Audace, di Brock Adams

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di Brock Adams

audace


Era una borseggiatrice. Frequentava la stazione della metro tra la 34esima e Holloway, dove ogni mattina Gerald aspettava il treno sulla stessa fredda panchina di cemento. La guardava attraverso gli occhiali spessi. Era giovane, fragile e magra, emaciata, con i capelli corti arruffati, e si muoveva come uno spettro, scomparendo e riapparendo alla vista mentre la folla si accalcava. Gli faceva aspettare le mattine con impazienza. Gli dava le palpitazioni. Quando la guardava era l’unico momento in cui Gerald si sentiva vivo dal giorno in cui aveva trovato Dolores – sua moglie da cinquantatre anni – a faccia in giù nei suoi Cheerios, una domenica a colazione, morta di infarto. La borseggiatrice di Gerald indossava un paio di leggings neri coperti da una gonna corta di jeans. Aveva due giacche, una a vento sopra quella di denim; molte tasche, si immaginava Gerald. A volte indossava occhiali da sole, anche se si trovava sottoterra.


Era brava, abile, rapida e intelligente, e non era avida – è quando diventi avido che ti acchiappano. Gerald imparò i suoi schemi guardandola mentre andava al lavoro. Non proprio lavoro, a dire il vero. Dopo la morte di Dolores, e dopo il funerale e la famiglia e i visitatori casuali che portavano cibo improvvisato, destinato ad ammuffire nel frigo, si trovò ad essere solo in casa. Era in pensione da nove anni quando lei morì, e non avevano mai fatto niente di particolare. Non avevano mai viaggiato, né erano andati alle feste, e non erano entrati in alcun club del golf. Ma erano a casa insieme, vivevano vite vicine e separate, fianco a fianco. Lei era lì, una costante, un’affermazione quotidiana, come il doloretto al molare posteriore destro, o l’unghia incarnita nel dito di mezzo del piede. Una parte della vita. Andata lei, non c’era più nient’altro che una casa vuota, e ci sono un sacco di ore tra svegliarsi e addormentarsi. Gerald pulì e sistemò finché non ci fu più niente da pulire e sistemare, poi provò a riavere il suo lavoro, ma il mondo dell’edilizia era andato avanti, parecchio avanti dall’ultima volta che aveva lavorato. Nuovi laureati, ragazzini, conducevano i lavori, e comunque non era molto sicuro per un settantaquattrenne stare in un cantiere. I suoi capelli erano bianchi ormai, anche se li divideva allo stesso modo di quando aveva trent’anni. La pelle era rugosa e rovinata dal tempo. Intorno a lui tutto era nuovo. Lui stonava. Prese un ufficio in centro, una stanzetta polverosa con una grande finestra che al mattino era piena di


sole e del blu del cielo. Disse a tutti che sarebbe diventato uno scrittore freelance. Non scrisse molto – un pezzo umoristico per il giornaletto locale, un paio di incerti tentativi per un memoir – per lo più guardava fuori dalla finestra e inspirava l’aria stantia. Però gli piaceva il ritmo che dava alla sua vita, lo svegliarsi e prepararsi e andare al lavoro e tornare a casa, anche se ogni mattina diventava più difficile alzarsi da quella panchina e salire sul treno. E poi trovò la sua borseggiatrice. Seguiva percorsi che nessuno tranne Gerald conosceva. Preferiva entrare dall’ingresso sud, quello con le scale, piuttosto che prendere le scale mobili. Saltava giù per i gradini e si avvicinava ai binari, appoggiava la schiena contro una colonna di cemento. Guardava dritto nel buco nero del tunnel, ma gli occhi sfrecciavano in giro, leggeri, in cerca. Restava in piedi accanto alla colonna per qualche minuto. Quando il primo treno arrivava rombando dal tunnel, e la folla si assiepava sul ciglio della banchina, lei scivolava dentro confondendosi nella calca, e quando le porte si aprivano con un sibilo faceva la sua mossa. Gerald l’aveva vista aprire la cerniera delle borse e sganciare portafogli dalle loro catenine mentre la folla si agitava e spingeva. Aveva scippato una stilografica d’argento dal taschino di un brocker. Còlto un piccolo gioiello dalla sciarpa di una donna indiana. Poi, mentre la massa spariva dietro le porte scorrevoli e veniva trasportata lontano da lei, faceva scivolare i suoi trofei in qualche tasca nelle profondità della giacca e si dileguava dall’entrata nord, scomparendo fino al giorno dopo.


Era interessante, un diversivo, almeno per un po’, fino al giorno in cui borseggiò il poliziotto. Il poliziotto era giovane, con un’aria nervosa, e pattugliava la stazione giorno dopo giorno cacciando i barboni che chiedevano spiccioli. Un mercoledì mattina, stava in piedi davanti a un barbone. “Devi levarti, amico,” disse. Il barbone alzò lo sguardo su di lui. “Dai, bello,” disse. “Niente accattonaggio qui dentro.” “Chiudi un occhio.” “Non rendermi le cose difficili,” disse l’agente. Indossava una pesante cintura di servizio, carica di radio, pistola, manganello e altra roba da poliziotto. Ogni oggetto era tenuto fermo da cinghie di cuoio con bottoni automatici. Aprì quello dello spray al peperoncino. “Levati e basta.” Il treno arrivò rombando, le porte si aprirono e la calca si fece strada come un banco di sardine dentro le carrozze in attesa, e sotto gli occhi di Gerald la borseggiatrice si insinuò tra la gente e arrivò dietro al poliziotto, gli prese lo spray dalla cintura e sgattaiolò via dall’entrata nord. Il poliziotto mise la mano alla cintura, tastò l’aria e abbassò lo sguardo, confuso. “T’ha fregato per bene, campioncino” disse il barbone, con un sorriso di denti sporchi. Gerald si innamorò di lei quella mattina. Gerald stava in piedi al confine della folla, con una mano contro la colonna. Scorreva le dita sul cemento freddo, di tomba. La stazione della metro aveva


sempre un odore di metallo e sapone, di macchine e di gente appena uscita dalla doccia. Un uomo magro in completo stava dietro Gerald, con attaccato uno di quegli aggeggi per telefono da mettere all’orecchio, che lo faceva sembrare un robot. Urlava a chiunque fosse all’altro capo del telefono, come se urlasse nel vuoto. Due ragazzini con i cestini del pranzo sedevano fianco a fianco su una panchina. Uno diede un pugno sul braccio all’altro ed entrambi risero. Intorno a Gerald la folla ronzava, i piedi ticchettavano pungendo il selciato freddo. Lei entrò dall’ingresso sud, con gli occhiali da sole, la zip delle giacche chiusa contro il freddo di novembre. Si appoggiò alla solita colonna. Gerald la guardava con la coda dell’occhio. Poteva sentirla che si guardava intorno, che lo guardava. Fece scivolare la mano ancora più in alto sulla colonna, facendo aprire ulteriormente la giacca, con il portafoglio che spuntava dal taschino interno. Ora si vedevano tre centimetri di cuoio. Doveva averlo visto per forza. Il treno strisciò nella stazione. Le porte si aprirono. La folla si erse e spinse intorno a lui. Guardò la colonna, lei era sparita. Una donna con un bagel gli finì addosso, la crema di formaggio sul cappotto. “Scusi,” borbottò senza guardarlo. La calca lo spinse dentro la carrozza e le porte si chiusero dietro di lui. Il calore era ovunque, veniva dal riscaldamento della carrozza, dai corpi schiacciati uno contro l’altro. Caffè nell’aria. Gerald controllò la tasca. Il portafogli era sparito.


Il treno cominciò a muoversi e la stazione scivolò via dal finestrino. Gerald guardò la sua borseggiatrice che avanzava tra la folla verso l’uscita nord. Si aggrappò al sostegno metallico sopra la sua testa e sorrise mentre il treno solcava le tenebre. Graffiti scorrevano sui muri delle gallerie. Chiuse gli occhi e si immaginò la ragazza che saliva le scale fino all’aria fredda della città, filando lungo il marciapiede, la testa bassa, le mani nelle tasche mentre il vento le sbatte i capelli intorno. Gira in un vicolo e si infila in un angolo dietro a un cassonetto. Sbottona la giacca, tira fuori il portafogli e lo apre, ci fruga dentro, rimane di sasso. Niente soldi, niente carte di credito, niente documenti. Solo un pezzo di carta. Lo stringe nelle piccole dita rosate. Un lato diceBECCATA. Lo gira. Molto audace. Mi trovi domani. Si infuria, fa il broncio, accartoccia il biglietto, lo rimette in tasca. E’ furiosa. Una piccola sfera di fuoco. Gerald sorrise, sentendo i piedi che dondolavano col treno. La mattina dopo lei era lì. Appoggiata alla sua colonna, le braccia incrociate, i denti di sopra che mordevano il labbro inferiore. Fissò Gerald. Lui sedette sulla panchina e la fissò a sua volta, mentre la gente andava avanti e indietro tra di loro. La metro arrivò e andò via. Lei lasciò che la folla con tutti i suoi portafogli, borse e gioielli le passasse davanti. Poi la stazione si svuotò quasi del tutto, i cassieri si davano il cambio, il poliziotto si dirigeva fuori dall’ingresso nord, e la borseggiatrice attraversò il cemento con passo felpato, il tocco morbido delle


scarpe che echeggiava nella grande stanza. Si fermò di fronte a lui e incrociò di nuovo le braccia. “Cosa voleva dire?” disse. Gerald le sorrise. Poggiò le mani sulla panchina e si piegò indietro, una gamba accavallata sull’altra. “Sorpresa?” disse. “Hai intenzione di denunciarmi?” “Non era questo che avevo in mente” “Cosa vuoi allora?” Guardò le sue scarpe. Indossava un paio di ballerine nere. “Ti vedo ogni mattina,” disse. “Volevo solo un po’ di compagnia, immagino.” “Vuoi provarci con me?” “No.” “Quanti anni hai?” “Non voglio provarci con te.” “Ok.” Guardò in giro per la stanza. Un custode gironzolava con uno di quegli artigli per acchiappare le cose, tirando su bicchieri di caffè e involucri di barrette alla frutta. Lei sedette accanto a Gerald e tirò fuori dalla tasca il pezzo di carta appallottolato. Lo guardò, lo voltò, rigirandolo tra le dita. “Che significa audace?” “Non l’hai mai sentito prima?” “No.” “Significa coraggioso, avventuroso.” “Molto audace.” “Già.” Le porse il biglietto. Lei lo piegò e lo infilò ordinatamente in una tasca. Si guardò i piedi. Spinse i capelli dietro le orecchie. “Mi chiamo Gerald,” disse Gerald. Lei annuì. “Tu come ti chiami?” Lei si leccò le labbra. “Pensi che sia audace?”


“Certo.” “Allora chiamami solo Audace.” “Non hai un nome?” “Non ho intenzione di dirtelo.” “Beh, Audace è un po’ lungo come nome.” “Allora accorcialo, come ti pare. Non te lo dico il mio vero nome.” Si alzò in piedi. “Accorciarlo? Tipo Audi?” Stava in piedi di fronte a lui, si allacciò le giacche, prima quella di denim, poi la giacca a vento. “Come una macchina?” “Come una versione corta di Audace.” “Va bene. Audi.” Si voltò, diretta all’ingresso nord. “Ci vediamo domani?” disse Gerald. La sua voce rimbalzò sui muri della stazione. Lei infilò le mani nella giacca e scomparve alla sua vista. La mattina dopo le portò il caffè. Audi rimase in piedi dall’altra parte della stazione, fissandolo, finché il treno partì, poi si avvicinò e si sedette accanto a lui. Non disse una parola. “Ho pensato che ti piaceva dolce. Ci ho messo un sacco di zucchero. E di crema,” disse Gerald. Lei lo prese. “Grazie,” disse. Fece un sorso, si leccò le labbra. “Sai, sono due giorni di fila che vado in bianco a causa tua.” “Oops.” “Dovrai darmi una mano se continui così,” disse. Gli sorrise. Vide le gengive dei denti superiori, rosa e tenere. I suoi occhi scuri scintillavano. Gerald si sentiva riempire tutto. “Il caffè te l’ho portato,” disse. “Cos’altro vuoi?”


“Penserò a qualcosa.” Per due settimane lei andò lì ogni mattina. Gerald perdeva il treno per parlarle. Arrivava tardi in ufficio ogni giorno. Non che ci fosse qualcuno ad accorgersene. Audi gli parlò di sé. Aveva ventidue anni, e aveva badato a sé stessa da sola per gli ultimi sei. Era finita in strada quando il suo ragazzo l’aveva lasciata. Lui aveva una casa, e l’aveva pregata di andare a vivere con lui. Lei l’aveva fatto, e un mese dopo lui ne aveva avuto abbastanza di lei. “Prendi la tua roba del cazzo e vattene, questo è tutto quello che mi ha detto,” disse Audi, rigirando il bicchiere di caffè tra le mani. “Sapevo che i miei non mi avrebbero ripreso, erano incazzati perché me ne ero andata. Così andai in centro per stare da un’amica. Mi disse che non c’era posto, ed ecco qua. Ho cominciato a dormire qui.” Mosse il braccio, a indicare la stanza grande e vuota. “Nella stazione?” disse Gerald. “Là dietro quei distributori automatici. E’ caldo lì, i distributori fanno caldo, e c’è posto. E i poliziotti lì non ci guardano.” “Non è il posto più comodo del mondo, però.” “No.” Bevve il caffè e guardò i distributori. “Ma sono rimasta da queste parti abbastanza a lungo per capire la gente. E ho cominciato a fregargli la roba. E’ facile. E ho guadagnato abbastanza per pagare un sesto dell’affitto di questo posto.” Gli disse dell’appartamento, un posto in centro dove stava con un’altra mezza dozzina di persone della sua età, un


flusso costante di occupanti che sparivano e altri che arrivavano. Dormiva sul pavimento della cucina. L’affitto era basso. “E sei felice lì?” disse Gerald. “No.” Si sporse in avanti, il bicchiere di carta le penzolava dalle dita. Contrasse il viso e guardò a terra. Le giacche le si gonfiavano intorno alle spalle, alla schiena. Gerald tenne la mano dietro di lei, un centimetro dalla sua schiena, ci pensò, la guardò, e alla fine appoggiò il palmo gentilmente sulla sua giacca. “Sai, io ho dello spazio libero, se mai ti servisse un posto dove stare,” disse. “Non ho intenzione di fare sesso con te.” “Non ti sto chiedendo questo.” “Sei vecchio abbastanza per essere mio nonno.” “Probabilmente sì.” Lasciò la mano sulla sua schiena mentre un altro treno arrivava e partiva. Il giorno dopo Audi non c’era più. Sedette sulla panchina con un bicchiere di caffè in ogni mano e guardò quattro fiumane di persone entrare in quattro treni. Poi andò a casa. Col trascorrere del mese, la città divenne scura, grigia e gelida. Le strade erano lustre e gli alti palazzi sembravano essere stati ritagliati nel cartone umido e appiccicati contro il cielo. Ogni mattina Gerald sedeva nella stazione, esaminando la banchina in cerca di lei, scrutando la folla in cappotto elegante e ventiquattrore. Notò donne con borse che pendevano lente e aperte dalle spalle. Uomini che urlavano nei cellulari con le


valigette incustodite dietro di loro. Un ricco tesoro di obbiettivi. E nessuna traccia di Audi. Gerald osservò dalla finestra del suo ufficio l’inverno che irrompeva rapido e freddo. La neve cadde obliqua e si raccolse in cumuli sporchi lungo i bordi dei tetti. I piccioni dapprima si accalcarono sulle travi, e alla fine scomparvero tutti insieme. Gerald provava a riempire le ore della giornata. Controllava i suoi conti. Faceva le parole crociate. Scrisse, baloccandosi con storie diverse, racconti inverosimili la cui protagonista era sempre una bella borseggiatrice. Per lo più si limitava a guardare dalla finestra. Si chiedeva se l’appartamento di Audi avesse il riscaldamento. Si chiedeva innanzitutto se davvero avesse un appartamento. Passava dal mercato vicino casa ogni giorno, mentre tornava. Gli piaceva mettere le mani sulle verdure fresche, soppesare i frutti maturi. Camminava lento, prendendosela comoda, progettando i suoi pasti mentre si aggirava per i corridoi. Questo occupava tempo. Anche portare la spesa a casa e cucinare qualcosa faceva passare la serata. Quando tutto era stato mangiato e ripulito era quasi ora di andare a letto, e un altro giorno era finito. Una settimana prima di Natale. Stava rosolando le cipolle quando sentì bussare. Lasciò le cipolle a sfrigolare nella padella e andò alla porta. Audi era lì, con il freddo vento invernale che le soffiava intorno, le mani sprofondate nelle tasche, le ballerine umide di neve sporca. Guardò a terra, fece dei disegni nella fanghiglia con il piede. “Ciao,” disse.


“Ciao,” disse Gerald. Si fece da parte e lei entrò. Mise su una caffettiera, poi fece una grande frittata con otto uova, peperoni verdi, cipolle, salsiccia affumicata a fettine. Audi sedette al tavolo della cucina con le mani giunte davanti a sé, senza parlare. Lo guardava cucinare. Tagliò in due la frittata con la spatola e ne mise metà su un piatto, che pose di fronte a lei. Si sedette con l’altra metà e cominciò a mangiare direttamente dalla padella. Audi fissava il suo piatto. “Non ti piacciono le uova?” disse Gerald. “Vanno bene,” disse lei. “E’ solo che sembra così bella. Non voglio rovinarla.” “E’ solo una frittata.” “Ne è passato di tempo dalla mia ultima frittata.” Mangiò e gli raccontò la storia, di come era arrivata a casa, all’appartamento e aveva trovato la porta sbarrata con delle assi, e nemmeno conosceva il padrone di casa, e non aveva idea di cosa fosse successo. Aveva trovato uno dei suoi coinquilini su una panchina nel parco. Lui le aveva detto il resto. “Droga o qualcosa di simile,” disse Audi. “Il tizio mi ha detto che la polizia era venuta e li aveva beccati, e dopo il padrone aveva cacciato fuori tutti. Sbarrato la casa. Diceva che ne aveva avuto abbastanza di affittare a ragazzini buoni a nulla.” “Peccato,” disse Gerald. “Davvero non è colpa tua.” “Hmm.” Finì il piatto, lui glielo tolse e lo mise nel lavello. Le versò una tazza di caffè e si sedette di nuovo al tavolo. Lei teneva la tazza stretta fra le mani. “Come hai trovato casa mia?” disse Gerald.


“Ti ho seguito un giorno, qualche settimana fa.” Spinse indietro i capelli. Guardò la tazza, poi Gerald, poi di nuovo la tazza. “Avevi detto che potevo venire se ne avevo bisogno.” “Lo so. E puoi farlo quando vuoi. Mi chiedevo solo come.” “Non voglio disturbare.” “Non disturbi.” Bevve il caffè. “Il cibo era buono,” disse. Sedettero al tavolo in silenzio, bevendo il caffè. Fuori, la neve cominciò a cadere di nuovo, ammucchiandosi sul davanzale come silenziose piume bianche. Il ghiaccio ricopriva i vetri. Il riscaldamento si accese con un rantolo e l’aria calda soffiò attraverso la cucina. Audi strizzò la scarpa contro le mattonelle. “Vuoi dei vestiti asciutti?” disse Gerald. Lei annuì. Gerald la lasciò al tavolo e andò di sopra. Aveva un camerino per i vestiti nella stanza da letto; il lato destro era pieno delle sue cose, su quello sinistro tutti gli abiti di Dolores erano ancora appesi dove lei li aveva lasciati. Lui non riusciva a decidere cosa farne. Le scarpe erano allineate in ordine contro la parete, eccetto un paio di pesanti stivali marroni – le ultime che aveva indossato – gettate alla rinfusa nell’angolo, esattamente dove lei le aveva lasciate. Fece una scelta di camicette e pantaloni e portò tutto al piano di sotto. Audi era seduta sul divano in soggiorno quando tornò. Gerald appoggiò i vestiti sul tavolino di fronte a lei.


“Molto retrò!” disse, tastando le maniche a volant di una camicetta rosso scarlatto. “Dove hai preso tutta questa roba?” “Era di mia moglie,” disse Gerald. Audi annuì e guardò i vestiti. “E’ morta qualche anno fa,” proseguì. “Di cosa?” “Infarto.” Audi prese un paio di pantaloni sportivi marroni e si alzò in piedi. Tenne i pantaloni davanti a sé e guardò in basso, alzò la gamba, agitando le dita dei piedi. “Ti manca?” Lui annuì. “Spesso.” “Metterò questi,” disse lei. Prese la camicetta scarlatta e i pantaloni marroni e andò in bagno. Rimase lì dentro a lungo. Gerald accese la TV. C’era una replica dell’A-Team. Mr. T stava picchiando qualcuno. Gerald abbassò il volume. “Come si chiamava?” disse Audi. Era in piedi nel vano della porta, sottile, pulita e giovane nei vestiti di sua moglie. “Chi?” “Tua moglie.” “Oh. Dolores. Si chiamava Dolores.” Audi guardò il proprio riflesso nella finestra scura. “Molto bello,” disse, flettendo il braccio, girandosi e alzandosi in punta di piedi. La neve, fuori, scendeva silenziosa e pesante. Quella notte rimase nella stanza degli ospiti. Gerald tirò giù le lenzuola dal ripiano alto dell’armadio e


fece il letto mentre lei stava sulla porta a guardarlo. Gli sorrise. “Sei piuttosto bravo, per essere un uomo.” “Ho dovuto imparare,” disse Gerald. Rincalzò le lenzuola sotto gli angoli del letto. “Il mio ex ragazzo era totalmente incapace. Aveva sempre bisogno del mio aiuto.” Sedette ai piedi del letto. “Era una vera rottura di coglioni.” Gerald appoggiò i cuscini alla testiera. “C’è una TV,” disse, “se vuoi guardare la TV, ma non ho quella via cavo o cose simili, e non so dov’è il telecomando.” Audi strisciò fino alla cima del letto e si sistemò sui cuscini. “Va benissimo,” disse. “Credo che mi metterò direttamente a dormire. Sono stanca.” Gli sorrise. La sua pelle era chiara, le guance calde e rosa. I capelli le cadevano sulle sopracciglia e si spandevano dietro di lei sul cuscino. Gerald si ritirò. “Ok, allora,” disse. “Buonanotte.” Tirò la porta dietro di sé. Il giorno dopo si svegliò alle sette e si vestì. Socchiuse la porta della camera di Audi e gettò uno sguardo dentro. Lei dormiva, sotto le coperte, eccetto per una gamba, una lunga gamba soda che si allungava fuori dal letto, sul pavimento, nuda e rosata. I pantaloni di Dolores giacevano sul pavimento accanto al letto. Gerald osservò la pelle di Audi mentre si muoveva nel sonno. Scosse la testa e chiuse la porta. In ufficio, per la prima volta da settimane, sentì l’urgenza di scrivere. Prese dal cassetto il suo ultimo tentativo di memoir e lesse la prima pagina. Lo stile era scadente, monotono. Era una scena noiosa, una recita scolastica di molti anni prima, della terza


elementare. Piegò le pagine a metà, le gettò nella spazzatura e infilò un foglio nuovo nella macchina da scrivere. Cominciò a scrivere, stavolta, iniziando il racconto con la morte di Dolores. Scrisse col fuoco, con parole che crepitavano sulla pagina come fulmini. Vide sé stesso rotolarsi sulla parte vuota del letto, gustando lo spazio libero, ficcando il volto nel cuscino mentre il sole avanzava gentilmente dalle finestre. Poi alzarsi tardi, trascinarsi con passo incerto di sotto, dove i capelli di Dolores erano sparpagliati sul tavolo, le sue mani dondolavano flosce lungo i fianchi, il latte gocciolava lentamente sulle piastrelle. E poi Audi, una sfera di fuoco nella casa vuota. Mise via le carte e si diresse a casa. Quando tornò, lei era lì. Stava sul divano, con un altro vestito di sua moglie, una vecchia tuta. Aveva fatto i popcorn e si era accoccolata sotto le coperte, guardando la TV. “Ti diverti?” disse Gerald. “E me lo chiedi?.” Si sedette accanto a lei. Lei scivolò più vicino. Prese un cuscino dal fondo del divano e lo poggiò sul grembo di Gerald, poi ci mise sopra la testa e si voltò su un fianco per continuare a guardare la TV. Stava guardando un video musicale. “Che hai fatto oggi?” “Questo,” rispose. “Tutto il giorno. Gironzolato un po’. E’ stato divertente.” Rise. Era la prima volta che sentiva la sua risata, un suono come di campanelle tintinnanti che nasceva nel petto e si faceva strada


rimbalzando fino alla lingua. A Gerald fece salire un formicolio su per la schiena. “E tu?” chiese. “Ho scritto un po’.” “Di cosa?” “Di te.” Si voltò sulla schiena e lo guardò. “Stai scrivendo di me?” “Già.” Guardò la TV. Il gruppo suonava in un magazzino. Poteva sentire i suoi occhi su di lui, freddi e intensi. “Sarà meglio che mi fai emozionante. Non voglio essere un personaggio noioso.” “Non lo sei.” “E devo essere carina,” disse. Poi si rigirò verso la TV. Rimase con lui. Gerald andava in ufficio e scriveva, tornava a casa e le parlava della sua giornata. Passava tutto il giorno desiderando il momento in cui sarebbe stato sul divano con lei, sentendo il peso della sua testa sul suo grembo, il respiro di lei così vicino al suo viso. Rimase a casa il giorno di Natale. Stava facendo dei biscotti quando Audi scese, intorpidita e con gli occhi assonnati. “Felice Natale,” disse Gerald. Audi sedette al tavolo e sbadigliò. “Non dire felice Natale,” disse. “Suona come una pubblicità.” “Cosa vuoi che dica?” “Che ne dici di buon Natale, come per ogni altra festa?”


“Benissimo, buon Natale. Miele o marmellata? Sui biscotti.” “Miele.” “Buona scelta.” Mise i biscotti in forno, prese il miele dalla dispensa e lo posò sul tavolo davanti a lei. “Ci metteranno un paio di minuti a cuocersi.” “Ti ho fatto un regalo di Natale,” disse lei. Guardò il tavolo torcendosi le mani. “Non sono sicura che ti piacerà.” “Che cos’è?” “Prometti che ti piacerà? O per lo meno, che dirai che ti piace?” “Prometto che per lo meno dirò che mi piace.” “Sei un furbacchione,” disse lei. Corse di sopra e tornò con una busta di carta marrone, che porse a Gerald. Sedette di nuovo al tavolo, in attesa. Gerald aprì la busta. Dentro c’era una cornice. La tirò fuori. Dentro la cornice c’era il pezzo di carta che aveva messo nel portafogli per lei, girato dal lato con scritto audace. Audi aveva preso dei pastelli e aveva ripassato le pieghe che si erano formate quando aveva accartocciato il biglietto, poi aveva colorato le sezioni con colori diversi. Aveva un aspetto simile a quello che potrebbe avere la terra secca, screpolata del deserto se qualcuno la trattasse col pennello. La parola audace era tracciata in rosso splendente. I colori erano amplificati dal vetro della cornice. Gerald la rigirò tra le dita. “Ti piace?” disse Audi. “E’ stupenda,” disse Gerald. La mise dritta sul tavolo davanti a sé. “Lo giuri?”


“E’ stupenda.” La guardò. Era arrossita, il viso rivolto lontano da lui. “Io non ti ho preso niente,” disse. “Posso prenderti qualcosa.” “Non devi,” disse lei. “Hai fatto tanto.” Passarono tutto il giorno sul divano, guardando i programmi natalizi – Rudolph la renna, Frosty il pupazzo di neve, l’Isola dei giocattoli perduti – finché fuori non si fece buio e la neve cominciò a cadere. Gerald salì di sopra e si mise a letto. Chiuse gli occhi. Non sapeva da quanto tempo fosse addormentato quando entrò Audi. La sentì appena fu nella stanza. Gerald la guardò. Indossava una t-shirt e le mutandine. Avanzò in punta di piedi sul tappeto, fino al lato del letto, poi sollevò leggermente le coperte e ci si infilò sotto. Si rannicchiò vicino a lui, mise una gamba nuda sulla sua. Le sue gambe erano lisce e morbide al tatto. Tirò in alto il braccio di Gerald, sopra la testa, e mise la testa sul suo petto, avvolgendogli lo stomaco con un braccio. Gerald sentiva i suoi capelli sul mento. Sentiva le ciglia sul petto. I suoi muscoli si irrigidirono. “Sei stato davvero dolce con me, Gerald,” disse. Gerald fece ricadere lentamente il braccio. Lo mise intorno a lei e la tirò vicino a sé. Audi lo circondò con la gamba, stringendolo. “Potrei innamorarmi di te,” gli disse. “No che non puoi,” sussurrò lui. Respirò i suoi capelli; sapevano di miele, mela e pelle. Poi la baciò sulla testa. Audi lo guardò, gli occhi come punti scuri nell’oscurità della stanza. Avanzò a poco a poco e lo baciò sulla bocca, due volte, soffice come una piuma. Poi appoggiò la testa sul suo petto e si addormentò.


Gerald fissò il soffitto e rimase in ascolto del suo respiro. Si svegliò con il sole che splendeva sulla faccia di Audi. La scosse. Lei si stiracchiò e sbatté gli occhi, guardandolo. “Ehi,” disse. “Alzati,”, disse Gerald. “Voglio portarti in un posto. Regalo di Natale in ritardo.” Lei si rivoltò sulla schiena, allontanandosi da lui, e si tirò le coperte sulla faccia. “Ho ancora sonno,” disse, con gli occhi che sbucavano dal copriletto. “Vuoi che ti prepari qualcosa per colazione?” “Fammi altri biscotti,” disse. “Ma falli in silenzio.” Gli sorrise, poi si ributtò a letto coprendosi la testa col cuscino. Gerald andò di sotto e guardò in frigo. Aveva finito il latte. Si infilò gli stivali, il cappotto e il cappello e uscì fuori. L’aria frizzante gli pizzicava le narici. Il sole scintillava sui ghiaccioli che pendevano dal cornicione di casa sua. Mise le mani in tasca e raggiunse a piedi il supermarket. Le porte elettriche si aprirono e lo investirono con un bagno di calore e luci fluorescenti. Sorrise al cassiere e andò a prendere un cartone di latte dallo scaffale. Lo rigirò in mano, controllò la data di scadenza. Guardò il retro del cartone, dove mettono gli annunci dei bambini smarriti. La foto di Audi era stampata con inchiostro sbaffato sotto le informazioni nutrizionali. Gerald la fissò. Gli occhi di lei restituirono lo sguardo dal cartone freddo. Nikki Tyler, sedici anni, scappata


di casa, scomparsa dall’età di quattordici. Altezza. Peso. Numero e indirizzo dei genitori. I suoi genitori vivevano appena quarantacinque minuti fuori città, meno di un’ora da casa di Gerald. Mise il cartone sullo scaffale e ne scelse uno diverso, con la foto di un bambino nero, lo comprò e lo portò a casa. Audi stava sul divano a guardare Ok, il prezzo è giusto! “Ci hai messo un po’, eh”, disse. Si era arrotolata le coperte intorno, solo la testa sbucava fuori, gli occhi incollati alla TV. Il suo naso di profilo era piccolo, le labbra sottili e rosa. Si voltò verso di lui, gli sorrise. “Ti sono mancata?” Gerald palleggiò il latte da una mano all’altra. “Da morire,” disse. Fece i biscotti e ne mangiarono un po’ davanti alla TV, poi prepararono un pranzo al sacco e si misero in macchina, diretti a nord sulla statale. Le strade erano vuote. La neve fresca intorno a loro era piatta, allisciata quasi ovunque, ma in alcuni punti il vento l’aveva sbattuta fino a darle l’aspetto di una meringa appuntita. Il cielo era di un blu intenso, lontanissimo. Audi teneva il naso premuto contro il finestrino mentre procedevano. “Dove andiamo?” disse. “Ultima Thule,” disse Gerald. “Che?” “La fine della Terra.” Accostarono in un’area parcheggio accanto a un grande lago ghiacciato. Gerald uscì dalla macchina, aprì il bagagliaio e tirò fuori una coperta e il cibo. Si


diressero verso il lago. Gerald spostò delicatamente il piede dalla sabbia al ghiaccio; era stabile. “Attenta,” disse. Prese la mano di Audi nella sua. Camminarono sul ghiaccio, lasciando impronte profonde sulla neve fresca. “E’ come camminare sulla luna,” disse Audi, la mano stretta alla sua, calda, con gli occhi che scrutavano il panorama azzurro. I suoi piedi erano leggeri sul ghiaccio. Ad un centinaio di metri dalla riva, Gerald stese la coperta e si sedette. Porse un sandwich ad Audi. Mangiarono guardando il lago. Il ghiaccio era incrinato e frantumato non lontano da dove sedevano, e c’erano grosse aperture piene d’acqua. Blocchi di ghiaccio blu-argento e bianchi si erano staccati e andavano alla deriva, allontanandosi sempre più verso il blu dell’orizzonte. “Ci portavo sempre mia moglie qui,” disse Gerald. “Le piaceva. Diceva che era come se il mondo provasse a rimanere unito, ma era troppo forte. La forza di attrazione di qualsiasi cosa ci sia fuori dal mondo era troppo grande, e costringeva la terra a spezzarsi e andare alla deriva.” “E’ davvero bello,” disse Audi. “Diceva che quando eravamo qui era come se fossimo seduti al limite estremo.” Audi annuì e masticò il sandwich. Prese la mano di Gerald nella sua, la tenne in grembo e la strinse forte. L’aria era fredda e immobile. Gli uccelli d’acqua schiamazzavano sul bordo del lago. Il ghiaccio scoppiettava e gemeva.


“Audi,” disse Gerald, “che hai intenzione di fare?” Guardò gli uccelli che piluccavano nella neve. Sentiva che Audi lo stava fissando. “Cosa intendi?”, disse. “Intendo, della tua vita” Sentì che metteva anche l’altra mano sulla sua, chiudendo nei pugni la sua mano ruvida. “Non ti mancano i tuoi genitori?” “Erano cattivi con me, Gerald.” “Lo erano davvero? E’ per questo che te ne sei andata?” Gli strinse le mani. “Non voglio mentirti,” disse. Guardarono il ghiaccio che galleggiava sull’acqua profonda. Si avviarono verso casa mentre il sole cominciava a scendere. Il cielo era pulito, senza una nuvola; il sole colorava l’orizzonte di uno splendente giallo arancio, con la luce che si rifletteva sulla neve e sul ghiaccio. Audi si abbandonò sul sedile del passeggero e chiuse gli occhi. “Mi fermo qui a quest’area di servizio,” disse Gerald. Audi borbottò qualcosa, la voce carica di sonno. “Devi fare pipì?” Audi scosse la testa. Gerald uscì dalla statale e parcheggiò nell’area di servizio. Lasciò la macchina accesa con il riscaldamento in funzione. Andò in bagno, uscì e rimase in piedi al freddo, guardando il proprio respiro che formava nuvolette davanti alla sua faccia. Nel parcheggio, una famiglia stava sistemando il carico di un furgone. Gerald si sgranchì la gamba destra, poi la sinistra. Erano irrigidite dalla guida. Misurò con passi lunghi l’area di servizio. Si spinse fino alle macchinette delle


bevande e prese una coca. La aprì, fece un sorso e tornò al chiosco con le mappe e gli annunci. Esaminò le offerte di assicurazioni auto e lavori per arricchirsi in fretta. Nell’angolo in alto a destra c’erano sei pezzi di carta con foto di persone, volantini che segnalavano bambini scomparsi, l’equivalente, in un’area parcheggio, del retro del cartone del latte. Quello di Audi era al centro. Lesse di nuovo l’indirizzo dei suoi genitori, guardò la macchina parcheggiata. Le luci erano accese e il vapore usciva delicatamente dal cofano. Nel bosco, dietro, la neve caricava le fronde degli alberi. I rami scricchiolavano per il ghiaccio. Audi dormiva nel sedile del passeggero. La bocca era socchiusa e la tempia destra poggiava contro il finestrino. Teneva le gambe contro il petto e le mani infilate nelle maniche della camicetta. Gerald alzò il riscaldamento e guardò fuori dal finestrino. Il buio davanti a lui divenne più chiaro mentre la notte scura come l’inchiostro scivolava via, e poi comparve la città, luminosa e concreta davanti a loro. Gerald lasciò la statale e si diresse verso le periferie. Guidava lentamente, ispezionando le case buie in cerca dell’indirizzo. Le case erano piccole e rovinate dal tempo; le strade erano fiancheggiate da alberi nudi come spettri. Il vento fuori si era alzato e raccoglieva da terra i fiocchi di neve, facendoli turbinare in aria. Si agitava ululando intorno alla macchina. Audi si svegliò. Sbadigliò e si grattò il naso, guardandosi intorno. Fissò lo sguardo fuori dal finestrino. “Cosa stiamo facendo qui?” disse.


Gerald non rispose. Mise gli abbaglianti per vedere attraverso i vortici di neve. “Gerald. Cosa stiamo facendo?” Lo stava guardando male. I suoi occhi incidevano buchi perfetti sul lato della sua testa. “Ti porto a casa,” disse Gerald. “Non vivo qui.” “Ti riporto dai tuoi genitori, Nikki.” Audi si raddrizzò sul sedile. “Figlio di puttana,” disse. “Lo sapevi? Da quanto lo sapevi?” “Solamente da poco-” “Era tutto un piano? E’ un trucco? Il tuo trucco per riportarmi dai miei?” Si mise in ginocchio sul sedile, una mano sul cruscotto, l’altra sul poggiatesta, e avvicinò la faccia a quella di Gerald, urlando. “Ti danno una ricompensa o cosa? Sei una specie di cacciatore di taglie?” “L’ho scoperto solo oggi,” disse Gerald. Si fermò ad uno stop e la guardò. “L’ho appena scoperto.” “Non voglio tornare. Ti ho detto che erano cattivi con me.” Gerald sospirò. “Lo so, Audi. Ma mi hai detto un sacco di cose.” “Figlio di puttana.” “Voglio solo fare quello che è meglio per te,” disse. Fece per ripartire. “Ferma la macchina,” disse Audi. “Cosa-“ “Ferma la macchina!” gli urlò nelle orecchie. Gerald si fermò e Audi si rimise a sedere. Guardò fuori dal parabrezza. Il vento faceva ondeggiare la macchina e la neve disegnava forme vaporose nell’aria scura.


“Chi diavolo sei per dire cosa è meglio per me?” disse. Gerald rimase seduto in silenzio per un momento. Il motore vibrava; la neve si scioglieva sul cofano. L’aria del riscaldamento gli arrivava in faccia calda e stantia. “Non lo so. Non lo so.” Non lo guardò. Fissò le sue scarpe. Dopo un po’ disse, “Non vuoi tenermi?” Era così piccola nel sedile. Teneva di nuovo le ginocchia dentro la camicia. “Lo sai che non posso, Nikky,” disse Gerald. Si voltò verso di lui. Gli occhi erano pezzi di carbone umido. “Smettila di chiamarmi così,” disse. Aprì la porta e il freddo si insinuò nella macchina. Uscì, si allacciò la giacca stringendosela addosso, e sbatté la porta dietro di sé. Si avviò per la strada. Gerald allungò la mano verso i comandi centrali e si affannò ad abbassare il finestrino. “Nikki,” le urlò dietro. “Nikki, aspetta. Audi! Audi.” Controllò l’incrocio, innestò la marcia e svoltò l’angolo dietro di lei, ma quando alzò lo sguardo lei era andata, scomparsa nelle tenebre, nel vento e nel freddo. Gerald arrivò a casa, l’appartamento era vuoto e silenzioso. Di sopra, i vestiti di Dolores, quelli che Audi aveva indossato, erano sparpagliati sul pavimento. Il letto era sfatto. Lasciò tutto lì. In cucina, gli avanzi dei biscotti stavano nel lavello. Il suo regalo di Natale, la creazione artistica di Audi, audace, era poggiata sul tavolo della cucina. La prese, la portò in soggiorno e la sistemò sopra la TV. Il vento, fuori, si era calmato e la neve cadeva di nuovo. Si avvolse in una coperta e sedette sul divano,


con gli occhi chiusi. Il riscaldamento si accese. Gerald lo ascoltò ticchettare, scattare e brontolare, mentre il calore si insinuava nelle stanze deserte. [traduzione di Davide Martirani]

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I racconti di Brock Adams sono stati premiati al concorso di narrativa universitaria indetto da Playboy nel 2008, e all’Hub City fiction contest. Le sue storie sono state pubblicate in varie riviste letterarie, tra cui Acapella Zoo, Eureka Literary Magazine e Barrelhouse. Cose che puoi fare con un barattolo di zuppa Campbe" (Round Robin editore) è la sua prima raccolta. Adams si è laureato in scrittura creativa alla University of Central Florida nel 2008. Vive con sua moglie Jill a Spartanburg, South Carolina, dove entrambi insegnano inglese alla University of South Carolina Upstate.


inut ile

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