numero46

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dedichiamo questo numero a zia maria giulia

INUTILE opuscolo letterario luglio 2011, numero 46 supplemento al #1880 di PressItalia.net, registrazione presso il Tribunale di Perugia #33 del 5 maggio 2006, pubblicazione mensile a cura di INUTILE » ASSOCIAZIONE CULTURALE la redazione giacomo buratti, viviana capurso, ferdinando guadalupi, marco montanaro, virginia paparozzi, nicolò porcelluzzi, alessandro romeo, matteo scandolin in questo numero racconti di giampaolo roselli, simone torino, nicolò porcelluzzi l’immagine di copertina è di giordano poloni {http://www.flickr.com/photos/twisted_lemon/} questo numero è a cura di alessandro romeo correzioni di elisa sottana impaginazione a cura di leonardo azzolini {sveo@hotmail.it} stampato presso Le Colibrì - Agenzia di stampa, Gubbio {info@agenzialecolibri.com} wild wild web www.rivistainutile.it, www.associazioneinutile.org, twitter.com/inutileonline, vimeo.com/inutile Il presente opuscolo è diffuso sotto la disciplina della licenza CREATIVE COMMONS Attribuzione - Non commerciale Non opere derivate 2.5 Italia. La licenza integrale è disponibile a questo url:  http://tinyurl.com/8g7sw5


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editoriale il minotauro giampaolo roselli il supplente simone torino farina nicolò porcelluzzi


editoriale

alessandro romeo matteo scandolin

è di Niccolò Porcelluzzi, uno della redazione. È partito da una piccola idea e l’ha sviluppata poco alla volta, lavorando in un regime di stakanovismo ad altissima concentrazione: robe come diciassette ore al giorno per sei giorni. Forse è il suo primo vero racconto e siamo davvero felici di averlo tra noi, ‘sto ventunenne maledetto, ma non glielo diciamo perché vogliamo che soffra. E poi Giordano Poloni, cui abbiamo rotto le scatole mentre stava preparando le valigie e dato ch’è un signore, ci ha accontentati con una copertina che mozza il fiato. Davvero! È un gran numero, ne siamo fieri, e vogliamo che lo siate anche voi. Adesso però prepariamo il prossimo.

Scrivere l’editoriale di un numero speciale è difficile: bisogna resistere alla tentazione di descrivere in maniera un po’ enfatica il grosso lavoro che ci sta dietro. Ve lo diciamo subito: non riusciamo a resistere all’enfasi. I pezzi di Giampaolo Roselli e di Simone Torino li avevamo da parte da alcuni mesi: barocco e visionario il primo, asciutto e realistico il secondo. Ci hanno colpiti dalla prima lettura, nonostante siano piuttosto lontani dalle cose che generalmente ci piace pubblicare. Il nostro intervento in fase di editing è stato praticamente nullo: qualche asciugatura, qualche dettaglio, poco. Se siete degli affezionati lettori della nostra rivista li troverete forse strani. Il terzo racconto

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il minotauro

avesse mai fatto. Se la immaginò balzare in piedi durante la cerimonia e gridare qualcosa al suo sposo del tipo: Brutto imbecille, se la fai soffrire te la vedrai con me! Immaginò una discussione tra lei e Peppino che sarebbe terminata con un proiettile conficcato nella fronte della nonna, sparato da Peppino con la pistola di ordinanza. E così via fino a quando era stata sul punto di alzarsi e andare alla casa dello sposo per disdire tutto. Il letto però seppe tenerla a bada. Una rapida colazione e poi via a trotterellare per la casa alle prese con le ultime faccende fino all’arrivo della parrucchiera. Poi due ore e mezza di lavaggio, tintura, acconciatura. Duecento euro senza mastercard. Alle undici e mezza Luisa si ritrovò finalmente montata di abito, trucco nuziale, velo di dieci metri e brillantini attorno agli occhi che le davano un’aria da sposina emozionata. Così armata posò per il fotografo da sola, con i genitori, le sorelle e la schiena di nipotini. Scese le scale con una mano sotto il braccio del padre e con l’altra stretta sulla ringhiera. Il padre la tirava giù incurante di quanto lei arrancasse. Maledetti uomini che non sanno che diavolo voglia dire indossare un abito da sposa! Una volta giù al portone esibì il sorriso felice alla folla

di giampaolo roselli

Il canto appassionato di un napoletano in polifonica risuonò alle cinque in punto nell’appartamento di via del Forno. Padre, madre e figlia balzarono in piedi come se delle molle li avessero catapultati giù dal letto. Luisa non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Aveva contato le ore nella trepida attesa di sentire la voce del caro Angelo Cavallaro risuonare dal cellulare. Nel conto alla rovescia si era chiesta cosa potesse andare storto il giorno seguente. Aveva fatto un elenco delle possibili calamità che potevano abbattersi sul suo matrimonio. In quel fiume di incubi che le attraversò la mente la prima minaccia riguardò proprio il padre. Se lo figurò ubriaco che ballava mezzo nudo in pista, incurante della madre svenuta, intento a sparare con la pistola di ordinanza alla maniera di un fomentato cow boy. La seconda minaccia fu nonna Angela, una donna che quando era in salute non esitava mai a fare scenate. Ora che era affetta da una grave forma di arteriosclerosi tendeva a vaneggiare più di quanto 6


se la salsa era sempre la stessa, la madre che aveva sfornato sette marmocchi, sua sorella maggiore che aveva compiuto cinquant’anni di matrimonio, e così via, lui era così teatrante e passionale che mandava in estasi tutto l’uditorio. Nel bel mezzo della cerimonia avvenne l’unico fuoriprogramma. Nonna Angela, l’arteriosclerotica, balzò in piedi e disse: Hai mai visto il minotauro? Io l’ho visto affacciato alla finestra del suo palazzo. Si mangiava un bambino cattivo. Quella fine devi fare tu! Se la portarono fuori che borbottava. Dopo il servizio fotografico nella masseria di Mimì il macellaio, Peppino e Luisa si ritrovarono al centro della pista della sala ricevimenti Polvere delle Rose, alle prese col primo ballo sulle note di My Heart Will Go O�. Dondolarono e ruotarono lentamente come un grazioso carrillon attorniati da invitati affamati che si mascheravano dietro un sorriso o ansiosi di rifilare agli sposi auguri, bustine e baci bavosi. Nonostante la fame e i doveri da compiere, qualche invitato trovò il tempo di commuoversi davanti a quella coppia perfetta. Ballavano fissandosi negli occhi e sussurrandosi parole dolci. Anche se quello che si dissero realmente nessuno l’avrebbe mai saputo.

e a tutto il vicinato. Poi salì sul calesse di compare Ciccillo. Il cavallo lasciò avanti alla chiesa il prodotto della sua ultima digestione. Luisa, arrabbiata con il cavallo che aveva osato cagare il giorno del suo matrimonio, scese dal calesse e con la mano sotto il braccio del padre salì la rampa dell’ingresso, si preparò al muro di sguardi che le sarebbe piombato addosso e si fermò sull’uscio della porta. Sorrise, la marcia nuziale risuonò nella chiesa e lei, in compagnia del padre, prese a percorrere la navata centrale. Sentiva gli sguardi delle donne che le scivolavano sulla veste fino alla punta del velo, sentiva quelli dei vecchietti e dei ragazzini che s’infilavano dritti nella scollatura. E vide Don Gino attenderla oltre l’altare con le mani giunte e con il suo sorriso a trentadue denti. C’era stato un periodo nella sua adolescenza in cui s’era innamorata di Don Gino. Non si spiegava perché. Forse per quella grazia che possedeva nello sguardo e nel modo di fare. Le sembrava toccato da Dio. La cerimonia durò più di un’ora e mezza. I matrimoni di Don Gino erano dei kolossal epici in cui non si badava a preghiere. Erano fatti di canti, cori e lunghi monologhi sulla storia personale di Don Gino. Anche 7


le note di Gianni Celeste. Poi tutti a casa a dormire. Il giorno dopo gli sposini sarebbero partiti per il viaggio di nozze. Destinazione: Bananas.

Dove sei stato ieri? Gli chiese allargando un sorriso a trentadue denti. A casa. T’ho chiamato e non c’eri. Be’... Sorridi, sorridi! Lui sorrise: Ero a casa ma c’è stato uno sbarco. E ci sei andato? All’inizio no. Poi c’è stato un casino e sono dovuto correre a vedere cos’era successo. E cos’era successo? Tre negri sono scappati! Volevano fare fuori uno, quello malato, ma poi in tre sono scappati. Li avete trovati? No. Dobbiamo setacciare la città. Prima che tu arrivassi alla chiesa è di questo che si parlava. Amò, oggi è il nostro matrimonio, non parlate di… Sono faccende importanti, che cazzo ne sai tu. Ne so, ne so… Tu non sai niente, cazzona. Sorridi, che sembri un cacciamorto. La festa durò tutto il pomeriggio. Il padre di Luisa si ubriacò senza ballare nudo o sparare. Fu una gran bella festa con tanto di consegna di bomboniere, sotto

Luisa si affacciò oltre l’uscio della porta e porse l’orecchio nella direzione in cui il corridoio veniva inghiottito dal buio. Sentì dei passi salire. Si voltò di scatto, guadagnò la brandina e vi si tuffò su. Le molle gracchiarono come centinaia di rospi costretti in una pozzanghera. Si pose sul lato sinistro, alzò la gonna e piegò la gamba. Fissò l’entrata e si accorse che in quel modo le sarebbe venuto un torcicollo micidiale. Si voltò sul lato opposto. Le rane sotto la brandina protestarono inferocite. Assunse la stessa posa e così attese Peppino. Fece un profondo respiro. I rumori secchi dei passi echeggiavano in un silenzio tombale. Tra un passo e l’altro sembrava che il mondo intero fosse stato risucchiato nel nulla. Né i versi di un animale notturno, né i fragori dal cuore della città. Nulla. Era da una vita che aspettava quel momento. Dal giorno in cui lei e Peppino si erano messi insieme aveva maturato una convinzione. Tutte le dure prove che aveva dovuto affrontare, compresa la cattiva sorte 8


Di che hai paura amore… Di quel coso che hai tra le gambe! Luisa si sforzò di tenere il sorriso. Ma amore mio, che problema c’è, mi verrai da dietro… Niente da fare, non sei tutta femmina! Ma lo sapevi. E mi hai sposato lo stesso… Non fare la stupida, sai benissimo come stanno realmente le cose. Peppino aveva ragione. Sapeva come stavano le cose ma aveva dimenticato tutto. O quantomeno aveva provato a farlo. Insomma, aveva immaginato che quello fosse un matrimonio normale e che lui la amasse sul serio. Luisa era il demonio. Così la chiamavano in famiglia, i genitori e le sorelle. Il demonio! Non c’era nulla di cattivo. Solo che non sapevano come chiamare una così. Una volta il dottore aveva usato un termine strano, ermafrodita, ma in famiglia avevano fatto così fatica a memorizzarlo che si era subito ripiegato sul Demonio. Più facile da ricordare. Al di là della famiglia l’unico a sapere delle sue stranezze fisiche era suo zio, il sindaco Ferdinando Curzo. Grazie a lui, il suo segreto era stato protetto. Curzo si era dato un gran da fare. Li aveva sistemati in una

che le era toccata, non erano state altro che il prezzo da pagare per quella notte. Quella notte e oltre. Negli ultimi minuti non aveva saputo più attendere. Era stata sul punto di saltare addosso a Franco, il papà di Peppino, che dopo averli accompagnati era rimasto lì a sistemare la roba senza capire che doveva togliere il disturbo. Peppino entrò. La vide e si fermò appena oltre l’uscio della porta. Un velo d’inquietudine piombò sul suo viso. Luisa riuscì ad intravedere il disagio negli occhi nonostante la stanza fosse appena illuminata dalla pallida luce lunare che filtrava dalla finestra. Ciao amore, fece lei con tono suadente e allargando un sorriso. Fu il suo modo di ignorare l’inquietudine di lui. Negli ultimi giorni aveva trascorso tante ore d’avanti allo specchio ad esercitarsi nel pronunciare Ciao Amore. Ne aveva provati tanti fino a quando aveva optato per un Ciao Amore basso e caldo. Doveva andar bene per un insicuro come Peppino. Lui deglutì. Non penserai che…, balbettò. È la prima notte amore, fece continuando con quel tono caldo. Cosa vuoi che facciano due sposini alla prima notte? disse, scrollando le spalle. Lui fece un passo indietro. 9


villa in campagna, aveva ordinato agli scagnozzi di Mimì di parlare con chi osasse avvicinarla, aveva fatto riservare a quel bastardo che aveva provato a sedurla un trattamento con i fiocchi. Era la sua nipotina ma, soprattutto, era un suo famigliare su cui qualche figlio di buona donna avrebbe potuto sparlare. Da un certo momento in poi Curzo aveva iniziato a darsi da fare anche per maritarla. E una volta un topo di partito s’era fatto avanti e aveva detto che era disposto a tutto pur di far fare al figlio una buona carriera politica. Tutto questo Luisa lo sapeva. Ma aveva provato semplicemente a dimenticarlo. Lo guardò negli occhi. Lui abbassò lo sguardo ed entrò nella camera. Sono venuto a prendere le mie cose, disse guadagnando l’angolo opposto della camera. Accanto alla parete, sotto un alone di umidità, giacevano due valigie. Ti potrebbe piacere! Esclamò lei con voce strozzata da un pianto ormai prossimo. Non credo proprio, fece lui sollevando le valigie. Peppino si voltò e senza degnarla di uno sguardo uscì dalla camera.

SFUGGIRMI!

Poi crollò sul letto e scoppiò in lacrime. Qualche istante dopo lo sentì di nuovo in camera. Balzò su e lo fissò sorridente tra le lacrime. Aveva una faccia strana. Che c’è, fece lei, Ci hai ripensato, amore? Lui deglutì. Nei suoi occhi comparve una nuova inquietudine. Ci hanno rubato le provviste, disse con tono cupo. Non siamo soli qui dentro! C’è una zona del centro di San Giacomo in cui nessuno osa addentrarsi. È una zona buia che si allarga tra viuzze puzzolenti di piscio, palazzine diroccate, in gran parte disabitate, e vicoli che accolgono tossicodipendenti e creature della notte. È uno degli inferni di San Giacomo sepolti nell’anonimato di quei quartieri dove la mano di Curzo non è ancora arrivata e forse non arriverà mai. Proprio qui si erge in tutta la sua imponenza un palazzo vecchio di circa due secoli. Lo si può riconoscere per le sue dimensioni e per lo stemma degli Scaringi, il minotauro, che si erge sopra al portale. Da più di mezzo secolo giace abbandonato a se stesso alimentando storie di presenze occulte. I vecchi lo additano come la porta dell’inferno. Papà Franco arrivò neanche dieci minuti dopo la

CONVIVEREMO PER SEMPRE! TI TOCCHERA’ PRI M A O POI, BA STA R DO! NON POT R A I

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Luisa si sentì travolta da quello sguardo. Tu resta qui! Barricati qua dentro e non aprire fino a quando non ci senti tornare. Poi si volse verso il figlio e fece cenno col capo di andare.

telefonata. Entrò nella stanza, mollò il borsone sulla brandina e, senza salutare nessuno, lo aprì e prese a svuotare il contenuto sul materasso. Pistole, coltelli, torce. Aprite bene le orecchie perché parlo solo una volta, esordì con l’affanno nella voce. Nessuno deve sapere che voi siete qui. Ufficialmente tutti sanno che voi siete alle Bananas, disse caricando le armi. Papà Franco era un tipo basso, tozzo, pelato, che si trovava quasi a suo agio in quella situazione. Era così preso da quel ruolo alla Rambo che non degnava nessuno di uno sguardo. Se si dovesse sapere che vi siete nascosti qui è la fine. Questa faccenda ce la dobbiamo risolvere da soli! Papà, non è meglio avvisare Curzo per…, aveva fatto Peppino. Nossignore! Al massimo glielo diremo dopo! Ora dobbiamo dare prova che possiamo risolvere i guai con le nostre stesse mani. Fa parte del gioco. Insomma, dobbiamo farci vedere all’altezza. Passò due pistole nelle mani del figlio. La piccola mettitela sotto la cinta dietro la spalla, gli disse. Poi si voltò verso di lei e la guardò con uno sguardo sufficiente.

Luisa si ritrovò sola. Il silenzio l’aveva avvolta in un abbraccio soffocante. Era così intenso che sembrava strapparle di dosso la percezione della propria esistenza. Era la prima volta che si trovava sola. Fino a quel momento era rimasta più o meno sempre attaccata a Peppino. Si guardò intorno e a confortarla ci fu solo la luna. Era lì che la guardava con quell’aria malinconica. Tutto era così assurdo… Lei e Peppino dovevano rimanere in quel brutto posto per quindici giorni. Il tempo del viaggio di nozze. Era stata un’idea di papà Franco. Luisa era convinta che Peppino fosse un pupazzo nelle mani del padre. Non aveva mai avuto il coraggio di dirglielo ma l’aveva sempre pensato. Peppino era entrato nei carabinieri per sopperire alla delusione del padre che a suo tempo era stato scartato per la sua bassa statura. Era diventato guardia giurata. E alla fine, per volere del padre, era entrato in politica. Papà Franco si era candidato più volte senza essere eletto neanche come 11


consigliere. Era proprio per colpa della politica che lei si trovava a fare il viaggio di nozze in un palazzo abbandonato e fatiscente. Curzo aveva promesso a Franco che se alle prossime elezioni Peppino fosse riuscito a farsi eleggere, lui gli avrebbe dato un assessorato. Sarebbe stato il suo vero regalo di nozze. E così avevano preferito conservarsi i soldi del viaggio di nozze per finanziare la futura campagna elettorale. D’altro canto però si doveva pur sempre conservare un certo prestigio personale. Così aveva dato a bere a tutti che fossero partiti per le Bananas, quando invece erano rimasti in quel buco di mondo. Uno sparo squarciò il silenzio. Luisa sussultò spaventata. Un brivido gelido di paura le salì su per la schiena. VI ODIOOOO! urlò. Un attimo dopo il silenzio risucchiò nel vuoto il suo urlo. Sentì i battiti accelerati del cuore. Era un tamburo che batteva muto. Non ce la faceva più a stare lì dentro. Guardò oltre l’uscio della porta dove il corridoio si perdeva nel buio pesto. Se lui non voleva amarla non aveva più senso rimanere lì. Fece un profondo respiro e s’incamminò per il corridoio. Avanzò tastando le pareti. Non c’era

neanche una finestra da cui attingere un po’ di luce. Le sembrò di stare in una gabbia che la isolava dal mondo. Non udiva neanche il rumore dei suoi passi. In questo silenzio tombale i pensieri correvano come un fiume di sangue in piena. Se fai la pipì con gli altri bambini chiamerò il minotauro, le aveva detto la nonna Angela un giorno di vent’anni prima. Cos’è il minotauro? Il minotauro è una brutta bestia, gigante, con corpo da uomo e testa da toro. Ha denti aguzzi come coltelli e al posto degli occhi ha due palle di fuoco. Si ciba di bambini. Di quelli cattivi! Se non fai la brava lo andrò a chiamare. Sai, il suo palazzo è a due passi da qui. Già. Così tutti chiamavano il palazzo Scaringi: il palazzo del minotauro. Discese lentamente le scale. Procedeva a memoria. Si ricordò che lei, Peppino e papà Franco erano saliti per una scala e poi per un’altra. Tutti i mali della città, delle persone, delle cose sembravano partire da lì. Ogni volta che ci era passata aveva avuto l’impressione di stare d’avanti alle porte dell’inferno. Giunse ai piedi dell’ultima scala, svoltò l’angolo e si trovò di fronte ad un Cristo crocifisso. Si fermò all’istante. Il cuore prese di nuovo a tamburellarle il petto. Era lì, contro 12


attorno fino a quando scoprì che il pianto proveniva dalla sua sinistra. Deglutì. I gemiti squarciavano il silenzio. Concentrò lo sguardo tra le tenebre e si mosse lentamente verso l’angolo della cripta. Si avvicinò titubante. Lì, proprio in quell’angolo buio una porta sradicata da chissà dove giaceva poggiata al muro. Luisa prese la porta e la spostò. Sotto i suoi occhi una creatura di pochi mesi dibatteva gambe e mani in un pianto isterico. Era lì, come una coccinella sdraiata sul dorso incapace di rimettersi sulla zampe. Sotto di sé il corpo inerme di una donna. Luisa s’inginocchiò e scosse il corpo. Signora, sussurrò mentre il bambino continuava a piangere, Signora si svegli! DI QUA! echeggiò una voce fuori dalla cripta. È DA QUI CHE PROVIENE! Era la voce di papà Franco. Guardò il bambino indecisa se prenderlo o no. Le faceva così tenerezza da aver paura di fargli del male con quelle brutte mani. I passi si avvicinarono. Lo raccolse delicatamente e lo poggiò sul braccio piegato. Era così che aveva visto fare alla sorella. Il pianto si tramutò subito in gemiti sottili. Uscendo dalla cripta, il suo piede urtò qualcosa che rotolò via.

la parete opposta, abbandonato in una saletta priva di ogni altro arredamento. Era finita in una cripta o qualcosa del genere. Un magma dentro di sé salì improvvisamente dallo stomaco al cervello. Sentì un calore diffondersi in tutto il corpo come se da un momento all’altro potesse prendere fuoco. Procedette lungo il centro della cappella, salì il palchetto e fu ad un palmo dai piedi trafitti. Fece scivolare il suo sguardo su per i piedi, su per le gambe, su per il torace magro e asciutto, e poi dritto in faccia, in quel viso sofferente e argentato dalla luna. Scommetto che una come me non l’hai calcolata, sussurrò. Dico, una come me è così un casino, sembra così un errore che conviene dimenticarsene. Si portò a lato della croce e vide i due bulloni che tenevano la croce attaccata al muro. Fece un profondo respiro e prese a spingere in avanti. Un’insospettabile energia si concentrò nelle braccia. Una forza che non aveva mai immaginato di possedere fece scricchiolare il legno. La pressione delle mani aumentò, la croce prese a piegarsi e alla fine si rovesciò in avanti. Il collo di Gesù urtò lo spigolo della sopralevatura e la testa rotolò via inghiottita dal buio. Ci fu un gran fracasso. Un pianto di neonato esplose nella sala. Luisa si guardò 13


Luisa continuò a cullare il neonato nel sottoscala. Lo fece con tutta la dolcezza che avrebbe tanto voluto ricevere, con tutta la dolcezza che avrebbe dato a suo figlio se non fosse stata il mostro che era. Il bambino non doveva piangere. altrimenti per lui sarebbe stata la fine. Sentì i passi avvicinarsi. Li vide uscire. Proiettarono i coni di luce a destra e a manca. Papà Franco lo puntò sulla scala che la nascondeva. Trattenne il respiro. Poi il cono piombò contro la parete adiacente. Guarda qui, fece papà Franco movendosi nella sua direzione, Che diavolo… Si fermò quasi accanto a lei. Le dava le spalle. Gli sarebbe bastato voltarsi di novanta gradi e l’avrebbe vista. Se qualcuno si è nascosto con tutta probabilità starà in questo buco! Lì sotto? disse Peppino affiancandolo. Sì, è un pozzo o qualcosa di simile. Se non c’è da nessun’altra parte deve essere finito per forza laggiù! Luisa pensò che se lo doveva fare, quello era il momento giusto. Fece un profondo respiro e poi lo trattenne. Poggiò il bambino per terra, si tolse la maglia e lo avvolse. Poi si levò le scarpe, agguantò la testa del Cristo, uscì dal sottoscala e con passo

Vide la testa del Cristo scivolare oltre una scala. SBRIGATI IMBECILLE! sentì dire. Erano vicini. Si lanciò verso la scia invisibile che la testa rotolando aveva segnato nell’oscurità. Si tuffò nel buio pesto e si ritrovò in un sottoscala basso e stretto. Ci stava a malapena ma poteva essere un buon nascondiglio. Spostò la testa del Cristo, che nel buio sembrava proprio una palla, e si accovacciò col bambino. Un attimo dopo li vide arrivare preceduti dalla luce della torcia. Entrarono nella chiesa e non furono più sotto il suo sguardo. Sentì i loro passi andare su e giù per la cappella fino a quando papà Franco prese a parlare. È morta! disse. Sì, papà. Quando sono sbarcati era più là che qua. Lui l’abbiamo fatto fuori. Lei è qui. Dov’è il bambino? Cazzo, ci avrei scommesso che provenisse da qui. Dobbiamo fare fuori anche il piccolo? Certo che no! I bambini servono più degli adulti… In che senso, papà? Gli tolgono gli organi. Da lì si fanno i soldi migliori. Ma guarda qua! Ecco cos’era quel fracasso! Hanno sgozzato Cristo! Bastardi! Ce ne sarà un altro in giro. Stai attento. 14


vellutato si mosse verso di loro. Avanzò passo dopo passo in perfetto silenzio. Dobbiamo andare giù! disse papà Franco. Erano giusto tre metri ma le sembrarono molti di più. Con quella lentezza ogni passo era triplicato di peso. Giù? balbettò Peppino. Non erano i piedi ad intimorirla ma il suo cuore. Batteva così forte che lei stessa poteva sentirlo. Sì, giù! Con una corda così ti calo. Oppure puoi scendere facendo pressione contro le pareti. Così avrà fatto… Io, papà? Sì, tu! Non fare il… Luisa assestò un colpo alla nuca di papà Franco con la testa di legno stretta in una mano. Il suo corpo si accasciò e fu inghiottito dal pozzo insieme alla luce della torcia. PAPÀ! urlò Peppino voltandosi di scatto. Non fece in tempo a puntare né la torcia né la pistola. Un colpo di Cristo in pieno viso lo sbilanciò indietro. O DIO! IL MINOTAURO! urlò. Luisa gli diede un altro spintone. Il bambino scoppiò a piangere. Luisa mollò la testa di Cristo, si voltò e raggiunse il piccolo. Lo prese

delicatamente in braccio e lo cullò. S’incamminò verso la chiesa. Smise di piangere. Già, pensò, Forse non aveva capito nulla. Come aveva fatto ad essere così cieca? Le sarebbe bastato guardare le mani, quelle stesse mani che ora tenevano il bambino, per capire cosa lei realmente fosse. Si direbbero delle mani grosse e virili. Con la forza che si ritrovava non era una donna. Non lo era affatto! E forse non era neanche un uomo. Era un demonio, un minotauro. Capitò nella cappella, sotto una finestra, dove un raggio di luce argentea squarciava il buio. Guardò il bambino. Era una pace. Sembrava in paradiso. Dormi tranquillo ora che il peggiore dei diavoli veglia su di te, gli sussurrò.

Giampaolo Roselli è nato a Corato nel 1981. Fa il bibliotecario (insieme ad altri lavoretti occasionali), cura il blog www.androideulisse. blogspot.com e sta scrivendo il suo primo vero romanzo.

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il supplente

«Mammi, Naaji, Perucca.» Annuiscono scocciate, sorridono, leggono. «Vuilliermo.» Niente. «Vuilliermo. Gino Vuilliermo.» L’unico maschio. Nei banchi c’è un posto vuoto. In prima fila, accanto alla porta. Sopra, un astuccio molle e un quaderno spiegazzato. «Vuilliermo c’è?» alzo la voce. La ragazza che guarda fuori è seduta accanto al posto vuoto. Sbuffa. «È là dietro.» Mi sporgo dalla cattedra. Oltre l’ultima fila, gambe incrociate, faccia rivolta al muro, un ragazzo rasato, pallido. Dondola. «Vuilliermo? Gino!» Avanti e indietro. Guardo la compagna di banco, che fa spallucce. «Non parla.» «Sta male?» «È autistico.» Autistico. Non so niente. «Be’, Vuilliermo ti segno presente.»

di simone torino

La scuola è una scatola, col tetto in vetro. Condotti di aerazione dalle pareti si infilano nelle aule. Al sesto piano, terza O.S., operatori ociosanitari, entro. Tutte femmine. La mia prima supplenza. «Buongiorno.» Le risposte sono tre. Apro il registro, comincio l’appello. Dopo cinque anni di fabbriche e apprendistati, mi sono iscritto all’università. Lettere classiche. Mentre iniziavo la tesi, sono cominciati i tagli. Finito di discuterla, era la crisi. Ora sono supplente. Oggi lavoro un’ora. «Borelli, Binel, Chanoux.» Rispondono a mezza voce, alzando la mano. «Giovini, Iorio, Laurent.» Parlottano, scribacchiano. Una ragazza col cappello guarda fuori dalla finestra. 16


facendosi fare un grattino. «Non funziona sempre.» «Cosa bisogna fare quando si morde? Cosa faceva l’insegnante?» «Niente.» «Come niente.» «Secondo te, perché ha quel callo?» «Mi stai dando del tu.» La ragazza fa spallucce, si calca il cappello e torna a posto. Scompare dietro al diario. Gino dondola a occhi chiusi. Torno a posto. «Ragazze, non avete compiti in classe? Perché non ripassate?» Alcune lo stanno già facendo, altre ridacchiano, scrivono sms, una si passa lo smalto. «Prof, si è pisciato addosso.» È una ragazza obesa, a parlare. Succhia un ciupa ciupa e arriccia il naso. «Come?» Vado a vedere. Una chiazza giallastra si è allargata dietro al sedere di Gino. «Barello! Chiama una bidella, per favore.» «Borelli!» dice con una smorfia, uscendo.

La compagna strabuzza gli occhi, come a dire Ci mancherebb�. Lui comincia a mordersi mugolando. «Ehi, no!» corro dietro ai banchi e gli tolgo il polso di bocca. Dove mordeva, ha uno spesso callo rosso, viscido di saliva. «Ma non ha il sostegno? Dov’è l’insegnante?» Nessuna risposta. Il brusio si è alzato in chiacchiera allegra. Mi alzo, ripeto: «Dov’è l’insegnante di sostegno!» Zittiscono per qualche secondo, nel quale mi si dice che non c’è. «E il sostituto?» «Non c’è.» «Come non c’è!» Una ragazza con occhiali e cerchietto tira su la testa dal libro: «Tagliata via.» Intanto Gino si morde. «No!» provo a tirargli via il polso, ma morde più forte. «Così è peggio. Aspetta.» È la compagna. Mi ha dato del tu. Si siede di fianco a Gino, sussurra una canzone e gli tocca il gomito. Gino smette, abbassa la testa e le va incontro, 17


«Sai come fare?» dice, da fuori. «No.» «Tiragli su le mutande.» «E non lo cambio?» «Tiragli su le mutande. Per favore.» Gino strappa alcuni fazzoletti di carta, sfilati dalla scatola attaccata al muro. Tiro su le mutande. «Ecco.» Lei si affaccia. Tende una mano. «Posso aiutare il professore, Gino?» Gino sorride, inclina la testa, dice: «Neee, neee, neee» e gliela prende. Facendomi vedere qual è il davanti e quale il dietro, e come attaccare gli adesivi, lo cambia. Poi tira su mutande e pantaloni. «Gino, lascio questi perché non ne hai più, nello zaino. Mi spiace.» Gino è ancora perso nello specchio. Nei suoi stessi occhi. «Perché sai queste cose?» chiedo. «Fratello più grande, così.» Nessuna flessione emotiva. La bidella, appoggiata allo straccio, chiacchiera con

Mentre cerco di capire il da farsi, compare ancora la ragazza col cappello. Involucro azzurro in mano. «Si sarà rotto il pannolino» dice, sventolandomelo sotto il naso. Poi fa una carezza a Gino. «Gino, bisogna cambiarti.» «Dove andate?» «In bagno.» «Niente casino, eh!» dico alle altre, seguendoli. Davanti al bagno femminile mi oppongo. «Non può entrare lì!» «Ok.» Rimaniamo tutti e tre immobili. Gino, ha gli occhi chiusi. Sui jeans, la macchia scura. «Andiamo in quello dei maschi.» Sfilo la cintura, abbasso pantaloni e mutande. Sotto, il pannolino è zuppo. E strappato. Lo tolgo e lo butto nel cestino. Gino è rilassato, si guarda nello specchio sopra il lavabo sorridendo alla propria immagine. Batte le mani, le sfrega assieme. Mi accorgo di non aver preso il cambio. La porta si socchiude, il pugno della ragazza si infila dentro, porgendomelo. 18


o stai dietro a Gino.» «Mi continui a dare del tu.» «Questo era un tu generico.» «Come ti chiami?» «Stella.» «Posso guardare il quaderno di Gino?» «A lui. Devi chiedere a lui.»

le ragazze. «Ciao Gino» dice, chiudendo la porta. Gino torna nel punto esatto dov’era prima. Mi asciugo la fronte e controllo la classe. Le due o tre che avevano un libro aperto ce l’hanno ancora. Quella che si metteva lo smalto ora si aggiusta le ciglia. Quasi tutte chiacchierano. Una mangia uno yogurt. «Ma Gino, durante l’orario di lezione, cosa fa?» «Adesso niente.» «E prima?» «Con Carla, dici?» «L’insegnante di sostegno?» «Sì.» «Cosa faceva?» «Sotto c’è una stanza. Ci sono giochi e materiali.» «E qui?» «Sta lì.» «E gli insegnanti cosa fanno?» «Fanno lezione.» «E Gino?» «Gino no.» «Ma gli insegnanti, con Gino, cosa fanno?» «Niente. Non possono fare niente. O fai lezione

Mi accovaccio. «Gino, posso guardare il tuo quaderno?» Gino mi strappa il quaderno dalle mani. Lo stropiccia un po’ con gridolini che sembrano di gioia, poi me lo tira addosso. Mi giro. «È un sì?» Stella annuisce. Comincio a sfogliare. Cerchi e curve. Pagine di cerchi e curve rosse. «Ma cos’è che gli piace fare?» chiedo a Stella. «Ancora? Chiedi a lui.» La guardo per capire se mi prende in giro. «Vai in fondo al quaderno.» All’ultima pagina, fotocopiata grande, una tastiera di computer. Ci sono quattro tasti in più: sì, no, cancella, stop. «Scrittura facilitata.» dice Stella. 19


pure. Chieda pure pi. Chieda pure pi erre. Chieda pure pro. Chieda pure prof» dice Stella. La guardo. Non può essere lei a inventarsi tutto. Lei mi dà del tu. Guardo Gino, che ride e fa una specie di cigolio. Non faccio in tempo a chiedere niente, perché la campanella suona e Gino corre a sedersi accanto alla porta. «Aspetta Carla» spiega Stella, e scuote la testa. Ha una maglietta a maniche corte. Dietro il braccio, all’altezza del gomito, lunghe cicatrici bianche, vecchie, e altre rosa, fresche. «Cos’hai fatto alle braccia» dico. Lei toglie il cappello. Sotto ci sono chiazze di capelli mancanti. Alcune con sangue rappreso. Si gratta una crosta e lo rimette. «Di cognome faccio Yeuillaz, segnami.» «Come?» «Sono l’ultima» dice, alzandosi. Non ho nemmeno finito l’appello.

«Ma funziona?» «Bisognerebbe fare il percorso.» Va da Gino e gli bisbiglia qualcosa all’orecchio. Dopo un po’ Gino si tira su. Vengono al banco. Gino seduto, lei dietro. «Ho chiesto a Gino se voleva provare, vero Gino?» E gli poggia una mano sulla spalla. Quaderno aperto, tastiera davanti come per scrivere a macchina, Gino guarda fuori dalla finestra. Un filo di saliva a lato del mento. Stella lo asciuga col dito e passa il dito sui pantaloni. Sto per dire a Stella che non fa niente, quando Gino alza un braccio. La mano rimane sospesa sulla tastiera, ruotando in senso orario. Poi si ferma, l’indice di Gino si punta, e picchia sul sì. «Sì» ripete Stella. «Posso fargli una domanda?» chiedo a Stella. «Ancora chiedi a me?» «Ah, già. Gino, posso chiederti una cosa?» Gino si dondola sulla sedia, ridacchia, guarda il soffitto, poi torna a fissare la finestra. La mano si alza, svolazza sulla tastiera, l’indice si punta. «Ci. Ci acca. Chi. Chir. Cancella, chi. Chie. Chied. Chieda. Chieda pi. Chieda pu. Chieda pur. Chieda

Guardo Stella spiegare a Gino che Carla non c’è. E non ci sarà. Guardo Gino allungare le unghie. 20


Guardo Stella difendersi braccia e cappello. Raccolgo le penne, le metto in borsa. Saluto la classe. Mentre esco, Gino mi prende la mano, fa un urletto. Sorride.

Simone Torino, nato ad Aosta nel 1979, dopo svariati lavori è precario in un centro diurno per ragazzi con disturbo pervasivo dello sviluppo. Intanto studia lettere a Torino e lavora al romanzo Tsanvale.

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farina

Il fatto è che Giuseppe e La Madonna erano sempre M. e A., sempre loro a dividersi la scena, due punti luminosi attraversati dalla linea del prestigio, stelle fisse in un cielo buio. E sull’orlo dell’universo il tenue belato di una pecora sudata.

racconto bello a cadenza settimanale di nicolò porcelluzzi

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Ogni anno arrivava Natale e nella mia scuola si organizzava la recita di Natale. La suora, in maniera rapida e inconsapevolmente dolorosa, dava vita al cast, con una formula che dopo i primi due anni rimase de facto inviolata fino alla quinta elementare. La recita di Natale era il nome che si dava alla rappresentazione  fedele  –   e  quindi  piuttosto prevedibile – della natività di Gesù Cristo. Per cinque anni ho fatto la pecora. Vestiti di bianco c’erano con me G. e D., uniti nel destino e nel sudore che può provocare la luce del palcoscenico, la fobia di quest’ultimo e una tuta integrale di lana a fiocchi. Alla fine però non era così tremendo. Ce la spassavamo e una volta abbiamo riso così forte che la suora ci ha fatto gli occhi-dirabbia dalla prima fila e noi ci siamo zittiti e abbiamo fissato il vuoto con la faccia rossa.

L’altro giorno sono venuto a sapere che La Madonna è incinta. Partorirà tra due mesi, per la precisione otto settimane. Ha vent’anni. Nei libri si dice che quando si ricevono notizie del genere si rimane allibiti: io sono rimasto allibito e poi ho pensato che effettivamente La Madonna era molto religiosa: aveva parenti preti e chissà i genitori, e soprattutto era La Madonna. Lo Spirito Santo si chiama R., ha 21 anni, un lavoro di merda e discrete doti atletiche. E come potete capire non è Giuseppe.

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Giuseppe, come La Madonna, ha frequentato il mio stesso liceo ma, come La Madonna, era in un’altra classe e ormai gli anni delle medie avevano tracciato le diverse piste di sabbia di noi povere biglie. C’è da aggiungere che forse ero già un piccolo Barabba. Di entrambi posso dire di avere un identikit aggiornato fino all’esame di maturità – nel caso de La Madonna quindi si rivela insufficiente, avendola vista soltanto in una versione precedente alla Sacra Inseminazione. Giuseppe è potentemente stempiato, ha una perpetua espressione da bambino della Kinder, una specie di ‘r’ arrotata e un approccio, una gestualità e un modo di fare rubati al padre di Dawson (Creek). Degli informatori mi hanno riferito che Giuseppe è fortemente leghista, ha una grande passione per il rap ITALIANO e mainstream, e che cercando bene si può trovare su YouTube un video di qualità discutibile in cui il Nostro si cimenta in una cover di Tiziano Ferro (periodo pre-outing).

La Madonna, fin da piccola, era oggettivamente carina, alta, esile, il naso lievemente affilato in mezzo a due occhi blu dentifricio. Un giorno, penso in quarta elementare, lei io e altri due formavamo un piccolo gruppo, probabilmente nell’ambito di un lavoro sulla parabola del figliol prodigo – sono serio. Ora, non so precisamente come, ma si arrivò a scrivere parolacce quali TETTE e CULO tra le righe sbiadite di un foglio protocollo, e non pago, qualcuno violentò i margini viola disegnando quello che non poteva essere altro che un pene. La qualità non era michelangiolesca, ma il significato era inequivocabile: era proprio un bel pisellone. Un sottile mare rosso fuoco inondò dolcemente le guance de La Madonna, i suoi occhi diventarono spugnette – anche se un sorriso imbarazzato ancora le sottolineava il viso, e… il Segno partì. Sì, si era fatta un rapido segno della croce, fugace, sistro al vento, però era partito, ed era compiuto. Lì capimmo che La Madonna poteva essere soltanto lei.

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una grandinata di ghiaia si rovesciò sul mio esile corpicino. Passava di lì La Madonna, sfiorando appena il cemento: la sua attenzione si concentrò su di loro, in particolare sul suo sposo. «Giuseppe, perché vai facendo questo?» «Perché è un co…» «Giuseppe, mio infantile amore, condanna la violenza, allontanati dal gesto malvagio! Non ingrossare le fila del Male, non ingrassare il maiale diabolico. Ricorda, chi non ha peccato, scagli la prima pietra.» E i sassi volarono dalla terra alle sue mani, senza un sibilo. Un passante disse: «Questa l’ho già sentita.» Ho visto dei raggi lunari nascere dalla Sua pelle, i miei occhi si sono bagnati, ho sentito un liquido caldo riempirmi il ventre.

5. Trentatré giorni e trentatré notti passeranno, Vergine [sic] nostra. Si estirperanno come radici putride le tentazioni del diavolo, i ripugnanti desideri di frutti di bosco alla terza ora del mattino, si esaurirà la vena della orrida nausea e annegherà nei gorghi del tempo il suo deforme figlio Vomito. Un nuovo inizio, l’aurora del Mondo, una luce infinitamente più intensa del più potente neon Osram scaturirà dalle tue lunghe e affusolate gambe, e ricorda: fuggi dalle spire dell’invidia, ricaccia l’angelo che si dice del Signore! 4. In nessun modo riesco a ricordare il motivo, però una dozzina di anni fa ero seduto sull’asfalto di un campo da basket, e dei bambini mi stavano tirando dei sassi con mirabile ferocia. Schierati come un plotone d’esecuzione, vedevo le loro sagome in controluce. Giuseppe era a capo di questa efficacissima sassaiola, e il ricordo è talmente vivido che è come se i suoi schizzi di saliva fossero qui a bagnare il foglio. Dopo un inutile e (molto) breve preambolo, interrotto da sghignazzate chiaramente innaturali,

3. Sensazione simile a quella provata da La Madonna abbracciando lo Spirito Santo otto mesi fa. Il seme che non doveva esistere è partito dai – scusate – testicoli di un giocatore di pallavolo semiprofessionista e 24


protagonista di esperienze lavorative rade come i denti di un rastrello o come – scusate – i capelli di Giuseppe. Quella sera, due ore prima, si era al set finale, e Conegliano stava recuperando il vigore perduto nell’ultima mezzora. Guidata dall’araldo del successo, dal puro Spirito, la squadra si allungava e contraeva, strappava palloni destinati al contatto terreno, respirava e pulsava come un solo organismo. Il Cuore era lui, alto come il più alto dei cavalli (al garrese), in perpetuo movimento, collante spirituale. 13 a 10. Il boato del popolo li spinge, li solleva e li scaglia come un frastuono di sangue nelle orecchie, la folla urla. «R.! R.!» e tra la gente Lei, La Madonna, percossa da emozioni vibranti, bramosa di vittoria dei giusti, proiettata ai miracoli irripetibili che accadranno in quella notte. 14 a 13. E allora lo Spirito si staccò dal suolo di linoleum, rimase sospeso per istanti oceanici nel suo elemento, l’aria, e infilò una schiacciata massiccia, massiccia a tal punto da slogare il polso di un misero avversario fariseo. E il palazzetto esplose. Già.

2. Nella sua cameretta, Giuseppe continua la ricerca. Affacciandosi alla finestra, scruta oltre le nuvole con la matita in bocca. Cerca ispirazione, sentimento, qualunque cosa lo porti alla quadratura del cerchio. Delle volte, in questi momenti difficili, duri, il pensiero di abbandonare la nuova canzone alla seconda riga della prima strofa, lo sfiora, lo tenta. Nel viale saetta un’auto grigia a una velocità inaudita, il clacson che suona, le altre auto che si scansano. C’è un fazzoletto bianco che sporge dal finestrino anteriore, pizzicato tra il vetro e la portiera. Giuseppe alza gli occhi dal foglio, nota il fazzoletto, chiude la finestra. Sospira e si sputa la matita nel pugno: Non posso vivere senza, ah, come ossigeno, come un treno per Piacenza investe un indigeno, la mia vita è emergenza.

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«Tranquilla, stiamo arrivando, respira, respira, res…» «Quando mi toglieranno ‘sti pantaloni fradici sarò tranquilla, R.!» Così dissero. E le porte si aprirono: comparvero i messi del Cielo, che con mano sicura e giusta, li accompagnarono dove tutto doveva avere inizio. E fu sera e fu mattino, e R. potè accendersi la prima sigaretta di una nuova era.

1. Io se chiudo gli occhi e penso a questa storia, penso a Gesù bambino. Solo ora mi viene in mente. Un anno, alla recita, dopo settimane e settimane di prove, sfibrati da stress e stanchezza, nessuno aveva pensato a Gesù Bambino. Come dimenticato in una macchina, vittima di un’afa spirituale. Davanti a M. e A. il nulla, assolutamente niente, indicavano il vuoto. Stavano già imparando. Erano bravi a far finta che ci fosse qualcosa. 0. Nove lune sono morte, Nazareth si avvicina. Gli alberi del viale sfrecciano lasciando pochi residui sulle retine de La Madonna, e la Renault Megane, grigia come il metallo, slabbra la strada, spinta dalle Mizuno dello Spirito Santo, sempre pronto, onnisciente, nonostante l’allenamento delle 17. Lucido, nonostante il delicato compito, nonostante i lembi della Sacra Sindone – inchiodata al finestrino – accarezzino la sua visuale. La freccia catarifrangente incide loro la via, con colpi sempre più potenti, ravvicinati, la Croce Rossa e il Lettino, segni sempiterni.

È nato a Mestre il 31 luglio 1990. Ha frequentato la scuola materna, poi le elementari e il liceo scientifico. Ora studia lingue e culture moderne e contemporanee (inglese e russo). Suona male la chitarra, però con tanto sentimento.

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