dopo tre edizioni in cui eravamo particolarmente concentrati sull’arte pubblica, con installazioni visitabili dal pubblico per pochi mesi, abbiamo voluto commissionare un’opera permanente per il Macro», ha commentato Gnudi. Appositamente creata dagli artisti Liesbeth Bik e Jos van der Pol, che lavorano e collaborano con il nome Bik van der Pol dal 1995, per gli spazi del nuovo Museo d’arte contemporanea di Roma ideati dall’architetto francese Odile Decq
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Bik van der Pol “Are you really sure that a floor can’t also be a ceiling?”, 2010 Nella pagina precedente: il duo olandese
– l’inserimento dell’edificio mira a integrare la struttura con l’intero isolato urbano attraverso la nascita di un doppio ingresso e di un tetto-giardino percorribile a più livelli – l’installazione rappresenta una casa di vetro, popolata da centinaia di farfalle multicolori, ispirata alla Farnsworth house di Chicago, celebre icona dell’architettura modernista, capolavoro anni Cinquanta del designer tedesco Mies van der Rohe («dovremmo cercare di ricondurre la natura, la casa e l’essere umano ad una unità superiore», affermava). Il lavoro ha avuto la meglio su una rosa
di sette artisti in rappresentanza di sei paesi (Olanda, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Stati Uniti e Portorico): «È stata una scelta difficile – ha ammesso Barbero – considerando che tre progetti erano incentrati sugli animali: un capodoglio, un canarino e i lepidotteri. Le farfalle ci hanno convinto in quanto simbolo di metamorfosi». Il duo vincitore era stato invitato da Hou Hanru, direttore mostre temporanee del San Francisco art institute e tra i rappresentanti del comitato scientifico internazionale composto da esponenti del mondo dell’arte contemporanea. «I
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lavori di Bik van der Pol, sistematicamente legati alla creazione di nuove forme architettoniche, lasciano testimonianze di riflessione che resistono nel tempo nella comunità in cui vengono realizzate», la motivazione alla base della scelta di Hanru. Dunque al centro del progetto promosso da Enel contemporanea – che già sta lavorando alla prossima edizione, ogni anno mutevole e piena di novità – c’è ovviamente l’energia, ideale filo conduttore tra gli artisti selezionati che vi ricorrono nei loro lavori con forme e modalità difformi, dando vita a spazi mentali, visi-
vi e fisici capaci di coinvolgere attivamente il pubblico. Un’ottica, questa, nella quale si inserisce il lavoro di Bik van der Pol, duo in grado di accordare la creazione di nuove forme architettoniche con l’approfondimento di tematiche ecologiche. In “Are you really sure that a floor can’t also be a ceiling?”, infatti, gli artisti riflettono sulla relazione tra uomo e natura, sensibilizzando lo spettatore – al quale è concessa la possibilità di entrare nella casa delle farfalle – in merito all’urgenza, oggi più che mai, di condotte ecosostenibili.
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in cassaforte L’ANGOLO DEL COLLEZIONISTA
MODÌ MILIONARIO “La belle romaine” realizza 69 milioni a New York. Anche il pop Usa alle stelle di Stefano Cosenz grandi maestri italiani del XX secolo continuano a volare sul mercato internazionale. Oltre 4,4 milioni di sterline è il record mondiale di Marino Marini ottenuto a Londra da Christie’s il 14 ottobre per la scultura in bronzo Cavaliere del 1951-55. A New York uno splendido dipinto di Amedeo Modigliani, “Nu assis sur un divan”, conosciuto dagli esperti come “La belle romaine”, del 1917 ha battuto il 2 novembre da Sotheby’s il record mondiale dell’artista, realizzando 68.962.500 dollari: un ottimo investimento per chi nel 1999, sempre a New York, l’aveva acquistata per 16,8 milioni di dollari, incrementando così il suo valore di 52 milioni. Ma anche nelle ultime aste milanesi di novembre importanti opere italiane sono state aggiudicate a clienti stranieri. Il 23 da Christie’s un Concetto spaziale, attese, di Lucio Fontana del 1967 è stato acquistato da un commerciante internazionale per 366.200 euro mentre una tecnica mista su cartone in dieci elementi di Alighiero Boetti del 1981, Da uno a dieci, vola Oltralpe a un collezionista per 133.100 euro. E da Sotheby’s il 24 una Natura morta del 1954 di Giorgio Morandi è stata acquistata al telefono da un collezionista privato asiatico per 672.750 euro mentre una magnifica opera di Afro, Piccola estate del 1962, è stata aggiudicata ad un importante collezionista privato europeo per 480.750 euro. Cammino opposto ha fatto l’importante tela di Massimo Campigli, Quattro donne
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del 1938, un anno fondamentale per l’artista, messo in vendita dal Moma di New York per finanziare nuove acquisizioni che ha realizzato 290.600 euro nella vendita milanese di Christie’s, un esempio di prestigioso “pedigree” che reca valore aggiunto a un’opera d’arte. Altri record mondiali scuotono il mercato newyorkese. Un monumentale bronzo di Henri Matisse, “Back IV (nu de dos, 4ème état) appartenente alla sua più celebrata serie scultorea, esposta nelle più grandi sedi museali del mondo è stato venduto da Christie’s il 3 novembre per 48.802.500 dollari contro una stima di 25-35 milioni di dollari. “Back IV” del 1930, colata in 12 esemplari di cui solo due ancora in mani private, rappresenta l’astrazione finale della donna, iniziata con “Back I” del 1909 raffigurante il dorso di una forma femminile ridotto alla sua più pura essenza. Anche la Pop art americana continua a far fibrillare il mercato. Phillips de Pury, la casa d’aste più colpita durante la crisi finanziaria ha rialzato la testa registrando uno spettacolare fatturato di 137 milioni di dollari nell’asta di arte contemporanea di New York dell’8 novembre: il monumentale “Men in her life”, 1962, una delle prime serigrafie di Andy Warhol, che mescola i temi cari all’artista, ha realizzato, dopo una frenetica gara al rialzo, 63.362.500 dollari. Da Sotheby’s il 9 novembre l’ultimo dei quattro dipinti realizzati da Andy Warhol tra il 1961 e il 1962 raffiguranti la popolare bottiglia che per l’artista rappresentava un simbolo dell’America, “Coca-cola (4) Large Coca-cola”, ha realizzato 35.362.500 dollari contro una stima di 20-25 milioni. Il 10 novembre da Christie’s record mondiale di
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Amedeo Modigliani “La belle romaine”, 1917
42.642.500 dollari per Roy Lichtenstein con il suo “Ohhh…Alright…” del 1964, un risultato affatto scontato (la casa lo aveva proposto con stima a richiesta) appartenente alla sua serie più celebrata, i fumetti, che ha confermato come i suoi capolavori hanno triplicato i prezzi in cinque anni. Significativo risultato arriva ancora da New York, dalla vendita di arte latinoamericana di Christie’s del 17-18 novembre, ove un magnifico olio del colombiano Fernando Botero del 1985, “Family scene”, ispirato alla tauromachia, realizza oltre 1,7 milioni di dollari contro una stima di 1-1,5 milioni. L’arte si impone ormai come investimento alternativo ma non sempre ha bisogno di distinguo e di tutele. Questi aspetti sono stati illustrati da diversi professionisti del mondo della finanza intervenuti nel simposio L’evoluzione del mondo dell’arte tenutosi l’11 novembre in occasione del Gotha di Parma, la prestigiosa fiera di antiquariato arrivata alla sua decima edizione. Nel convegno, organizzato da Artnetworth, azienda specializzata nella gestione di patrimoni d’arte, due sono i concetti evidenziati da Leonardo Etro, professore alla Bocconi di Milano: trasparenza e fiducia. «Il mercato dell’arte manca ancora di questi due termini per poter attirare un maggior numero di investitori», sottolinea Etro. Molti investitori dopo il fallimento di Lehman Brothers si sono affacciati su mercati alternativi, come l’oro e l’arte intesi come beni rifugio attirando pure le banche che vedono in questi beni una diversificazione del portafoglio. Il settore dell’arte richiede però un modello più efficiente su cui gli investitori possano avere fiducia. «Non c’è
dubbio – ha spiegato Edoardo Didero, ad di Artnetworth – che il mercato dell’arte abbia in questi ultimi anni attenuato i picchi del mercato della finanza e la volatilità delle borse. In altre parole è un bene rifugio che contrasta i fenomeni inflattivi, ma non sempre. Da qui un modello sviluppato dall’azienda che permetta a collezionisti, investitori e assicuratori di conoscere il “fair value” dell’opera d’arte in un mercato ove in genere il prezzo è soggettivo e che si basa su due fattori: la qualità del bene, visto che non tutte le opere d’arte lo sono, ed il valore del bene in quanto l’opera sì è di grande qualità ma deve essere pagata al prezzo giusto». Il modello, spiegato in dettaglio dallo stesso Didero, si basa in primis sulle “stime” degli esperti delle case d’asta su opere “comparabili” all’opera in esame, ovvero dello stesso artista e periodo storico, stessa tecnica e dimensioni (stime, non realizzi che possono essere soggettivi, casuali) e secondariamente sulla valutazione di un esperto indipendente ignaro dei motivi per i quali si stia valutando quell’opera. Infine si basa sulla sua valutazione in un mercato al dettaglio che in base a una media delle osservazioni si attesta intorno al 35% in più rispetto alle stime delle case d’asta. Entra nel calcolo anche lo stato di conservazione dell’opera, mentre correzioni a rialzo sono determinati da un prestigioso pedigree o la prima pagina dedicata all’opera da un catalogo. Elemento indispensabile in questa certificazione è l’autenticazione dell’opera da parte della fondazione dell’artista o in caso di opere antiche da importanti musei o autorevoli “expertise”.
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cose dell’altro mondo ARTE DAL MAROCCO
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Effervescenza creativa Il contemporaneo proveniente dalla regione del Maghreb è sorretto dall’azione determinante di gallerie e case d’asta di Brahim Alaoui*
Il Marocco ha visto nascere negli anni ’60 una generazione di artisti che ha contribuito all’elaborazione di una via culturale originale, improntata ad una rara fecondità e ad una sinergia culturale fatta di inventività e di incroci tra tradizione e modernità, al servizio della creazione. Questa generazione di artisti è maturata nel seno di un campo artistico che è rimasto attivo malgrado degli anni difficili, grazie alla sua relativa autonomia e al dinamismo della sua società civile. La scena artistica marocchina conosce oggi una certa effervescenza, un desiderio di espressione sostenuto da una libertà di stile. È sostenuta da una nuova generazione che prende attivamente parte a questa dinamica globale di connessione e interazione tra gli artisti detti locali e quelli che vivono o soggiornano stabilmente nelle metropoli occidentali (New York, Londra, Berlino, Parigi). Alcuni tra di loro sono riusciti a integrarsi rapidamente a una rete internazionale. Giungono a dare corpo alle loro visioni personali e ad aprire un passaggio nello sguardo degli altri, producendo opere che, anche se uscite da un contesto particolare, arrivano a un linguaggio universale e propon-
gono un’arte condivisa. Si trovano là i veri semi che hanno permesso loro di insinuarsi nella scena artistica internazionale e alimentarvi una dialettica intrigante tra il locale e il globale. Quanto alla percezione dell’arte contemporanea in Marocco, è senza dubbio nella sua dimensione sociologica che i cambiamenti si sono fatti più eloquenti. L’arte contemporanea, che in passato non ha suscitato che un interesse molto limitato, si è vista attrarre un pubblico crescente e conferire riconoscimento tanto dai media che dalla società civile. Questa evoluzione è dovuta particolarmente all’azione delle gallerie private e delle case d’asta che si sono moltiplicate negli ultimi anni. Il settore privato, attraverso le sue fondazioni d’impresa, costruisce le sue collezioni, contribuendo anche alla creazione delle condizioni di un mercato dell’arte locale da cui dipendono largamente gli artisti e le gallerie. Così una nuova generazione di collezionisti appassionata alla cultura dell’immagine e ben informata ha visto la luce. *direttore culturale di Marrakech art fair
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Essaydi Foto all’henné Lalla Essaydi nasce in Marocco nel 1956, frequenta l’Ecole des beaux arts di Parigi e riceve molti premi da varie università americane. Vive molti anni in Arabia Saudita e attualmente si divide tra Marocco e New York. Le sue fotografie immortalano donne in abiti tradizionali dipinti con l’henné e dalla calligrafia araba, già di per sé un’espressione d’arte. Alcune sue opere sono state acquisite dalla fondazione Maramotti (via Fratelli Cervi 66, Reggio Emilia; Info: 0522382484; www.collezionemaram otti.org).
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Yto Barrada “Hublot #1 Arrêt de bus” Casablanca, 2002 a pagina 92: l’ingresso ai padiglioni della fiera d’arte contemporanea di Marrakech a pagina 93: Lalla Essaydi «Harem #14» 2008 cortesia galerie Tindouf a destra: Carolle Bénitah “The disguise” 2009 sotto: Latifa Echakhch “Dance macabre” 2010
Yto Barrada Artista dell’anno per Deutsche bank Yto Barrada, classe 1971, è nata a Parigi, ma risiede e lavora a Tangeri in Marocco. Nella scorsa edizione di Frieze è stata nominata “Artist of the year 2011” da Deutsche bank. Barrada sviluppa un lessico usando la fotografia, le pubblicazioni, film e interventi negli spazi urbani ed espositivi. Il cinema e la grafica amplificano l’approccio dell’artista che viaggia tra la realtà storica e una proiezione ecologica. I suoi lavori sono presenti nella collettiva Breaking news, fino al 13 marzo, ex ospedale Sant’Agostino, largo Porta Sant’Agostino 228, Modena. Info: 059239888; www.mostre.fondazione-crmo.it.
Latifa Echakhch Protagonista alla Gamec di Bergamo A Bergamo la prima personale in un’istituzione italiana dedicata a Latifa Echakhch (1974, El Khnansa, Marocco, vive e lavora a Martigny, Svizzera). Attraverso un’estrema varietà di mezzi espressivi che spaziano dall’installazione al video, dalla pittura alla fotografia, Echakhch esplora le dimensioni dell’identità individuale e collettiva, il concetto di cultura e i sentimenti di appartenenza e sradicamento. Le sue opere sono realizzate a partire da oggetti comuni, che l’artista presenta come tali o dopo averli modificati attraverso azioni semplici: aste, cartine geografiche, microfoni. In programma fino al 9 gennaio, Gamec, via San Tomaso 52, Bergamo. Info: www.gamec.it.
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Carolle Bénitah La fotografia come indagine sulla memoria Carolle Bénitah è tra le artiste di punta della galleria francomarocchina 127 (info: www.galerienathalielocatelli.com). Nata a Casablanca nel 1965, vive e lavora a Marsiglia. Dopo dieci anni di lavoro come designer di moda, decide di dedicarsi alla fotografia. Come un’archeologa, scava negli album di famiglia alla ricerca di immagini che l’hanno rappresentata, le rielabora e crea un suggestivo percorso creativo incentrato sul tempo e la memoria. Per farlo utilizza il ricamo, intervenendo sulla fotografia e riscrivendone la storia, interpretando il passato alla luce del presente. Info: http://carollebenitah.com.
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il cammeo
Nuova vita all’antica meraviglia Torna a splendere il Magnifico cratere di Belgrado Il vaso è parte del corredo funebre di un principe guerriero. Roma ne celebra la gloriosa rinascita di Adiem
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A Roma è stato rimesso a nuovo negli ultimi tre anni e a Roma ritorna in scena, dopo il virtuoso restauro. Il cosiddetto Magnifico cratere, top della collezione archeologica del museo nazionale di Belgrado, si ripresenta al pubblico nella sala delle Bandiere del Quirinale, nella raffinata mostra L’Italia e il restauro del Magnifico Cratere. Capolavori del museo nazionale di Belgrado, in cartellone fino al 6 febbraio. Alto 81 cm e largo 44 nel diametro massimo, databile fra la fine del VI e gli inizi del V secolo avanti Cristo, il manufatto bronzeo è figlio, secondo il curatore della mostra Louis Godart, della vis creativa dei toreuti di Egina, l’isola greca di fronte ad Atene, famosa anche per il tempio di Aphaia e le sue sculture frontonali, con cui pare lecito confrontare le parti scolpite del nostro recipiente. Indiscusso primattore di questa rassegna, promossa dalla presidenza della repubblica italiana e da quella della repubblica serba, il capolavoro si avvale di una compagnia di tutto rispetto. A cominciare dagli altri due crateri, di dimensioni leggermente inferiori, che, spalleggiandolo, ne esaltano l’unicità, rilevabile in particolare nella base a tripode – finora non se ne conoscono altri esemplari – in cui sono raccordati con perito azzardo, cani, gorgoni e zampe leonine. Altrettanto superba è la fattura del fregio del collo, con “appliques” di cavalli e cavalieri in regolare cadenza, e la fattura delle gorgoni – di nuovo – che assecondano elegantemente le anse d’impugnatura. Ritrovato nel 1931 in una necropoli di Trebenište, in Macedonia, l’eccezionale vaso faceva parte del sontuoso corredo funebre di un principe guerriero e tanto di cappello alla scelta di esporre altri spettacolari ritrovamenti della stessa provenienza, come la maschera, i sandali e gli spilloni, tutti in oro e perciò ancora rilucenti. Ma incredibilmente splendente era, appena uscito dall’atelier, anche il Magnifico cratere. Per averne un’idea basta dare un’occhiata all’”applique” del cavaliere, ancora parzialmente inglobata nel mantello di fusione, collocata in una vetrinetta laterale. Sbalorditivo, non c’è che dire. Fino al 6 febbraio. Palazzo del Quirinale, sala delle Bandiere, Roma. Info: 06692050220; www.civita.it, www.quirinale.it.
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Cratere con tripode VI-V sec. a. C. Trebenište Macedonia
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TRIMESTRALE ANNO 4 NUMERO 13
Sofà è una pubblicazione trimestrale di Editalia Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato viale Gottardo 142, 00141 Roma Numero verde 800014858 - fax 0685085165 www.editalia.it
Progetto editoriale e realizzazione Guido Talarico Editore spa www.guidotalaricoeditore.it
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Direttore responsabile Guido Talarico direttore@guidotalaricoeditore.it Amministratore delegato Carlo Taurelli Salimbeni c.t.salimbeni@guidotalaricoeditore.it Caporedattore Maurizio Zuccari m.zuccari@guidotalaricoeditore.it Redazione Giorgia Bernoni, Sophie Cnapelynck, Simone Cosimi, Camilla Mozzetti, Maria Luisa Prete, Francesco Talarico redazioneinsideart@guidotalaricoeditore.it
Pubblicità e marketing Raffaella Stracqualursi marketing@guidotalaricoeditore.it
Stampa Bimospa spa, via Gottardo 142 00100 Roma Responsabile trattamento dati Guido Talarico. Le notizie pubblicate impegnano esclusivamente i rispettivi autori. I materiali inviati non verranno restituiti. Tutti i diritti sono riservati
Grafica Gaia Toscano grafica@guidotalaricoeditore.it
In copertina
Foto Manuela Giusto, Ap/Lapresse
Lire 500, 1961 primo centenario dell’unità d’Italia
Hanno collaborato Brahim Alaoui, Silvia Bonaventura, Massimo Canorro, Stefano Cosenz, Margherita Criscuolo, Anna Dalla Mura, Flaminio Gualdoni, Manfredi Lamartina, Rosanna Marsico, Alessandro Zuccari Coordinamento editoriale Editalia Cecilia Sica, Daniela Tiburtini
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numero chiuso in redazione il 31.12.10
Sofà è visibile online sul sito www.insideart.eu
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la storia della lira nel Regno di
ViTTORIO Emanuele III Le più belle monete del “Re numismatico” Con la Lira di Vittorio Emanuele III, l’ultimo re a battere moneta prima dell’avvento della Repubblica, l’Italia tornò ad esprimere dei veri capolavori degni della più grande tradizione artistica nella quale il nostro Paese vanta da sempre un primato internazionale.
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Sofà
la storia della lira
Sofà
U nità d’ I talia 150° 1861-2011 anniversario
Anno IV Numero 13 2010
Con il patrocinio di:
La storia, il presente e il futuro della nostra Patria
Presidenza del Consiglio dei Ministri Comitato per le Celebrazioni del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia
È questo il significato della collezione che Editalia dedica all’Unità d’Italia, e che si identifica con lo spirito delle celebrazioni del 150° Anniversario. Un percorso scandito dalle riconiazioni della prima moneta dell’Italia Unita [ 5 lire del 1861] considerata molto rara nell’ambiente del collezionismo, e da quelle per gli anniversari del cinquantenario [ 50 lire del 1911] e del centenario [ 500 lire del 1961].
5 LIRE 1861
50 LIRE 1911
Scudo Unità d’Italia
Cinquantenario dell’Unità d’Italia
TRIMESTRALE DEI SENSI NELL’ARTE
150
500 LIRE 1961
Centenario dell’Unità d’Italia
Un privilegio esclusivo A tutti i collezionisti sarà consegnata la speciale coniazione in argento emessa quest’anno per celebrare il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia.
anni di unità
PIER PAOLO PUXEDDU+FRANCESCA VITALE STUDIO ASSOCIATO
Tiratura limitata La collezione è stata realizzata in 2011 esemplari certificati dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Gli esemplari delle monete sono coniati nelle dimensioni e nei metalli originali, in oro 900‰ e in argento. Cofanetto personalizzabile.
CENTO LIBRI PER MILLE ANNI Le grandi opere della letteratura italiana Intervista con il direttore della collana Walter Pedullà
Completa l’opera il volume Le lire dell’Italia unita curato da Silvana Balbi de Caro Il volume di pregio, creato appositamente per questa occasione, percorre un’inedita storia della moneta italiana dalla nascita, al Regno e alla Repubblica, con particolari approfondimenti sulle monete presentate. Tiratura limitata
Eventi
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800 014 858 numero verde
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