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EDITORIALE

L’arte che puoi comprare Il meglio dei multipli: a un anno di distanza dal lancio del progetto oltre 700 collezionisti hanno scelto un’opera firmata Editalia

Christie’s, la casa d’aste londinese tra le più famose al mondo, ha inaugurato a ottobre, durante il picco della stagione dell’arte contemporanea a Londra e in concomitanza con Frieze Art Fair, la quarta edizione di Multiplied Art Fair «l’arte che puoi comprare». Sotheby’s ha realizzato con l’asta di grafica di fine ottobre a New York più di 8 milioni di dollari. Amazon, la più grande piattaforma di vendite online, ha aggiunto una sezione Fine Art, vetrina dedicata alla vendita di opere con quotazioni più accessibili, in gran parte multipli. Il desiderio di rendere l’arte più vicina alla gente e sviluppare nuovi modelli di collezionismo si estende da una parte all’altra dell’Atlantico e al web.

E nel nostro Paese? A Editalia va il merito di aver anticipato questo fenomeno e di proporre il meglio dell’arte moltiplicata e certificata, consentendo anche in Italia la nascita di un collezionismo diffuso. È un anno, dall’ottobre 2012, che abbiamo presentato alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma un organico progetto di rilancio del multiplo d’arte coinvolgendo artisti che rappresentano delle icone del contemporaneo. Joe Tilson, Carla Accardi, Jannis Kounellis, Mimmo Paladino, hanno aderito al progetto con opere originali diventate un marchio di riconoscimento dell’intera loro produzione. L’opera d’arte moltiplicata è per noi, come abbiamo più volte raccontato in convegni e interviste, il luogo dove la visione dell’artista incontra la creatività e la capacità di realizzazione degli artigiani, rispondendo al desiderio di collezionismo di un nuovo pubblico che si affaccia al mondo dell’arte per esprimere le proprie scelte estetiche, il gusto con il quale definire i propri spazi di vita e di lavoro. Forti di questa convinzione il progetto va avanti e si arricchisce di una nuova opera, affidata alla sensibilità di Emilio Isgrò che con noi la presenta ad Artissima 2013. La più importante fiera dell’arte contemporanea italiana, in linea con l’andamento del mercato, ha introdotto la sezione Art Editions, vetrina delle edizioni d’arte a livello internazionale, ed Editalia è quest’anno fra le quattro gallerie selezionate a rappresentare la sezione multipli d’arte. Una nuova occasione per diffondere il nostro progetto, sulla cui validità si sta esprimendo in modo chiaro il mondo del collezionismo italiano, consolidato e di nuova generazione: a un anno di distanza dal lancio oltre 700 collezionisti hanno scelto un multiplo d’arte Editalia.

Marco De Guzzis

Amministratore delegato Editalia

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SOMMARIO INCIPIT NOTIZIE Cronache d’arte

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Colpo d’occhio

10 Expo Italia

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Expo mondo

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PRIMO PIANO EVENTI Artissima e Torino, una storia internazionale

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GRANDI MOSTRE Monet, viaggio nel cuore dell’en plein air

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Antonello da Messina, oltre il ritratto una visione del mondo

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Tilson, le molte vie della cultura pop

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PERSONAGGI IL CORPO DELL’ARTE Eliseo Mattiacci, il fabbro del cosmo L’ARTE PRENDE CORPO Jacopo Mandich, un Mangiafuoco dal cuore di Mastro Ciliegia

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38

CONVERSANDO SUL SOFÀ La cultura è morta e noi siamo senz’anima intervista con Andrea Carandini

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APPUNTAMENTO CON LA STORIA Greco, tutte le donne del bell’Emilio

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ECCELLENZE ITALIANE I MAESTRI DEL BELLO Seteria Bianchi, cent’anni di storia da 007 al papa

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I LUOGHI DEL BELLO Un Fiume d’arte a cielo aperto

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CARTOLINE DAL BELPAESE Fai, da Michelangelo all’800

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CARTE D’ARTE IL MOLTIPLICAUTORE Roy Lichtenstein, quando un punto muove le masse

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STORIE DI CARTA Giambattista Bodoni, il principe dei tipografi

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MULTIPLI DELLE MIE BRAME Corrado Mingardi, il collezionista che odia(va) le interviste

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Sofà

QUADRIMESTRALE ANNO VII NUMERO 20

FATTI AD ARTE

Autorizzazione del Tribunale ordinario di Roma n. 313 del 3.8.2006

PITTURA INTESSUTA Salvatore Fiume, La grazia sull’arazzo

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CAPOLAVORI SERIALI La via italiana al mondo pop

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Sofà

OPERE DI PREGIO Uomini e monete tra le due guerre

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FRESCHI DI CONIO Riti, miti e simboli nella lira del Ventennio

è una pubblicazione quadrimestrale di Editalia Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato viale Gottardo 146, 00141 Roma Numero verde 800014858 - fax 0685085165 www.editalia.it

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Direttore responsabile: Guido Talarico direttore@guidotalaricoeditore.it Caporedattore: Maurizio Zuccari m.zuccari@guidotalaricoeditore.it

ARTI & FATTI

Redazione: Francesco Angelucci, Giorgia Bernoni, Alessandro Caruso, Sophie Cnapelynck, Maria Luisa Prete redazioneinsideart@guidotalaricoeditore.it

IL MOTORE DELL’ARTE Damiani, quando il gioiello diventa scultura

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COMUNICARE AD ARTE Ferragamo, il calzolaio delle stelle

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MERCATI E MERCANTI I classici non tramontano mai

Progetto editoriale e realizzazione Editoriale Dets srl

Responsabile Grafica: Gaia Toscano grafica@guidotalaricoeditore.it Grafica: Giuseppe Marino

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Foto: Manuela Giusto Hanno collaborato: Deianira Amico, Silvana Balbi de Caro, Lucia Borromeo, Massimo Canorro, Fabrizia Carabelli, Maria Corte, Enzo Di Martino, Monica Matera, Maria Antonia Nocco, Laura Orbicciani, Andrea Rodi Coordinamento editoriale Editalia: Cecilia Sica, Daniela Tiburtini

E PER FINIRE LA POESIA DELLE NUVOLE Maria Corte, le fatiche di Sisifo

Pubblicità e marketing: Raffaella Stracqualursi marketing@guidotalaricoeditore.it Stampa: Varigrafica, Alto Lazio Srl, Nepi (Vt)

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In copertina: A sinistra: Maria Corte, Can’t get out this song of my head, 2012 Sopra: Pax urbis, 2010 Numero chiuso in redazione il 30.X.2013 Sofà è visibile online sul sito www.insideart.eu Responsabile trattamento dati Guido Talarico. Le notizie pubblicate impegnano solo i rispettivi autori. I materiali inviati non verranno restituiti. Tutti i diritti sono riservati

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NOTIZIE CRONACHE D’ARTE

a cura di EVARISTO MANFRONI

PARLAMENTO, VIA LIBERA AL DECRETO CULTURA Il Ddl diventa legge. Fondi al Maxxi e al Mausoleo di Augusto Il 3 ottobre è stato approvato anche dalla Camera, dopo il sì del Senato, il decreto Valore cultura che introduce importanti novità nel mondo della cultura. Nella nuova normativa viene istituita la figura del direttore generale del Progetto Pompei, con il compito di definire le emergenze, assicurare lo svolgimento delle gare, migliorare la gestione del sito e delle spese. Un’altra parte importante del provvedimento è quella che riguarda le fondazioni liriche. Per risanare la situazione debitoria di molte di esse è stato introdotto un fondo rotativo di 75 milioni di euro. I piani di risanamento saranno coordinati da un commissario straordinario. Sono state poi semplificate le donazioni fino a 5.000 euro in favore della cultura. Tra le altre cose è stata concessa l’autorizzazione di spesa di 2 milioni per il restauro del Mausoleo di Augusto e di 5 milioni per le attività del Maxxi. Info: www.mibac.it. (A. C.)

BELPAESE DA MANGIARE Ottanta mld dai beni culturali Tra monumenti, musei e città d’arte, il Belpaese ricava 80 miliardi l’anno, equivalenti al 5,6% del Pil. Tutto ciò a fronte dei tagli al Mibac: la spesa pubblica in attività culturali si è infatti dimezzata in poco più di un decennio, passando dai 2,7 miliardi del 2001 all’1,5 del 2012. Un po’ poco per valorizzare quello che c’è e trasformare i nostri beni culturali in qualcosa “per mangiare”. I visitatori stranieri in Italia si raccolgono intorno a tre beni: il Colosseo, che accoglie 5,2 milioni di persone l’anno, a seguire Pompei (2,3 milioni) e gli Uffizi (1,8 milioni). Solo mezzo milione di visitatori per la Reggia di Caserta. Quasi 5mila i musei in Italia, di cui il 90% gestiti da privati. Il problema è la redditività: tutti gli incassi messi assieme sono paragonabili a quello che genera il Louvre.

L’ITALIA IN CODA Ocse, ultimi per alfabetizzazione Un’indagine promossa dall’Ocse nei 24 paesi membri e realizzata dall’Isfol, ha rivelato che l’Italia è ultima per competenze alfabetiche, cioè capacità linguistiche ed espressive, fondamentali per vivere e lavorare, mentre è penultima in matematica. Una pesante bocciatura, anche se il gap con gli altri paesi sembra ridotto.

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QUANDO I MULTIPLI DANNO SHOW Catania, 30 autori internazionali per In series, a cura dell’accademia A novembre l’ultima tappa della mostra In series_artists’ multiples for a multiple show. Come suggerisce il titolo, lo scopo di questa rassegna è di far conoscere in più tappe i multipli d’artista di 30 autori internazionali, provenienti dalla raccolta dell’archivio-laboratorio ideato da Anna Guillot. Dopo Spoleto e Berlino, è il turno dell’Accademia di belle arti di Catania, promotrice dell’iniziativa. L’idea del multiplo parte da lontano, ma si è sviluppata nell’era della riproducibilità tecnica, radicandosi nella cultura contemporanea. L’esposizione vuole mettere in luce proprio l’importanza che questa pratica, per molto tempo considerata minore in Italia, continua ad avere nell’arte di oggi. Il gruppo di artisti, corposo ed eterogeneo, include noti nomi del panorama nazionale e internazionale, tra cui Keith Haring, Jenny Holzer, Michelangelo Pistoletto e Joe Tilson. Sarà presentato anche un volume realizzato per la mostra. (F. C.)

OMAGGIO A WOJTYLA Santi, un mosaico sul Gran Sasso “Giovanni Paolo II benedici l’Abruzzo”: reca questa iscrizione il mosaico raffigurante il papa che sarà proclamato santo il prossimo 27 aprile insieme a Giovanni XXIII, collocato sulla facciata dell’ostello nei pressi della funivia di Campo Imperatore, sul Gran Sasso, a 2.600 metri di quota. Un’opera di grande pregio che testimonia non solo la grande spiritualità di un pontefice amante delle alte quote, che ha segnato la storia della cristianità e della società contemporanea, ma anche l’importanza della tradizione musiva italiana. Il mosaico, infatti, è stato realizzato dal Gruppo mosaicisti di Ravenna di Marco Santi e raffigura il dipinto Giovanni Paolo II - Roccia della chiesa dell’artista lombardo Paolo Borghi. Si tratta di una nuova donazione del mecenate abruzzese Alfredo Paglione. (A. C.)

Keith Haring Untitled from portfolio Andy Mouse, 1986 Smithsonian american art museum

COLLEZIONE PERUZZI Milano, inaugurata la nuova sede Nuova sede per la collezione Peruzzi, la più importante raccolta di grafica e multipli di arte italiana contemporanea. In occasione della Nona giornata del contemporaneo Vittorio Peruzzi ha aperto per la prima volta alla visita del pubblico la nuova sede di viale Argonne 10, a Milano. Prenotazioni e info su www.collezioneperuzzi.it.

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NOTIZIE COLPO D’OCCHIO

Estan Cabigas © musée du quai Branly, Photoquai 2013


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UN DIO TATUATO Estan Cabigas a Parigi Nelle Filippine la storia di portare il Vangelo a tutti la prendono dannatamente sul serio. L’ascella dell’energumeno testimonial della pubblicità di una pendrive a banda larga pende colorata sopra una chiesa improvvisata (ma neanche tanto), più alta del prete e più alta del crocifisso, a nuovo simbolo di un dio tatuato. Nessuno si scompone, però: c’è chi segue la messa e chi continua a comprare. Forse Estan Cabigas non lo sa, ma ha fotografato il politeismo contemporaneo dove non è importante se il Vangelo è un testo sacro o un bellissimo (?) cartellone pubblicitario. La foto è in mostra per Photoquai a Parigi nel museo du quai Branly. Fino al 17 novembre. Info: www.photoquai.fr.


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NOTIZIE EXPO ITALIA

a cura di MONICA MATERA

Da sinistra: Arshile Gorky The Betrothal, II, 1947 Auguste Rodin Le baiser 1885 Auguste Renoir Danse à la campagne, 1883 Walter Chappel Ana Barrado, Il maestro e i suoi allievi 1996

MILANO/1 Pollock e gli irascibili Le sale di Palazzo Reale a Milano ospitano, fino al 16 febbraio 2014, Pollock e gli irascibili. Jackson Pollock, Mark Rothko, Willem de Kooning e Franz Kline sono tra i 18 artisti che protestarono contro il Metropolitan Museum of Art di New York per aver ignorato in una mostra l’Espressionismo astratto. Oltre 60 le opere curate da Carter Foster in collaborazione con Luca Beatrice. Un racconto di sperimentazione e rottura col passato, operata da quella che fu poi chiamata la scuola di New York. Info: www.comune.milano.it/ palazzoreale.

TORINO Renoir

MILANO/2 Rodin e il marmo Il Palazzo Reale di Milano presenta Rodin il marmo, la vita a cura di Aline Magnien in collaborazione con Flavio Arensi. Un percorso cronologico che attraversa oltre 60 opere per la rassegna più completa mai allestita sui marmi di Auguste Rodin. Fino al 26 gennaio 2014. Info: www.comune.milano.it/ palazzoreale.

La Gam di Torino espone circa sessanta capolavori per la mostra dedicata a Pierre-Auguste Renoir, protagonista insieme a Manet, Monet, Degas, Pissarro, Sisley, Cézanne della grande stagione dell’impressionismo francese. Capolavori provenienti dalle collezioni del Musée d’Orsay e del Musée de l’Orangerie di Parigi per documentare l’intera attività del pittore partendo dagli esordi fino all’allontanamento dall’impressionismo. La curatela della mostra è affidata a Sylvie Patry e a Riccardo Passoni. Fino al 23 febbraio 2014. Info: www.gamtorino.it.

MODENA Walter Chappell Fino al 2 febbraio 2014 l’ex ospedale Sant’Agostino di Modena ospita Walter Chappell eternal impermanence curata da Filippo Maggia. Più di 150 fotografie e la maquette originale di World of flesh, libro mai pubblicato. Un’anteprima mondiale dedicata a Chappell, uno dei protagonisti più controversi della fotografia statunitense del XX secolo.Info:www. fondazionefotografia.org.


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REGGIO EMILIA L’enigma di Escher

CARPI Mimmo Paladino

Palazzo Magnani di Reggio Emilia ospita fino al 23 febbraio 2014, L’enigma di Escher. La mostra dedicata a Maurits Cornelis Escher presenta incisioni, disegni, documenti, filmati, interviste e conferenze, curate da un comitato scientifico coordinato da Piergiorgio Odifreddi. Tra le opere capolavori come Tre sfere I (1945),Mani che disegnano (1948), Relatività (1953), Convesso e concavo (1955) e Nastro di Mob̈ ius II (1963). Un’antologica di 130 lavori per celebrare uno dei geni del ‘900.Info: www.palazzomagnani.it.

Fino al primo dicembre Mimmo Paladino Xilografia 1983-2013...Un elmo e 8 filosofi,XVI Biennale di xilografia contemporanea,è ospitata al museo di Palazzo dei Pio di Carpi. Affreschi rinascimentali del palazzo e xilografie del‘500 di Ugo da Carpi dialogano con una quarantina di fogli di Paladino in una mostra curata da Enzo Di Martino e Manuela Rossi nell’ambito del Festival di filosofia. Info:www.palazzodeipio.it.

ROMA Tutte le strade portano a Roma Nella cornice di Palazzo Brancaccio,il Museo nazionale d’arte orientale GiuseppeTucci di Roma ospita fino al 24 novembre, la mostra Tutte le strade portano a Roma. Un dialogo e confronto fra 17 artisti contemporanei cinesi e le collezioni archeologiche e di arti asiatiche del museo romano.La mostra curata da Li Xiangyang,Zhou Zhiwei, Maria Luisa Giorni e Roberto Ciarla,rappresenta per l’Istituto di scultura e pittura a olio di Shanghai l’occasione per raggiungere per la prima volta l’Italia, prima tappa di questo tour europeo.Info:www.museorientale.beniculturali.it.

FIRENZE L’avanguardia russa Fino al 19 gennaio 2014 Palazzo Strozzi, Firenze, ospita L’avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente, Kandinsky, Malevic, Filonov, Goncarova. Una mostra sulla relazione fra l’arte russa e l’Oriente e sul ruolo di rilievo degli artisti dell’avanguardia russa nello sviluppo dell’arte moderna. A cura di John E. Bowlt, Nicoletta Misler ed Evgenia Petrova. Info: www.palazzostrozzi.org.

Da sinistra: Maurits Cornelis Escher Buccia, 1955 Mimmo Paladino Elmo, 1999 Liu Manwen Cinema cinese anni ‘30-Shanghai Kazimir Malevich Testa, 1928-1929

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NOTIZIE EXPO MONDO

a cura di MONICA MATERA Da sinistra: Damien Hirst The immortal, 1997-2005 foto Prudence Cuming Associates Adel Abdessemed Coup de tete, 2011-2012 Louise Bourgeois Couple I, 1996 Salvador Dalí, 1939 foto di Carl van Vechten

EDIMBURGO Louise Bourgeois DOHA/2 Adel Abdessemed DOHA/1 Damien Hirst Al Qatar Museums Authority di Doha, Relics la prima retrospettiva di Damien Hirst in Medio Oriente curata da Francesco Bonami in programma fino al 22 gennaio 2014. Installazioni, pittura, scultura e disegno attraversano l’intera produzione di uno degli artisti più controversi e apprezzati della sua generazione pronto a sfidare i confini tra arte, scienza e cultura popolare. Info: www.qma.com.qa/en.

L’Arab museum of modern art ospita fino al 5 gennaio 2014 la mostra L’âge d’or dell’algerino Adel Abdessemed, diventato noto per la statua raffigurante la testata di Zidane a Materazzi. E anche quest’opera è esposta nella sua personale nell’importante museo arabo. Abdessemed ha descritto se stesso come un ”artista di atti” e i suoi lavori sono noti per il loro forte impatto. Prende i materiali in grande considerazione, per poi diventare provocatorio nel loro utilizzo. Info:www.mathaf.org.qa.

Fino al 18 maggio 2014 la Scottish National Gallery of Modern Art di Edimburgo presenta Louise Bourgeois: a woman without secrets. Lavori autobiografici, sculture e disegni esplorano i ricordi dell’infanzia o riflettono sui complessi rapporti con i genitori.Opere che sollevano domande universali sulla vita, sull’arte e sui ruoli femminili attraverso un vocabolario di motivi ricorrenti e l’uso di materiali che evidenziano l'interazione tra gli opposti (maschio e femmina, padre e madre, paura e calma, vulnerabilità e forza). Info: www.nationalgalleries.org.

MADRID Surrealism & dream Fino al 12 gennaio 2014 il Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid propone Surrealism and the dream a cura di José Jiménez. Dipinti, disegni, collage, sculture e fotografie di artisti come André Breton, Salvador Dalì, Paul Delvaux,Yves Tanguy, René Magritte, André Masson e Max Ernst rivelano quanto la sensibilità moderna abbia le sue radici nella profonda connessione tra i sogni e le immagini surreali che li popolano. Info: www.museothyssen.org.


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LONDRA/1 Paul Klee

LONDRA/2 Van Gogh in Paris

LONDRA/3 Calder e Melotti

MARSIGLIA Le Corbusier

Paul Klee: making visible esposta alla Tate modern di Londra riunisce disegni, acquerelli e dipinti del maestro svizzero, dai primi del Novecento alla fine degli anni ‘30. La retrospettiva di 130 tra quadri e disegni in 17 sale dimostra l’inesauribile creatività di Klee e la straordinaria diversità e complessità delle sue opere. Il curatore della mostra, Matthew Gale, ha deciso di seguire un ordine cronologico, seguendo le indicazioni dello stesso Klee, che scriveva su ogni quadro non solo l’anno ma anche il numero dell’opera. Fino al 9 marzo 2014. Info:www.tate.org.uk.

Nella breve parabola pittorica di Van Gogh, il periodo parigino è quello che segna il passaggio delle tele sobrie olandesi agli squillanti colori dell’ultima fase. Periodo fondamentale quello dal 1886 al 1888, in cui vive e lavora a Parigi e realizza l’autoritratto del Gemeentemuseum dell’Aia. A questi due anni la Eykyn Maclean di Londra dedica Van Gogh in Paris fino al 29 novembre. In mostra opere raramente esposte con una selezione di lavori di artisti che Van Gogh ammirava e con cui era entrato in contatto. Info: www.eykynmaclean.com.

Fino al 30 novembre la Ronchini gallery di Londra presenta Calder e Melotti: children of the sky in collaborazione con il Museo Carandente Palazzo Collicola di Spoleto curata dal direttore Gianluca Marziani. Esposte le opere dello statunitense Alexander Calder (1898-1976) e dell’italiano Fausto Melotti (1901-1986) per raccontare le storie di due artisti dalle tecniche e dai gusti estetici affini che hanno preso ispirazione dalla città di Spoleto. Info: www.ronchinigallery.com.

L’atelier J1 del porto di Marsiglia, inaugurato di recente, ospita la mostra Le Corbusier et la question du brutalisme. Fino al 22 dicembre, dipinti, sculture, arazzi e stampe vengono esposte per illustrare il lavoro di una delle figure più influenti nella storia dell’architettura e del design. Con la personale si vuole rendere omaggio non sono al maestro del movimento moderno ma anche a capolavori teorici come La ville radieuse. Info: www.mp2013.fr.

Da sinistra: Paul Klee Gespenst eines genies, 1922 Vincent van Gogh Autoritratto, 1886-1887 Fausto Melotti L’abbraccio, 1961 Le Corbusier ritratto di Walter Limot, 1934

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PRIMO PIANO EVENTI

artissima e torino Una storia internazionale

di FRANCESCO ANGELUCCI

Intervista con la direttrice della fiera Sarah Cosulich: «Voglio offrire una finestra sulla contemporaneità» Riconfermato anche Art Edition lo spazio dedicato ai multipli d’arte

A fianco: Jonathan Meese, Saalevolutyr, s.d.

enti, per tante volte Torino ha contato l’inizio (e la fine) di una delle fiere più importanti del Belpaese: Artissima. Due invece sono le direzioni dell’evento sotto Sarah Cosulich e per altrettante volte la manifestazione ha accolto Art Editions, uno spazio particolare riservato ai multipli d’arte. Abbiamo intervistato la direttrice che racconta questo e altre novità, come One Torino, dell’edizione che scende in campo dal 7 al 10 novembre. Seconda edizione di Artissima sotto la sua direzione: che cosa significa organizzare una delle fiere d’arte contemporanea più importanti della penisola? «Quest’anno Artissima compie 20 anni, un numero che rappresenta la maturità e il consolidamento di un lavoro che ha origini lontane nel tempo. Artissima ha tenuto immutata in questi anni la tensione a una crescita costante, all’allargamento geografico, allo sviluppo della qualità delle proposte: è parte integrante del dna di questa fiera, che in Italia è indiscutibilmente la più sperimentale e internazionale. Artissima ha sempre voluto offrire ai visitatori una finestra sulla contemporaneità. Questo per me si traduce in un lavoro di continuo aggiornamento, di volontà di essere una voce importante locale, nazionale e internazionale, e nell’incessante costruzione di ponti con la città, le altre istituzioni e i migliori e più interessanti protagonisti del mondo dell’arte». Cosa ci si aspetta da questa edizione? Cosa può dare alla città di Torino?

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«Artissima anche quest’anno conferma la sua vocazione all’internazionalizzazione, lo dimostrano i numeri: su 190 gallerie invitate, 130 vengono da 38 diverse nazioni, 12 delle quali presenti per la prima volta a Torino. Inoltre, la manifestazione è affiancata da un grande progetto espositivo che investe cinque diverse istituzioni e sedi espositive con proposte di grande qualità. Artissima porta in città importanti curatori da tutto il mondo, musei internazionali, gallerie e collezionisti provenienti da zone geografiche nuove, anche da paesi emergenti. Tutto questo dà origine a un circolo virtuoso, a beneficio di tutto il sistema: dell’arte e di Torino. La manifestazione per la città genera un indotto importante perché richiama un pubblico eterogeneo, quello internazionale degli addetti ai lavori e quello più vasto degli appassionati. A dimostrazione che la cultura può costituire una ricchezza per Torino non solo

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nel contingente ma, con un piano lungimirante, può rappresentarne anche il futuro». One Torino è la novità di quest’anno che sembra allargare gli spazi canonici della fiera. In cosa consiste il progetto? «Già l’anno scorso, consapevoli che il coinvolgimento del territorio aumenta la capacità attrattiva della città e della fiera stessa, avevamo promosso, in parallelo al padiglione fieristico, il progetto espositivo It’s not the end of the world, che riuniva i principali musei e fondazioni di arte contemporanea di Torino. L’iniziativa ha riscosso un grande successo di pubblico e apprezzamenti da più parti, abbiamo dunque voluto proseguire su questa strada, sviluppando ulteriormente il progetto. Da qui è nato One Torino, non più un evento collaterale ma una vera e propria rassegna espositiva indipendente ma al contempo legata alla fiera: cinque mostre collettive collegate

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all’evento in altrettanti spazi quali il Castello di Rivoli, Gam, Fondazione Merz, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Palazzo Cavour, che vede la partecipazione di 53 artisti contemporanei provenienti da tutto il mondo». Seconda volta anche per Art Editions, lo spazio riservato ai multipli d’arte. Come mai una scelta di questo tipo? «Ho concepito questa sezione dedicata alle stampe e multipli d’arte internazionali per due motivi. Il primo per un discorso di completezza: era doverosa la presenza di una sezione che illustrasse il panorama internazionale dell’editoria dedicata all’arte contemporanea. L’altro motivo è che dall’anno scorso l’editoria è stata portata in un’area centrale della fiera per dar vita a un vero e proprio spazio di relazione, informazione, relax di qualità, con spunti nuovi e interessanti. Art Editions è una sezione alla quale credo molto e che intendo


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EDITALIAADARTISSIMA I numeri dell’evento Torino dal 7 al 10 novembre viene invasa da 190 gallerie (di cui un terzo straniere) che riempiono gli spazi dell’Oval-Lingotto fiere per la ventesima edizione di Artissima diretta per la seconda volta da Sarah Cosulich. A queste vanno aggiunte 57 artisti e sette curatori chiamati per One Torino, la novità di questa edizione. Opere a prezzi più accessibili sono esposte nella sezione dedicata ai multipli, Art Editions,dove Editalia presenta le opere di Carla Accardi, Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Joe Tilson e Mimmo Rotella. Venerdì 8 alle 16 in una tavola rotonda Emilio Isgrò presenta l’anteprima di una sua nuova opera per Editalia. Info: www.editaliarte.it .

sviluppare sempre più con nuovi progetti e collaborazioni, nella stessa misura in cui si è fatto per le altre sezioni della fiera. La intendo come un laboratorio in cui sperimentare formule in continua evoluzione, come del resto è la stessa natura di Artissima». Il multiplo è un lavoro a metà fra un’opera singola e una produzione su scala industriale. Perché investire su un multiplo piuttosto che su un giovane o su una creazione unica di pari valore? «Rispondo con una domanda: perché non dare la possibilità di acquistare un’opera – anche se in questo caso non nella sua unicità – di un artista importante a prezzi più accessibili? Anche in un multiplo alberga lo stesso spirito che ha animato la ricerca poetica di un artista. I multipli d’artista contribuiscono a tenere vivo il mercato dell’arte anche in questi tempi di crisi economica aprendo un mercato più ampio».

Fabian Marti, Marti Keramik Sopra: Jannis Kounellis Senza titolo, Editalia, 2011 A sinistra: Jeffrey Vallance Vallance Bible, 2012

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PRIMO PIANO GRANDI MOSTRE

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viaggio nel cuore dell’en plein air

di PHILIPPE CROS*

La novità di Claude Monet consiste nello scomporre i colori per imporre le sfumature cangianti legate al trascorrere del tempo

Claude Monet Passerelle à Zaandam, 1871

on Monet intraprendiamo un viaggio nel cuore stesso dell’impressionismo. Questo artista, nato nel 1840 a Parigi e che visse tutta la sua infanzia a Le Havre, ha portato la pittura dell’en plein air alla sua più perfetta espressione. È riconosciuto come uno dei creatori dell’impressionismo, il più convinto e costante tra i pittori di questa scuola, se non anche il capofila del movimento. Ma che cos’è esattamente l’impressionismo? In questa nuova concezione dell’arte per l’arte, la verità di un’opera diventa relativa perché dipende dal pittore che la dipinge e dallo spettatore che la rimira e non pertiene che a un momento preciso, a determinate condizioni temporali, fatto che sottolinea l’importanza di un’esecuzione rapida, prossima a quello che – se facciamo riferimento alla tradizione classica della pittura – non è altro che uno schizzo. Al servizio dell’impressione provata in maniera fugace, la ricerca degli impressionisti sulla luce e sui colori fa scoprire loro nuovi procedimenti pittorici, nei quali la giustapposizione sulla tela di macchie di colore puro si fonde in una “mescolanza ottica” solo dentro l’occhio dello spettatore. Questo movimento, che si rivelerà essere l’esperienza più feconda dell’arte figurativa del XIX secolo, nasce nel 1874 in mezzo a mille difficoltà di ogni genere. Il futuro riposa infatti in quell’anno, nelle mani di un piccolo gruppo di artisti, scontenti del clima retrogrado che regna nei Salon accademici. Fortemente criticato agli inizi, l’impressionismo segna in effetti la rottura dell’arte moderna rispetto all’accademismo. Il ruolo dell’accademia e dell’arte ufficiale era allora molto importante. L’accademia stabiliva i soggetti che gli artisti potevano raffigurare

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LA MOSTRA/1 Monet au cœur de la vie La mostra al CastelloVisconteo di Pavia, a cura di Philippe Cros, è un viaggio nel cuore della vita di Monet raccontato attraverso le voci di sei personaggi chiave, tra cui il suo maestro Eugène Boudin. Il visitatore ha così la possibilità di ammirare importanti lavori di Claude Monet e di ripercorrere le tappe principali della sua produzione. Un percorso espositivo innovativo offre un’inedita modalità di avvicinamento anche alla sfera personale della vita di Monet,consentendo al pubblico di scoprire l’uomo oltre che l’artista.I momenti salienti della vita del pittore sono stati ricostruiti sulla base di preziose lettere in cui l’artista racconta i suoi stati d’animo. Fino al 15 dicembre. Scuderie del Castello Visconteo, viale XI febbraio 35,Pavia.Info: www.scuderiepavia.com.

(pittura di storia, ritratto, paesaggio) e fissava le regole di ciò che era bello e di ciò che non lo era. Gli artisti erano allora portati a riprodurre i modelli dei maestri e a rappresentare scene mitologiche, dal momento che la pittura perseguiva prima di tutto la verosimiglianza. I pittori lavoravano nel loro atelier e non presentavano mai soggetti di vita quotidiana, giudicati triviali. Il Salon era una grande esposizione annuale alla quale potevano partecipare solo gli artisti che erano stati selezionati dalla giuria dell’accademia. Gli artisti scontenti del clima retrogrado dell’epoca erano Cézanne, Degas, Pissarro, Renoir e ovviamente Monet, che divenne in fretta la personalità più carismatica del gruppo, ed essi, non avendo trovato nessun luogo per mostrare pubblicamente la loro pittura, esposero nella galleria del fotografo Nadar. Nel catalogo della mostra, una tela di Monet fu presentata con il titolo Im-

pression, soleil levant (Impressione, sole nascente). La parola impressione, che doveva fare scuola, scatenò l’ilarità dei critici che ridicolizzarono la prima mostra degli impressionisti. La novità dell’impressionismo, di cui Monet sarebbe diventato caposcuola, consisteva prima di tutto, al di là della scelta dei soggetti, nella tecnica pittorica che scomponeva i colori e le forme per imporre alle cose le sfumature cangianti legate al trascorrere del tempo. Alla fine di un percorso punteggiato di lunghi periodi di incomprensione e di successi finora mai smentiti, Monet doveva lasciare una produzione considerevole, sia in quantità (più di duemila opere inventariate), sia per l’elaborazione di una tecnica impressionista rimasta senza eguali, espressione artistica di cui è a buon diritto considerato il rappresentante più autentico.[...]

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L’opera di Monet conobbe nel corso della sua vita un rinnovamento profondo. Dopo essere stato il padre dell’impressionismo, la rivoluzione pittorica più significativa del XIX secolo, Monet divenne uno degli artisti francesi più innovatori del XX secolo. Non si può affrontare il problema dell’arte contemporanea senza ricercarne le radici più profonde in quegli anni di crisi e di rinnovamento nei quali germinò l’impressionismo. Questi anni di transizione verso il mondo contemporaneo, che hanno visto svolgersi la rivoluzione impressionista, sono senza dubbio tra i più intensi, i più fecondi di novità e i più decisivi nella storia della pittura, e Monet vi regnò come un sole su una costellazione di artisti geniali. In origine, il novero degli impressionisti è quel piccolo gruppo di giovani pittori, tutti tra i trenta e i quarant’anni, che condividono una nuova concezione della natura e dell’arte.


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LA MOSTRA/2 Verso Monet Verso Monet,storia del paesaggio dal Seicento al Novecento espone circa novanta opere di artisti differenti. Tra questi, Poussin, Van Goyen, Hobbema, Canaletto, Renoir, Sisley, Pissarro, Degas,Manet,Van Gogh,Gauguin, Cézanne e, naturalmente, Monet, presente con 25 opere.A cura di Marco Goldin, l’esposizione si sviluppa in cinque sezioni che descrivono la narrazione della natura vista come divinità dominante. Dal 26 ottobre al 9 febbraio 2014, Palazzo della Gran Guardia, Verona. Dal 22 febbraio al 4 maggio, Basilica Palladiana, Vicenza. Info:www.lineadombra.it.

Claude Monet, La casetta del pescatore sugli scogli, 1882 Nella pagina precedente: Claude Monet, Waterloo bridge, 1900

L’atto del dipingere e l’opera d’arte che ne deriva sono rivendicati come un piacere, quello del pittore e della sua creazione personale. Il padre dell’impressionismo, del resto, scriverà a questo proposito poco prima di morire: “Ho avuto sempre orrore delle teorie. […] Ho solo il merito di aver dipinto direttamente, davanti alla natura, cercando di rendere le mie impressioni davanti agli effetti più fugaci, e sono spiacente di essere stato la causa del nome dato a un gruppo, la maggior parte dei componenti del quale non aveva niente di impressionista”. Claude Monet non ha fondato una scuola propriamente detta e non ha mai avuto allievi (fatta eccezione per la sua figliastra, Blanche Hoschedé, figlia della sua seconda moglie Alice). Si è quindi ritrovato capofila, suo malgrado, di artisti stranieri tentati dall’avventura impressionista. Presso Monet, il soggetto diventa un’inesauribile fonte di im-

pressioni. Ma Monet ha inventato l’arte astratta come dicono molto spesso? A valutare l’influenza del padre dell’impressionismo sui maestri dell’astrazione è possibile, è vero, farsi questa domanda... Monet inventore dell’astrattismo? Ecco un interrogativo particolare riferito al caposcuola degli impressionisti, dal momento che è difficile non scorgere una parentela fra gli artisti astratti americani del secondo dopoguerra e Monet. La verità è che se Monet non cercava di essere un pittore astratto, appare quanto meno come un precursore del movimento. Effettivamente, le sue ricerche sugli effetti di luce o di foschia e la sua volontà di esprimere le sue sensazioni portano Monet, a partire dagli anni novanta, a diluire le forme e ad allontanarsi a poco a poco da una rappresentazione realistica del mondo. Se si chiude a quell’epoca a Giverny è per condurvi delle esperienze controcorrente rispetto alle ricer-

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che di un Cézanne o di un Picasso, che stanno allora facendo orientare l’arte verso la geometria. Tanto più che a partire dagli anni dieci, afflitto dalla cataratta come abbiamo ricordato, il maestro percepisce sempre meno le forme e i colori: più che mai le sue opere rasentano allora l’astrattismo. Non è sorprendente, quindi, che abbia ispirato i pittori che hanno rinunciato alla figurazione. Comunque stiano le cose, che ci si trovi davanti alla facciata della Cattedrale di Rouen o davanti alle Ninfee a Giverny, la sua visione porta l’artista lontano dai limiti figurativi della pittura, ma mai tuttavia è possibile parlare a questo proposito di astrattismo. Le sue ultime opere sono solo un meraviglioso specchio dentro il quale è possibile leggere il futuro. *curatore della mostra Monet au cœur de la vie, estratto dal catalogo cortesia Silvana Editoriale


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PRIMO PIANO GRANDI MOSTRE

antonello da messina oltre il ritratto una visione del mondo

di GIORGIA BERNONI

Il Mart di Rovereto ospita la mostra sul grande pittore mediatore tra il mondo italiano e quello fiammingo Il curatore Bologna: «Personaggio chiave del Rinascimento»

Antonello da Messina L’Annunciata di Palermo, 1476

isi di uomini catturati di tre quarti che sembrano uscire tridimensionalmente dalla tela, figure intere che richiamano l’iconografia cristiana ma che poco o nulla hanno della tradizione pittorica religiosa, Madonne dalle vesti ricamate d’oro che stringono la loro creatura mentre questa, così umanamente, cerca di farsi spazio tra i seni: la pittura di Antonello da Messina segna un punto alto e qualitativamente eccelso nella cultura del Rinascimento, non solo in Italia. La retrospettiva Antonello da Messina, in programma al Mart di Rovereto fino al 12 gennaio 2014, fornisce una lettura atipica dell’artista grazie all’indagine articolata che i due curatori, Ferdinando Bologna e Federico De Melis, con la collaborazione di Maria Calì e Simone Facchinetti, propongono: la figura del pittore del Quattrocento viene inserita nel suo tempo attraverso lo studio degli intrecci storico-artistici e delle controversie ancora aperte, presentate negli spazi del museo come punti di forza. «Antonello è uno dei maestri al massimo livello del Rinascimento in Italia. In quanto tale diventa il punto di riferimento della rielaborazione della rappresentazione del mondo», sintetizza mirabilmente il curatore Bologna, grande storico dell’arte e profondo conoscitore del pittore che, forte dei suoi 88 anni, ha dimostrato genuino entusiasmo nel raccogliere la sfida di raccontare, a secoli di distanza, il mondo sfaccettato del pittore siciliano. L’esposizione ha l’ambizione di ricostruire l’ampia scena dalla quale emerge l’eccezionale individualità di Antonello: un pittore che, a metà del Quattrocento, si fa interprete di un fermento

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LA MOSTRA Antonello da Messina Il Mart di Rovereto ed Electa presentano la mostra dedicata ad Antonello da Messina, a cura di Ferdinando Bologna e Federico De Melis con la collaborazione di Maria Calì e Simone Facchinetti. Il progetto espositivo è arricchito da un corposo programma di eventi collaterali e incontri. La mostra su Antonello dialoga con l’esposizione L’altro ritratto, fino al 23 febbraio 2014, a cura di Jean-Luc Nancy: un’esplorazione che comprende tutte le tecniche artistiche, dalla pittura al video, e intreccia diverse generazioni. Fino al 12 gennaio 2014, Corso Angelo Bettini, 43, Rovereto (Trento). Info: www.mart.trento.it.

A fianco: Antonello da Messina, Gruppo di donne (disegno a penna) A destra: Cristo morto sostenuto da tre angeli, 1475

creativo mediterraneo ed europeo incentrato sull’incontro-scontro tra la civiltà fiamminga e quella italiana. «Antonello – continua Bologna – rappresenta un momento della proiezione dell’universo umanistico fondato sulla costruzione prospettica del mondo. Una visione e una ricerca estremamente avanzata. Per giunta Antonello ottiene un risultato straordinario: riesce a operare una sintesi altissima e felicissima tra il mondo fiammingo e il mondo italiano. In questo l’opera di Antonello è una punta di estrema originalità e di grande capacità di ricostruzione del mondo visibile e del mondo intero. Per tutto questo Antonello si appoggia a Piero della Francesca, il personaggio chiave di tutto il processo della visione storico-prospettica del mondo rinascimentale, e da lui ricava un grande uso della prospettiva formale che coincide con il culmine del Rinascimento. Ci tengo a precisare, inoltre, che Antonello non è un pittore di ritratti ma è un pittore di tutto». La rilettura di Antonello da Messina si concentra anche sull’analisi dei rapporti con i maestri a lui contemporanei: in mostra sono così esposte tele di altri pittori come Colantonio e Van Eyck, fino a comprimari meno conosciuti ma insigni come Antonio da Fabriano e il Maestro di San Giovanni da Capestrano. Un’esposi-

zione corposa, che presenta una quarantina di opere di cui ben trenta a firma di Antonello, e per questo si differenzia dalle altre sul pittore messinese. «Questa retrospettiva è la più ricca tra quelle che si sono tenute recentemente. Ci sono opere non presenti nelle ultime mostre in Italia: almeno tre tele di Antonello non erano al Quirinale nel 2006», precisa Bologna. È dunque ora possibile ammirare al Mart anche opere provenienti da musei internazionali: Ritratto d’uomo appena restaurato, che arriva dal Philadelphia Museum of Art, il Salvator Mundi della National Gallery di Londra e la Madonna Benson custodita nella National Gallery di Washington. Riguardo alla questione di come un pittore storicizzato come Antonello trovi spazio tra le mura di un centro d’arte contemporanea come il Mart, Bologna non ha esitazioni. «Il Mart è un eccellente esempio di come calibrare le esposizioni secondo una raffinatissima tecnica fondata sull’astrazione. Come estremo costruttore di forme razionalisticamente ordinate, è quanto di meglio si possa desiderare per un confronto con l’astrazione che gli ambienti del museo ben rappresentano. Antonello, costruttore del mondo come forma, si trova insomma a suo agio in un contesto limpido e geometricamente calcolato».

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Joe Tilson, le molTe vie della culTura pop

di ENZO DI MARTINO*

Al Centro Saint-Bénin di Aosta un’esposizione celebra l’artista “eroe goethiano” solitario alla ricerca del mistero dell’arte e della vita

A fianco: Melograno e sette semi I, 2007

a prima considerazione da fare – in occasione di questa vasta mostra antologica che gli viene dedicata al Centro Saint-Bénin di Aosta – è che Tilson fa storicamente parte di quel gruppo di artisti inglesi che, già alla metà degli anni Cinquanta, adottarono nel loro repertorio espressivo elementi della cultura popolare: fumetti, pagine di tabloid, fotografie e perfino immagini delle fiction televisive. Parliamo della pop art, una delle concezioni più “sovversive” dell’arte del XX secolo, che affermava infatti che “niente è più estraneo all’arte dell’idea di essere semplicemente il riflesso delle cose raffigurate”. La stessa cosa accadeva contemporaneamente negli Stati Uniti e il fenomeno assunse la connotazione di una vera e propria rivoluzione, come venne definita quando essa si manifestò clamorosamente alla Biennale di Venezia del 1964, nella quale il Gran Premio venne assegnato a Robert Rauschenberg e dove Joe Tilson esponeva, nel padiglione della Gran Bretagna, opere che sarebbero diventate storiche quali Vox-Box, Ziggurat-Box e Key-Box. Pochi colsero allora la differenza tra le due proposizioni: prevalentemente tesa alla esaltazione dei feticci della pubblicità e del consumo quella americana, volta invece verso più profondi riferimenti culturali e storici quella inglese. Uno degli aspetti più sorprendenti del “fare arte” di Joe Tilson è certamente quella sua straordinaria capacità di “volgere a proprio vantaggio” ogni materiale e qualsivoglia procedimento tecnico. La pittura e la scultura, il disegno e la grafica, il legno, il vetro e la ceramica, cioè tutti i mezzi dell’espressività artistica sembrano

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LA MOSTRA Joe Tilson, ritorno ad Aosta Joe Tilson, ritorno ad Aosta, a cura di Enzo Di Martino e Daria Jorioz, intende documentare i molti aspetti della ricerca dell’artista inglese, attraverso un’ampia selezione di sculture in terracotta, legno e vetro, dipinti, grafiche. Il titolo della mostra si riferisce al fatto che l’artista ha già esposto nella regione nel 1991. L’esposizione è corredata da un catalogo d’arte trilingue italiano francese inglese, edito da Papiro art. Dal 26 ottobre al 4 maggio 2014. Centro Saint-Bénin, via Festaz 27, Aosta, Info:0165272687.

A sinistra: Finestra veneziana, Zattere a ponte lungo, 2013, Editalia Sotto: Finestra veneziana Zatta, 2010 A destra: The four elements, 1993 A destra, in basso: P. C. from Venice Santa Maria dei Miracoli, Vinegia, 2012

rispondere docilmente alle esigenze della sua cifra formale, alla manifestazione del suo personale mondo immaginativo. Come è possibile vedere qui ad Aosta in una mostra nella quale vengono esposte opere realizzate con diverse tecniche e differenti materiali. Nel caso di Tilson non esiste infatti alcuna gerarchia di valore nei linguaggi adottati e l’impiego dei mezzi e dei procedimenti rivela invece anche una riflessione sulla persistenza di una “opera fatta ad arte”. Determinando un particolare processo di contaminazioni e inedite sollecitazioni formali tra le più interessanti nel panorama della ricerca artistica contemporanea. Un fatto che avviene con una strategia espressiva tesa alla manifestazione di una personale e riconoscibile “calligrafia formale” che appare dunque indif-

ferente nei confronti dei materiali e delle tecniche. Risulta interessante notare a questo proposito che sia l’opera di Tilson che la sua lettura critica procedono parallelamente “in progress”: la prima obbligando continuamente a una nuova “occhiata”, più attenta e riflettuta, per individuare i nuovi riferimenti ispirativi; la seconda costretta ad adeguare costantemente i modi e i modelli di decifrazione. Ciò accade perché la sua opera, al di là della clamorosa dichiarazione di se stessa, rinvia continuamente ad altro, induce lo sguardo verso nuove derive percettive ed emozionali. Facendo venire in mente la lettura che Georges Bataille dava dell’Olympia di Manet che definiva un “pretesto” utile alla negazione di una nascosta classicità. Avviene anche nell’opera di Tilson che utilizza infatti iscri-

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zioni greche o forme mitiche come lo “Ziggurat”, elementi simbolici in antiche culture come il melograno, la spiga e l’uva, manifestandoli però nei modi formali tipici della pop art. Occorre allora rimarcare il valore della sua personale strategia espressiva che si serve di ogni possibile riferimento, interessata com’è a manifestare infine solo una poetica e fantastica architettura formale. In un’altra occasione ho scritto che la figura di Tilson appare quella di un “eroe goethiano” solitario alla ricerca del mistero dell’arte e della vita. Adoperando solo i linguaggi dell’arte, sapendo che nel XX secolo essi possiedono l’autonomia derivante dall’affrancamento dalla “rappresentazione”. Reclamando tuttavia, nel momento stesso in cui si sono manifestati, la volontà di

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farsi storia, come è avvenuto di vedere per tutte le tendenze formali, dall’espressionismo al cubismo, dal surrealismo alla metafisica e alla pop art e, più recentemente, dalla transavanguardia all’arte povera. Vivendo dunque l’inquieta e ansiosa condizione dell’artista contemporaneo, perché Tilson sa bene che anche le grandi opere storiche non consentono più un utile confronto perché, è stato detto, “hanno smesso di dire e si limitano ormai solo ad essere”. Ma sa altrettanto bene che è soltanto all’interno di questa difficile e contraddittoria condizione esistenziale che egli può tentare la manifestazione del suo personale e irrinunciabile sogno dell’arte. Come è evidente in questa sua bella mostra aostana. *curatore della mostra

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PERSONAGGI IL CORPO DELL’ARTE

mattiacci il fabbro del cosmo Tra i protagonisti indiscussi dell’arte italiana, dagli anni ‘60 lavora la materia, per lui ancora oggetto d’interesse e fonte naturale di energia, messa in relazione con lo spazio naturale e storico di FABRIZIA CARABELLI


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e Efesto oggi avesse un volto, probabilmente sarebbe quello di Eliseo Mattiacci, o per lo meno gli somiglierebbe molto. Dio del fuoco, della scultura e della metallurgia nella mitologia greca, Efesto è sempre ritratto con i suoi strumenti in mano: martello, incudine e tenaglie. Eliseo Mattiacci di professione fa lo scultore, ma a lui piace definirsi fabbro. Tiene in mano la fiamma ossidrica, non il martello, e qualunque sia il materiale con cui si confronta, ha bisogno di esserci fisicamente, di toccarlo, sperimentando le sue reazioni. Mattiacci forgia le sue sculture nobilitando a ogni tocco la materia di cui sono fatte, animandole di vita propria. C’è un che di divino nella sua arte, che porta il cosmo sulla terra e veste la grezza materia nuda di forme e simboli che richiamano la sfera celeste, in una danza di astri e stelle. Un costante equilibrio tra terreno e ultraterreno, un ordine cosmico reso attraverso la maestria nel bilanciare lo spazio, inteso sia come campo geografico delle sue installazioni sia quale realtà astratta in cui la materia non parla, ma lascia esprimere ciò che rappresenta. Cerchi, spirali, sfere, tante sono le sagome che abitano l’arte di Mattiacci, a contatto con gli ambienti urbani ma soprattutto naturali in cui vengono collocate, private della loro forza gravitazionale. Interessato a studiare le reazioni dei metalli a contatto con l’ambiente esterno, bagnati, arsi dagli agenti atmosferici, ha iniziato a sperimentare la loro durezza, la loro flessibilità, la capacità di torsione e di estensione che li caratterizza. Marchigiano d’origine, Mattiacci è profondamente legato alla sua terra, nella quale è tornato esponendo quest’anno alla Fondazione Pescheria di Pesaro una nuova opera, Dinamica verticale.

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IL VOLUME

CELANT RACCONTA MATTIACCI Skira editore ha dedicato quest’anno un volume monografico a Eliseo Mattiacci, a cura di Germano Celant. Grazie al sostegno di Silvia Mancini e Cornelia Mattiacci il catalogo è una preziosa e corposa raccolta d’immagini prese dall’archivio dell’artista e di testi basati su storie da lui narrate. L’introduzione di Celant, intitolata Mattiacci cosmico, è un’analisi storico-artistica che ripercorre le tappe concettuali da lui attraversate e analizza gli ambienti intorno ai quali gravitava la vita artistica italiana tra gli anni ’60 e ‘80. A seguire un articolato viaggio biografico e cronologico attraverso la vita e i lavori dell’artista dagli anni ’40 a oggi, accompagnato dalle testimonianze che spiegano i processi mentali e le riflessioni che hanno mosso le sue creazioni.

È a Roma, tuttavia, che ha trovato per lungo tempo un tetto, accanto a quegli artisti italiani che hanno segnato la storia dopo la fine degli anni ‘60 del novecento. Amico di Pino Pascali, con il quale attraversò una breve fase poverista, pianse la sua perdita, ricordando di lui gli aspetti che avevano in comune: «La capacità di usare le mani, quelle mani grosse, dure e sporche, per trasformare le idee, che erano tante che quasi non si riusciva a stargli dietro». È con lui e tramite Sergio Lombardo che cominciò a frequentare le gallerie d’arte allora più in voga, dall’Attico alla Tartaruga, esibendosi con le prime performance che indagavano lo spazio, rendendo sempre più labile il confine tra dentro e fuori, alla stregua di ciò che al di là delle frontiere italiane i land artists stavano contemporaneamente sperimentando. Dopo i cavalli di Kounellis, nel ‘69 fu il turno del suo compressore che attraversò il suolo della galleria L’Attico, cosparso di terra pozzolana

Le immagini che affiancano i testi sono di grande valore storico, in quanto da ricondurre a celebri nomi della fotografia italiana tra i quali Claudio Abate e Mimmo Jodice. Molte di esse sono testimonianze uniche, che raffigurano Eliseo Mattiacci durante inaugurazioni e performance in compagnia di personaggi dell’arte nazionale, come Fabio Sargentini e Gino De Dominicis e del panorama internazionale, come Leo Castelli e Alexandre Jolas. Altro materiale fondamentale per ricostruire la sua carriera è tratto dal film SKMP2 del 1968 di Luca Maria Patella, anagramma delle quattro iniziali degli artisti della galleria l’Attico (Fabio Sargentini, Jannis Kounellis, Eliseo Mattiacci, Luca Patella). Insomma il volume è un esaustivo strumento di conoscenza di un personaggio che è stato protagonista della storia dell’arte contemporanea italiana.

per l’inaugurazione della prima personale, diffondendo odori e rumori di impatto nuovo per un pubblico ancora acerbo. Di due anni prima è invece il celebre Tubo snodabile, con il quale Mattiacci riuscì a raggiungere ogni metro quadrato della stanza della Tartaruga, grazie all’uso di un materiale flessibile, estendibile, che occupava interamente il volume dell’edificio, pulsando e fremendo per sfondarne le pareti. Negli anni ‘80, sempre più al centro della sua analisi c’è il cosmo, i simboli archetipici che una volta installati fanno pensare a una Stonehenge di lamine in ferro, con tutti i significati arcani dietro ad essa celati. Quest’Efesto dell’arte contemporanea ci riporta ai primordi, lavorando la materia e lasciandola lì fuori a farla interagire con lo spazio, a farla consumare dal tempo, a farla mimetizzare nella natura, come fosse parte di essa ma senza imporsi in modo prepotente. Materia tanto rumorosa e robusta nella sua costruzione, quanto silen-

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Mattiacci Germano Celant (a cura di) Skira Editore 437 pagine 85 euro

A sinistra: Riflesso del cosmo, dall'alba al sorgere del sole, 1991 foto Gianfranco Gorgoni A pagina 32-33: Eliseo Mattiacci, 2012 foto Michele Alberto Sereni

ziosa e fragile nello spazio, e tuttavia non statica, ma sempre in movimento, tenuta in equilibrio da una flessione o una sospensione. Magici anche i titoli che ci suggeriscono l’identità delle sue opere: dinamiche, contrasti, equilibri precari e compressi, volti tutti a indicare un perpetuo movimento dell’opera, lo stesso insito nella materia, anch’essa ferma, mentre dentro di sé le sue particelle sono in agitazione. Si è chiusa qualche tempo fa la mostra Dinamica verticale, curata da Ludovico Pratesi, con la quale è tornato a confrontarsi con gli stessi spazi della Pescheria di Pesaro a diciassette anni di distanza. Cos’è cambiato in tutto questo tempo? «Conoscevo bene lo spazio della Pescheria, avevo inaugurato il Centro arti visive con la mostra del 1996. La novità è stata quella di relazionarsi anche con l’adiacente Chiesa del Suffragio, annessa negli ultimi anni, e comunicante con la Pescheria. È uno spazio classico,


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Il futuro è sempre misterioso, non so quello che farò domani

Tubo, Galleria La Tartaruga, 1967 A destra: Equilibri precari quasi impossibili, 1991 Collezione Prada, foto Michele Alberto Sereni (2013)

con una grande pianta circolare, leggermente ellittica. Questo mi ha fatto pensare che poteva essere il luogo adatto all’installazione di Equilibri precari quasi impossibili, che con la potenzialità del magnete permanente sospende due travi di 11 metri. Il mio lavoro continua a essere rivolto verso lo spazio cosmico e la sua imprevedibilità». Il rapporto con lo spazio circostante è da sempre un punto fondamentale del suo lavoro artistico. Che nota acquisisce quando si tratta della sua terra? «Nella mia terra ho radici profonde, ed è sempre emozionante lavorarci. È una terra ricca di storia, Urbino è stata la culla del Rinascimento, e mi sento legato alla natura del Montefeltro». Com’è stata concepita l’installazione Dinamica verticale e a cosa allude il titolo quasi futurista? «Dinamica verticale sono tre eliche in fusione di alluminio decontestualizzate dalla loro funzione. Sono state collocate nello spazio rovesciate, per vincere la forza di gravità e acquisire una dinamica di movimento verso il cielo, come un elicottero che decolla. Volevo che si perdesse il riferimento diretto al-

la loro forma e funzione. Il lavoro tocca vari punti di questo territorio, e un luogo in cui mi piace andare è il cantiere navale della città». Siamo oggi lontani dalle atmosfere dell’Attico, come anche dai sodalizi artistici che si formavano in quei tempi “d’oro”. Come lavora oggi un artista che non ha avuto e mai avrà la percezione di quegli ambienti? «La Tartaruga, l’Attico, la Salita erano punti vitali in cui si sentiva la novità della ricerca. L’Attico-garage dava la possibilità di fare mostre eccezionali uscendo dagli spazi convenzionali della galleria-appartamento. Un giovane artista oggi deve sentire il momento storico che vive, e imporre un cambiamento con le sue idee». La materia, lavorata a mano, modellata, flessa, pressata, è stata sempre al centro del suo lavoro. Ciò nonostante riesce a discostarsi dal suo appiglio terreno, per diventare la prova ancestrale di spazi siderei, atmosfere magiche e cariche d’energia. Qual è il rapporto tra la materia e la sua potenzialità magica? «Avere manualità significa rapportarsi con il materiale, ma il rappor-

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to con la materia per me non è mai evocativo e dimostrativo. La manualità è una cosa da sublimare. Anche i materiali che uso sono sempre “reali”, non artificiali, come ad esempio le materie plastiche. Uso i metalli perché hanno un’energia di per sé». Nel ‘67 la galleria La Tartaruga esponeva nei suoi spazi, o meglio i suoi spazi venivano invasi, dal suo Tubo flessibile e dialogante con l’ambiente circostante. L’anno dopo Pino Pascali presentava alla galleria l’Attico i suoi Bachi da setola anch’essi avviluppati e disposti nello spazio. Da cosa nasceva quest’esigenza di dialogare con l’ambiente circostante? «Quella del ‘67 è stata la mia prima mostra personale, con il Tubo flessibile di 150 metri in ferro nichelato verniciato giallo Agip. L’opera era uno spazio-ambiente: il tubo modificava lo spazio e stimolava il pubblico a muoverlo modificandolo ancora, senza che venisse alterata l’idea del lavoro. Dava un senso di libertà in più perché partiva dalle scale, riempiva una stanza e continuava in un’altra. La galleria di per sé non bastava più, e si avvertiva l’esigenza di trovare altri spazi».


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A differenza dei land artists statunitensi, le sue opere mantengono una poetica che non le fa risultare invadenti, ma che le fa sposare armonicamente con lo spazio. Come concepisce l’interazione tra opere, natura e spazio urbano? «La land art è stato un movimento molto liberatorio, che ha portato l’arte nei deserti, nelle grandi pianure, nei laghi salati. Nel contesto naturale, rispetto a quello urbano, mi sento più libero, perché posso avere dei riferimenti in relazione agli archetipi della natura e allo spazio cosmico. Sono interessato anche agli spazi storici, come ad esempio è stato con i Mercati di Traiano a Roma nel 2001 con la mostra La mia idea del cosmo». Cosa direbbe agli artisti che lavorano con la tecnologia, distaccandosi dal contatto diretto con la materia, dal lavoro manuale, per lei parte fondamentale del processo creativo? «Io non mi sento condizionato dai mezzi tecnologici, mi esprimo più che altro con le mie idee. I giovani artisti che ci lavorano spesso non lasciano traccia della materia, ma penso che non per questo non pos-

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L’ARTISTA Dalla galleria al cosmo Nato a Cagli, nelle Marche, Eliseo Mattiacci si diploma nel 1959 all'Istituto di belle arti di Pesaro. Nel 1961 gli viene assegnato il premio per l’opera Uomo meccanico, durante la sua prima mostra, una collettiva dedicata ai giovani artisti alla Gnam di Roma. Successivamente inizia a esporre alla galleria La Tartaruga che nel 1967 gli dedica una personale, che costituisce il suo primo successo pubblico. Del ’68 sono invece le prime mostre all’Attico, la galleria simbolo del nascente movimento poverista. Senza prendere parte nettamente a una corrente artistica in particolare, si cimenta in quegli anni nelle prime performance, mentre negli anni ’80 cresce il suo interesse per l’astronomia. Gli anni ’90 lo vedono confrontarsi con gli spazi aperti, installazioni e sculture che interagiscono con l’ambiente. L’artista continua oggi su questa linea di ricerca, partecipando a esposizioni a livello internazionale. Dal 30 giugno all’8 settembre ha esposto le sue opere negli spazi del Centro arti visive Pescheria di Pesaro.

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sano trovare uno spazio congeniale alla loro identità, uno spazio che possa anche sconcretizzarsi o sparire del tutto». La monografia edita quest’anno da Skira è stata curata da Germano Celant. Che ne pensa? Quali sono oggi e quali erano allora i suoi rapporti con lui e con l’arte povera? «È stato un lavoro molto importante, è il libro che documenta in maniera più completa il mio lavoro dagli inizi fino ad oggi. Ho sempre avuto grande stima di Germano Celant, è un critico con una forte percezione del cambiamento, e dei cambiamenti dell’arte a livello internazionale. Nelle sue mostre così dialoganti, con artisti americani ed europei, ha fatto sempre sentire, oltre al punto di vista critico, l’originalità di un curatore illuminato. All’arte povera mi sento vicino, anche perché sono legato a molti artisti con rapporti di grande amicizia ed ho molta stima dei loro lavori». Che progetti ha per il futuro? Attualmente sta lavorando a un’opera in particolare? «Il futuro è sempre misterioso, non so quello che farò domani».


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PERSONAGGI L’ARTE PRENDE CORPO

un mangiafuoco dal cuore di mastro ciliegia

di MAURIZIO ZUCCARI

Dalla sua fucina alchemica ai margini di un centro sociale romano, Jacopo Mandich impasta legno, ferro e pietra dando vita e forme nuove alla materia Così etica e filosofia si fanno arte

A destra: Jacopo Mandich davanti a 2 x 1, 2009 foto Manuela Giusto

on è un mangiafuoco, ma potrebbe esserlo. O uno squagliaferro, uno schiacciasassi, un tagliaceppi. Potete definirlo come vi pare, Jacopo Mandich, l’essenza non cambia: la sua è arte che si sporca le mani, colpisce agli occhi e parla al cuore. Dal suo antro ai margini dello Strike, centro sociale capitolino, fonde metalli e fende legni. E da quest’impasto di robe, dalla sua bottega a cielo aperto, a metà tra un carrozzone dei desideri e una rimessa di robivecchi, ridà vita e forme alla materia. Di più: insuffla nelle cose, morte ancor prima d’essere consunte dal consumo sfrenato, un’anima. Dal laboratorio improvvisato, sorta di fucina alchemica, racconta le sue sculture, le creature che risorgono in un nuovo corpo, riesumato tra gli scarti. Siano Sopravviventi, giocosi alter ego della propria furia creatrice-distruttrice, della sua personale resistenza all’oggi, oppure oggetti di design destinati ad arredare le dimore di un mondo altro o ad abbellire gli spazi pubblici, le sue creazioni urlano una perizia tecnica distante dalle mode ma dentro l’oggi quanto mai. Un impasto d’etica e filosofia che ha radici più fonde degli alberi riusati a mo’ d’arredo urbano. Senza nascondersi affatto, dichiara: «Lavoro con la materia riciclata per una ragione etica e perché è quella che mi posso permettere. Ferro, vetro, legno, pietra: ricerco l’armonia degli elementi in tutto. È una non scelta, ho trovato il mio percorso utilizzando quello che trovo: un pezzo di materia che cerco di riportare allo stato primordiale. La venatura nel legno, la crepa nella pietra, sono suggestioni nelle quali mi perdo, piene di significati».

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A fianco: Jacopo Mandich Keloide alchemico errante, 2006 A destra, nel box: uno dei suoi Sopravviventi foto Manuela Giusto Sopra: l’officina dell’artista foto Fabio Trifoni


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Dalla pietra che non è più il battito di una vita ma di un pianeta, il pezzo di pelle di un corpo celeste e il più difficile da gestire al metallo «angelo custode dell’umanità e il suo demone», dice, nessun materiale si sottrae a Mandich, in un’ottica che fa del riciclo un mezzo di salvaguardia del mondo e salvezza interiore. «Mi piace rievocare sia l’energia imprigionata nell’oggetto, la storia del suo vissuto, sia la sua trasformazione, come la perdita d’identità dell’individuo nella morte e il suo ritorno nel magma del flusso-materia. Tento di non essere un peso planetario. Lavorando con i materiali riciclati ci si rende conto della massa di roba che la società butta via, costituita il più delle volte da cose ancora funzionanti. Non è solo il buco dell’ozono o l’essere travolti dai rifiuti, è proprio mondezza interiore quella che creiamo: una quantità di rifiuti spirituali frutto del vizio, dell’abuso, dell’assurdo, dell’ingiustizia. L’uso sfrenato della tecnologia fa sì che l’oggetto non finisca la sua vita quando non funziona più, ma per-

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L’ARTISTA E LA MOSTRA Roma, aspettando Faber Jacopo Mandich è nato a Roma il 30 marzo 1979. Frequenta il liceo artistico sperimentale Alessandro Caravillani e l’accademia di Belle arti capitolina. «Lì – dice – ho avuto una preparazione molto teorica: cartoncino, gesso, creta, rapporto con la materia pressoché inesistente, molto frustrante, una serie di votacci». Approda nel 2003 al centro sociale Strike di Portonaccio, dove collabora con l’associazione L’occhio del riciclone nell’organizzazione di laboratori artigianali con materiali riciclati. Nel 2006 la sua prima doppia personale ad Arcevia e Milano, dopo aver vinto il premio Mannucci. È del 2010 una collettiva ai Mercati di Traiano, a Roma.Nella capitale espone alla Dezin’In gallery e alla galleria Faber,dove è attesa in primavera la sua prossima personale.

ché si deve cambiare. Questo meccanismo mentale rappresenta la mondezza interiore che applichiamo dappertutto. Non cerchiamo più niente, o meglio anche troppe cose ma sempre più in superficie, senza mai scavare. La realtà è fatta di molte cose, ma che si perda qualsiasi stimolo d’indagine sull’esistenza è un’assurdità, dal mio punto di vista». La sua è una ricerca che si muove su più direzioni. «Mi muovo su diversi binari, anche sul grottesco, sul caricaturale, per rappresentare l’energia degli elementi. I sopravviventi sono una piccola riflessione ironica ispirata all’atmosfera surreale, onirica di Bosch. Poi c’è un discorso più articolato sull’interiorità umana, sulla nostra evoluzione. Le mie opere sono momenti di crescita personale con cui cerco di rappresentare anche momenti della vita. Sono l’immagine di un conflitto, dell’energia a cui non ho ancora dato un indirizzo, oltre tutto questo fremere. Sono anch’io alla ricerca di un’armonia». Un Mangiafuoco, Mandich, ma con un cuore da mastro Ciliegia.


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PERSONAGGI CONVERSANDO SUL SOFÀ

la cultura è morta e noi siamo senz’anima di MAURIZIO ZUCCARI

«Una magnifica realtà che sto dissestando» Così Andrea Carandini definisce la missione alla guida del Fai, prendendo spunto dal National Trust: «Bisogna andare oltre i consumi, amare la gente» Andrea Carandini Nelle pagine seguenti: Il Palatino visto dal Circo Massimo foto Manuela Giusto

tanno lì da quasi tre millenni, ma solo lui l’ha provato con gli scavi. L’aver trovato le mura romulee della prima Roma, quelle squadrate sul Palatino che – vuole la leggenda che forse è assai più di questo – costarono la pelle a Remo, è tra i suoi vanti, anche se molti ancora storcono la bocca alla scoperta. «L’umanità è bella perché è varia, però anche dalle critiche più malevoli traggo qualcosa. C’è sempre stato grande scetticismo da parte degli storici sulla possibilità di risalire a epoche così antiche. Ma non c’è stata una distruzione totale della memoria, poi i dati archeologici stanno lì. Ormai anche Tim Cornell è arrivato alle nostre conclusioni: che Roma sia nata nell’ottavo secolo è fuori discussione. Abbiamo una serie di monumenti iniziati allora che perdurano, rifatti, con una tale continuità, fino a Nerone, da far ritenere che quelle individuate sul Palatino siano strutture molto importanti. Come il santuario di Vesta che simboleggia il fuoco pubblico, uno degli elementi costitutivi dello stato. Adesso stiamo mettendo le mani sul tempio di Giove Statore, tra i primi della città. L’Atlante di Roma antica, l’opera più importante che ho fatto, è abbastanza esaustivo da questo punto di vista». Dalla sua casa sul Quirinale inondato di onde elettromagnetiche alla ricerca del tempio del dio sabino Quirino – tra gli eponimi dell’urbe degli

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albori – da cui lo storico colle di Roma e i quiriti, gli stessi romani delle origini, traggono il nome, Andrea Carandini parla calmo, coi toni d’un abate laico che molto ha visto e compreso. Sprofondato sul sofà di casa, accanto un volume delle opere complete di Montesquieu, babbucce nere ai piedi, camicia firmata in tinta con gli occhi chiari, tradisce dall’aplomb le origini nobiliari nell’affrontare l’impegno di una vita: la promozione e la salvaguardia della cultura. Tra i più eminenti archeologi italiani, allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli, per tre legislature alla presidenza del Consiglio superiore dei beni archeologici, Carandini è da febbraio presidente del Fondo per l’ambiente italiano. Con l’idea di rivoluzionarlo. «Il Fai è un’industria culturale con uno staff di 200 persone tra dipendenti e collaboratori, 7.000 volontari e 100mila iscritti. Oltre 87 milioni di euro raccolti e investiti nel restauro e nella tutela del patrimonio culturale e ambientale dal 1975 a oggi; 22,4 milioni di introiti nel 2012, una parte dei quali rientrano negli 87 milioni di cui sopra; l’altra parte utilizzata per coprire le spese di gestione, pagare il personale, eccetera. Ma non progrediamo molto nell’acqui-

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Nessungovernodàpriorità allacultura,tantomeno questodiLetta.Pensiamo aresuscitareunmondo industrialechenonesiste piùenonavalorizzare ilturismoconservando quellocheabbiamo, ilnostropatrimoniocheè naturaestoriaepotrebbe aiutarciasuperarequesto momentodifficile

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sizione delle proprietà: ora sono 49, di cui 28 aperte al pubblico. Ci sono luoghi dove non ne abbiamo, come a Roma o in Emilia Romagna. Sono le proprietà a essere davvero importanti, siamo creduti sulla base del fare, poi viene il dire. Siamo una grossa macchina cresciuta un po’ spontaneamente, che negli ultimi tre anni ha vissuto molti cambiamenti: quest’anno siamo andati persino in utile. Insomma, il Fai è una cosa molto bella e assestata e io la sto dissestando. Nel senso che era perfetta nel suo genere ma ho creduto che avesse bisogno di un aggiornamento, quindi siamo andati al National Trust, il suo omologo britannico con 4 milioni di iscritti, anche se siamo più avanti di loro quando avevano la nostra età, nel ‘33. La sua presidente Fiona Reynolds, che è venuta a trovarci alla Cavallerizza di Milano, l’ha radicalmente trasformato da un’organizzazione austera ma un po’noiosa in una altrettanto seria ma autorevole e divertente, dove è cambiato il modo di agire, con il motto amare i luoghi quanto le persone. Se noi ci mettiamo nei panni degli altri – loro dicono nelle scarpe degli altri – capiamo i loro bisogni e possiamo rispondere meglio alle esigenze delle famiglie. Bisogna stare attenti: se


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i bambini si annoiano è finita, non tornano più. Bisogna coinvolgere le persone in tutte le attività, conservative o di altro tipo: un’idea molto più adatta alla società in cui ci troviamo. La nostra missione culturale in sé è chiara: curare luoghi speciali per sempre e per tutti, poi abbiamo le iniziative particolari come le giornate di primavera, i luoghi del cuore. Dobbiamo assolutamente crescere, ci muoveremo gradualmente con un progetto pilota in Piemonte. In Italia bisognerebbe creare un sistema dove stato, università e associazioni cooperino, ma è difficile far collaborare assieme gli italiani». Dalla sua esperienza alla guida del Consiglio superiore dei beni culturali per tre legislature, da cui si è dimesso nel maggio 2012, ha individuato punti di forza e debolezze del nostro sistema culturale. Quali sono, a suo avviso? «Non ho visto molti cambiamenti culturali ma ristagno, vecchie idee. Il ministero dei Beni culturali è una delle poche cose serie che ci siano in Italia ma è invecchiato in quanto a mentalità e danneggiato dalla mancanza di fondi e di personale. È una realtà che andrebbe fatta resuscitare.Abbiano un patrimonio più ricco di tanti paesi ma siamo molto indie-

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ANDREA CARANDINI Dalla prima Roma al Fai Figlio del conte Nicolò Carandini (esponente del Pli nel Cln, ministro nel secondo governo Bonomi nel 1944, ambasciatore a Londra dopo la Seconda guerra mondiale nonché tra i fondatori del Partito radicale) e di Elena Albertini (figlia del senatore Luigi Albertini, fino al ‘25 direttore del Corriere della Sera), Andrea Carandini è nato a Roma il 3 novembre 1937. Archeologo, allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli, poi titolare della cattedra di Archeologia e storia dell’arte greca e romana all’università La Sapienza, i suoi scavi hanno permesso di ridare corpo alla prima Roma che molti pensavano fosse leggenda: dal fossato di Romolo alle mura sul Palatino, dal tempio di Quirino al santuario di Vesta. Dal 2009 al 2012 è stato presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, nominato dal ministro Sandro Bondi e confermato dai successori Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi. Il 19 febbraio 2013 è subentrato a Ilaria Borletti Buitoni alla presidenza del Fondo per l’ambiente italiano.

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tro nel preservarlo e valorizzarlo». Il nuovo dell’Italia è nel passato, titola il suo ultimo libro intervista. Perché questa difficoltà del ceto politico a capirlo? «Perché è un ceto politico vecchio, sono vecchio anch’io ma mi aggiorno, loro ragionano come quando avevano venti-trent’anni. Nessun governo dà priorità alla cultura, tantomeno questo di Letta. È un problema serio, pensiamo a resuscitare un mondo industriale che non esiste più e non a valorizzare il turismo conservando quello che abbiamo, il nostro patrimonio che fondamentalmente è natura e storia e potrebbe aiutarci a superare questo momento difficile. Se pensiamo di avere un’altra rivoluzione industriale come quella del miracolo economico siamo fuori, quel miracolo non si ripeterà. Siamo una società postindustriale dove il lavoro è nel terziario avanzato e dove la preparazione, il capitale umano sono decisivi. Eataly, per esempio, è un tipico sistema di alta qualità legata ai luoghi, sembra un meraviglioso museo del cibo. La stessa cosa potremmo fare con monumenti e musei che invece giacciono lì, inerti. Lo stato potrebbe gestire le sue cose in modo più produttivo. I nostri beni sono mal


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Laculturaumanistica èmorta,quindilagente è spiritualmente vuota, siamoselvaggisenz’anima

comunicati e peggio conservati, d’altra parte con cinquanta milioni di euro l’anno non si conserva nulla. Le persone ai Fori passano come pecore lungo un tratturo, senza capire. Questo turismo mordi e fuggi lascia poco. Dobbiamo trattenere il pubblico, farlo partecipare di più al racconto e al vissuto della storia di questa città. Se c’è una crisi di qualche anno si perde qualcosa ma pazienza, questa invece è una decadenza senza fine, ci ritroveremo con un patrimonio distrutto. Dobbiamo almeno cercare di mantenerlo ma per farlo occorre una strategia, bisogna investire in questo campo basilare dello stato. Tutti gli organi della Repubblica, dagli enti locali alle associazioni, alle università, dovrebbero essere unite da una forte volontà politica che vada in questa direzione ma i nostri organismi hanno un solo fine, sopravvivere, e nel frattempo gli italiani si combattono tra loro, sono divisi tra fazioni anche all’interno degli stessi schieramenti. È una situazione molto preoccupante, i conflitti devono esserci e ci saranno sempre ma vanno ricomposti per il bene della nazione. Qui manca la volontà di farlo, si scompone tutto, andiamo a pezzi». A proposito di decadenza, il premio Nobel Mario Vargas Llosa nel suo ultimo saggio La civiltà dello spettacolo parla di questa come fine della cultura. Siamo al punto di non ritorno, insomma. Lei come la vede? «I recuperi ci sono sempre stati, come ci sono state le grandi decadenze. Il mondo antico e medievale è finito, quelle civiltà sono finite. Poi ce ne sono state altre ma con periodi di buio da fare paura, come l’alto Medioevo. Il ritorno a uno stato di barbarie è sempre possibile, però non bisogna togliere la speranza, sennò oltre un certo limite di depressione non ci si risolleva più. Sono d’accordo con Vargas Llosa sul fatto che la cultura scientifica ha avuto uno sviluppo vertiginoso ma la vecchia cultura umanistica è morta senza essere stata rinnovata, quindi la gente è spiritualmente vuota, si riempie di droghe vere o spettacolari, come i gadget tecnologici. Ci attacchiamo come selvaggi a questi oggetti magici perché non abbiamo più l’anima. C’è un numero impressionante di bambini che non conoscono la natura, non sanno che le uova sono fatte dalle galline. Non s’arrampicano sugli alberi, non si sbucciano i ginocchi. Vivono chiusi in casa, sempre davanti alla televisione o al computer. Questo è spaventoso. La grande occasione della crisi forse sta anche nel superare il vecchio modello consumistico, nell’andare verso cose che danno un senso di pienezza alla vita, a basso costo o a costo zero, fuori dalla logica del consumo sfrenato. Oltretutto è finita la possibilità di consumare come abbiamo fatto finora. Altre cose riempiono la vita e danno una felicità più stabile. Bisogna far sì che questa realtà si estenda a masse umane sempre più ampie, per questo è importante il rapporto con le persone, amare la gente. Senza prediche, bisogna persuaderla con le opere. Così, se una famiglia decide di venire in uno dei nostri luoghi del cuore e si trova bene, anziché passare il pomeriggio in un centro commerciale, abbiamo ottenuto una grande vittoria».

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I LIBRI

La nascita di Roma Andrea Carandini Einaudi 803 pagine 44 euro

Nel 1988 Andrea Carandini scopre ai piedi del Palatino le prime mura di Roma, risalenti alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo. Il ritrovamento conferma l’origine dell’urbe, che la tradizione storiografica fa risalire appunto alla metà di quel secolo (21 aprile 753 a. C. per l’esattezza), con il muro che Romolo avrebbe eretto intorno al Palatino. Una fondazione che gli storici contemporanei datano prevalentemente alla fine delVII secolo.La corrispondenza fra la scoperta e la conferma della saga romulea rimette in discussione l’idea che i miti siano solo leggende e non la narrazione epica di fatti storicamente dati che l’archeologia può e deve confermare,non smentire a priori.

Intervistato da Paolo Conti, inviato del Corriere della Sera, Carandini ragiona sulla perdita di valore del merito, sulla caduta della cultura media in Italia, sul fallimento del progetto politico e culturale del Pci (di sé dice d’essere marxiano, non marxista, sulle orme del maestro Bianchi Bandinelli), sulle politiche che lo hanno coinvolto come presidente del Consiglio superiore dei beni culturali relativamente al patrimonio culturale italiano. Il nuovo dell’Italia è nel passato Paolo Conti (intervista a cura di) Laterza 148 pagine 12 euro L’Atlante rappresenta l’esito di venti anni di ricerche, condotte dall’università di Roma La Sapienza in collaborazione con la Soprintendenza speciale per i beni archeologici della capitale, finalizzate alla comprensione e alla restituzione del volto dell’urbe caput mundi. Fondamentale, al riguardo, l’apparato iconografico: oltre ai rilievi, ai grafici e alle fotografie delle opere, interessanti e innovative sono le piante che permettono una visione sinottica delle emergenze e le ricostruzioni tridimensionali dei monumenti più significativi. Atlante di Roma antica Andrea Carandini (a cura di) Electa 1248 pagine 150 euro

A fianco: la lupa del Campidoglio simbolo della Città eterna A sinistra: Carandini nel suo studio foto Manuela Giusto

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PERSONAGGI APPUNTAMENTO CON LA STORIA

tutte le donne del bell’emilio Greco è il più grande disegnatore che abbiamo in Europa. Parola di Picasso. Con questo viatico l’artista siciliano è annoverato oggi tra i grandi della scultura, sintesi di bellezza ideale e carnale di MAURIZIO ZUCCARI

reco è il più grande disegnatore che abbiamo in Europa. Con queste parole Pablo Picasso, in visita al Museo Rodin di Parigi, consacrava l’arte di Emilio Greco. Un bel viatico per l’artista di cui ricorre il centenario della nascita, considerato oggi, più che un gran disegnatore, tra i maggiori scultori del Novecento. Nato l’11 ottobre 1913 in un quartiere popolare di Catania, dalle grate dell’ex convento di palazzo Biscari, dove s’affaccia con la sua cartelletta da scolaro, vede il mondo e s’innamora delle linee classiche e, soprattutto, delle movenze femminili che costituiscono una costante dei suoi lavori. Classicità di linee e ritratti di femminile etericità: ecco la cifra di Greco che, però, viene alla fama solo con un’opera tutt’altro che classica, tutt’altro che bella, secondo i canoni estetici del tempo. Quel monumento a Pinocchio e la fatina per il paese di Collodi che scatena un moto di popolo, col j’accuse che vuole l’opera del nostro paragonata a quella «del quasi fabbro ferraio americano Calder». Gustosissima, a oltre mezzo secolo di distanza, la brillante difesa che Michele Biancale, critico d’arte di Momento Sera, ne fa a paragone di quella del «facitore di mezzine di latta americano». Di poco minori le polemiche per le

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sue porte al Duomo d’Orvieto, un decennio appresso. Ma se sullo scultore, presenza acclarata dall’Ermitage di San Pietroburgo al parco di Sendai, in Giappone, c’è poco da dire, sul Greco incisore la parola esaustiva spetta a Maurizio Calvesi che nel catalogo generale dell’opera incisoria (Edizioni del Cigno, 1994) ne definisce l’arte come sintesi di due bellezze, ideale e naturale, «espressione di un sentimento contemplativo romantico e malinconico eppure assai carnale che si pone innanzi alla donna idolo come terra riarsa d’autunno; la sua grafica esprime la fragilità della figura tramite i suoi chiaroscuri, una forma sfumata come sfuma il momento fissato, una dolcezza palpabile e insieme sognata». E se Carlo Ragghianti sottolinea il Greco «artista ereticale e solitario, spettacoloso ma non spettacolare, non di pura valenza melodica», Fortunato Bellonzi su un catalogo Editalia d’antan mette l’accento su un’arte che in tempi di feroce astrattismo e concettualismo, al tempo come ora, «smentisce la pretesa inattualità della figurazione naturalistica, quindi il rifiuto della rappresentatività come imitazione della realtà». Il che, forse, è il massimo portato di Greco al (fuori dal) proprio tempo e la ragione della sua (in)attualità. Riguardo all’opera grafica, invece, la figlia Antonella nel catalogo ge-

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nerale (edito ancora dal Cigno, 2002), rievoca il piacere paterno per l’aspetto muscolare dell’incisione, il fare artigianale della grafica, appunto, e della scultura. Tutto il resto era spazzatura, per lui: «Acquatinta (composto in cui per ragioni da piccolo chimico entra in qualche modo il sale); xilografia, che chissà perché mi induce pensieri rivoluzionari (forse perché era il procedimento tipico dell’espressionismo); puntasecca (la magra comare bertolucciana che si dilettava d’arte?); litografia: più grassa, morbida e paciosa della precedente (forse perché la matita scorre sulla preparazione senza opporre arcigna resistenza come la puntasecca). Non ho dubbi che tutto questo repertorio, da Albrecht Dürer a Giovanni di Leyda, a Marcantonio Raimondi, a Morandi e Picasso e via dicendo abbia costituito uno scrigno delle meraviglie per le notti siciliane di mio padre ragazzo, quando tutto il resto del mondo era un mondo incantato e la Sicilia un deserto dei tartari in perenne attesa». La “grande isola” va in effetti stretta a Greco che per farsi conoscere deve sbarcare nel continente e darsi ai soggiorni romani. Fino a quel fatidico 1956 e alla fata di Pinocchio. Un’altra Italia, davvero. Assai distante dai cent’anni della sua nascita, persino dai diciotto che ci separano dalla sua morte.


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LE MOSTRE DEL CENTENARIO Dopo Londra, Roma e Catania Dopo le inaugurazioni di Orvieto e Chieti,proseguono le manifestazioni per celebrare i cento anni dalla nascita di Emilio Greco che vedono coinvolte le città di Londra,Roma e Catania nel rendere omaggio a uno dei più grandi scultori del‘900,con una serie di eventi organizzati dagliArchivi Emilio Greco in collaborazione con il Cigno Edizioni di Roma.Conclusa a Chieti La vitalità della scultura a Palazzo de’ Mayo,fino al 3 novembre il Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto ospita Opera sacra,i bronzi dei MuseiVaticani e di Orvieto.Alle opere in esposizione permanente sono state affiancate due sezioni di approfondimento legate alla produzione sacra.È partita a fine settembre la retrospettiva londinese Emilio Greco:sacro e profano curata da Roberta Cremoncini e Federica Pirani.Sculture e disegni,accompagnati dal documentario di Franco Simongini per la Rai che dal 1947 al 1987 documenta i 40 anni dell’attività creativa dell’artista in un duplice percorso tra l’estetica sacra e profana.Fino al 21 dicembre l’evento è ospitato negli spazi dell’Estorick collection of modern italian art di Londra.Oltre alle opere preparatorie per le porte della cattedrale di Orvieto,risalenti al 1964, esposte sculture in bronzo e disegni.Un totale di circa cinquanta opere volte a mettere in luce l’universo artistico di Greco.Dal 10 gennaio 2014 la mostra si trasferisce in Italia nelle sale del Museo di Roma,a Palazzo Braschi (info: www.museodiroma.it). A chiudere le celebrazioni una mostra a Catania entro la fine dell’anno, con cui Greco torna nella sua città natale.

Emilio Greco, Dorso, 1965 In alto, a destra: l’artista a Villa Massimo (Roma) accanto a una sua scultura

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ECCELLENZE ITALIANE I MAESTRI DEL BELLO

SETERIA BIANCHI CENT’ANNI dI SToRIA dA 007 Al pApA

di ANDREA RODI

Creata nel 1907 l’azienda è radicata nel comasco Dagli inizi con la lingerie di baronesse fino a Hollywood: ce ne parla l’erede e direttrice Anna

A fianco: particolare di un telaio della seteria Bianchi

ent’anni e non sentirli. È questo il caso della Seteria Bianchi, che di anni ne ha ben centosei, una di quelle eccellenze artigianali che fanno grande il made in Italy nel mondo grazie a un sapiente mix di antica tradizione locale e mentalità imprenditoriale aperta alle innovazioni tecniche e tecnologiche. La storia dell’azienda di Campiago Intimiano, piccolo centro in provincia di Como, inizia nel 1907, quando Ettore Bianchi, che già da diversi anni lavora come agente venditore nel campo della seta, prende la decisione di mettersi in proprio e passare dietro al telaio, rinnovando una tradizione che, nel comasco, è antica di cinque secoli. Le prime testimonianze di filatoi della seta a Como risalgono, infatti, al 1510. Grazie a Sigismondo Boldoni che la introdusse e per le felici condizioni geografiche che la accolsero, la produzione serica trasformò la città in un importante centro economico. Dalla fine del Cinquecento, l’allevamento dei bachi, la trattura e la torcitura del filo si affermarono in tutto il territorio, generando una diffusa prosperità. Oggi la seta, per una questione di costi e di scarsa concorrenzialità, non viene più prodotta in loco ma importata dalla Cina e dal Brasile, paesi in grado di abbattere sensibilmente i prezzi di realizzazione. Questa, però, è una delle poche eccezioni alla regola del made in Italy che si concede la seteria Bianchi. Tutto il resto è, per così dire, fatto in casa o, in questo caso, in famiglia. Dopo il pioniere Ettore, infatti, l’azienda è passata in mano al figlio Giuseppe che «l’ha ampliata e spostata nella sede attuale, nel 1926 », racconta la nipote Anna Bianchi che, assieme al fratello Giuseppe, rappresenta la quarta

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generazione di imprenditori serici. «Mio nonno Giuseppe – prosegue Anna – è diventato famoso perché era uno dei migliori tessitori di duchesse di seta, quando si usava ancora il raso per l’imbottito, ma ha introdotto anche la produzione per la lingerie. Quando poi mio padre Ettore ha iniziato a lavorare con lui è nato il reparto di cravatteria. Se mio nonno ha iniziato il discorso legato all’eccellenza, introducendo tessuti pregiati e lavorazioni particolari, mio padre, che era ingegnere, ha puntato molto sull’innovazione, mettendo a punto delle modifiche sui telai tedeschi, in modo da riuscire a riprodurre tecniche di orditura che prima era possibile fare solo a mano, senza perdere nulla in qualità». Tanta attenzione alla lavorazione e alla produzione del miglior prodotto possibile non potevano certo passare inosservate, sia in Italia che all’estero. Le commesse importanti, nella lunga storia della seteria Bianchi, non sono mai mancate e, solo tra le più recenti, si contano: quelle per i rivestimenti in tessuto della reggia di Venaria e di Palazzo Reale a Torino e quella per un’icona in seta e oro a 24

carati rappresentante la Madonna di Iver per la Camera di commercio e industria della Federazione Russa. Oltre al connubio hollywoodiano che li ha portati a fornire i tessuti per la realizzazione degli abiti del film Casino royale, per la saga di 007. «Il mercato statunitense, per noi e per molte aziende con cui lavoriamo, è sempre stato molto importante, almeno fino al 2009, quando per la crisi abbiamo iniziato a lavorare molto meno con gli Stati Uniti, risentendone non poco, ma questo non ci ha fatto allontanare dalla costante ricerca dell’eccellenza». Non potrebbe essere altrimenti per un’azienda che, da sempre, fornisce i tessuti alle sartorie papali che hanno confezionato gli abiti degli ultimi pontefici e i vestimenti cardinalizi e che ha rivestito, con i propri tessuti, le poltrone della China room e i drappeggi del letto a baldacchino della Queen’s bedroom della Casa Bianca. Un’eccellenza nostrana che è riuscita a ritagliarsi un mercato grazie a un’attenzione costante tramandata di generazione in generazione, diventando un tratto caratteristico della famiglia Bianchi e della sua seteria.

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A destra: la famiglia Bianchi, in piedi Ettore seduti Anna e Giuseppe, titolari dell’azienda Sopra: sala di tessitura con in primo piano ordito in seta per la realizzazione della bandiera d’Italia A sinistra: quadrettato multicolore in duchesse di seta creato per l’architetto Giò Ponti

L’AZIENDA BIANCHI Perla del made in Italy È stato Ettore Bianchi a fondare nel 1907 una seteria tutt’oggi funzionante e che conserva il suo nome.Tre milioni e mezzo di euro è il fatturato dell’azienda che conta 35 persone con un’area produttiva di circa 1500 mq e uno spazio di 750 mq diviso fra uffici e magazzini. A dirigere l’azienda sono Giuseppe eAnna,figli di Ettore,omonimo del fondatore, ideatore del reparto cravatteria all’interno della seteria. Info:www.seteriabianchi.it.

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ECCELLENZE ITALIANE I LUOGHI DEL BELLO

un fiume d’arte a cielo aperto di ALESSANDRO CARUSO

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icono che un giorno, mentre passava con il treno lungo il litorale cosentino, Salvatore Fiume si sia accorto del borgo di Fiumefreddo Bruzio, arroccato sulla cima di quel colle impervio. La curiosità lo ha spinto, successivamente, ad addentrarsi nei vicoli di questo caratteristico paesino, il cui volto e carattere mediterraneo sono inconfondibili: case e chiesette costruite con pietre a vista, il belvedere a strapiombo sul mare da cui si domina il caldo tramonto calabrese, la cornice del fico d’india selvatico che si appropria di ogni scorcio assolato, il profumo della vite, del fico e dei limoni. E poi quel castello, diroccato, appesantito dai segni del tempo, appoggiato su un lembo di montagna a ricordare la gloria passata e oggi così mansueto nella sua imponenza. Era lì che Fiume voleva stabilirsi. E così ha fatto. Questo paese è diventato la sua residenza estiva dai primi anni Settanta ai suoi ultimi anni di vita. Un frangente, questo, in cui l’artista ha regalato una seconda giovinezza a Fiumefreddo, facendone un museo a cielo aperto, affrescando monumenti e chiese, regalando sculture di inestimabile valore alle piazzette del paese. Ma soprattutto portando l’arte colorata delle sue linee indefinite in quell’angolo di Calabria tanto bello quanto inconsapevole della sua bellezza.

a fiumefreddo in calabria sono nascosti i capolavori di Salvatore fiume il maestro amava questo posto e ne ha fatto il suo laboratorio artistico che oggi risplende tra chiese e piazze

Salvatore Fiume affreschi all’interno del castello di Fiumefreddo


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A sinistra: cupola di San Rocco, 1980 affrescata dal maestro In basso: Uno scorcio del borgo calabrese A fianco, nel box: veduta di Fiumefreddo A destra: La donna sul surf, 1996 In basso a destra: La fortuna, 1996

Ancora oggi Fiumefreddo, laureatosi uno dei borghi più belli d’Italia dal 2005, si crogiola tra le sue spettacolari opere d’arte, offre ai suoi turisti l’itinerario delle chiese, alcune delle quali impreziosite da variopinti affreschi di Fiume. Ogni suo cittadino ha un ricordo personale che lo lega ai giorni in cui questo personaggio veniva a villeggiare e a lavorare. Molti ne ricordano la schiettezza, molti altri le intemperanze, altri ancora l’estro da grande artista. Negli anni Settanta e Ottanta Fiume era già conosciuto e affermato. Aveva esposto alla Biennale di Venezia, alcune sue opere erano state acquistate da istituzioni importanti, come il Moma di New York, e l’architetto Giò Ponti lo aveva già invitato a realizzare l’enorme opera per il salone di prima classe dell’Andrea Doria, il celebre transatlantico che nel 1956 fu coinvol-

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to nel tragico naufragio in Usa. Ma nonostante il successo, che lo collocava tra gli artisti più in voga del momento, a Fiumefreddo il maestro era percepito come un concittadino. Oggi c’è chi racconta di avergli fatto da custode di casa quando non c’era, chi lo assisteva durante le innumerevoli creazioni, chi, ancora, lo accudiva cercando di non fargli mancare nulla e, infine, chi aveva accesso al suo cenacolo per appassionanti dibattiti culturali. E un po’ tutti, con la stessa espressione di amichevole gratitudine, ricordano i giorni in cui Fiume ha iniziato ad affrescare il Castello di Fiumefreddo. Un rudere del ‘200, simbolo di questo suggestivo paese, ma per troppo tempo dimenticato e lasciato a ridursi in un cumulo di calcinacci. Fiume lo rivitalizzò, facendolo diventare una delle opere a cielo aperto che oggi è im-


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UN CONCENTRATO DI SUD Fiumefreddo Bruzio Suggestivo borgo sul Tirreno cosentino, Fiumefreddo Bruzio è nato come avamposto difensivo intorno all’anno 1000, poi conquistato da Roberto il Guiscardo. Il castello, affrescato da Fiume, nel 1800 fu assediato e semidistrutto dall’allora re di Napoli Gioacchino Murat. Dal 2005 il paese fa parte del prestigioso club dei Borghi più belli d’Italia.

mortalata in tutte le biografie dell’artista. Aggrappato alle corde, come un funambolo è arrivato con il suo pennello a tutti gli angoli più nascosti delle pareti interne. A Fiumefreddo è stata così riconsegnata la sua fortezza con un volto diverso, più contemporaneo, ricco di animosità e dinamismo. I soggiorni di Fiume diventano, nel tempo, ripetute occasioni di “arredo” del paese con sculture e dipinti, fino a farne un laboratorio culturale e artistico di singolare fascino. Senza chiedere un soldo. Ma non senza qualche dissidio con le amministrazioni comunali che si susseguivano, che talvolta sembravano non apprezzare la schiettezza delle raffigurazioni. E c’è anche, a Fiumefreddo, chi attribuisce a tali frizioni il motivo per cui oggi, in tutto il paese, non ci sia nemmeno una via o una piazza intitolata a Salvatore Fiume. Eppure il maestro ha rega-

lato al paese molte delle sue più pregevoli opere, senza mai sacrificare il suo linguaggio, così moderno e libero, sensuale e sereno. E proprio per questo molto accattivante. Se ne ha ancora la dimostrazione nelle due piazze più panoramiche del paese, le due terrazze sul mare, in cui si stagliano le sculture bronzee La donna sul surf e La fortuna. E soprattutto nella chiesa di San Rocco, una raccolta e antica cappella settecentesca a pianta esagonale, nobilitata dagli affreschi interni del Maestro, che ne decorano la cupola, con le raffigurazioni di San Rocco che libera Fiumefreddo dalla peste. E poi la piccola abside, con l’imponente

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passata di colore che propone il santo pastore con il suo cane. La particolarità del rapporto tra Fiume e Fiumefreddo sta, infatti, anche nei suoi paradossi. Soprattutto quelli spaziotemporali: un borgo antico diventato contemporaneo grazie all’arte; l’esiguità degli spazi sfruttata per opere che si liberano nella loro grandezza e imponenza; il suggestivo tradizionalismo dell’arcaica cultura calabrese sfidato dall’anticonformismo dell’artista. Tutti questi contrasti vivono in un equilibrio raffinato e interessante, che seduce il viandante impreparato a imbattersi, proprio a Fiumefreddo Bruzio, nel volto più contemporaneo ed eclettico della Calabria misteriosa.


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ECCELLENZE ITALIANE CARTOLINE DAL BELPAESE

Da Michelangelo all’ottocento Al via i corsi del Fai sul genio del Rinascimento a Milano e sul secolo del cambiamento a Roma rubrica del Fai a cura di LUCIA BORROMEO*

a più di trent’anni il Fai – Fondo ambiente italiano – si impegna nell’educazione della collettività alla difesa del patrimonio artistico. I corsi di storia dell’arte organizzati annualmente dalla fondazione sono uno degli strumenti di tale importante intendimento. Il grandissimo successo che questa manifestazione ha ottenuto in ogni edizione testimonia l’interesse del grande pubblico per le tematiche dell’arte e della cultura, una voglia di conoscere, di sapere e di scoprire che non può non lasciare positivamente stupefatti. È la grande passione e l’affetto per il Fai a muovere ogni anno più di seicento persone a iscriversi e a frequentare con costanza le lezioni, il cui tema, attentamente scelto e discusso da un comitato organizzativo di alto livello culturale, varia di edizione in edizione, con l’obbiettivo di analizzare e approfondire diversi aspetti e periodi della storia dell’arte italiana, europea e mondiale. Sono più di 350 le lezioni che il Fai ha organizzato dal 1999 a oggi, coinvolgendo quasi 300 relatori e con una partecipazione di circa 5.000 presenze. A quanti pensano a noiose lezioni frontali per specialisti, i corsi del Fai dimostrano invece, attraverso l’utilizzo di un linguaggio semplice e chiaro corredato da una ricchissi-

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ma selezione di immagini e filmati di qualità, quanto l’arte possa essere vitale e in grado di suggerire numerosi spunti di riflessione utili alla comprensione della nostra storia e del patrimonio che quotidianamente ci circonda. Forti di questa convinzione, moltissimi studenti afferenti al corso di Scienze dei beni culturali dell’università degli studi di Milano hanno potuto frequentare gratuitamente le lezioni, integrandole nel proprio percorso di studi. Dopo aver esplorato l’arte delle avanguardie, nell’aula magna dell’università di Milano il Fai propone quest’anno un salto temporale fino al Rinascimento, per accostarsi al genio creativo di Michelangelo Buonarroti. A partire dal primo ottobre, fino al 21 maggio 2014, il corso Michelangelo. Una vita in 27 puntate, a cura di Giovanni Agosti, accompagnerà il pubblico in un viaggio alla scoperta di questo straordinario protagonista dell’arte italiana. Intorno a Michelangelo si conserva una documentazione eccezionalmente ampia, relativa alla sua lunghissima vita, pubblica e privata. Di lui restano centinaia di lettere, libri di conti, contratti, registrazioni di chi lo ha incontrato, poesie. Sulla base di questo materiale è possibile seguire passo passo l’esistenza dell'artista, nelle sue accidentalità umane ma anche nei momenti di una irripetibile avventura espres-

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siva, di straordinaria tensione morale. Da qui l’idea di un ciclo di lezioni non costituito da una catena di conferenze sulle opere dell’artista ma da una sequenza di puntate che attraversino, sul filo della cronologia, la vita di Michelangelo grazie a una partitura di testi e di immagini, così da avvincere lo spettatore. Il percorso cronologico sarà qua e là interrotto da lezioni tematiche “trasversali”, affidate a specialisti, nazionali e internazionali, dell’argomento. Le lezioni, che coinvolgeranno anche giovani studiosi provenienti dalle più prestigiose università italiane, verranno animate dagli allievi della scuola del Piccolo teatro di Milano, che interpreteranno brani tratti dagli scritti dell’artista e dei suoi contemporanei. Per maggiori informazioni e iscrizioni consultare il sito www.fondoambiente.it. Oltre a Milano, in autunno sarà possibile frequentare i corsi anche nella capitale. Dal 24 ottobre al 27 marzo 2014, al teatro Eliseo, la delegazione Fai di Roma proporrà infatti un viaggio all’interno di un’epoca: l’Ottocento, il secolo del cambiamento, in cui saranno affrontati gli aspetti più caratteristici della cultura ottocentesca, focalizzando l’attenzione su movimenti e protagonisti che hanno fortemente inciso sulla sua identità. *responsabile ufficio cultura e ricerca del Fai


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Michelangelo, Giudizio universale, 1536-1541

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CARTE D’ARTE IL MOLTIPLICAUTORE

quando un punto muove le masse

di GIORGIA BERNONI

Tra i maggiori esponenti della pop art Roy Lichtenstein ha innalzato il fumetto a tecnica artistica e con le sue tele reso inconfondibile lo stile puntinato

Roy Lichtenstein posa davanti a una sua opera foto Stephen Verona

almente tanto pubblico da spingere la direzione del Centre Pompidou a prolungare l’orario di apertura fino alle 23. Autore di tale movimento di masse è lo statunitense Roy Lichtenstein che conferma, nel modo più appariscente, di essere tra gli artisti più popolari della seconda metà del Novecento. Dal giorno della sua apertura la mostra parigina di Lichtenstein, in programma fino al 4 novembre, ha ospitato più di 5.000 visitatori al giorno, spesso contrariati per gli orari troppo restrittivi del museo. Nato a New York il 27 ottobre 1923 e venuto a mancare nella stessa metropoli il 29 settembre 1997, Lichtenstein, con le sue tele di grandi dimensioni caratterizzate da tratti e colori assolutamente riconoscibili, è considerato tra i più importanti esponenti della pop art. Questo nonostante nel gennaio 1964 la rivista Life lo avesse definito come il «peggior artista degli Usa», vista la sua estetica decisamente in contrasto con l’allora dominante pittura espressionista astratta. Il pittore, in realtà, all’epoca aveva dichiarato che la sua intenzione era di fare un’arte talmente poco appetibile che nessuno avrebbe voluto comprarla. «La sola cosa che tutti odiavano – disse – era l’arte commerciale e di qui bisognava incominciare ma, evidentemente, non l’avevano odiata abbastanza». È del 1951 la sua prima personale alla Carlebach gallery di New York, mentre nel 1956 realizza la litografia Ten dollar bill che con il suo soggetto smaccatamente quotidiano, una banconota, anticipa alcune tematiche care alla corrente artistica guidata da Andy Warhol. Dai primissimi anni Sessanta l’artista, con un passato di tecnico nell’esercito durante la seconda guerra mondiale e un presente da insegnante di arte e designer, inizia a inserire in modo continuo nei suoi lavori elementi tipici del mondo pubblicitario e dei fumetti e a utilizzare il puntinato Benday che presto diventerà una sua firma inconfondibile. La tecnica è il risultato di un processo

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LE MOSTRE Lichtenstein a Venezia e a Parigi A Venezia un’esposizione a cura di Germano Celant presenta, fino al 24 novembre alla Fondazione Vedova, 45 opere di Lichtenstein tra disegni, collage, maquette, modelli e sculture in bronzo, da-

di stampa che combina due, o più, diversi piccoli punti colorati per ottenere un terzo colore. In passato i fumetti poco costosi usavano proprio questi punti nei colori primari per creare in modo economico quelli secondari come il color carne. Anche per questo, il parallelo tra Lichtenstein e il mondo dei fumetti è stato immediato e i suoi soggetti, che fossero donne bionde dai rossetti sgargianti o macchine fantomatiche e velocissime, sembravano sempre usciti da una tavola di vignette fuori formato. Nonostante questo Dorothy, seconda moglie del pittore, anni dopo dichiarò che il marito non amava affatto la nona arte. Non solo: l’artista non gradiva, sempre secondo Dorothy, neanche l’etichetta pop art ma in seguito l’aveva accettata perché non dava troppa importanza alla fama, al contrario del suo “collega”, più appariscente e festaiolo, che profetizzava l’agognata ribalta dei quindici minuti di fama per tutti. In realtà a partire dal 1957, dopo essere stato assunto come professore alla New York state university, Lichtenstein inserisce nei suoi quadri personaggi dei fumetti o dei cartoni animati come Topolino e Bugs

In alto: The white tree, 1980 In basso: La Cara de Barcelona, 1991-92 A destra: Reverie,1965 Estate of Roy Lichtenstein

tati tra il 1965 e il 1997. Info: www.fondazionevedova.org. Alla Gagosian gallery di Parigi in scena, fino al 12 ottobre, la mostra Lichtenstein: expressionnism, una selezione di tele e opere in cui l’artista statunitense arriva a confrontarsi coi codici dell’Espressionismo tedesco. Fino al 12 ottobre. Info: www.gagosian.com.

Bunny. Nel 1966 tiene una retrospettiva al Museum of modern art di Cleveland e partecipa alla Biennale di Venezia, dove è presente anche nel 1968 e nel 1970. Accanto alla sua produzione più mainstream, lo statunitense dà vita a una serie di multipli tra cui il più bizzarro e originale è sicuramente una bottiglia di champagne Taittinger, con la sua scatola da collezione del 1985 al costo di 170 euro. Un prezzo irrisorio se confrontato con i 145mila dollari che servono per accaparrarsi una copia firmata, tra le duecento, di Sweet dreams baby! del 1965. Senza arrivare a questi estremi, la media del costo di un multiplo dell’artista oscilla intorno ai 30mila d o l l a r i . L’ o p e r a Crak! datata 1964 che raffigura un’agguerrita ragazza con tanto di basco rosso che impugna il fucile e spara viene venduta, infatti, come litografia in trecento esemplari con un costo che oscilla tra i 20 e i 50mila dollari. E ancora, una colorata visione frontale dello Studio ovale, realizzata in un recente 1992, viene valutata tra i 30 e i 40mila dollari.


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CARTE D’ARTE STORIE DI CARTA

Quanto più un libro è classico tanto più sta bene che la bellezza de’ caratteri vi si mostri sola

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giambattista bodoni il principe dei tipografi

di MARIA ANTONIA NOCCO

Parma celebra con una mostra il geniale incisore che entusiasmò pure Napoleone Lo stampatore fu ideatore dei caratteri ancora oggi tra i più utilizzati

A fianco: Andrea Appiani ritratto di Giambattista Bodoni, 1799 (Parma, Galleria nazionale)

u il cavalier Bodoni grande di statura, ben formato di tutta la persona, e nell’età prima agilissimo quant’altri mai, cosicché in Roma era soprannominato il Cervo. Giunto alla virilità il suo aspetto divenne maestoso; e nella vecchiaja un non so che vi si aggiunse, che subitamente in chi lo vedeva ispirava amore e venerazione. Fronte ebbe spaziosa, occhi espressivi, vivaci anzi lampeggianti; una fisionomia con lineamenti regolari, di maschia bellezza e caratteristici dell’uomo di genio”. Così l’abate Giuseppe De Lama delineava, nella Vita del cavalier Giambattista Bodoni pubblicata a Parma nel 1816, il ritratto del tipografo, editore e stampatore noto per i progressi apportati all’arte impressoria attraverso l’invenzione, e incisione, dei caratteri bodoniani. Che l’artista avesse un aspetto gradevole si rileva anche dal bel ritratto neoclassico di Andrea Appiani e dalla vivace asserzione dell’abate e poeta Giuseppe Parini che al primo incontro con Bodoni, sulla soglia del Collegio di Brera a Milano, dopo aver appreso chi fosse, avrebbe esclamato: “Capperi, madre natura formò pure di voi una magnifica edizione!”. Secondo il biografo “tipografo sommo, erudito artista e brillante scrittore”, mentre può darsi fosse inesperto letterariamente, amato dai suoi concittadini e riverito dai potenti d’Europa, Giambattista Bodoni era nato il 16 (o il 26) febbraio del 1740 a Saluzzo ai piedi delle Alpi, da Francesco Agostino attivo nell’arte impressoria e Paola Margherita Giolitti di onorata famiglia. Ebbe due sorelle e tre fratelli. Già dalla prima infanzia trafficava nella bottega paterna e a dodici anni mostrò una fervida fantasia nell’ideare delle figure simili ai personaggi dei testi sacri. Dopo gli studi di filosofia decise di intraprendere il mestiere del padre trascorrendo il suo tempo a intagliare il legno ma il suo desiderio

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più profondo era quello di studiare e perfezionarsi a Roma nella celebrata stamperia di Propaganda Fide: “La brama di vedere quella rinomata metropoli regina d’ogni arte e scienza”. Eccolo, dunque, il 15 febbraio del 1758 in compagnia dell’apprendista Domenico Costa partire alla volta della città dei papi con la speranza di trovare un appoggio presso lo zio paterno don Carlo. Il sacerdote, preso com’era dal religioso zelo di convertire i giudei, si dimostrerà indifferente verso le necessità del nipote che svilupperà sentimenti di avversione nei suoi confronti. I due giovani esaurirono ben presto i denari donati dai genitori pel viatico e per poter sopravvivere, Giambattista fu costretto a cedere intagli agli stampatori in cui si imbatteva. Nella stamperia di Propaganda, conobbe il soprintendente, abate Costantino Ruggeri e il prefetto, cardinale Giuseppe Spinelli che, per il suo talento, lo ingaggiò come compositore: Bodoni organizzò in scansie i punzoni e le matrici là tenute in gran confusione. Studiò le lingue orienParma dedica una monografica a Giambattista Bodoni, il principe dei tipografi che ha rivoluzionato l’arte impressoria europea tra XVIII e XIX secolo. Le eleganti e pregiate edizioni contese da principi e sovrani, pontefici e cortigiani di tutta Europa furono l’ornamento eletto di biblioteche, collezioni reali e raccolte pubbliche e private. Il percorso espositivo si snoda in due sezioni tra la Biblioteca palatina e la Galleria nazionale con accesso dal Teatro Farnese: un itinerario attraverso le tappe più significative dell’esperienza personale e artistica di Bodoni. Nella Galleria Petitot è presenta-

piva fregi e maiuscole fiorate sull’acciaio e creò alcuni alfabeti tra cui un Garamone che riscosse gran successo a Roma; poi apprestò i torchi e fece giungere da Parigi “i migliori caratteri (Fournier), un testino, un garamone, una lettura, un silvio, un testo ed una palestina”. In seguito fece impiantare una propria getteria o fonderia, che riforniva i caratteri alla stamperia, e chiamò a dirigerla il fratello Giuseppe. Tra le edizioni bodoniane si ricordano Le stanze di Pietro Bembo, Vita di Cicerone dell’Aretino, L’eneide in versi, Le metamorfosi di Ovidio, la Divina commedia, il Pater Noster tradotto in 155 lingue. Tra le numerosissime onorificenze, Carlo III di Spagna lo nominò tipografo di camera; nel 1806 fu nominato aggiunto dal governo di Parma e quale sommo artista fu esonerato dal pagare la patente (le imposte). Incontrò Gustavo III di Svezia, il Granduca Leopoldo I e Ferdinando IV e Maria Carolina che incantata dalla sua arte asserì: “se non foste al servigio di mio cognato vi vorrei a Napoli”. A to Bodoni e la fabbrica del libro perfetto, viaggio nella storia del libro: dalla stampa antica alla fabbricazione dei caratteri, dalle tecniche di stampa alle illustrazioni e dalla legatura al commercio di libri. Nel teatro Farnese e nella Galleria nazionale si propone Bodoni e gli ambienti culturali e le corti, rappresentazione della esperienza professionale bodoniana. La mostra è curata da Andrea De Pasquale, l’allestimento è ideato da Pier Luigi Pizzi che anche attraverso gli “attrezzi di bottega” ha evocato l’arte tipografica bodoniana. Fino al 12 gennaio, info: www.bibpal.unipr.it.

tali al collegio della Sapienza e eseguì le prime opere, un messale arabo-copto e l’Alphabetum tibetanum su cui, per volontà dell’abate Ruggeri, furono stampati in caratteri maiuscoli rossi e neri: “Romae excudebat J. B. Bodonus salutiensis”. La morte tragica, cui quasi assistette Bodoni, del suo protettore e amico abate suicidatosi con un colpo di pistola, fu per lui motivo di profondo dolore, “come a chi d’improvviso cade fulmine a fianco”. In seguito, abbagliato dalle prospettive di fama sulla munificenza britannica, decise di abbandonar Roma “che cotanto amava” e dove aveva svolto il tipografico tirocinio per recarsi in Inghilterra, ma giunto a Saluzzo per salutare amici e congiunti fu colto da febbre terzana e dovette abbandonare l’idea del viaggio. Intanto il duca di Parma, l’infante don Ferdinando, che aveva fatto istituire una biblioteca e una real stamperia, decise di assumere Bodoni: l’8 febbraio 1768 l’artista “dato un tenero addio ai parenti ed agli amici, lasciolli colle lacrime sugli occhi” per iniziare la sua nuova avventura parmense. Qui intagliava legni, scol-

Roma dotti e artisti lo onorarono e Pio VI gli concesse il bacio del sacro piede. Invitato a esporre a Parigi per le Feste di Maggio, fu premiato con una medaglia d’oro: per la prima volta un simile premio varcava le Alpi. Conobbe l’intera famiglia imperiale tranne Napoleone che non incontrò a causa di un attacco di gotta: il re custodiva l’edizione dell’Iliade greca e ricompensò il tipografo con una vitalizio di 3.000 franchi. Per i 140 esemplari del Pater Noster fu remunerato dal vice re Eugenio Beauharnais con una tabacchiera con brillanti, 1.000 luigi d’oro e una pensione annua vitalizia di 1.200 lire italiane. Fu invitato più volte dal re Gioacchino a Napoli ma non poté recarsi per i malanni e allora il sovrano lo esortò: “venez: à Naples tout le monde se porte bien; on n’y meurt jamais.” Inchiodato a letto dalla podagra, l’artista soleva affermare: “or che son vecchio e son infermo tutte mi piovono sul capo le grazie e tutti gli onori!”. Per Bonaparte realizzerà, inoltre, quattro classici francesi tra cui Théâtre de Racine e Faibles de La Fontaine. Ammirato da

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Foscolo, fu editore di Monti, Parini e Pindemonte mentre il Tiraboschi criticò alcune sue edizioni. Nel 1789 Alfieri riconoscerà che i caratteri bodoniani sono superiori a quelli delle altre officine tipografiche e lo stesso Bodoni ammetteva che le sue edizioni di Omero, del Pater e dei classici francesi erano prodigi d’arte. Consapevole del valore del Manuale tipografico poi pubblicato postumo dalla moglie Paola Margherita dall’Aglio nel 1818, ripeteva: “Vedi, mia cara, questo libro? Io più non ci sarò, ma lo copriranno d’oro.” Intorno al 1812 la sua salute era divenuta sempre più cagionevole e la podagra, che da tempo lo affliggeva, era sempre più aggressiva. Eppure nei pochi momenti di tregua dal morbo riuscì a lavorare all’edizione delle Maximes de la Rochefoucauld. Fino al 30 novembre del 1813, “ch’egli si moriva nella religion de’ suoi padri, spirò l’ultimo fiato verso le sette e mezzo del martedì mattina” e la fama che già l’aveva adulato in vita ora lambiva mesta il suo solenne catafalco, innalzato nel Duomo di Parma, scortandolo nell’aldilà.

I CARATERI BODOBIANI Quattro precetti in un manuale

La mostra

Il carattere di stampa bodoniano prende il nome dal suo inventore, Giambattista Bodoni. Benché influenzato dall’opera dei disegnatori e tipografi John Baskerville, PierreSimon Fournier e François Ambroise Didot, Bodoni concepì il suo stile originale grazie al modo di stampare. Le opere bodoniane spesso lamentano una forma poco corretta ma la novità e il pregio consiste nella sontuosità della stampa, nell’accurato aspetto esteriore e nell’alta qualità dei materiali e della carta. Un ruolo principale è riservato ai caratteri e dunque

interlinee comode e spaziature ampie; tutto a favore della leggibilità dell’opera. La composizione è impostata sulla fattura, varietà ed estrema eleganza dei caratteri, sul bianco e nero e sulle illustrazioni. Il Manuale tipografico, pubblicato postumo nel 1818, enuncia nella prefazione i quattro precetti dell’arte bodoniana: uniformità del disegno dei caratteri; raffinatezza e chiarezza dei punzoni da cui deriva la matrice (lo stampo) esemplare per realizzare caratteri precisi e aggraziati; “buon gusto” come l’armonia delle opere antiche e “incanto” quale talvolta si ritrova nelle epistole scritte con finta noncuranza e chiarezza.

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CARTE D’ARTE MULTIPLI DELLE MIE BRAME

il collezionista che odia(va) le interviste

di MASSIMO CANORRO

Corrado Mingardi preferisce far parlare i suoi libri d’artista che raccoglie da 35 anni «Sono un forzato della lettura: è una piacevole condanna» A destra: Mimmo Paladino Collodi, Pinocchio, 2004 Venezia, Papiro arte

ocente di lettere in pensione, classe 1939, Corrado Mingardi non ama le interviste: «Ma perché volete fare domande proprio a me? Lasciatemi in pace, per carità». La sua non è scortesia. Tutt’altro. Il collezionista è semplicemente un uomo «onnivoro di libri, lo sono rimasto per tutta la vita», il cui intento (non dichiarato) è quello che a parlare per lui siano soltanto le opere che custodisce. Mingardi è tra i più importanti collezionisti italiani di libri d’artista: «Li raccolgo da quasi trentacinque anni, ma l’amore per i libri belli per contenuto e per veste editoriale risale all’infanzia, i regali più graditi erano proprio questi». Dopo aver iniziato a collezionare libri antichi – «oramai ne ho pochi, ho dovuto vendere alcuni pezzi eccezionali», dice – Mingardi ha puntato passione e portafogli sui libri d’artista, «quelli che in Francia furono chiamati livre de peintre, ovvero un’edizione a tiratura limitata, particolare per il pregio del supporto cartaceo e per il rigore tipografico, in grado di associare testi in prosa o poesia a immagini realizzate con grafica originale da pittori o scultori». Artisti, questi, non specialisti nelle tecniche incisorie e di riproduzione, «dunque già sperimentatori innovativi, per lo più appartenenti alle avanguardie storiche, che hanno vissuto le esperienze del loro tempo con decisa originalità». Originalità espositiva – in senso di loquacità – della quale il nostro interlocutore non difetta affatto.

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IL COLLEZIONISTA Trent’anni di libri d’arte Corrado Mingardi, nato a Fidenza il 26 gennaio 1939, professore di lettere in pensione, vive a Busseto (Parma), città natale di Giuseppe Verdi, attorno al quale ruotano i suoi incarichi ufficiali. Responsabile della biblioteca a Busseto, da circa 30 anni colleziona libri d’artista, le cui perle sono i tre monumenti del futurismo: i Chimismi lirici di Soffici nell’infolio del 1915, il Libro imbullonato di Depero (1827) e le Parole in libertà di D’Albissola-Marinetti (1932), in litolatta. Skira ha dedicato alla sua collezione due pubblicazioni: Parole disegnate, parole dipinte (2008) e Allo! Paris! (2005).

Da quel di Busseto – provincia di Parma, dove risiede, che ha dato i natali a Giuseppe Verdi – nonostante la linea cada più volte, il collezionista riprende sempre il filo del discorso che aveva interrotto. Lucido e ironico, «ho appena il tempo di documentarmi, sono in pensione soltanto dal 1983», Mingardi torna con la mente a quando tutto ha avuto principio. «Figlio unico, sono sempre stato attratto dal libraio come maestro e non solo mercante. Il segreto della mia passione? Ogni giorno provo a stupirmi, sono un forzato della lettura. Ma è una piacevole condanna». E quando gli dico che oggi, secondo alcuni, collezionare libri d’arte è un esercizio quasi sterile, Mingardi si prende una pausa, poi replica: «Chiariamoci bene. Colleziono libri d’artista anche se non so più bene che cosa si intenda, in senso stretto, per libro d’artista. I miei volumi hanno grafica originale e carta di qualità. Sono di lusso». E per quanto riguarda i multipli d’arte? «Non ne ho molti – prosegue il collezionista – ma tra questi sono particolarmente legato all’edizione di un testo del poetaAndrea Zanzotto inserito in un multiplo di legno coloratissimo. È assai rara». Dunque al bando tutte quelle opere che, pur mantenendo il carattere di libro, «si presentano in tutta la loro

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Henri Matisse, Jazz, 1947 Sotto: Edouard Manet, Il corvo, 1875 Nella pagina a fianco: Ardengo Soffici, Chimismi lirici, 1915 (particolare) Nel box: il collezionista

modestia per via di stampe tecnicamente standardizzate, con tiratura non limitata oppure, di contro, limitata a un solo esemplare. Sconfinando, più che sovente, nel cosiddetto libro-oggetto». In ogni caso, da Pablo Picasso a Marc Chagall, da Joan Miró a Gustav Klimt, da Giorgio De Chirico a Oskar Kokoschka, da Mimmo Paladino ad Andy Warhol, i veri libri d’artista emergono splendidi non solo nelle illustrazioni, ma anche nei testi. A questo proposito, Mingardi precisa: «Che il testo sia d’un autore contemporaneo, oppure di un classico del passato, non importa. Ciò che conta è che esso sia per l’artista fonte di ispirazione o ragione di confronto, di scambio, di dialogo, e che un editore lungimirante ne abbia favorito l’incontro e abbia resa concreta l’opera». Ma qual è il pezzo, nella sua collezione, del quale va più orgoglioso? «Questa è proprio una domanda difficile, ma proverò a rispondere. Posseggo circa duecento libri d’artista. Sono geloso di tutti, ma in particolare di Jazz di Henri Matisse. Pubblicato nel 1947 da Tériade, raffinato editore d’arte parigino, fu stampato in una tiratura limitata di 250 copie. È meraviglioso per i suoi colori. Però, si ricordi, le collezioni sono una vera schiavitù».

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la grazia sull’arazzo Una giocosa convivenza di epoche e stili Così Salvatore Fiume ipotizzava l’arte Le contaminazioni di Picasso e De Chirico rivivono nel suo lavoro di LAURA ORBICCIANI

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parte il valore artistico di ciò che ha fatto e sta facendo, a parte la stupefacente sua bravura tecnica e vorrei dire quasi artigiana, a parte la rara e commovente schiettezza del suo carattere, Salvatore Fiume costituisce uno dei fenomeni umani più geniali e singolari che ci sia mai capitato di incontrare; fra l’altro proprio per il suo bisogno di immaginare e fare cose grandi, di vivere in un mondo fantastico di immensa metratura, di respirare, pur negli angusti limiti di spazio che la moderna vita impone, con la vastità di fiato che avevano gli antichi”. Così scriveva sul Corriere della Sera nel 1956 Dino Buzzati, commentando una delle Isole di statue per cui l’artista diventa famoso già nei primi anni ‘50, quando il Moma di New York acquista una sua opera. Quel suo mondo fantasti-

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L’arazzo è un capolavoro di maestria artigiana fatto di centinaia di combinazioni di trama e di ordito, ottenute con fili dai colori attentamente studiati sulla base della tela originale

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co è popolato di monumentali sculture-architetture pietrificate e allo stesso tempo pulsanti di memorie classiche che parlano e sempre parleranno al presente di ogni epoca. Il concetto della “contemporaneità” dell’arte di tutti i tempi, dal mondo antico ai guru del Novecento, è sempre stato molto caro all’artista, secondo cui l’arte non ha tempo ed è sganciata dalle mode: ecco allora che con prorompente ilarità Velasquez e Raffaello si trovano a giocare insieme a carte, Rembrandt fa una lezione d’anatomia su una donna di Picasso e ancora una Venere di Botticelli conversa con una musa di De Chirico. Si tratta delle Ipotesi, un ciclo di diciotto dipinti e tre sculture in cui Fiume “ipotizza la contemporaneità” – per usare le parole della figlia Laura – come una giocosa convivenza di epoche e stili diversi, una personalissima summa dell’arte europea dal Rinascimento al Novecento, come a volerci dire che fra gli artisti e le loro creazioni esiste un’enigmatica e magica sinergia che


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Salvatore Fiume Le tre grazie Editalia, 2013 A sinistra: Un momento della lavorazione dell’arazzo nella Seteria Bianchi Alle pagine 72-73: particolare dell’opera

sfugge alle classificazioni storiche. Per dirla con il critico d’arte Giancarlo Lacchin: “L’ipotesi è così esempio di una possibilità, forse la più alta: la possibilità del dialogo nel tempo fra i tempi, nello spazio fra gli spazi, la scoperta stupefacente dell’eterna simultaneità dell’opera d’arte”. Da una delle opere di questo ciclo, realizzata nel 1984, Editalia ha tratto, in collaborazione con la fondazione Salvatore Fiume di Canzo (Como), e avvalendosi dell’abilità artigiana della Seteria Bianchi di Como, il microarazzo intitolato Le tre grazie: sullo sfondo di un enigmatico e sospeso paesaggio mediterraneo, la figura al centro è una delle tipiche statue metafisiche di Fiume, con una gonnella a forma di Colosseo, a sinistra una donna formosa erede di Picasso, a destra una musa di De Chirico che sotto al chitone indossa uno sgargiante costume bluette. Dal quadro di partenza si è ottenuta un’opera che ne è una sapiente reinterpretazione e allo stesso tempo un risultato di autono-

LE TRE GRAZIE Ipotesi in pura seta Il microarazzo è tratto dall’opera su tela di Salvatore Fiume Le tre grazie (1984), facente parte del ciclo denominato delle Ipotesi e oggi conservata a Milano, alla regione Lombardia. È stato realizzato nei laboratori della Seteria Bianchi di Como, in seta pura, con un telaio di 11.520 fili bianchi e l’inserimento di oltre 38.000 trame. È composto di fili di ben 16 colori diversi, appositamente studiati, ricreati e tinti a confronto con le tonalità del quadro originale, con oltre cento combinazioni di trama e ordito, che danno origine a una tavolozza cromatica estremamente ampia e variegata. Il formato dell’opera, inserita in una cornice in legno massello di frassino, è di cm 114x140. La tiratura del microarazzo è di 250 esemplari numerati e certificati. Info: www.editaliarte.it.

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ma originalità: l’arazzo è un capolavoro di maestria artigiana fatto di centinaia di combinazioni di trama e di ordito, ottenute con fili dai colori attentamente studiati sulla base della tela originale. L’opera finale è stata ottenuta dopo numerose prove al telaio, durante le quali sono stati analizzati effetti opachi o lucidi, motivi in rilievo o in piano, correzioni di tonalità e chiaroscuri. Laura Fiume per la Fondazione ha seguito la realizzazione dell’opera con numerosi suggerimenti per la messa a punto della tinta dei colori e della matericità del filato. L’opera si inserisce nella tradizione novecentesca dell’arazzo d’artista che affonda le sue radici nel XIX secolo, quando si realizzavano “quadri in tessuto” per riprodurre paesaggi e ritratti di personaggi illustri, e che in età moderna ha raggiunto un’autonomia di genere con artisti del calibro di Alighiero Boetti, Umberto Mastroianni e Riccardo Licata che si sono misurati con questa affascinante tecnica.


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FATTI AD ARTE CAPOLAVORI SERIALI

la via italiana al mondo pop

di GIORGIA BERNONI

Non solo inglese e statunitense, la pop art è stata anche un fenomeno nostrano. Editalia rilaancia i multipli di due suoi grandi protagonisti: Adami e Rotella

Nella pagina a fianco, dall’alto in senso orario: Mario Schifano, Coca cola, 1972 Enrico Baj, Quamisado II°, 1951 Sergio Lombardo, John F. Kennedy 1963

uando si parla di pop art si pensa subito ai ritratti in serie di personaggi famosi immortalati da Andy Warhol, alle tavole con i suoni onomatopeici che richiamano i fumetti di Roy Lichtenstein, agli animali dai colori sgargianti formati da palloncini giganti di Jeff Koons. Insomma, alla parola pop art l’associazione più fulminea e immediata è quella con la corrente che nasce e si sviluppa negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta e che fa della popular art, l’arte di massa, un fenomeno virale ed esplosivo. Dopo essere esploso negli Stati Uniti e in Inghilterra, la Biennale di Venezia del 1964 è la vetrina d’eccezione che fa conoscere il fenomeno all’Europa e al resto del mondo: la giuria premia per la prima volta un artista statunitense, Robert Rauschenberg, e la manifestazione ospita al padiglione Italia opere dirompenti di artisti più o meno noti come Mimmo Rotella, Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Concetto Pozzati e Mario Schifano. “La pop art in Italia – scrisse qualche anno dopo lo scultore Mario Ceroli – spazzò via la soffocante accademia informale che ancora imperversava in Europa dove, ad eccezione di una mezza dozzina di veri grandi artisti, il resto era scadente e noioso. Quanto all’America, ci vivevamo tutti immersi fino alla cima dei capelli: cinema, jazz, canzoni, letteratura, camicie a collo stretto e scarpe”. La testimonianza dello scultore la dice lunga sull’importanza che la nuova corrente ebbe in Italia:

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una ventata di aria nuova per mettere in discussione non solo la cultura artistica allora dominante ma anche la società con le sue derive economiche e sociali. Ecco allora che il cinema, la televisione, il mondo ingombrante e minaccioso dei mass media sono al centro della rivisitazione figurativa degli artisti nostrani che utilizzano differenti materiali per esprimere e dare forma alla loro pop art. «Strappare i manifesti dai muri è la sola compensazione, l’unico mezzo per protestare contro una società che ha perso il gusto delle trasformazioni favolose». Così Mimmo Rotella stigmatizzava l’opulenza dell’Italia in pieno boom economico e, con la sua tecnica di scomposizione e ricomposizione che si accaniva sui manifesti cinematografici e le icone della società di massa, sperimentava nuovi mezzi e tematiche che anticipano di una decina d’anni il movimento della pop art. «Il mondo di immagini violentissime che ci circonda (segnaletica stradale, cartelloni, manifesti, semafori, automobili colorate, pubblicità) non può non colpire la retina e la fantasia di un pittore, al di fuori di ogni pretesto figurativo in senso tradizionale. Nel mio lavoro

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Sopra: Mimmo Rotella Senza titolo, 1991 A fianco: Valerio Adami La camera, 1996

ROTELLA, SENZA TITOLO In 60 esemplari certificati Mimmo Rotella (1918-2006) nel 1955 espone il primo “manifesto lacerato” che da quel momento in poi rappresenterà una sua cifra stilistica. Nasce così il décollage che segna la protesta nei confronti di una società che vive i falsi miti del consumismo. Senza titolo è un multiplo a décollage datato 1991 e realizzato con tecnica serigrafica in doppia stampa con base a sei colori e sovrapposizione di elementi a strappo a quattro colori su carta salland di fabbricazione olandese. La tiratura è in 60 esemplari numerati e certificati; l’opera ha una cornice in legno massello di frassino. Info:www.editaliarte.it.


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VALERIO ADAMI LA CAMERA Serigrafia in 150 pezzi Valerio Adami nasce a Bologna il 17 marzo 1935 e vive tra Parigi e Meina, sul Lago Maggiore. Giovanissimo, inizia a dipingere a Venezia con Felice Carena. Nel 1951 incontra e frequenta Oscar Kokoschka e inizia a studiare disegno con Achille Funi all’accademia di Brera a Milano. Nel 1958 partecipa al premio Marzotto, vincendolo ex aequo, e nel 1959 tiene la sua prima personale alla galleria del Naviglio di Milano. Nel 1986 partecipa alla 42esima Biennale di Venezia. L’opera La camera, datata1995-1996, racchiude con il suo acceso cromatismo la cifra stilistica del pittore. La serigrafia è tirata in 150 esemplari numerati e certificati da Editalia. Info: www.editaliarte.it.

io cerco di tener conto delle impressioni e degli choc che ricevo continuamente», dichiara ancora Rotella a proposito della sua estetica che riflette il nuovo realismo urbano. L’artista calabrese viene considerato un precursore, affiancato dal critico Walter Guadagnini, curatore dell’importante mostra Pop art Italia, 19581968 tenuta nel 2005, a Enrico Baj, per aver magistralmente saputo intuire, già nel 1958-59, da che parte stava andando la società e l’arte che la rappresentava e criticava. «La pop art in Italia – ha affermato Guadagnini in occasione della mostra – è stata parte di un processo più vasto e decisivo di svecchiamento della cultura artistica italiana, non tanto per quanto riguarda l'attività e il pensiero degli artisti stessi, quanto per ciò che riguarda la critica, costretta a confrontarsi con linguaggi e modi operativi per molti aspetti inediti, o quanto meno tendenzialmente fuori dagli orizzonti mentali di quanti avevano sino ad allora dominato la scena e sostenuto, quando non imposto, linee di pensiero e di azione chiaramente determinate». «La via italiana alla pop art ha nel proprio dna una sua assoluta

autonomia che ben la distingue dal contesto americano», rincara Gabriele Simongini, curatore della mostra Pop art: la via italiana omaggio a Mimmo Rotella, tenuta a Chieti nel 2007. Lampante sotto questo aspetto la testimonianza dello scultore Piero Gilardi: «Mentre gli americani ci presentavano con il massimo di impersonalità i prodotti di consumo appena usciti dalla catena di montaggio fordista, noi in Italia ne abbiamo sempre dato una interpretazione sociologica, culturale e in definitiva etica». Tornando al 1964, accanto agli artisti più noti che esposero nel padiglione Italia, gravitavano altre personalità importanti che si riunivano nella cosiddetta scuola di piazza del Popolo: Francesco Lo Savio, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Cesare Tacchi. Anche le storiche gallerie romane come La Tartaruga e La Salita contribuirono a sostenere la nuova corrente e i suoi artisti. Milano non fu da meno e grazie al gruppo milanese, vicino allo Studio Marconi, la città lombarda si affermò come centro autorevole dell’avanguardia internazionale, in uno dei suoi momenti culturalmente più vividi.

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FATTI AD ARTE OPERE DI PREGIO

uomini e monete tra le due guerre

di SILVANA BALBI DE CARO*

La grande stagione della monetazione negli anni ‘20 e ‘30 nel terzo volume della collana La lira siamo noi Una pregiata pubblicazione di Editalia dall’alto valore artistico

A sinistra: la copertina del volume La lira siamo noi uomini e monete tra le due guerre con la riproduzione in argento sbalzato della moneta da 100 lire del 1925 A pagina 82: alcune illustrazioni tratte dall’opera a cura di Editalia

sce il terzo volume della Lira siamo noi. L’iniziativa di Editalia si è andata sviluppando nel tempo fino a occupare spazi prestigiosi e assolutamente originali in un settore di eccellenza della produzione del nostro paese, l’editoria d’arte, con la pubblicazione della collana di tre volumi dedicati alla storia della lira dal regno alla repubblica. Volumi ricchi di contenuti e di elevato livello artistico, nei quali protagonista non è solamente la moneta, peraltro resa godibile dalle splendide immagini che ne riproducono i più nascosti particolari, ma anche la società che di questa moneta si è servita. Ne è nata la ricostruzione viva e attuale di un mondo che ancora ci appartiene, nel quale il lettore si addentra sfogliando le pagine patinate della memoria, in un cammino a ritroso nel tempo alla ricerca di uomini e di cose che rivivono nella luce, tutta particolare, della moneta in un paese che, dal regno alla repubblica, ha visto crescere le nuove generazioni nell’alternarsi di speranze e delusioni, in bilico tra slanci eroici e banale quotidianità, con sullo sfondo, immobile e pur sempre diversa, lei, la lira. Alla splendida stagione della monetazione nel regno di Vittorio Emanuele III si è ritenuto di dover dedicare un’attenzione particolare, puntando l’obbiettivo su immagini di grande suggestione nate dalla creatività dei maestri incisori italiani, primo fra tutti Giuseppe Romagnoli. Nella nuova opera La lira siamo noi, uomini e monete fra le due guerre, si sono indagate le ragioni del recupero di quella capacità di comunicazione che, dall’antichità classica al Rinascimento, aveva caratterizzato la moneta, cercando di ricostruire il clima nel quale era potuto nascere e giungere a maturazione quel nuovo linguaggio che tanta presa ebbe sul pubblico negli anni Venti e Trenta del Novecento. La lira nelle mani di un regime attento a ogni manifestazione pubblica del proprio potere si fa veicolo insostituibile di propaganda, portando i segni e i simboli del governo centrale non solo nei più remoti angoli della penisola ma anche nelle colonie, fino alle estreme province del nuovo impero. Con l’affermarsi del regime fascista, l’antica Roma e la rinascita dell’impero divengono i temi costanti di una martellante pubblicità che non risparmiò neppure la moneta. Attraverso la romanità il paese riscopriva le proprie radici rispecchiandosi con orgoglio nelle glorie degli avi. Già a due mesi dalla presa del potere da parte di Mussolini, infatti, sui pezzi da 2 lire di nuova emissione compariva il fascio littorio, accuratamente ripreso dai rilievi e dai denari romani, da quel momento sigillo onnipresente sulle monete del regno, incipit di un fraseggiare che col tempo si sarebbe fatto sempre più organico, fino a culminare nel gran finale rappresentato dalle monete della serie imperiale. Un insieme organico di pezzi, la serie

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LA LIRA SIAMO NOI Uomini e monete tra le due guerre A cura di Silvana Balbi de Caro, con testi suoi, di Marco Cattini, Maria Stella Margozzi, Giovanni Paoloni, Marco Pizzo, Rosa Maria Villani. Il volume di grande formato, stampato su carte pregiate, ha 336 pagine e più di 500 immagini. La rilegatura è in pelle serigrafata con motivo in filigrana ispirato alla banconota da 100 lire “primo nuovo tipo” emessa dalla Banca d’Italia nel 1931. Il piatto, realizzato a sbalzo in argento patinato a mano, è ispirato a un particolare della moneta “vetta d’Italia”, 100 lire oro del 1925. Il volume è accompagnato da un cofanetto espositore in plexiglass. La tiratura è limitata a 4.999 esemplari. Info: www.editalia.it.

“impero” che, lanciata nel 1936 per celebrare la rinascita dell’impero “sui colli fatali di Roma”, ripercorreva tutti i temi della propaganda fascista, estrapolandone i segni cristallizzati dal tempo ed esaltandoli con la forza plastica dei modellati dell’oramai onnipresente Romagnoli. Mentre a Vittorio Emanuele III, il “re numismatico” che i titoli di imperatore d’Etiopia e di re d’Albania sembravano esaltare, non restava altro compito che quello di firmare i decreti di autorizzazione delle nuove monete, i cui disegni, e le relative tematiche, venivano oramai scelti e siglati direttamente dal capo del governo, il duce, il quale si avvaleva esclusivamente di propri consulenti che, a partire dalla metà degli anni Venti, si ridussero al solo Romagnoli, direttore della Scuola d’arte della medaglia. Uno stato di cose che determinò il coagularsi attorno alla moneta di un insieme di immagini e di slogan dai quali sarebbe scaturito quel linguaggio organico ed essenziale tipico del Ventennio, pienamente funzionale alla propaganda del regime. Un viaggio della memoria, quindi, quello che l’ultima iniziativa di Editalia dedicata al controverso periodo storico tra le due guerre ci propone, che dalla brevità dell’epoca esaminata ha guadagnato in profondità, permettendoci di avvicinare l’occhio della macchina da presa alla quotidianità di un’epoca ancora a noi molto vicina per raccontarla utilizzando parole e voci di autori diversi, da Giovanni Paoloni a Marco Cattini, da Marco Pizzo a Mariastella Margozzi e a Rosa Maria Villani. Voci che, incrociandosi e integrandosi, hanno saputo dare profondità al disegno iniziale, evidenziando aspetti di una società varia e complessa, capace di produrre opere delle quali ancora oggi possiamo godere rispecchiandoci nelle forme e nei colori fissati sulla tela, sulla carta, sulle grandi pareti affrescate e nei mosaici dei palazzi pubblici. Un impegno corale che ha tentato di restituirci una visione ravvicinata della società di quegli anni, testimone di profonde trasformazioni nella struttura produttiva, contributiva e creditizia del paese, am-

piamente illustrate nei saggi di Paoloni e di Cattini, mentre la voce metallica delle annunciatrici radiofoniche ne scandiva la più banale quotidianità. Erano quelli gli anni in cui nascevano, come ci racconta Pizzo, l’Unione radiofonica italiana (Uri), poi Eiar (Ente italiano per le audizioni radiofoniche), e l’Unione cinematografica educativa (Luce) che nei loro archivi custodiscono ancora tanta parte della nostra storia recente. Anni in cui nascevano il Consiglio nazionale delle ricerche (1923), l’Istituto Giovanni Treccani (1925), poi Istituto dell’enciclopedia italiana, la nuova Accademia d’Italia (1929), e molti altri istituti storici nazionali. Nell’insieme ne è emerso il quadro di una società varia, in una prospettiva che le immagini d’epoca rendono attuale. Con lei, la lira, sempre sullo sfondo, filo conduttore di vite bruciate dalle luci della ribalta o consumate nell’oscuro dibattersi delle necessità quotidiane, travolte dalla guerra o esaltate da effimeri successi. Una lira alla quale un grande maestro del Novecento ha saputo dare voce, ben oltre gli stretti confini del regime che lo aveva esaltato promuovendolo a padre indiscusso di ogni suo segno monetale, Giuseppe Romagnoli, alla cui personalità viene dedicato in questo volume, con il saggio di Rosa Maria Villani, un apposito spazio, capace di offrire al lettore un panorama inedito della produzione di uno scultore che, folgorato dalla medaglia e dalla moneta, ha saputo per decenni trasmetterne il fascino alle nuove generazioni di artisti che frequentavano la Scuola d’arte della medaglia presso la Zecca di Stato in via Principe Umberto a Roma, della quale egli fu direttore per quasi mezzo secolo. È, questo, uno dei tanti elementi di assoluta originalità di un’iniziativa che non si è limitata a raccontare la moneta collocandola semplicemente nella prospettiva della società che l’aveva prodotta, ma che ha voluto puntare l’obbiettivo direttamente sugli uomini che di questa moneta si erano serviti. *curatrice del volume

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riti, miti e simboli nella lira del ventennio

di CECILIA SICA

Editalia lancia l’inedita collezione di sei monete emesse tra il 1923 e il 1936, specchio della propaganda di regime durante i due decenni di governo del fascismo Particolare del materiale creatore per le 10 lire “impero” del 1936 con l’Italia su prora e una vittoria in pugno

a collezione della Storia della lira si arricchisce di un nuovo capitolo che narra le vicende della moneta italiana durante il fascismo. Sei coniazioni delle monete emesse tra il 1923 e il 1936 raccontano attraverso le immagini, i simboli, e i motti, una storia tutta italiana di recupero delle esperienze della monetazione antica e della consapevolezza dell’efficacia della comunicazione che attraverso l’iconografia monetale di lunga e sperimentata tradizione il potere poteva ottenere. A Giuseppe Romagnoli tocca nel Ventennio fascista il compito di dare voce alla propaganda del regime. Direttore della Scuola dell’arte della medaglia, a lui si devono la maggior parte dei modelli delle monete italiane a partire dal 1918. Consulente di Mussolini, che sceglieva direttamente le tematiche e siglava i disegni delle monete, mette a punto tutto il repertorio di littori, aquile, fasci, vittorie e figure eroiche che costituiscono il messaggio martellante della propaganda del regime. Dopo la fondazione nel 1919 dei Fasci di combattimento, Benito Mussolini con la marcia su Roma dell’ottobre 1922 consolida il potere del partito fascista al governo. E già nel 1923 a ridosso dell’anniversario dell’evento, il duce si preoccupa di realizzare le 100 lire oro che celebrano, sul rovescio, con un grande fascio di verghe e la scritta “ottobre 1922”, l’anno della marcia su Roma e l’avvento del fascismo al potere. Il “fascione”, come veniva chiamata la moneta, recuperava un tema iconografico di radice storica. I fasci simbolo dell’antica regalità

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etrusca in età romana erano diventati l’emblema dell’imperium dei magistrati romani, trovando spazio fin dalle monete del I secolo a. C. In epoca moderna il fascio aveva ripreso vigore all’epoca della rivoluzione francese abbinato alla libertà repubblicana e aveva assunto il significato di “fraternità” ovvero unità dei popoli (il fascio di verghe unite insieme da lacci). Con questo significato era stato assunto a simbolo all’inizio dell’Ottocento delle Repubbliche napoleoniche di Piemonte, Liguria, Roma e Venezia. Negli anni successivi in più occasioni il simbolo fu adottato da gruppi politici e nel corso del ventennio la nuova immagine del fascio fece riferimento non solo al simbolo di forza e dominio ma a tutta la simbologia antica che si portava dietro. Alla messa a punto dell’immagine contribuirono valenti archeologi che arrivarono al punto di ricostruire in

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gesso i fasci antichi come modello per l’incisore. Questo periodo della monetazione di Vittorio Emanuele III si identifica nelle immagini scelte per le monete con simboli strettamente correlati alla Roma classica che trovano nel fascio littorio, nell’aquila su fascio o nello stendardo i simboli più costanti. Alla figura femminile dell’epoca precedente si contrappone la figura maschile nuda ed eroica che coincide con la celebrazione dei venticinque anni di regno del re nel 1925. Le 100 lire, anch’esse d’oro, sono un’emissione esclusivamente per collezionisti e riportano un fante che pianta vigorosamente sulla “Vetta d’Italia” la bandiera del regno, stringendo con la mano destra una piccola vittoria. La moneta celebra la vittoria nella prima guerra mondiale grazie alla strenua difesa dei confini nazionali. La corona ferrea sul diritto, alla base del profilo di Vittorio Emanuele III,

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rafforza la celebrazione della dinastia sabauda. L’anno dopo, nel 1926, sul rovescio delle 10 lire compare una biga guidata dall’Italia con un fascio littorio in braccio. L’immagine si ispira alle monete greche e romane, ma a questa data, con Mussolini saldamente al governo, i due cavalli, che si impennano guardando l’uno verso il basso e l’altro verso l’alto, alludono alla diarchia re e duce alla guida del paese. Nel 1928 la mistica del regime raggiunge il suo culmine: per il decennale della prima guerra mondiale sono coniate le 20 lire comunemente chiamate “elmetto” con la testa del re sul diritto e sul rovescio la scritta “meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”, un celebre motto che erroneamente si crede essere stato coniato dai fascisti e che invece fu scritto da un anonimo soldato sulle macerie di una casa sulla gloriosa linea del Piave. Nel 1931 torna


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LA COLLEZIONE La storia della lira tra le due guerre La storia della lira tra le due guerre è una collezione che si compone di sei monete, rimodellate e coniate dagli incisori della Zecca dello Stato. La serie comprende tre tagli che già all’epoca furono per il collezionismo: le 100 lire “fascio” 1923, le 50 lire “littore” 1931, le 100 lire “Vetta d’Italia” 1925; e tre rappresentative monete di circolazione: 100 lire “elmetto” 1928, 10 lire “biga” 1926, 10 lire “impero” 1936. Le monete sono coniate in oro 900‰ nelle dimensioni originali (disponibile anche in versione argento 98%). La tiratura, certificata e garantita dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato è di 1999 esemplari per la collezione completa e per le singole serie. Info www.editalia.it.

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A destra: Il rovescio delle 20 lire “elmetto” del 1928 con l’effige di Vittorio Emanuele III nelle vesti di soldato della prima guerra mondiale A sinistra: Il cofanetto della collezione La storia della lira tra le due guerre

l’immagine del giovane littore sulle 50 lire. La figura, ispirata ai littori che accompagnavano i magistrati romani amministratori della giustizia sugli archi di trionfo, ha un particolare successo nella numismatica del Ventennio ricorrendo ben tre volte su diverse coniazioni. L’apice del racconto si raggiunge nel 1936 per la fondazione dell’impero: viene affidato al Romagnoli il compito di pensare una nuova monetazione imperiale. Sulle 10 lire l’Italia ritta sulla prua di una nave sorregge in una mano un lungo fascio e nell’altra una piccola vittoria, lanciandosi alla conquista del Mediterraneo. Basta una sintetica lettura delle monete della collezione La storia della lira, tra le due guerre per cogliere uno spaccato della storia, dei miti, dei simboli e delle ideologie delle quali la lira è stata partecipe e portatrice. Ancora una volta le monete hanno la capacità di raccontare la storia.

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ARTI & FATTI IL MOTORE DELL’ARTE

damiani quando il gioiello diventa scultura

di DEIANIRA AMICO

Conoscenze orafe che si tramandano a Valenza Po da generazioni Sono quelle della casa fondata nel ‘24: «Ogni nostro lavoro nasce dallo stile di chi lo indossa»

A destra: “Belle epoque”, lavorazione

i è un momento, nella storia della forma degli oggetti, in cui l’innovazione nasce da una rivoluzione estetica. Quando, ad esempio, una pietra preziosa viene giudicata bella in tutti i suoi lati e sfaccettature, allora un gioiello può diventare una scultura a tutto tondo. Un’idea per nulla banale, che segna la differenza che intercorre tra ripetizione di una tradizione sempre uguale a se stessa e il rinnovamento che apre la stagione di un nuovo gusto. È quello che accade in un gioiello Damiani, dove anche il retro mostra la preziosità e la raffinatezza della lavorazione. Culla del distretto orafo italiano è Valenza, dove nel 1924 fonda la sua attività Enrico Damiani, un paese ricco di storia disteso sulla riva destra del Po, prima foro romano, poi feudo francese con Carlo V e dominio savoiardo nel Settecento. Grazie alla sua abilità di maestro orafo, Enrico diventa in breve tempo il gioielliere a cui si rivolgevano le più importanti famiglie dell’epoca per la realizzazione di pezzi unici, veri e propri capolavori di raffinata maestria. Un primato che, a ragione, la famiglia tiene a sottolineare: «Il fatto di essere da sempre produttori di gioielli – afferma Giorgio Damiani – a differenza dei concorrenti nati come dettaglianti, fa di Damiani una realtà unica». L’appartenenza, da generazioni, al territorio valenzano dove tutti i grandi nomi hanno via via stabilito la loro produzione e dove la tradizione orafa ha dato vita a una scuola professionale che forma giovani talenti, rappresenta sicuramente un importante valore aggiunto nella promozione del made in Italy. Lo stabilimento Damiani è un suggestivo connubio tra fabbrica hi-tec, laboratorio artigianale

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Orecchini “springtime” A sinistra: il bracciale “eden”, Oscar mondiale della gioielleria A destra: Giorgio, Silvia e Guido Damiani

LA GIOIELLERIA Dall’artigianato alle quotazioni in borsa L’azienda Damiani nasce a Valenza Po nel 1924 nel cuore del distretto orafo, quando viene fondata dal capostipite Enrico Grassi Damiani. Nel 1934 nasce Damiano che inizia un processo di potenziamento industriale e di espansione commerciale già a partire degli anni Sessanta. Nel 1996, dopo la sua scomparsa, la ditta, che impiega già 200 dipendenti, passa alla gestione dei tre figli. Guido, classe 1971, è nominato amministratore delegato, carica che ricopre tutt’oggi insieme al ruolo di presidente. In carica come vicepresidenti, Silvia (1966) segue gli acquisti e la comunicazione mentre Giorgio (1968) si dedica alla creazione e allo sviluppo delle collezioni. Alla fine degli anni Novanta, da azienda familiare Damiani diventa realtà manageriale e nel novembre 2007 si quota in borsa a Milano. Info: www.damiani.com/it.

e luogo di rappresentanza. Strutturato su più livelli, dovunque si respira un clima di grande concentrazione. Osservando gli artigiani a lavoro, sembra di trovarsi di fronte a una grande équipe di chirurghi del gioiello: ognuno alla propria postazione, vestiti in camice verde, microscopio per lavorare al millimetro e strumenti di precisione alla mano. Gli attrezzi da lavoro sono quelli della bottega medievale, «La gioielleria si fa a mano», precisano in azienda, come carta vetro, trapano, paste abrasive e unghiette per l’incassatura. Eppure per creare un classico contemporaneo che risponda ai parametri di bellezza, innovazione artistica e comfort, la presenza del capomastro, il direttore artistico Giorgio Damiani, è fondamentale: se l’idea nasce da uno schizzo a penna, come si sviluppa la forma è un lungo lavoro. Il settore ricerca e sviluppo Damiani è attento alla tecnologia, quando contribuisce a creare prototipi tridimensionali e permette di calcolare il peso dell’oro e le carature delle pietre. Ogni gioiello Damiani, però, è realizzato a mano da maestri artigiani e incastonatori. Tra i gioielli, Giorgio Damiani ricorda il bracciale “burlesque” con il

sistema di chiusura ispirato da un corsetto e il bracciale “eden”, vincitore di un Oscar mondiale della gioielleria alla fine degli anni Novanta, entrambi risultati di parecchi mesi di lavoro dei maestri orafi. Del gioiello che ancora non è stato realizzato non possiamo avere anticipazioni, lo spiega bene ancora Giorgio, quando gli chiediamo come nasce un lavoro: «Ogni gioiello nasconde un segreto: quello della personalità di chi lo indossa. Ogni volta che comincio a lavorare a un nuovo gioiello, penso alle persone che lo indosseranno. Cerco di immaginare le loro abitudini e i loro desideri. Gli oggetti che amano. Situazioni, momenti, atmosfere. Sono come istantanee scattate sulla vita. Da queste intuizioni prendono concretezza le mie idee. Da queste idee nascono tutti i gioielli Damiani». Le ultime creazioni di alta gioielleria, sinuosi e preziosissimi fiori e mobili farfalle, hanno preso ispirazione da un giardino fiorito. L’oro e le pietre preziose colorate, unitamente a un design ricercato e una cura per i dettagli, hanno creato un nuovo vivaio che merita di essere esplorato, anche dai non cultori del gioiello.

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ARTI & FATTI COMUNICARE AD ARTE

IL CALZOLAIO PRODIGIOSO Fiabe e leggende di scarpe e calzolai Una mostra interdisciplinare a cura di Stefania Ricci, Sergio Risaliti e Luca Scarlini. Scultura, illustrazioni, letteratura, musica e cortometraggi si intrecciano a fiabe, storie di calzolai e design della scarpa partendo dalla vita di Salvatore Ferragamo (catalogo Skira). Fino al 31 marzo 2014, Museo Salvatore Ferrragamo, Palazzo Spini Feroni, Firenze.


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Ferragamo Il calzolaIo delle stelle

di MONICA MATERA

Intervista con Stefania Ricci direttrice del museo nato dal marchio calzaturiero: «La storia dell’azienda è da sempre legata al mondo dell’arte»

Mimmo Paladino Senza titolo, 2013

nnovazione e creatività si associano da sempre al nome Ferragamo. Un’occasione quella della mostra Il calzolaio prodigioso (fino al 31 marzo 2014), per parlare di arte e strategia comunicativa di una delle aziende di spicco del panorama internazionale. A condurci in questo viaggio in bilico tra sogni e realtà è Stefania Ricci, direttrice del Museo Salvatore Ferragamo e una delle curatrici della mostra. Quale il filo conduttore che lega Il calzolaio prodigioso alla Zapatera prodigiosa di Federico Garcia Lorca, dal quale la mostra trae il suo titolo? «Il testo teatrale di Lorca ha come protagonista la moglie di un calzolaio e un calzolaio, quindi fa parte di quella nutrita raccolta di storie, fiabe e leggende di tutto il mondo sulla quale si basa la mostra al Museo Salvatore Ferragamo. Il titolo della mostra è un omaggio al grande scrittore spagnolo anche perché rispondeva perfettamente alla descrizione della vita e dell’opera di Salvatore Ferragamo in chiave fiabesca». Lei accenna alla bottega del calzolaio come luogo di incontri e di riflessioni sui significati della vita e della creazione stessa. In una società che priva i giovani di sogni e di speranze, qual è il messaggio che volete dare con questa mostra? «Ogni mostra nel nostro museo prende ispirazione da un tema o da un personaggio che si trova nella vita e nel lavoro di Salvatore Ferragamo e attraverso percorsi trasversali che uniscono diverse discipline, dall’arte alla musica, al cinema, alla filosofia, al fumetto, alla storia dell’artigianato toccano temi sempre contemporanei. La vita di Ferragamo è una vita fatta di coraggio, di passione per il proprio lavoro, di voglia di migliorarsi e di non arrendersi mai. La bottega del calzolaio era il luogo degli incontri e della riflessione sulla vita e sul suo significato. In questa mostra il messaggio è duplice: da un lato vogliamo raccontare ai giovani che quello del calzolaio non è un mestiere umile ma

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SALVATORE FERRAGAMO Il ciabattino diventa mito Salvatore Ferragamo (Bonito, 1898 - Firenze, 1960) negli anni ‘20 in America disegna e realizza scarpe per le star del cinema hollywoodiano. Per creare calzature che calzino alla perfezione studia anatomia umana, ingegneria chimica e matematica all’università di Los Angeles. Nel 1927 si trasferisce a Firenze mantenendo rapporti con il mercato americano. Fallito con la crisi del ‘29 si rivolge al mercato interno e nel ‘38 acquista Palazzo Spini Feroni sede dell’azienda. Nel 1995, Wanda Ferragamo e i suoi sei figli inaugurano nella sede il Museo Salvatore Ferragamo. Oggi l’azienda fa parte del gruppo Intrapresae collezione Guggenheim e il museo partecipa a Museimpresa. Info: www.museoferragamo.it

implica tanta capacità manuale e creativa e che, se nella vita si hanno idee e passioni, bisogna coltivarle e perseguirle non solo con coraggio, ma anche con lo studio e la voglia di migliorarsi». Ricerca dell’eleganza, del ben costruito e dell’utile. Arte e tecniche manifatturiere si sono sempre influenzate. È il design, in questo caso della calzatura, che prende spunto dall’arte o viceversa? «È difficile dire se viene prima l’uovo o la gallina. Fino all’epoca industriale non vi erano differenze tra il mondo dell’arte e dell’artigianato. La prova è che grandi artisti come Raffaello eseguivano spesso opere destinate anche all’uso domestico e comune. Certamente nella storia del Novecento le sperimentazioni delle avanguardie hanno molto influenzato anche la produzione e il design, ma la relazione è complessa». Oggi Palazzo Spini Feroni propone una mostra interdisciplinare con alcune opere realizzate per l’occasione. Rientra nella strategia di comunicazione d’impresa? «Il museo è sempre stato parte della strategia di comunicazione dell’impresa che dalla sua storia trae i principi di identificazione e differenziazione dalle

Sopra: Palazzo Spini Feroni casa madre dell’azienda Ferragamo e sede del museo omonimo A fianco: Il sandalo “rainbow” disegnato per la diva del cinema Judy Garland 1938-1939 In alto, a destra: The amazing shoemaker Fairy Tales about shoes and shoemakers Mimmo Paladino, 2013 foto Guglielmo de’ Micheli

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altre. Il fatto di commissionare delle opere ad artisti contemporanei e non solo esporre creazioni del passato è legato all’essenza stessa di un’azienda che si occupa di moda. La contemporaneità è fondamentale, ma nel caso di Ferragamo è da intendere come proseguimento della tradizione». La vostra azienda è tra gli esempi di eccellenza italiana che comunicano attraverso l’arte. Che relazione lega la Ferragamo all’arte e agli artisti? È un ritorno al mecenatismo o una strategia di marketing? «La storia dell’azienda è da sempre legata al mondo dell’arte, basta pensare ai legami di Ferragamo con il futurismo. Salvatore scelse un artista come Lucio Venna per fare pubblicità, deve la sua carriera al cinema che è considerata la settima arte e negli anni Cinquanta è ricorso ad Annigoni per disegnare la cartotecnica dell’azienda. È quindi naturale continuare questa strada. Non è solo un atto di mecenatismo ma un elemento fondamentale del proprio dna». Affermate di essere stati tra i primi a comprendere l’importanza del museo d’impresa. Cosa vi ha spinto e quali obiettivi vi ponete sia come azienda che in rapporto all’arte?

«La cultura di un paese è fatta anche dalla cultura e dalla storia delle proprie imprese. La storia per un’impresa come ho detto è un elemento importante per differenziarsi dalla concorrenza e per acquistare e mantenere la fiducia del mercato. Se un’azienda ha storia, vuol dire che i suoi valori e suoi prodotti valgono. Conservare le testimonianze di quello che ha reso grande l’azienda e promuoverne la conoscenza è un modo per far capire al pubblico e non solo ai clienti che i fondamenti di quell’azienda non sono effimeri, ma sono il risultato di persone, di tecniche di lavorazione, di cura nell’uso dei materiali e dei dettagli». In un momento di recessione così profonda, promuovere un marchio di lusso non crede che rimanga un sogno? E allora di che sogno parliamo? «Il lusso non può morire, perché ci sarà sempre un gruppo, più o meno ristretto di persone, che potranno permettersi il meglio sul mercato a un prezzo elevato. Questo è il business. Nel caso però di un museo di un marchio internazionale del lusso, di cui sono responsabile, il lusso ha un significato diverso. Non è solo il sinonimo della qualità e di alto costo, ma anche di profonda cultura».

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ARTI & FATTI MERCATI E MERCANTI

i classici non tramontano mai Soffre il contemporaneo ma segna il record d’asta con Gerhard Richter, l’artista del momento di ALESSANDRO CARUSO

hiuso il primo semestre del 2013 il bilancio delle aste fa registrare un trend confortante. La crisi non sembra scalfire più di tanto il mercato dell’arte. Soffre solo il settore del contemporaneo, sebbene l’asta da record mondiale di Christie’s a maggio (ben 500 milioni di dollari) abbia avuto come oggetto opere di Pollock, Lichtenstein, Basquiat, Rothko, Guston e soprattutto Gerhard Richter, che è diventato l’artista vivente più quotato al mondo con il capolavoro Abstraktes bild, battuto alla cifra record di 34,2 milioni di dollari. Questi sono i risultati del quattordicesimo Art market report, elaborato dall’area pianificazione strategica e investor relation del Monte dei Paschi di Siena, che sintetizza i risultati del semestre. Ebbene, il mercato della pittura nel primo semestre 2013 mostra un lieve calo rispetto al precedente semestre e dopo la fase di assestamento degli ultimi tre anni, come testimonia l’andamento dell’Mps global painting index in diminuzione del -18,4% rispetto al periodo precedente. Il mercato resta ancora lontano dal picco del 2008 e la ripresa sembra oggi ostacolata nei segmenti a maggior capitalizzazione. La distribuzione geografica degli affari fa segnare un’inversione di tendenza rispetto all’inizio dell’anno, quando l’Oriente distraeva i collezionisti

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dalle aste europee e statunitensi. Gli Stati Uniti si attestano ora come piazza principale di riferimento per la pittura, pur registrando una leggera contrazione (dal 47,3% del primo semestre 2012 al 37,7% di questa prima metà dell'anno). Il segmento Asia, a ogni modo, presenta una quota di fatturato in continua crescita rispetto agli anni precedenti. Mentre la zona euro si conferma periferica, con un ruolo sempre più marginale nel contesto internazionale. I dati del primo semestre 2013 non sono caratterizzati da alti valori di fatturato se non per una serie di record che hanno riguardato artisti di grande fama come Picasso e Modigliani, le cui opere hanno raggiunto in pochi anni un trend invidiabile. Da menzionare è il record d’asta per Georges Braque con l’opera Paysage à La Ciotat. L’Mps art post war index rappresenta il comparto più colpito dalla crisi negli ultimi anni e i risultati del primo semestre 2013 sembrano confermare un clima di pessimismo (-4,6% sul 2012). Questi primi sei mesi dell’anno si presentano con buone prospettive di crescita per le cosiddette arti minori: l’Mps global arti minori index registra infatti un trend positivo del 4,2% sul primo semestre 2012. L’analisi della performance delle varie arti minori nel corso degli ultimi sette anni (2006-2013) mostra infatti rendimenti ampiamente positivi (+116,4% vs 2006).

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Tra le performance più importanti spicca quella delle antichità (+154,1% rispetto al 2006), seguita dai gioielli (+140%), settori che trainano la performance complessiva espressa dall’indice. I risultati di vini pregiati, scultura, arredi e fotografia, invece, seppur positivi sono inferiori all'indice globale delle arti minori (rispettivamente: +93,3%, +68,3% e +10,5% sul 2006). L’analisi della performance dell’Mps art market value index degli ultimi tre anni (periodo giugno 2010 - giugno 2013) mostra un rendimento complessivo positivo (+71,3%). L’arte e i gioielli confermano la loro natura di beni rifugio con rendimenti tra i più remunerativi all’interno della luxury industry. Considerando l’ultimo anno, si può osservare come le performance di tutti gli indici siano positive. Puntando lo sguardo sul semestre appena trascorso, il Mps art market value index e lo S&P500 sono gli unici indici positivi (+14% e +12,6%), mentre Mps jewels market value index e il Ftse Mib risentendo della difficoltà dei mercati finanziari assumono entrambi segno negativo (-5% e 7,2%). Dall’analisi di simulazione portafoglio emerge che l’aumento delle valutazioni garantisce una migliore performance sia in termini di rendimento che di efficienza. Per questo motivo l’investimento in arte si conferma un asset class alternativo molto interessante.


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Mps global painting art index/1 I risultati consuntivi del primo semestre 2013 mostrano un lieve calo rispetto ai precedenti sei mesi e dopo la fase di assestamento degli ultimi tre anni: il Mps global painting index (nel grafico a sinistra) è in diminuzione del -18,4%. Il mercato resta ancora lontano dal picco registrato nel 2008, favorito dal boom dell’arte contemporanea e dall’effetto valuta, e la ripresa sembra ostacolata principalmente nei segmenti a maggior capitalizzazione: Mps art pre-war index (-35,3% su a.p.) e Mps art post war index (4,6% su a.p.) in ribasso nonostante i record mondiali del semestre. Mps global painting art index/2 Il rafforzamento del Dollaro sulla Sterlina (nel grafico a destra), ha influito negativamente sulla performance complessiva dell’indice globale, anche se l’effetto è stato parzialmente compensato dalla crescita dell’euro. Il catalogo molto spesso fa la differenza: la clientela è molto più attenta ed esigente rispetto alla fase euforica del 2008. Vanno bene le opere di qualità, che reggono il peso della crisi, a conferma di un pubblico orientato con molta facilità verso i capolavori di rilevanza storica. Mps art post war index Rappresenta il comparto più colpito negli ultimi cinque anni dalla crisi del mercato: nel primo semestre 2009 l’indice era già sceso al di sotto dei livelli del 2006 (nel grafico a sinistra), i risultati del primo semestre 2013 confermerebbero un clima di lieve pessimismo sul segmento (-4,6% su a.p.). Il clima di sfiducia degli ultimi anni viene interrotto dal record ottenuto da Christie’s a maggio nell’asta serale di arte contemporanea con un totale di quasi 500 milioni di dollari (con i top lot di Pollock, Lichtenstein, Basquiat, Rothko, Guston e Richter).

Sotheby’s Londra 19 novembre All’asta una delle opere più riconoscibili dell’Ottocento europeo a livello internazionale. Si tratta del quadro Proserpina (nella foto) del pittore inglese Dante Gabriel Rossetti (18281882). www.sothebys.com

Capitolium Art Brescia 20 dicembre All’asta l’opera Senza titolo del 1993 di Vanessa Beecroft (nella foto), una tra le più accreditate artiste italiane. www.capitoliumart.it

Fonte Art market report, I° semestre 2013, n°14, Area pianificazione strategica e investor relation, Mps

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Casa di Vendite Bonino Roma 30 ottobre In vendita dipinti, disegni e multipli di artisti italiani e internazionali. Segnaliamo Danza delle Tenebre, di Arnold Böcklin (nella foto) del 1878. Stima minima: euro 5mila. www.gioiellidicarta.it Realizzazione grafica: Giuseppe Marino


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E PER FINIRE LA POESIA DELLE NUVOLE Maria Corte Groucho Marx 2012

L’ARTISTA Maria Corte nasce il 9 agosto 1983 a Barcellona, dove studia illustrazione all’Escola Massana, centro di disegno e arti visive, laureandosi nel 2009. Dopo gli studi inizia a lavorare ad alcuni progetti per l’infanzia, che l’aiutano a ricevere incarichi importanti, tra cui quelli per l’Ayuntamiento di Barcellona e per la Generalitat de Catalunya. Ha collaborato con diverse riviste, tra cui Psychologies, Diari de Tarragona, Orsai, BBC Music Magazine e Actitudes Magazine e ha realizzato copertine di libri per Ediciones del Serbal. Nel 2009 riceve il premio Injuve per la categoria dell’illustrazione, assegnato ai giovani artisti dal ministerio de Sanidad, Servicios Sociales e Igualdad.

MARIA CORTE Le fatiche di Sisifo Non ho mai avuto una filosofia rispetto all’arte; la mia più grande passione è lavorare, ma ovviamente ho anche degli interessi, tanto diversi quanto sparsi, basati sulle piccole cose che mi circondano ogni giorno e che mi

hanno accompagnata e abbandonata, inesorabilmente, da quando sono nata. Posso però apportare qualcosa di caratteristico: il fatto che i miei genitori, entrambi argentini ed esiliati durante la dittatura, sono psicanalisti e le loro teorie e il loro parallelo interesse per l’arte e la letteratura mi hanno formata sin da piccola. Il resto, come ho detto, è tutta vita

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vissuta. Da questo si ricava il mio processo di lavoro: associare concetti, fare appello all’immaginario popolare, attingere dal mio, fare bozzetti e ricominciare di nuovo. Così, dopo molti tentativi e molti fogli di carta, provo ancora finché non sono soddisfatta. Per poi ricominciare tutto da capo, Sisifo.


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