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inut ile35 luglio 2010


INUTILE opuscolo letterario luglio 2010, numero 35

supplemento al #1510 di PressItalia.net, registrazione presso il Tribunale di Perugia #33 del 5 maggio 2006 pubblicazione mensile a cura di INUTILE » ASSOCIAZIONE CULTURALE la redazione viviana capurso {ufficio stampa} ferdinando guadalupi gabriele naia virginia paparozzi nicolò porcelluzzi {ufficio stampa} alessandro romeo {responsabile editoriale} matteo scandolin {grafica e impaginazione} in questo numero racconti di sheila heti, danilo deninotti, francesco cozzolino e marco grasso, andrea maggiolo lʼimmagine di copertina è di alice socal {http://vuotoincipiente.blogspot.com/} questo numero è a cura di alessandro romeo e matteo scandolin, ma non esisterebbe senza maria giulia nuti e mauro piergentili: la redazione li ringrazia di cuore le traduzioni dei racconti di sheila heti sono a cura di nicolò porcelluzzi ed elisa sottana stampato presso Le Colibrì - Agenzia di stampa, Gubbio {info@agenzialecolibri.com} wild wild web www.rivistainutile.it, www.associazioneinutile.org, www.sheilaheti.net, www.eleanorerigby.com, www.micronarrativa.com

Il presente opuscolo è diffuso sotto la disciplina della licenza CREATIVE COMMONS Attribuzione - Non commerciale Non opere derivate 2.5 Italia. La licenza integrale è disponibile a questo url: http://tinyurl.com/8g7sw5.


alcune avventure del giovane fornicatore di sheila heti Erano due settimane che il padrone di casa chiedeva al giovane fornicatore l’affitto. Ogni volta che bussava si sentiva rumore e poi più niente. Il padrone era furioso e sua moglie lo schiaffeggiava. La conseguenza era che il padrone si aggirava in cerca della sua preda in cortile, al piano del giovane fornicatore e nell’ingresso principale. Il fornicatore riusciva sempre a eluderlo, e la moglie del padrone lo sgridava per cose relative alla loro vita coniugale, la casa e il compleanno di loro figlia Beth. A sedici anni Beth era un po’ troppo ossuta, ma a diciotto aveva un bel seno e il tipo di personalità che anche le giovani donne emancipate si sognavano e usciva con tre ragazzi del suo college.

˜ Per il giovane fornicatore era il giorno libero e se ne stava a letto con una ragazza. I capelli della ragazza erano lunghi e se li stava arricciando intorno alle dita quando all’improvviso lui si alzò e andò a guardare fuori dalla finestra. Il giovane fornicatore iniziò a raccontare una storia. «Mi è già capitato di vedere la figlia del padrone di casa e tutte le volte aveva un’espressione così insulsa che mi è venuto naturale pensare fosse un po’ stupida. Un giorno ero al parco e lei era seduta su una panchina, quando questo bambino antipatico le si avvicinò.» «Cosa stai cercando di dirmi?» chiese la ragazza, attenta e possessiva per via di quel riferimento a un’altra donna. «Non so.» Il giovane fornicatore si allontanò dalla finestra. Da qualche parte nel racconto la storia si era persa. Non sapeva dov’era finita. La ragazza suggerì di divertirsi ancora un po’ e così fecero, anche se il giovane non era molto preso; la sua mente restava sulla figlia del padrone di casa.


˜ Beth se ne stava all’angolo sotto un sole cocente ad aspettare l’autobus, era parecchio che aspettava. C’era del sudore sotto le braccia. Il giovane fornicatore arrivò camminando lungo la strada. Lo ricollegò subito alla stanza che suo padre affittava. Lui biascicò un ciao e si sedette sullo schienale di una panchina e la guardò, ma lei non rispose. Vedeva già troppi uomini. Il giovane fornicatore si schiarì la voce, poi fece una domanda. «Cosa?» disse lei, irritata. Parlava così piano! «Niente» mormorò lui. Lei non si lasciò impressionare ed esclamò: «Oggi è il mio compleanno e mio padre si è dimenticato di prendermi una torta. Che idiota! Sai cosa significa per me? Me ne aspettavo una bella, blu: glassa blu fuori e cioccolato dentro. Che idiota!» Il giovane fornicatore non sapeva cosa dire. Arrivò l’autobus e Beth salì. Il giovane tornò al suo appartamento.

Nel suo letto trovò un’amica di sua madre. Le passò davanti e si fermò alla finestra e accese una sigaretta. Lei lo guardava con gli occhi rossi. «Pensi a me solo come a un’amica di tua madre. È per questo che non vieni a letto con me? Sono ancora giovane!» L’amica di sua madre scoppiò a piangere e affondò la testa nel cuscino, gemendo. Lui soffiò fuori il fumo. Si era stancato di queste donne. E che il padrone venisse pure a prendersi l’affitto, se voleva! Mezz’ora dopo mandò via la donna e si sedette sul divano aspettando il momento in cui il padrone di casa avrebbe bussato. Come previsto il padrone arrivò, e lui aprì la porta e se lo vide davanti con uno sguardo furioso sul volto e una padella tremante in mano. «Voglio il mio affitto! Dov’eri finito?» Il giovane fornicatore invitò il padrone ad entrare e lo fece accomodare vicino alla finestra mentre cercava nelle tasche della giacca il suo portafoglio. Quando si avvicinò al padrone con i soldi, un improvviso raggio di sole brillò sul padrone, e in quel momento il padrone assomigliò così tanto a sua figlia che il fornicatore sentì la spinta.


«Da’ qua» disse il padrone, e il giovane lasciò che le banconote venissero strappate dalla sua mano, e vide, sopra la spalla del padrone di casa, la giovane Beth arrivare dal vialetto verso la bianca e ripida salita. «Sua figlia è qui» disse il fornicatore. Il padrone di casa si voltò per guardare dalla finestra. Mise le banconote in tasca. Lei aveva in mano una borsa, e nella borsa c’era una scatola, e nella scatola c’era una torta al cioccolato coperta da una scintillante glassa blu.

il conciliatore di sheila heti Il conciliatore era molto fiducioso in quei giorni, avendo appena ricevuto una bella paga e avendo appena trovato una bionda che gli piaceva e con cui poteva parlare. L’altra notte a letto la bionda gli aveva detto «Vieni, dai» e aveva spinto via la sua testa. Ma questo non aveva disturbato il conciliatore, che camminava a grandi passi lungo la strada con il sole sulla faccia e le scarpe brillanti. «È un bel giorno per me» disse a se stesso. «Già, un bel giorno per me.» E nemmeno la mano prepotente della bionda poteva togliergli quella sensazione. Oltrepassò un uccello. Oltrepassò una casa fatiscente molto interessante e una casa bellissima e pensò «Mi piacerebbe vivere lì». Quindi continuò a camminare con un’espressione più decisa quando all’improvviso sentì una fitta al cuore dovuta alla notte trascorsa.


«Mi ha spinto via la testa» realizzò, fermandosi un istante mentre il senso di orrore e umiliazione montava in lui. «Non va bene, non va bene.» Non l’aveva capito finora. Affannandosi nella direzione opposta saltò su un autobus verso casa della bionda, un quartiere sudicio, pieno di spazzatura. Salì la scala antincendio che dava sulla sua camera, sulla quale aveva appeso incrociate delle calze colorate. «Elda!» gridò attraverso la finestra dal minuscolo ballatoio dove si trovava. «Elda! Elda!» Doveva parlarle subito. Elda si avvicinò con calma. «Che c’è, Henry?» disse. Il conciliatore indietreggiò di un passo. «Posso entrare? Ti devo parlare.» «Be’, certo» disse Elda e si fece da parte. Il conciliatore le lanciò un’occhiata veloce prima di entrare: gli sembrava su di giri. «Hai fumato, Elda?» le chiese tirandosi dietro le gambe asciutte. «Hai fumato qualcosa, vero?» chiese, annusando l’aria. «E anche se fosse?» lo guardò con aria di sfida.

«Niente, niente. Elda» disse, e la fece sedere sul divano accanto a lui, stringendole le mani nelle sue. «Ho sbagliato tutto!» E le spiegò ogni cosa. «Ho provato a essere l’uomo giusto per te ma facendolo non sono stato affatto un uomo, non sono stato niente e nemmeno me stesso, e mi dispiace – mi dispiace davvero per tutto. Possiamo riprovarci? Riesci a dimenticare l'uomo che sono stato fino a ora – la mia falsità?» «Falsità?» chiese pigramente. «Capisco perfettamente perché hai fatto quello che hai fatto. Era quello che dovevi fare. Ero uno sconsiderato. Tu sei stata buona e onesta con me e io giocavo. Guardami! Sono un pazzo! Ma sono venuto qui sapendo che sarei stato umiliato e rischiando che tu possa non amarmi per questo, ma io ti amo troppo per non dirtelo, Elda. Dovevo dirtelo.» «Cosa stai dicendo?» La guardò intensamente, confuso, perplesso. «Ma Elda. Non hai visto come mi comportavo con te? Come un vero gentiluomo di campagna! Ma questo sono davvero io! Questo è il vero me! Non


l’uomo di prima! Io, qui, come mi mostro a te adesso!» «Bene» disse lei, scrollando le spalle. Quindi vedendo che la sua angoscia era reale, si chinò e lo guardò negli occhi appoggiando le mani sulle sue ginocchia. «Davvero. Va bene.» La guardò inespressivo. «Bene» disse lui alzandosi. «Davvero, va bene» disse pigramente, mentre si alzava dietro di lui e andava ad aprire la porta. «Be’, sono felice» disse andandosene. «Devo scrivere delle lettere» disse e se ne andò.

Sheila Heti lives in Toronto. She is the author of three books of fiction: The Middle Stories, Ticknor and How Should a Person Be? She runs a p o p u l a r l e c t u re s e r i e s c a l l e d Trampoline Hall, where people speak on subjects outside their areas of expertise. Her books have been published in Canada, the United States, Germany, France, Serbia and The Netherlands. She studied art history and philosophy, and is currently writing many articles about theatre and actors. She collaborates often with other artists. Visit her online at www.sheilaheti.net.


confini di danilo deninotti Quando suona il telefono mentre stiamo mangiando, io e mia madre non mettiamo giù neanche le posate diciamo solo suona il telefono guardando mio padre, suo marito, che si infila le ciabatte abbandonate sotto il ta volo da campeggio della veranda e che dice arrivo, rivolto alla tendina di perline di plastica appesa alla portafinestra della cucina, che attraverserà prima della porta del salotto, per poi ripetere arrivo e dire pronto una volta afferrata la cornetta in mano. Le due settimane centrali di agosto io sono in vacanza dai miei, mia madre torna a casa in pausa pranzo e mio padre, oltre a mantenere le solite abitudini del mercato del sabato e della chiacchiera post messa domenicale sul piazzale della chiesa, lavora ancora qualcuno dei campi che erano di suo padre, fa provvista di legna per la caldaia, e ha una serie di relazioni sociali basate su telefonate che sono più che altro scambi di

favori: tagliare l'erba e tenersi il fieno, pomodori in avanzo per fare la conserva: basta venirseli a prendere. Il fatto è questo, nella parte di bosco confinante con un pezzo di terra di mio padre, un suo amico ha dovuto tirare giù tre piante, i tronchi sono lì da prendere, e a portarli via gli fa anche un favore. Tornato in veranda, mio padre appoggia di nuovo i piedi nudi sul cotto, e capisci che sta riflettendo da come muove il viso, in un gioco di pro: gli zigomi sollevati che creano le due fossette sulle guance, e di contro: le rughe che si formano sulla fronte stempiata, poi si taglia un’altra fetta di fontina mentre io e mia madre siamo già alla frutta e ci spiega di come se ti fai due conti, non gli conviene, quanto può valere que!a legna lì? dieci, quindici euro?, non ti ci paghi nemmeno la benzina ad andare e tornare, però è esattamente quello di cui ha bisogno. Mi dice che gli serve una mano, un paio d’ore al massimo, e io dico sì, nessun problema, pensando a come prima di salire sul trattore potrei davvero infilarmi una camicia a quadri di


flanella, alimentando così le storie che circolano sul mio conto, di quando da ragazzino in vacanza dall’università dicevano che accettavo di fare il garzone di mio padre andando con lui nel bosco a tagliare la legna, solo per poter continuare a vestirmi anni Novanta anche d’estate. Il piano è questo: prendiamo il caffè tutti e tre assieme, prima che mia madre torni al lavoro, poi mi piazzo sul divano per mezz’ora, convincendomi che anche se mangio due gelati di seguito i grassi li brucerò dopo, fino a quando mio padre si alza dalla sdraio e dice che non ha senso lavorare col caldo, ma lì a!a fine ci sono le piante e non si sta male. La cantina è ricavata in una parte del garage con dei pannelli divisori in truciolato che vanno fino al soffitto, la porta è un rettangolo ritagliato nella parete più lunga, e di fianco alla scansia con le bottiglie di vino c'è un vecchio mobile di mia nonna, la madre di mio padre, che ora serve per i vestiti da lavoro, tranne le scarpe, che sono in un altro mobiletto, di fianco al portone del garage,

sotto una finestra sempre socchiusa. Apro l’anta destra, quella dei pantaloni e delle calze: le salopette blu le mette mio padre, il resto sono vecchi calzoni con le pinces, la vita alta e corti di gamba, le calze le scelgo tra un mucchio grigio e poi apro l’anta sinistra: vedo tre camicione a scacchi, non di flanella ma quasi, prendo la prima del mucchio e me la infilo sopra una vecchia tshirt vinta con i punti della Yomo vent’anni fa, la abbottono, ma già dopo mezzo passo sto sudando. La preparazione uno: mio padre guarda la camicia che mi sono messo, mi dice le scarpe sono sempre que!e, e mi allunga un paio di stivaletti marroni con la chiusura laterale a cerniera, fai solo attenzione a non scivolare, ma io invece di prenderli torno in cantina e quando ne esco mi sono cambiato: ora ho una polo taglia M blu maniche corte scolorita, tu que!a te la puoi ancora permettere, io ormai non ci entro più. In cortile mi siedo sul cotto del pianerottolo dell'ingesso principale di fianco al garage, e aspetto che mio padre esca con il trattore in


retromarcia guardando la fila di abeti che avevamo piantato appena eravamo venuti a stare in questa casa, sono alti come il tetto ormai, poi la sagoma del trattore finisce di completarsi a meno di un metro dai miei occhi, parallela all'ombra che dagli alberi si distende sul prato, e uno ad uno gli abeti scompaiono dalla mia vista. Mio padre scende dalla cabina, gli faccio segno quando non è ancora completamente a terra che vado io a chiudere il portone del garage, e lui si passa la mano sulla bocca, il pollice appoggiato al naso dà il ritmo di scorrimento del palmo fino al mento: sta guardando il prato e la fila di abeti, poi mi giro e gli tiro le chiavi, le acchiappa al volo e le infila nella tasca davanti della salopette, sono troppo vicini dice, e l’indice va verso il verde, uno o due andrebbero abbattuti, così gli altri possono continuare a crescere bene. La preparazione due: mio padre prende la cassetta in cui ha messo una tanica di benzina, la motosega e l’accetta, e la fissa a un pianale di legno che ha fatto lui, incastrato tra i due bracci meccanici del retro del trattore a cui è collegato

un altro braccio lungo un paio di metri che termina con gancio di ferro per prendere i tronchi e trascinarli, mi dice di mettermi lì, e con la mano dà un colpo alla pedana, un piede da una parte e uno da!’altra. Usciti dal cancello di casa prendiamo a destra, e già alla prima curva il pianale inizia a spostarsi e con lui il mio baricentro, appena la strada si fa più in salita mi giro per vedere se è tutto ok: il gancio è fissato al sollevatore, che non trema attorno al perno come pensavo ma è immobile: un parallelepipedo di ferro con una base dieci per dieci che va su in lunghezza, vuoto all'interno: se no come lo so!evi per piazzarlo, e saldati ai suoi lati i rinforzi dipinti di blu: un tocco di colore. Mio padre se l’è costruito da solo ad aprile, dopo aver pa ssato un intero weekend al la Fiera di Primavera studiando stand per stand tutti i sollevatori messi in commercio dai produttori di macchine agricole, e tornato a casa ha iniziato a progettarlo usando un block notes A4 della banca dove lavora mia madre e una matita da


muratore, poi ha comprato il ferro e il gancio, e a fine saldatura l’ha coperto di antiruggine: oggi è il suo terzo giorno di attività effettiva dopo una prova in cortile e un pomeriggio nel bosco a luglio. A cosa penso: mio padre prima di andare in pensione lavorava come operaio specializzato nel reparto manutenzione di una fabbrica che produce le pastiglie per i freni delle Fiat, e quando tornava a casa, invece di aggiustarle, le cose le costruiva, anche le case di Lego per me: mi faceva sedere di fianco a lui sul divano a doppia seduta della cucina e mattoncino dopo mattoncino riproduceva in una scala a portata di bambino di cinque anni, la villetta nuova in cui da lì a poco saremmo andati ad abitare: la stessa in cui stanno ancora adesso i miei genitori. Il lato a sud della strada si apre in una distesa di pesche appena finiti i tornanti e il tratto peggiore di salita: mio padre sale di una marcia e la macchina che abbiamo alle spalle deve attendere ancora un attimo prima di superarci, lo fa all'altezza della scritta Boschi, un cartello che

spunta in pieno rettilineo per indicare una stradina sulla sinistra, incuneata tra alberi di castagno, che porta al monastero dei Monaci Cistercensi Trappisti della Stretta Osservanza: una splendida costruzione appena ristrutturata. Dalla mano aggrappata al cilindro che regge lo specchietto, mio padre libera l'indice, e io guardo verso la mezza collinetta alla nostra sinistra: quello che fino all'anno scorso era solo un vecchio cascinale lasciato a se stesso ora è diventato una casa per il weekend, poi più che sentire la sua voce, gli leggo il labiale nell'attimo in cui si volta per spiegarmi che hanno aggiustato anche quell'altra casa, quella che c'è più avanti, dove da bambino facevo sempre una pausa con la bici durante i miei giri pomeridiani. Che cosa dico: faccio notare a mio padre che è normale che quegli ex-ruderi vengano rimessi a posto dalle famiglie bene di fuori per venirci a passare il week end, ma lui non è convinto, cosa vieni a fare qui che non c'è niente? e non è che preferisse quando quelle case erano lasciate lì a marcire, è la scelta che non si spiega, e mentre


me lo dice parlandomi attraverso lo specchio retrovisore, penso al mio appartamento a Milano, vista tangenziale. Dopo aver infilato una strada sterrata e averne percorso qualche centinaio di metri, mio padre ferma il trattore sul limite della parte di bosco del suo amico e mi indica che è lì, la salita di fronte a noi, ti ricordi? è dove avevamo le mele, che ha tolto da un paio d'anni per lasciare il prato a se stesso, con piccolissimi castagni che stanno iniziando a crescere in mezzo ai rovi: poi sceglierò i migliori, pulirò tutto e avremo un bel boschetto. Appena scesi dal trattore guardo il prato che mi ha indicato, e mi ricordo sia di quando a quelle mele veniva a dare il trattamento antiparassitario, sia di noi che andavamo a fare la legna nel bosco che c'è più avanti seguendo la strada, e vorrei dirgli che ok, è una buona idea lasciare che i castagni vengano su da soli, ma che il fatto, come dice, che piantarli di nuovo non ha senso perché ci impiegherebbero troppo a crescere e a creare un boschetto da curare, e che

invece così faranno prima, è solo un modo per sperare di fregare i tempi lenti della natura; ma invece gli rispondo solo di sì. Il problema: il tizio proprietario del terreno in cima alla salita, per evitare di raggiungere la sua proprietà facendo il giro da un'altra stradina meno comoda, sta piano piano passando con il trattore su un lato del nostro prato, mangiando pezzo dopo pezzo la leggera scarpata nel punto in cui è più bassa e indifesa: tenta di guadagnarsi un passa$io sperando in una sorta di usucapione, però mio padre mi spiega che di fatto sta violando il confine, e va fermato. La soluzione: cominciamo dal più corto dei tre, che è anche il più leggero: mio padre viene indietro in retromarcia con il trattore, abbassa il sollevatore, e io fisso il gancio al tronco: bastano un paio di manovre per trasportarlo e depositarlo appena più in alto della scarpata, sul confine, e creare il primo pezzo di barriera; ma la procedura non possiamo ripeterla subito per gli altri due, sono troppo lunghi, vanno prima tagliati a metà con la motosega: lo fa mio padre, poi rimette in


moto il trattore e in quattro tempi aggiungiamo anche i nuovi mezzi tronchi a formare un incastro su cui poi lui, quando tornerà domani, mi dice che impilerà altri pezzi di legna più piccola: una legnaia sarà ben difficile da oltrepassare. Mio padre gira il trattore in modo da riprendere la strada da dove siamo venuti e spegne il motore per aspettare che io ritiri la motosega e la benzina nella cassetta che avevamo lasciato al culo di un albero, ma poi scende prima che io possa sistemarla sul pianale, e mentre mi raggiunge vedo che nota qualcosa: manca l’accetta, l’abbiamo lasciata dai tronchi e mi dice che va lui a prenderla, e io lo seguo. Gli allungo la cassetta che tengo sollevata e lui ci infila l'accetta, poi mi giro verso il trattore, ma al terzo passo mi accorgo che mio padre non si è mosso dalla barriera di tronchi che abbiamo creato: sta guardando il prato, e i castagni che per ora sono solo qualche spanna di verde che spunta tra i rovi, sembra soddisfatto, il confine reggerà, ma poi mi guarda: che poi tanto vale, mi dice, qui mi sa

che comunque non ci faremo mai più un altro &utteto. È vero, gli rispondo.

Danilo Deninotti, classe 1980, lavora come ghost writer politico: “le sanzioni che ci hanno imposto sono come panni vecchi, da buttare nella spazzatura” (M. Ahmadinejad) è il suo fiore all’occhiello. Sotto il profilo pubblico rivendica l'appartenenza alle truppe di Eleanore Rigby, il pamphlet letterario guidato da una dama di facili costumi celebre per la vertiginosa altezza dei suoi tacchi.


scatafascio di francesco cozzolino e marco grasso La domenica sera è la fine del mondo, ma almeno ho un appuntamento. Domenica di scacchi. Scacchi come i colori delle chiese di questa città. Come il cielo quando minaccia bufera. Come la camicia viola del mio avversario, il mio editore. Un indumento psichedelico, che fa di lui un divo rock anni Settanta, abbinato malamente a un completo doppiopetto beige con pantaloni a zampa di elefante. «Chiudi la porta, svelto.» Virgilio lancia una rapida occhiata dietro di me. A breve mi chiederà se qualcuno mi abbia seguito. «Ti ha seguito nessuno?» No, purtroppo, altrimenti vorrebbe dire che avrei fatto qualcosa di rilevante nella vita. «No.» «Ne sei sicuro? Non hai notato nessuno dall’aria sospetta?»

A questa domanda non posso mai rispondere con un altro no. Sono gli insospettabili le persone più pericolose. «C’era una vecchia, con due borse della spesa. Sembrava normale, ma non sapevo se fidarmi.» «Uh, sono gli insospettabili le persone più pericolose» grugnisce lui. «Per scrupolo mi sono infilato in una cabina, e ho fatto finta di telefonare in Germania.» «E lei cosa ha fatto?» «Ha tergiversato mettendosi a guardare una vetrina.» «Accidenti. Era armata?» «No. A parte la borsetta.» «Aveva un ombrello?» «Non piove.» «I servizi bulgari ammazzavano i loro nemici con la punta di una lama avvelenata nascosta nell’ombrello. E non hanno mai avuto bisogno di guardare le previsioni del tempo.» «Comunque, è andata via. Sei contento, adesso?» «Mettiti lì che ti sterilizzo.» Dopo aver chiuso la porta con quattro mandate, Virgilio mi passa da capo a piedi un aggeggio che sembra un battipanni fatto di antenne.


Un metal detector artigianale, serve a scovare le cimici, a quanto dice lui. Quindi mi passa uno spray disinfettante da lui brevettato ma mai messo in commercio e una lozione per le mani per eliminare i microbi. Terminato il solito rituale, mi stringe la mano. «Cambia il vento» dice mentre scruta la finestra «Allora, com’è andata la settimana, hai prodotto?» «Ti ho portato quaranta nuove composizioni.» «E bravo il mio aforista, ti meriti del buon vino. Ho messo in fresco un Custoza, fammi un favore, vallo a prendere, io porto qualcosa da mettere sotto i denti.» Virgilio è ossessionato nell’ordine: dai servizi segreti di tutti i Paesi, ma soprattutto da quelli israeliani, dagli extraterrestri, dagli omosessuali, dalle sostanze che i preti buttano nell’acqua, dai gas governativi segreti usati sulla popolazione, dalla pubblicità, dalla televisione, dalla musica anni ottanta, soprattutto alcune canzoni ascoltate al contrario, dalle malattie veneree, dalle fiabe per bambini e dai luoghi adatti per un attentato, cioè tutti. È paranoico. Tanto. Ma, in fondo, nessuno è perfetto.

Mentre lo guardo agitarsi, penso che persino la sua malattia è démodé. Vedi alla voce paranoia: psicosi caratterizzata da delirio cronico basato su un sistema di convinzioni ossessive a tema persecutorio. L’individuo mantiene la sua razionalità, ma applicata coerentemente a un sistema deviato da lui costruito. Il termine paranoia deriva dal greco “fuori dalla mente”. Oggi quella parola non viene più utilizzata nel linguaggio ufficiale, tutto quello che passava sotto quella definizione è stato scomposto in altre patologie. Tutto in Virgilio è rimasto agli anni Settanta, persino la sua psicosi. È una reliquia sopravvissuta a una vita difficile da credere. Il risultato di una selezione naturale che lui ha imposto a se stesso. Un eroe. Non saprei definire in altro modo un malato a cui hanno sottratto la malattia. Ci mettiamo in terrazzo, apro la bottiglia. Lui torna con l’aperitivo. Vino bianco, olive nere e un ingrediente che cambia ogni volta. Oggi è una zuppa di ceci fredda, servita in ciotole di terracotta.


Così il mio editore si prende cura di me. A suo modo. Un invito a cena ogni domenica sera, aperitivo e partita a scacchi. «Ti annuncio che mi sono aggiudicato la gara» dice soddisfatto. «Che gara?» «Quella per lo zucchero di canna. Adesso copro anche lo zucchero di canna. Chissà cosa ci troverà la gente, ma dicono che sia in rialzo.» Sorrido a quel connubio tutto suo tra avanguardia e marketing. «Quindi altro lavoro per te. Questa volta stavo pensando a piccoli racconti a puntate.» «Capisco, che spazio abbiamo?» «Ci sono due opzioni: pacchi da un chilo, soprattutto per grossisti e grandi magazzini. Poi bustine da tazzina, target più ampio, bar, ristoranti, tavole calde.» «Va bene.» «Pensavo a racconti a puntate per quelli da un chilo. E i soliti aforismi per le bustine.» Questo è quello in cui è specializzato Virgilio Scatafascio, il mio editore. Non i soliti romanzi. «Mettitelo in testa, ragazzo: l’editoria è in crisi, è un cimitero di morti viventi. Bisogna cambiare radicalmente la mentalità riguardo alle pubblica-

zioni. In questo paese vengono pubblicati diciottomila libri l’anno. Sai cosa vuol dire? Che ci sono più libri che culi. Ma chi è che ha il tempo di leggerne uno al giorno d’oggi? E dammi retta: non sei migliore degli altri se hai letto un libro in più.» Il suo campo è pensare a tutto ciò a cui le altre case editrici non hanno ancora pensato. Apre il giornale alla pagina dei mercati finanziari, scova i prodotti in rialzo e contatta le ditte produttrici. «Tu devi pensare che oggi viviamo di oggetti. Allora, dove deve circolare la cultura se non sugli oggetti che consumiamo?» L’ultimo affare delle Edizioni Scatafascio, uno dei più prolifici, sono state le bustine di zucchero. Centinaia, migliaia di bustine che si infiltrano in altrettanti bar, in altrettante colazioni. Solo la televisione sa fare di meglio. Scrivo, ho un editore e dei lettori. Tecnicamente sono uno scrittore. Anche se il risultato dei miei sforzi finisce su bustine di zucchero che vengono lacerate e consumate nel tempo di un caffé. «Senti, ma quand’è che possiamo parlare di una pubblicazione come si deve?» «La fretta è cattiva consigliera. Impara dai piccoli gesti.» «Sono quasi due anni che faccio piccoli gesti.»


«Non puoi pretendere di avere un buon vino se prima non sai nemmeno dissodare il terreno.» Questo è il mio editore. Uno che ti insegna per due anni l’arte della pubblicazione, per poi fare il botto. Virgilio pubblica quello che scrivo su quelle bustine. Un successo riproposto in diverse varianti, come cartoni del latte, saponette e pacchi di sale. «Figliolo, non sottovalutare le bustine di zucchero. Sono l’ultima avanguardia che ci è rimasta.» Il vero editore è quello che convince lo scrittore ad adattare le proprie pretese a quelle dei suoi potenziali lettori. E nonostante ciò lo fa sentire un genio, speciale e irripetibile. «Ricordati che sei il fiore all’occhiello delle Edizioni Scatafascio.» Anche perché sono l’unico. «Tieniti forte perché ho un progetto rivoluzionario. Siamo pronti ad entrare in un nuovo mercato. Ti faccio diventare lo scrittore più letto e apprezzato della storia.» «Più di Proust?» «Di più.» «Più di Shakespeare?» «Di più, di più.» «Più di Dostoevskij?»

«Ma che mi prendi per il culo? Quello era un barbone.» Il suo tono si fa serio. Mi versa da bere e mi guarda fisso negli occhi. «Apri bene le orecchie: entriamo nel business della carta igienica.» Ecco. «Un bacino di lettori infinito, capisci? Hai idea di quanta gente caghi? Sai quanto tempo va perso? Per non parlare della scomodità di doversi portare una lettura in bagno. Certo, dovremo un attimo rivedere il genere di letteratura proposta. Non è che possiamo dare ai lettori da cesso la stessa roba che diamo a chi prende un caffé. Servirà qualcosa di più speziato, più muscoloso. Mi segui, vero?» La vita di Virgilio potrebbe essere riassunta così. Ha due lauree che non ha mai usato. È stato in prigione due volte. Ha fatto la lotta armata. Ha scritto un libro di poesie. Ha qualcosa tra i quarantasette e i cinquantacinque anni. Ha dipinto undici quadri, volti e paesaggi soprattutto. Non è mai stato sposato. Non è mai emigrato. Una volta è stato in coma. Per quattro giorni. Ha fondato nell'ordine: un circolo anarchico, un canile, una cineteca, una casa editrice.


Ha lavorato come: mozzo, allevatore di cani, stalliere, corriere, tipografo, guida turistica, editore. Questi i lavori ufficiali. Possiede: un appartamento blindato. Una moto Guzzi del 1974. Un guardaroba discutibile. I suoi passatempi sono: cucinare, sparire, bere. Ha vissuto nell’ordine: qui. E questa è la cosa più straordinaria di lui. Una vita spesa qui. E nessuno ci crede. Come ho raccolto queste informazioni su di lui? Questa è la seconda fallimentare attività che mi ha promesso quando si è presentato come editore: diventare il suo biografo. Naturalmente non si sa quando e se verrà pubblicata quest’opera mastodontica, perché prima bisogna raccogliere tutte le informazioni ed evitare i boicottaggi del Vaticano. Ma, come sempre, mi ha assicurato la fama eterna in cambio di questo piccolo servigio. È così che ci siamo conosciuti, al Fiasco, una sera di un anno fa. «Vediamo cosa sai fare questa volta, campione» dice mentre sistema i pezzi sulla scacchiera e mi passa una sigaretta troppo lunga per essere vera. Io verso di nuovo il vino e do un occhio al di là della balaustra.

Da nord a sud: la via che scende dalla collina. Il centro. Il centro storico. La mia casa al centro del centro storico. Un ammasso di chiaroscuri. Il porto. Il mare. L'Africa. Ancora il mare. Bevo un sorso di vino. Mille bollicine mi sfociano in gola. Getto di nuovo lo sguardo avanti. Da est a ovest: Il Giappone. La Cina. Tutti quegli altri paesi. Lo svincolo dell'autostrada. Parcheggi. Villette. Palazzi seicenteschi. Il porto. La torre. Nuova di zecca, risplende alla luce del tramonto. Ho diviso le attività della mia agenzia come fossero le pedine di una scacchiera, è stato Virgilio a darmi l’idea. «Tra la vita e gli scacchi c’è una differenza fondamentale, figliolo: nella vita ci sono troppe pedine fuori dalla scacchiera, che non rispondono a nessuna logica.» Cominciare a mettere pezzi della propria vita su una scacchiera è comunque un inizio. Bisogna cominciare da qualche parte per mettere ordine. Per questo, per fare chiarezza, tutto è stato messo nero su bianco, come si suol dire. «Virgilio, il pedone non può muovere in diagonale.» «E chi l’ha detto?»


«Le regole.» Quelle partite pagano un po’ il fatto che lui non conosca bene le regole del gioco. Però, secondo lui, questo particolare riavvicina il gioco allo spirito anarchico della vita. «Elle.» «Scusa?» «Il cavallo si può muovere solo a elle.» «La elle è una lettera stupida. Nessuna buona parola si scrive con quella lettera.» «Ciò non toglie che è una regola. Hai una regola migliore?» «La effe. O magari la esse.» «Uhm.» «La elle sta in dattilografo. La esse in scrittore.» «Sai che su una scacchiera ci stanno fino a otto regine senza che una possa mai minacciare l’altra?» La mia biblioteca personale sono otto scaffali, la parete più lunga della casa di Wanda. È lì che mi documento. «Ragazzo, devi smettere di leggere quel manuale di scacchi. Le donne portano solo guai: già una regina semina zizzania, figuriamoci due. Fai come me: prendila come viene. Le regole non servono a niente nella vita.»

Verso le dieci decidiamo conclusa la sessione di scacchi. I nostri corpi sono abbondantemente sciolti, la seconda bottiglia ha fatto il suo dovere. La consolazione del tramonto è una benedizione e decidiamo di cenare. Queste sedute di scacchi finiscono sempre alla stessa maniera: qualche pezzo mangiato, qualcuno resuscitato e almeno un buono spunto per tornare a casa e affrontare il foglio bianco. Lui è piuttosto allegro e parla con la bocca impastata. Mi racconta un’altra fetta della sua poderosa vita. Di solito il venti per cento delle cose nuove che escono ne smentiscono altre che mi aveva detto precedentemente. Le ultime battute sono sempre un’agenda in vista del prossimo complotto. La vera vita di Virgilio, quando non fa l’editore: essere ossessionato dalle cospirazioni. «Stai in guardia che sono brutti tempi. Non sai nemmeno più se difenderti dal governo o dai froci.» Quello che mi affascina di lui è il modo in cui riesce a non fare entrare nulla nella sua mente senza che non lo voglia. Vedi: gli anni Settanta


sono finiti, piombo e camicie comprese. Vedi: le regole degli scacchi. Mi dice che starà fuori città per qualche giorno. Non gli chiedo perchè. Tanto domenica prossima sarà di nuovo qui. Ormai Scatafascio ha comprato i diritti su di me e sulla mia vita.

(“Scatafascio” è un estratto da Scatafascio, romanzo a quattro mani di Francesco Cozzolino e Marco Grasso. Non hanno ancora trovato un editore: ma lo stanno cercando. Un estratto di questo romanzo è stato pubblicato su Linus.)

Francesco Cozzolino è nato a Genova nel 1982. Laureato in Scienze Politiche tra Genova e Milano, vive a Torino e si è diplomato alla Scuola Holden. Fotografo oltre che scrittore, fa parte di DeadManTalking. Collabora con il portale Torinonotte e ha pubblicato su Linus, Il Paradiso degli Orchi e su blog online. M a rc o G r a s s o 2 8 a n n i , è u n giornalista genovese. Ha collaborato con La Repubblica, attualmente lavora per il quotidiano Il Secolo XIX, dove si occupa di cronaca. Insieme ad Alberto Cozzutto ha girato due documentari: Il Colore della Memoria, vincitore del premio Memorie Migranti, e L'Anima migrante.


micronarrativa di andrea maggiolo

Hans è veterinario in un paese di montagna. Lo sveglia il telefono. Le 5 di mattina. Nevica. Poca voglia di vedere un cavallo che muore. Oleg, minatore nel nord dell’Ucraina, piange da due giorni. Di felicità. Suo figlio ha vinto una borsa di studio in un’università inglese. Max pedala, la salita è dura. Su Torino una coperta di nebbia. Maledetto cappuccino a stomaco vuoto. Gli toccherà appartarsi dietro la curva. A 18 anni in Vietnam John ha visto cose che gli han seccato il cuore. Ora vive nella periferia di Seattle. Solo. Dorme con la luce accesa.

John è in volo verso Miami. Ha perso tutto: lavoro, moglie, soldi, idee. Alla hostess che gli chiede cosa desidera, risponde “Fa lo stesso”. Ieri si è licenziato. Stamattina ha fatto un biglietto aereo solo andata per L’Avana. Simone capisce di colpo di aver fatto una cazzata. Ercole, alcolizzato, è felice: ha l’influenza H1N1. Per la prima volta alla televisione si parlerà anche di lui. Allora è ancora vivo.

Nato a Torino, vive a Roma dove si guadagna da vivere in una redazione. Gli piacerebbe lavorare come copyeditor, ma deve ancora capire bene cosa vuol dire. Scrive su micronarrativa.com


inutile fa cultura rivistainutile.it


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