APPROFONDIMENTO
Giustizia alternativa
Libertá di Parola 2/2014 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
L’ordinamento penitenziario italiano prevede diverse modalità di esecuzione delle pene, che vanno dalla privazione totale della libertà a limitazioni parziali di essa. Il carcere in altre parole è solo un aspetto del sistema. In questo numero parliamo perciò di misure alternative alla detenzione. Tra queste l’ultima ad essere stata introdotta dal legislatore è la giustizia riparativa. a pagina 9
CODICE A S-BARRE
Dalla nostra redazione in carcere a pagina 4
L'EVENTO
"Non giudicare!! Pensieri di uomini non liberi", il nuovo libro di RdP a pagina 12
INVIATI NEL MONDO
Ex Birmania, nel paese del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi a pagina 13
CIRCO SOTTO LE STELLE
A Frisanco torna il "Brocante" di Sara Rocutto Ogni estate, da ormai otto anni, si radunano a Frisanco artisti circensi da tantissimi Paesi per dare vita a “Brocante”, il Festival Internazionale di Circo contemporaneo. Dal 28 luglio al 1° agosto anche quest'anno gli artisti riempiranno i cortili, le case, le piazze, per raccontare ad un pubblico sempre più numeroso (diecimila i partecipanti dell'ultima edizione) i propri spettacoli. Cosa vuol dire essere artisti circensi e cosa vuol dire parlare di Circo contemporaneo ce lo siamo fatto spiegare direttamente da Roberto Magro, il direttore artistico del Festival. «Essere artista circense – spiega – significa trovare, attraverso il circo, un modo di parlare di sé. Significa giocare quotidianamente
con i propri limiti, scrivere uno spettacolo, costruire il proprio linguaggio. La personalità e l'unicità della proposta artistica sono le peculiarità del Nuovo Circo: significa uscire dall'idea del “numero”, si cerca di raccontare molto di più di una sequenza tecnica». A dare a quest’arte questa nuova veste fu la prima Ecole Nationale de Cirque. «Fu fondata a Parigi nel 1974 – ricorda Magro - ed ha aperto alla democratizzazione dell'arte circense, prima riservata a chi nasceva nelle famiglie che già facevano circo». Oggi è proprio grazie alle scuole che si diventa artisti circensi: si riceve un’educazione a vari livelli, dalla danza al teatro e in più ci si specializza in una disciplina particolare.
Dal 2007 ad oggi “Brocante” si è conquistato fama internazionale. Se, infatti, nella prima edizione del festival furono 20 gli artisti che Roberto Magro portò in Val Colvera dalla scuola Flic di arte circense di Torino, oggi ecco che il numero è salito addirittura ad oltre 200 e sono artisti che arrivano da esperienze formative sviluppate in tutte le scuole d'Europa. «Chi era un giovane artista otto anni fa – dice Magro - oggi è un artista affermato, magari con una propria compagnia, e torna a Frisanco perché ormai "Brocante" è diventato un punto di riferimento». Tutti gli artisti costruiscono assieme l'esperienza del festival, dove è fondamentale la relazione con gli abitanti della Val Colvera che, rimarca il direttore artistico, «ci permette di azzerare per una settimana la barriera tra artista e pubblico, entrancontinua a pagina 2
NON SOLO SPORT
Il Pordenone Calcio ha riconquistato la serie C continua a pagina 16
IL PERSONAGGIO
Oriana Fallaci: donna e giornalista indimenticabile a pag. 18
IL TEMA
Ad agosto sarà la volta di "Arti e Sapori" A Zoppola la Pro loco ospita la fiera dello spettacolo di strada. Coinvolte tutte le associazioni di Sara Rocutto A Zoppola da dieci anni succede ogni estate: il paese si rimbocca le maniche, le associazioni e i ristoratori allestiscono i chioschi e più di cento artisti arrivano a popolare le vie. “Arti e Sapori”, la Fiera Internazionale dello Spettacolo di Strada, è pronta ad alzare il sipario anche quest'anno nelle giornate dell'1, 2, 3 agosto. Subito dopo "Brocante"? Ebbene sì! Perché dal 2007 il rapporto con il Festival "Brocante" ha dato vita ad una fruttuosa collaborazione che permette di ospitare a Zoppola alcuni degli artisti di arte circense che si esibiscono anche in Val Colvera. Paolo Paron, direttore artistico di “Arti e Sapori”, è colui che ogni anno ha il compito di selezionare quali artisti far esibire. «Nei primi anni il Festival era molto più legato agli artisti di strada e ai buskers, i musicisti di strada – racconta - oggi diamo molto più spazio invece al Circo contemporaneo». Nella scorsa edizione dello spettacolo visitatori sono stati circa ventimila. Pensare che tutto era nato dieci anni fa dalla volontà di Lino Pagura, allora assessore alla cultura, e Roberto Pagura, direttore artistico del Molino Rosenkranz, di dare vita ad una vera e propria festa di paese, visto che a Zoppola mancava, cercando di darle una
connotazione diversa rispetto a quelle che già erano fatte altrove. La Pro Loco di Zoppola in questi anni è riuscita a coinvolgere tutte le associazioni del luogo: tra chioschi e allestimenti tutto il territorio è completamente impegnato a garantire la miglior organizzazione possibile delle serate. Il risultato è che oggi il festival di Zoppola è una vetrina interessante nel panorama non soltanto italiano e lo testimonia il numero di artisti che ogni anno fa domanda di parteciparvi. «Ogni anno conferma Paron - riceviamo decine e decine di proposte di artisti dall'Italia e dall'estero e il mio compito è proprio quello di vagliare e selezionare chi ospitare a Zoppola». Nell'edizione 2014 quella di sabato, come da tradizione, sarà una notte bianca: gli spettacoli continueranno fino a notte fonda. La domenica sera invece è attesa una performance collettiva degli artisti di Zoppola. Ma sui nomi degli artisti, nel momento in cui il nostro giornale va in stampa, le bocche sono ancora tutte cucite. Per rimanere aggiornati sul programma finale non resta quindi che tenere d'occhio il sito della Pro Loco www. prolocozoppola.it o seguire la pagina facebook della Pro Loco del Comune di Zoppola.
continua dalla prima pagina
compagnia Rital Brocante, di cui facevo parte – spiega Magro - decidemmo di realizzare uno spettacolo a Frisanco, il paese dal quale provengo, per portare il circo davanti alle case delle persone. Dopo tre anni, assieme all'amministrazione comunale, abbiamo pensato: perché invece di uno spettacolo non ne facciamo arrivare tanti?». Così da
do nelle loro case e nei loro cortili». Chi arriva a Frisanco lo fa anche per la magia del posto: non ci sono in Italia altri festival come questo. Ma come mai tutto ciò accade proprio a Frisanco, piccolo paesino della montagna maniaghese? «Nel 2002 con la
Siamo l'antidoto alla paura e alla solitudine Giulio Ottaviani in arte è il Dottor Stok di Milena Bidinost Nelle piazze, accanto al Circo contemporaneo, c’è anche l’arte di strada. Sono due mondi distinti, che si corteggiano, si sfiorano e s'intrecciano spesso, ma che rimangono tali. Entrambi però contribuiscono a dare valore aggiunto allo stare insieme. Sono arti in continua evoluzione. «Negli ultimi anni in Italia l'arte di strada ha subito un radicale cambiamento, innanzitutto nel numero di artisti che si esibiscono, merito delle varie scuole di circo che hanno aperto nel nostro paese, ma prima ancora di quel fantastico gruppo di saltimbanco che tra la fine degli anni ‘90 e l'inizio del secondo millennio ha deciso di condividere le proprie conoscenze, organizzando le prime convention nazionali di giocoleria». E’ quanto ci spiega Giulio Ottaviani, classe 1979, originario di Latina, nome d'arte Dottor
Stok. «Da allora – prosegue - il livello tecnico degli spettacoli non ha fatto che crescere, la quantità di persone che si dedicano a quest'arte è decuplicata, cambiando profondamente anche il modo di percepire l'arte di strada». Quando ha iniziato ad esibirsi, tredici anni fa, per Ottaviani una delle cose più difficili era far capire alla gente che non stava facendo l'elemosina. «Oggi – dice - le persone sono invece più abituate ad incontrarci nelle piazze, la diffidenza è diminuita notevolmente. Un'eccezione a tutto questo è rappresentata da quelle piazze che risultano troppo affollate di artisti: qui, a volte, l'abitudine si è trasformata quasi in noia. Ciò è la conseguenza del fatto che tante amministrazioni comunali ancora oggi vietano di esibirsi sul proprio territorio e quindi gli artisti di strada fi-
allora continua la collaborazione con l’amministrazione comunale e dal 2010 "Brocante" è diventata associazione. Nel programma dell’edizione 2014 si annovera la partecipazione di compagnie da tutta Europa, fra cui Finlandia, Francia, Polonia, Belgio, Germania. Quest'anno, grazie al gemellaggio con il Certamen Coreografico di S. Josè,
arriveranno artisti anche da Costa Rica e Brasile. Nos No Bambu, Betti Combo, Magda Clan: questi sono solo alcuni dei nomi delle compagnie che animeranno la settimana di Frisanco assieme a spettacoli di danza e musica. Per i bambini ci saranno lezioni di circo e spettacoli particolarmente dedicati a loro. La pioggia non fermerà l'evento:
niscono per concentrarsi per lo più su piazze più disponibili ad accoglierli». Ottaviani ha iniziato a fare l'artista di strada nel 2001. Nel 2005 si è laureato al Dams (discipline dell'arte della musica e dello spettacolo) di Bologna. Dopo di che questa sua passione è diventata a tutti gli effetti il suo unico lavoro: è un artista nomade che negli ultimi otto anni ha fatto di una roulotte la sua casa. Tra il 2006 e il 2008 ha frequentato la scuola di circo Flic Di Torino, specializzandosi in giocoleria. Ha lavorato assieme a delle compagnie; dal 2000 si presenta nelle piazze da solo. E’ successo anche al “Brocante” e ad “Arte e Sapori”. Il suo attuale spettacolo si intitola “Sperimentazioni analogiche di fisica di strada”, una performance di giocoleria con oggetti di uso comune come pentole, mestoli coperchi e cuscini. Dottor Stok trasforma, davanti agli occhi del pubblico, il suo carretto in un grande meccanismo ad effetto domino, in cui ogni elemento innesca un altro. Per lui «l'arte di strada è l'antidoto contro la paura, contro il razzismo di ogni specie e contro la solitudine». «Mi piace pensare – dice - che quando una persona abituata ad una vita sedentaria esce di casa in una giornata di sole per andare a comprare le sigarette e per caso incontra sul suo cammino uno spettacolo divertente, diviene più propensa ad uscire più spesso, a viversi la piazza e le persone». Se è vero però che in Italia l’arte di strada ha fatto passi da gigante, resta ancora in coda ad altri paesi d’Europa. «Fin quando avremo governanti che trattano l'arte come una merce non andremo tanto lontani – commenta Ottaviani -. Per un artista che vuole vivere della sua arte è difficile farlo in Italia: i pochi fondi pubblici sono mal distribuiti e la figura dell’artista assai poco riconosciuta. Dobbiamo fare ancora molta strada per dare la giusta dignità all’arte”. tutti gli spettacoli si svolgeranno in caso di necessità al coperto. Qualche ulteriore consiglio? «Portare qualche soldo in tasca – conclude il direttore artistico - perché il Festival si autofinanzia ed è grazie al pubblico che ogni anno possiamo offrire un prodotto di qualità». Tutte le informazioni si trovano nel sito del festival: www.brocantiere.com
«Tocchiamo mente e cuore del pubblico strappandogli un sorriso » Andrea Brunetto e i “Madame Rebinè” saranno tra gli artisti del “Brocante” di Milena Bidinost «Siamo in un’epoca in cui l'impatto è tutto: ci si stupisce sempre di meno e la gente non ha più tempo per ascoltare. Ecco quindi che il circo prende l'occhio, non ha bisogno di parole, semplicemente coinvolge». Andrea Brunetto ha 26 anni. Nato a Reggio Emilia, vive a Toulouse, in Francia, e dal 2010 lavora con la compagnia italofrancese i “Madame Rebinè”. E’ un artista circense a tutto tondo e della sua arte ama il “disequilibrio dell’essere artista”, “l’andare verso il pubblico” per “smuoverne emozioni e coscienze” su temi anche complessi come la malattia, la vecchiaia, la solitudine, approfittando dell'umorismo tipico dei clown, del teatro
e delle tecniche di circo. A Pordenone Andrea, la prima volta, ci è venuto anni fa per frequentare il master class di commedia dell'arte della “Scuola sperimentale dell'attore”. Da allora ci è ritornato diverse volte per spettacoli e partecipazioni a festival. Il 30 luglio lo rivedremo di nuovo assieme ai “Madama Rebinè” a Frisanco per il “Brocante”, e il 3 agosto a Maniago. Da giovane Andrea aveva il sogno di diventare come “Patch Adams”, un clown di corsia: iniziò così a giocolare a 16 anni, per caso. A 18 frequentò la scuola di circo Flic di Torino, quindi il “Katakomen” di Berlino e infine “Le Lidò” a Toulouse. «Per me – racconta Andrea – l’artista nasce
da un'instabilità, decide cioè continuamente di non stare nel proprio asse, dritto e stabile su di sé, per andare invece incontro al pubblico. Per la nostra compagnia ogni spettacolo deve aver la presunzione di smuovere chi lo guarda, dare emozioni (divertimento, paura, nostalgia, tristezza), ma portare anche lo spettatore ad interrogarsi». Giocoleria, musica, danza, acrobatica, mimo: sono le tecniche che i “Madama Rebinè” fondono insieme per arrivare al cuore del loro pubblico. «La caratteristica del nostro stile – dice - è la ricerca dei contrasti: una situazione comica può avere un retrogusto amaro; una situazione triste dei momenti divertenti. Perché è questo che accade anche nella vita, nulla è solo in un modo”. La freschezza, l’energia e la complicità tra gli attori sono ciò che più coinvolge il pubblico dei “Madama Rebinè”. I loro spettacoli tradiscono infatti anche la sintonia del gruppo, il lavoro fatto spalla a spalla ogni giorno, in altre parole portano in scena non solo la tecnica, ma anche l’umanità degli artisti che si esibiscono. «Il bello del teatro e del circo – afferma infatti Andrea - è che è vivo, nessuna replica sarà mai uguale all'altra, è imperfetto. Sta qui il rischio: nella fragilità del giocoliere che, se sbaglia, rompe “la poesia dell'oggetto che vola”». Andrea e la sua compagnia rappresentano in altre parole ciò che è oggi il circo contemporaneo. «Il circo esce dai vecchi tendoni e si libera degli animali – dice - smette d'essere solo puro intrattenimento, per parlare in maniera più complessa al pubblico, creare storie, dare vita a mondi che possono arrivare ad essere davvero surreali, grazie alla magia, il mimo, l'acrobatica. Creare suggestioni e così stupire con il circo e far ridere con il teatro”. Facile non è, perché oggi per essere dei buoni circensi bisogna essere buoni trapezisti o giocolieri o equilibristi, ma avere anche una formazione in teatro, nozioni di acrobatica, danza e musica. «Il circo oggi è più attuale di quanto si pensi – conclude Andrea -. Viene insegnato in diverse scuole, viene usato per progetti umanitari in Africa o con persone diversamente abili. Sempre più eventi di piazza chiamano compagnie di circo per fare spettacoli, come succede da voi con il “Brocante" e “Arte e sapori”, ma non solo».
Prosegue il lavoro della redazione del nostro giornale nata all'interno della Casa circondariale di Pordenone. “Codice a S-barre” è uno spazio interamente gestito dai suoi detenuti.
Da un carcere all’altro Pordenone e Treviso, i pro e i contro di due mondi diversi eppure sempre chiusi dietro alle sbarre di Emanuele Garbin Voglio scrivervi delle difficoltà che ho provato nel trasferimento tra un carcere e un altro. Mi hanno arrestato il 4 marzo 2013 ed ora mi trovo rinchiuso nel carcere di Treviso da dicembre dello stesso anno. Quando mi hanno arrestato mi hanno portato nel carcere di Pordenone. All’inizio mi sentivo perso e spaesato: mi trovavo in una cella quattro metri per sei, con altri cinque detenuti, di cui l’unico italiano ero io: gli altri erano di etnia marocchina, polacca e rumena. All’inizio stavo sulle mie, perché non conoscendo le persone non sapevo come muovermi. Col passare dei giorni ho iniziato a fare amicizia con i miei compagni di
cella e da lì è nata una bella sintonia, parlavamo, giocavamo a carte e così via. Con gli agenti nel primo periodo non sapevo come comportarmi, avevo sempre un battibecco perché vedevo che molte cose che un detenuto si aspetta non funzionavano come pensavo. E’ andata così fino a quando non mi sono calmato: ho capito che col mio fare non combinavo niente, perché qui dove mi trovo qui se hai ragione o no non ha importanza, vincono sempre loro. Inizialmente le mie giornate cercavo di passarle nel miglior modo possibile: giocavo a ping-pong, alla mattina correvo, facevo i corsi e ho fatto anche qual-
che disegno. Dopo un mese che ero lì, mi sono inserito nei gruppi per l’alcolismo, mi sono trovato bene e mi hanno fatto capire che quello che mi portavo dentro non era giusto e che mi rifugiavo nell’alcol. Io, che sono un tipo molto riservato, nel gruppo mi esprimevo e dicevo quello che mi sentivo di dire, quello che mi portavo dentro senza mai buttarlo fuori. Questo mi è stato utile per lottare contro l’alcol, il mio problema da una vita. Insomma, partecipare a quelle sedute mi ha aperto gli occhi. Ho così avuto l’opportunità di riallacciare il rapporto con la famiglia e, credetemi, questo è l’obiettivo più bello che ora ho. Lo voglio portare fino in fondo, anche e soprattutto per un domani quando mi troverò fuori. Là starà il vero pericolo, perché fuori dal carcere se vuoi l’alcol lo trovi ovunque. Ora che ho più vicino che mai la mia famiglia, sono convinto che lo combatterò anche fuori. Con il passare dei mesi a Pordenone ho partecipato anche al gruppo dell’associazione “I Ragazzi della Panchina”, dove ho conosciuto due persone me-
ravigliose che fanno il loro lavoro perché lo amano e non perché sono obbligati a sbarcare il lunario. Questo gruppo mi ha permesso di mettermi in gioco scrivendo alcune cose che mi riguardavano personalmente ed io ci andavo molto volentieri. Mi sono messo in gioco e quello che ho scritto è stato pubblicato sul giornale di quest’associazione “Libertà di Parola”: è stata una cosa molto bella e ancora oggi che sono nel carcere di Treviso, continuo a scrivere. Lì a Pordenone noi detenuti avevamo tre ore e mezza d’aria e il resto della giornata lo passavamo in cella; non avevamo molti corsi e così ho imparato a leggere i libri che c’erano in biblioteca e sinceramente i volumi li ho letti quasi tutti. In carcere il tempo si ferma. Non hai molte opportunità lavorative: con questo sistema mi chiedo, quindi, come possa un detenuto essere rieducato e reinserito nella società”. Ho trascorso circa nove mesi a Pordenone, poi dopo il primo grado di giudizio e la condanna sono stato trasferito a Treviso. Tendo a precisare che i trasferimenti non li
Parlarsi con una lettera Spicchi di festa Scrivere permette a me e a mia tricolore moglie di sentirci più vicini di Andrea La prima lettera che ho ricevuto da mia moglie mi ha fatto piangere dalla gioia. Lo stesso fu per lei con la mia. Le lettere per me e mia moglie sono molto importanti ed ogni giorno ci scriviamo e aspettiamo di riceverle. Sono molto importanti perché ricevere una piccola parola o notizia e saper che l’altro sta bene ci fa stare meglio tanto da farci cambiare la giornata e l’umore. Nelle lettere parliamo e discutiamo molto sui vari problemi da risolvere e cerco di darle i miei consigli su come o cosa fare nelle diverse situazioni. Sono molto orgoglioso di lei, dato che prima ero solo io a risolvere
i problemi, mentre adesso lei si ritrova ad avere una grande responsabilità visto che deve gestire tutto da sola, anche la nostra attività. Lei poi mi racconta delle novità che succedono fuori e mi tiene informato su un po’ di tutto e, tra una lettera e l’altra, esprimiamo sempre i nostri sentimenti. Parliamo anche molto dei nostri progetti per il futuro ed al primo posto c’è un bimbo: lo abbiamo sempre desiderato. Prenderemo poi casa in Veneto e vivremo la nostra vita felici, con la nostra famiglia. Facendo in modo che ciò che stiamo vivendo ora sia solo un brutto ricordo.
Dalle finestre del Castello canti e immagini dell’87ma Adunata degli alpini di Pordenone hanno toccato il cuore anche a noi di Adriano
Dal carcere, la festa degli alpini mi arriva a spicchi. Dalla finestra della cella, parzialmente oscurata dal frangisole, posso vedere una fetta di strada che sta di fronte al Tribunale. Le persone entrano nella visuale portandoci una gioiosa aria di festa che, attraverso gli schiamazzi, i canti, la goliardia, ti arriva al
cuore come una manciata di coriandoli gettati al vento. Poi quei coriandoli, sollevati dall’aria, escono dalla vista, lasciando un senso di vuoto e di amarezza. Dalla finestra del locale doccia, un diverso angolo di strada ci mostra alpini schierati a mo’ di “presentat’arm” (presentate le armi n.d.r)! Una batteria di griglie
decidi tu e non decidi dove andare. Lo decide il Dap, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Anche in questo caso sono partito con le mie paure, i miei “se” e i miei “ma”. Ora l’unica cosa che mi fa combattere e reagire è la mia famiglia. La mia forza d’animo arriva dai miei bambini, un maschietto di sette mesi e tre femminucce più grandi. La mia lotta contro l’alcol la sto combattendo per le persone che credono in me e che mi danno supporto. Ora qui a Treviso sto lavorando per una cooperativa: buco i bidoni dell’immondizia e prendo 10 euro al giorno, non sono molti ma per me che non fumo mi bastano e a fine mese sono 260 euro: 100 euro li tengo per me e 160 li do a mia moglie. Mi trovo in una cella da due persone e lavoro. A differenza di Pordenone, in questo carcere ci sono le scuole elementari, le medie, le superiori e tante opportunità di corsi. Sono più vicino alla mia famiglia: mia moglie doveva farsi 110 chilometri per venire a Pordenone, ora invece ne ha solo 20. E così anche lei è un po’ più serena. fumanti di aromi, che a fette arrivano a risvegliare i ricordi di scampagnate, grigliate, bevute con gli amici e le famiglie. Anche i canti sembrano arrivare a pezzettini, da ogni lato del carcere, da ogni finestra arriva un canto, la musica di una fanfara, una risata. Non mi aspettavo proprio che la festa entrasse fin dentro le mura, ma è successo e addirittura il coro degli alpini di Oderzo è venuto a condividere con noi un concerto, che si è tenuto nel cortile dei passeggi. Ho potuto vedere negli occhi degli alpini un iniziale imbarazzo, vuoi per il posto, vuoi perché in fondo da dei detenuti non si sa cosa aspettarsi. Ho visto quell’imbarazzo sciogliersi nella semplicità dei loro gesti, nell’accogliere fra loro chi di noi avesse voglia di provare a cantare. Ho apprezzato il gesto di rompere il rigore delle distanze istituzionali al termine del concerto, un rompete le righe atto a portare una sentita stretta di mano. Come un abbraccio sincero.
Minore non accompagnato «A 15 anni lasciai il mio paese per l’Italia. Fui accolto in una comunità per minori» di Marcel Sono Marcel, un ragazzo moldavo. In Italia arrivai la prima volta all’età di 15 anni, illegalmente, senza i miei parenti. Partii alla ricerca di un futuro migliore: ero infatti già a conoscenza dell’esistenza delle comunità per minori, avendo amici che vi erano inseriti e mi avevano detto come funziona. Quando arrivai in Italia mi presentai ad una comunità di Marghera. Gli operatori che mi accolsero, mi accompagnarono prima dai carabinieri per compilare dei fascicoli, dopo di che potei cominciare la
vita di comunità. In seguito, dopo aver frequentato dei corsi di italiano, fui inserito alla scuola media. In comunità eravamo 14 minorenni di varie nazionalità, condividevamo una casa di due piani, insieme a degli operatori che si prendevano cura di noi. La vita nella comunità era bella, mangiavamo insieme, facevamo delle gite, andavamo a giocare a calcio. I più vecchi facevano degli stage di lavoro ed altri avevano già un contratto. Anch’io ho fatto un corso per diventare meccanico e ho
Leggere «Nei libri cerco storie che mi facciano desiderare di leggere ancora altre storie» di Marco Z. Partecipo al laboratorio “Codice a S-barre”, il cui scopo principale è scrivere. Ho anche iniziato a frequentare il corso di scrittura creativa, sempre all’interno del carcere. Ma allo scrivere preferisco il leggere. Leggere mi è sempre piaciuto, in alcuni momenti della vita di più, in altri meno. Questo è uno dei momenti in cui leggo di più. Quello che cerco in un libro è una storia ben raccontata, non m’interessa se non è un “classico” o un “bestseller”: anche se li leggo, mi basta una bella storia, ben raccontata. Una storia che mi faccia trovare scuse per non smettere di leggere, anche se ho
cose più importanti da fare. A volte trovo queste storie, a volte no; se non le trovo, non è un problema, un libro non ti impone di leggerlo fino alla fine, puoi lasciarlo in qualsiasi momento, non hai nessun obbligo verso di lui. Leggere ti permette di conoscere mondi diversi dal tuo, di provare esperienze anche estreme senza rischiare nulla, allarga i tuoi orizzonti, oppure più semplicemente ti fa passare qualche ora lontano dai problemi della vita. Quando si sceglie un nuovo libro non si dovrebbero avere preclusioni su genere o autore. Io però tendo ad essere un po’ conservatore
lavorato presso un’officina. Però mi mancavano molto i miei parenti, la mia terra e, appena compiuti 17 anni, sono tornato nel mio paese, abbandonando la comunità e il lavoro che avevo. Il ricordo della comunità è rimasto forte in me, perché lì ho vissuto un’esperienza molto importante, grazie alla quale ho avuto la possibilità di crescere ed imparare molto e, poiché eravamo tanti ragazzi di nazionalità diverse, ho conosciuto tante culture. Anche se a volte avevamo difficoltà a capirci su certe cose, accettavamo tutti le nostre diversità. Per me è stata una bella esperienza e spero che anche per il futuro queste comunità possano aiutare i minori che ne hanno bisogno, offrendo loro educazione e possibilmente un futuro migliore. Io sono stato uno di loro e, anche se non sono riuscito a rimanere in comunità fino ai18 anni, l’età in cui di solito la si lascia, ho imparato comunque molto. Per questo ringrazio tutti quelli che si occupano di questi minori. nella scelta, non leggo romanzi rosa, preferisco altri “colori”, il giallo per esempio. Tra gli autori che preferisco, il primo posto spetta sicuramente a Georges Simenon, autore di gialli, ma non solo. Tra i personaggi dei suoi libri quello che preferisco non può essere che il commissario Maigret. Non saprei descrivere il perché mi piace, ma i personaggi, le vicende che riguardano sempre la piccola borghesia della città e della provincia francese, il modo in cui sono costruite e raccontate mi coinvolgono molto. A volte immagino il commissario, mi sembra di vederlo mentre si muove per la città, conducendo le sue inchieste. Quando poi finisco un suo romanzo, vorrei averne subito un altro da iniziare. In questo sono stato fortunato, Simenon è stato un autore molto prolifico, ho ancora tanto da leggere di suo. Comunque ci sono altri autori che mi aspettano. E’ questa la difficoltà della lettura, loro sono in tanti a scrivere e tu sei solo a leggere.
Dove ti metto la cicca? Il fenomeno dell’abbandono dei mozziconi di sigarette rappresenta un grosso problema per l’ambiente. Il primo rimedio è l’educazione Di Guerino Faggiani Ammonta a 1,5 miliardi il numero dei fumatori nel mondo. Tra questi ci sono pure io. E’ un dato impressionante, non solo per ciò che attiene alla salute dell’uomo, ma anche per quella dell’ambiente. Parlare di fumatori infatti porta in evidenza anche il problema dello smaltimento dei mozziconi. Solamente da noi, in Italia, i fumatori sono 13 milioni: attenendosi alle stime di consumo medio a cui si allinea l’Ausl di Bologna, in un anno questi consumatori immettono nell’ambiente 72 miliardi di cicche. Un fenomeno inquinante tanto micidiale quanto sottovalutato, con un impatto sull’ambiente pari a quello dei rifiuti industriali. Sono infatti oltre 4000 le so-
stanze nocive che si innescano quando si accende una sigaretta. C’è di tutto, persino composti radioattivi come il polonio-210. La materia plastica non biodegradabile, l’acetato di cellulosa, di cui è fatto il filtro che si impregna di queste sostanze, impiega cinque anni per decomporsi. Detto questo è facile catalogare il dossier mozziconi nella zona rossa, quella in cui ci sono i prodotti “danger”, pericolosi. Neanche il mare si salva da tale scempio. Nel Mediterraneo le cicche risultano essere il 40% dei rifiuti: bottiglie di plastica, borse di nylon e lattine di alluminio, non vanno oltre il 25.6%. Un dato inaspettato, vero? Da qualche anno si comincia a
dargli la giusta importanza e a tentare “cure” per contenere il fenomeno dell’abbandono incivile dei mozziconi in strada ed aree verdi. Un esempio positivo di ciò è rappresentato da una intelligente iniziativa del comune di Ferrara, che per la seconda volta ha promosso una campagna di sensibilizzazione contro l’abbandono selvaggio dei mozziconi di sigaretta denominata: “Ferrara pulita piace anche a chi fuma”. Consiste nella distribuzione degli “Ecoastucci” tascabili, nei quali i fumatori possono mettere le loro cicche. Questo contenitore è internamente
rivestito con una pellicola di stagno che assicura lo spegnimento immediato della sigaretta e può essere usato più volte. A completamento dell’opera, sono stati posizionati in città 50 raccoglitori fissi di “Ecoastucci”, in modo tale da procedere ad uno smaltimento appropriato grazie anche alla collaborazione di esperti nella raccolta differenziata. Proprio lo smaltimento infatti è il problema maggiore: la cicca infatti non è classificata come “rifiuto tossico per l’ambiente” e quindi non viene trattata come tale e smaltita adeguatamente. Indipendentemente da quanto
CELOX Eccoci qua a parlare di calcio. Il campionato è finito da poco ed il mondiale è già lì, pronto per cominciare. La partita iniziale sarà il 12 giugno la finale il 13 luglio al Maracanà. Un mese di chiacchere da bar sport accompagnerà gli oltre 50 milioni di tifosi e farà da sottofondo a questo mese di passione, gioie, dolori, pronostici e imprecazioni. Intanto i lavori per Brasile 2014 sono in leggero ritardo; è stato investito oltre un miliardo di dollari nella costruzione degli stadi ed il popolo brasiliano è parecchio incazzato perché i soldi potevano essere investiti meglio sul sociale invece che nel mondiale (più scuole, più ospedali ecc). Noi, un po' intristiti dalla crisi e dai problemi quotidiani, cerchiamo un sorriso nel calcio che riporti il buon umore. Compito non semplice per la verità; la serie A è in declino, abbiamo stadi obsoleti e per nulla accoglienti con spettatori in calo, nel ranking europeo siamo scesi al 5° posto in pochi anni, di giovani ne vengono lanciati pochi e spesso sono stranieri. Si il quadro non è bello, però
SARÀ UN MATCH DALLE MILLE SORPRESE Aspettando il fischio di inizio dei mondiali di calcio di Emanuele Celotto Prandelli ha dato alla Nazionale una precisa identità tattica ed etica; la ricerca del risultato attraverso il gioco. La squadra del sorriso e del calcio come momento di festa. Non dovrebbe essere la Nazionale delle polemiche, ma noi non siamo capaci di far-
cele mancare, anzi, quando si respira quel clima da "soli contro tutti" facciamo sfracelli; quella situazione ha fatto da propulsore nelle vittorie del 1982 e 2006. Che torneo sarà? Di sicuro un mondiale un po' difficile da decifrare perché, a parte il Brasile forte
di suo e che gioca in casa, non vi sono grandi favoriti. Limitandoci ai quarti, facile prevedere la Germania che non manca mai agli appuntamenti, la Spagna e/o l'Olanda finaliste dello scorso torneo ci saranno di sicuro, l'Uruguay con un attacco strepitoso, poi non bisogna trascurare eventuali sorprese tipo Belgio o Svizzera, con la Colombia che ha ottime credenziali se recupera il suo bomber Falcao (convocato); incuriosisce il Giappone di Zaccheroni. Il Portogallo, un po' come l'Italia, può arrivare in semifinale come perdersi prima. Aggiungiamoci che in un mondiale non basta essere i più forti per vincere. Conta molto la forma in cui si arriva e come si gestiscono le energie oltre che la fortuna. Noi non abbiamo super campioni, invece abbiamo più di qualche dubbio. Morale, mi vien più facile pronosticare le deluse che le semifinaliste. Tra le deluse "vedo bene" l'Argentina, l'Inghilterra, la Francia e... speriamo di non essere anche noi del gruppo. Ma comunque vada forza Italia, con tutto il cuore e ... buon mondiale a tutti!!!
possano essere lodevoli ed efficaci le “cure”, il grosso del lavoro lo deve fare comunque il buon senso dei fumatori stessi. Non si tratta di puntare indiscriminatamente il dito contro di loro, ma di innescare un cambio di mentalità e di abitudini. A chi fosse tentato di criticare e basta, ricordo che, fino a pochissime generazioni fa, le sigarette erano sollievo e “droga” delle classi abbienti, lavoratori e tute blu in testa, e che proprio grazie ad esse il Monopolio italiano e gli italiani stessi hanno macinato guadagni incalcolabili che hanno contribuito a far crescere questo nostro paese. Magari è cresciuto male, è vero, ma questo non certo per colpa dei soldi dei fumatori. Il fumo è una dipendenza legalizzata, checché se ne pensi, un business autorizzato. Perciò, educare al corretto smaltimento dei mozziconi di sigaretta, così come indurre i fumatori a non fumare più, significa innescare un cambio di mentalità e di abitudini nella mente di queste persone: per fare questo ci vuole tempo e pazienza. Dal canto loro i fumatori spesso dovrebbero ricordare che quella sigaretta da cui dipendono, ha il suo prezzo: anche ai danni dell’ambiente.
E’ sempre buio prima della luce «Nella vita nessuna esperienza è sprecata, nemmeno la droga» di Tina É sempre buio prima della luce! Tornare in libertà, dopo una detenzione, scatena una bomba di emozioni contrastanti. All'inizio, incredibilmente, c'é una certa paura di tornare nel mondo, ci si sente quasi protetti chiusi in quattro mura, anche solo da se stessi. Poi c'é la felicità, ma assieme alla rabbia l'angoscia di doversi riabituare ad una vita sociale, sentendosi però soli e persi tra i civili. E il mio pensiero, non lo nego, é tornato alla droga. Ora nessuno può vietarmi di fare niente: é questo, forse, ciò che più mi spaventa. Durante la detenzione mi sentivo protetta. So quanto incomprensibile sia il mio modo di pensare e il conflitto interiore che scatena per chi non si é mai dovuto scontrare con questa realtà:
ma io resisto con tutte le forze e ora ho deciso di abbracciare la vita. Purtroppo per me le normali passioni non mi son mai interessate abbastanza da eguagliare la passione per la droga. Ho deciso però di ampliare il mio mondo: deltaplano … saltare da un aeroplano … bunjing jumping ... questo mi appassiona. Come una droga. Ho anche deciso di trovare una ragione per riprendere a vivere nel volontariato da seguire e appoggiare. Ho già qualche idea sull'aiutare bambini e anziani che soffrono in ospedale. Ma sto cercando informazioni su come entrare a
Aggiungi un posto a tavola
rato per lui. Io seguo la zuppa e lo lascio a gustarsi il formaggio; non ha detto una parola preso com’è col mangiare. Intanto la zuppa è pronta; servo i due piatti dal altre fette di pane e sapori assortiti. Pranziamo in silenzio, lui immerso nel piacere della zuppa, io felice di vederlo mangiare appassionatamente. Quando finisce gli chiedo alcune cose; adesso che ha soddisfatto un bisogno primario diventa più ciarliero. Dice che sono ormai 20 anni che è in Italia e che ha sempre fatto il “vu cumpra” (ho la vaga sensazione di avere a pranzo “l’ultimo dei Mohicani”). Aggiunge che la stretta della crisi si fa sentire di brutto; prima mandava a
Un incontro casuale, un invito a pranzo ed il piacere di condividere di Emanuele Celotto Un giorno come tanti, mentre sto preparando il pranzo. Una zuppa di fagioli che ci mette un bel po’ a cuocere. Suona il campanello; vado ad aprire immaginando già chi può essere. Indovinato! È il marocchino che passa un paio di volte al mese e che ormai è una figura familiare visto che è già da un bel decennio che ci incontriamo. Gli dico che non mi occorre nulla poi aggiungo che lo inviterei a pranzo, ma serve quasi un’ora perché sia pronto. Annusa l’aria, sente un odore che gli è familiare e risponde: «Va bene finisco il giro e vengo». Dopo la sorpresa iniziale mi accorgo che mi fa davvero piacere averlo a pranzo. Altre volte lo avevo fatto accomodare, ma io avevo già pranzato, quindi
gli offrivo una tazza di caffè o un the. Do il via ai preparativi: apparecchio, taglio un piatto di formaggi come spizzico e, quando manca poco alla cottura, eccolo che ritorna. Entra con un sorriso bello largo e deposita le sue borse. Dopo i convenevoli di rito, si accomoda. Affetto del pane e gli dico che può iniziare dal piatto di formaggi intanto che cuoce la zuppa. Non si fa certo pregare e spazzola quasi tutto il piatto con piacere. Gli dico che può finire tranquillo, che l’avevo prepa-
far parte di questi enti. Questo per dirvi che esistono cose molto più belle delle sostanze, basta allargare i propri orizzonti a nuove vedute. Ogni cosa, anche la più brutta, può essere rivalutata da un altra angolazione e farci scoprire aspetti che prima non vedevamo. E’ questo un chiaro riferimento alla mia vita, che per troppi anni ho disprezzato con tutte le mie forze, sputando in faccia a tutti e a me stessa, vittimizzandomi e piangendomi addosso come una scema. Adesso so che tutto é esperienza e insegnamento, anche le cose più brutte; so che il tempo non é mai stato sprecato per nessuna esperienza e con nessuna persona, perché, anche se non é stato ciò che volevo, é stato ciò che mi é servito per diventare chi ero destinata ad essere. Ricordate: é sempre buio prima della luce!
casa soldi tutti i mesi; da un paio di anni invece lo fa ogni due o tre mesi. Ha la famiglia in Marocco e va a casa una volta l’anno; un figlio va ancora a scuola e, vista l’età del padre, facile che sia all’università. Non c’è tristezza, nè nostalgia nel suo viso, solo una serena accettazione di come stanno le cose. Gli porto un po’ di frutta mentre finisco di mangiare. Gli chiedo come si sente a fine giornata: «Molto stanco –dice-. Quasi sempre mi addormento sul pullman quando torno». Sparecchio e preparo il caffè; quando è pronto lo sorbisce lentamente. Adesso è totalmente rilassato, il suo sorriso dice tutto e le sue palpebre iniziano a socchiudersi in un senso di benessere. Restiamo così per un momento indefinito poi si alza, mi ringrazia un infinità di volte, raccoglie i suoi sacchi e si congeda. Il momento di felicità brilla negli occhi di tutti e due; lui felice per l’accoglienza ricevuta io felice perché l’ospite ha onorato la tavola. La morale? «Aggiungi un posto a tavola che c’è un amico in più, se sposti un po’ la seggiola stai comodo anche tu…».
La giustizia che giudica, ma che non viene giudicata «Giudici e magistrati dovrebbero rendere conto del proprio operato come qualsiasi cittadino. Ed invece?» di Ferdinando Parigi L’idea che un uomo possa “giudicare” un altro uomo e decidere se potrà andare libero o dovrà stare chiuso in una cella (leggi “buco infame” nel caso di quasi tutte le carceri italiane), è un’idea che non mi piace. Per diventare magistrati bisogna essere molto motivati, direi “intenzionati”. Il solo fatto che uno scelga per mestiere di giudicare gli altri e decidere il loro destino, solleva legittimi interrogativi sulla sua personalità. Quando la posta in gioco è molto alta, bisogna selezionare chi gestisce la macchina. Bisognerebbe effettuare in modo sistemati-
co una valutazione oggettiva, scientificamente basata, sulla personalità degli aspiranti magistrati, sui loro trascorsi personali, sulla loro stabilità emotiva, e su tutto quanto sia utile a capire se abbiano i requisiti psicologici per giudicare. Se c’è in ballo la libertà dell’individuo, non si può lasciar decidere a un tipo complessato, che non è sereno perché ha avuto un’infanzia difficile, che è incazzato col mondo, che non vede l’ora di vendicarsi per i torti subiti, eccetera. Venendo all’Italia, chi diventa magistrato ha alcune solide certezze. I nostri giudi-
ci hanno stipendi veramente ricchi, che a un certo punto della carriera sono uguali a quelli di un parlamentare. Hanno l’obbligo di presenza in ufficio per soli quattro giorni a settimana. Rarissimamente un giudice paga per i propri errori: dicono che se un giudice ha paura di pagare quando sbaglia, perde la propria serenità di giudizio. Lo trovo pazzesco. I giudici indagati, in Italia, si contano sulle dita di due mani, come se questa categoria fosse immune dai “peccati” propri di qualsiasi altra categoria professionale; abbiamo migliaia di amministratori pubblici, funzionari, imprenditori, primari di cliniche, professionisti di ogni genere, che sono sotto indagine. Molti sono dietro le sbarre. Ma se cerchiamo di ricordare il nome di un magistrato “sputtanato” dai giornali per aver commesso un reato, non ce ne viene in mente neanche uno. Altro che immunità parlamentare! Tra i magistrati ci sono un sacco di persone per bene; la maggioranza, sicuramente. Tra i magistrati ci sono degli eroi e ci sono di sicuro quelli che stanno sù tutta la notte pur di fare le cose come
si deve, in modo da amministrare la giustizia in nome del popolo italiano al proprio meglio. Molti lavorano sodo, e cercano di far onore alla categoria. Ma non nascondiamoci dietro a un dito: come è vero che molti psichiatri, psicologi, psicoterapeuti sono tipi obiettivamente “strani”, che i dentisti sono dei medici con un debole per i soldi, che gli artisti spesso sono bizzarri, è vero anche che tra i giudici c’è parecchia gente che sembrerebbe quasi avercela col mondo e che voglia regolare un po’ di conti. La giustizia umana mi lascia perplesso come principio; la magistratura italiana mi fa paura. So che i giudici sono indispensabili, ma è inquietante che non siano selezionati. Chi deve giudicare, infine, va come minimo responsabilizzato. Voglio dire che i magistrati (parlo per l’Italia) dovrebbero rendere conto del proprio operato e rispondere di eventuali errori come fa qualsiasi altro professionista. E’ molto antipatico da dire, ma gli errori si pagano. Un magistrato non può sottrarsi a questa regola. Anche perché è il primo a farle rispettare, le regole.
L'ANGOLO DELLA FRANCA I profeti sono sempre stati persone scomode per tutti, per i benpensanti in primis. Perché i veri profeti invitano a "fare conversione", che significa cambiare direzione di marcia (come sulla strada), cosa che non è facile per nessuno; perché usano parole aspre e assolutamente ineducate e, ancor peggio, compiono gesti simbolici che sconcertano e urtano. Parlo di “profeti” usando il linguaggio della Bibbia, dove profeta non è l’indovino, ma è colui che sa comprendere il passato, la storia. Comprendendo il passato, sa interpretare il presente, ne coglie le linee portanti e individua i pericoli per il futuro, non per divinazione bensì per saggezza. Il profeta non è gradevole ed educato, ma ci apre gli occhi. Il profeta parla, e quando le parole non sono sufficienti compie gesti significativi, che scandalizzano. Il biblico Amos, un capraio che si stanca di vedere corruzione e ingiustizia, così apostrofa i potenti: «Ascoltate questa parola, o vacche di Basan (le vacche più pregiate e grasse n.d.r.) voi che opprimete i deboli, schiacciate i poveri, che dite ai vostri signori: Portate qua, che beviamo!». A chi potrebbe ripetere egli “vacche in-
I profeti, persone scomode perché mai gentili Poichè cercano di smuovere le coscienze, in passato come oggi, sconcertano e urtano i benpensanti di Franca Merlo grassate sulla pelle dei poveri” se fosse tra noi oggi? Ma i benpensanti oggi si fermerebbero sul vocabolo come fosse quello il vero male: una parola così sconveniente... l’importanza della forma... chi grida non ha mai ragione... è populismo... Si guarda al dito e non alla luna! Gli esempi sono tantissimi, ieri come oggi. Gesù stesso usò parole sconvenienti. Alle guide del popolo disse: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima e trasgredite le prescrizioni più gravi: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l'esterno del bicchiere e del piatto mentre l'interno è pie-
no di rapina e d'intemperanza. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare alla condanna?». Direi che Gesù non è un esempio di moderazione e di politically correct. A molti di noi, che seppur non corrotti non amano mettere in discussione le certezze acquisite, potrebbe invece star bene un’altra invettiva di Gesù: «Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!». Rileggete, ripensate lentamente a queste parole, alla cui durezza sia-
mo troppo abituati, tanto che ci sembrano quasi normali... No non erano dolci i profeti, non era dolce Gesù. Perché chi ama sa anche indignarsi e gridare, perché cerca di scuotere la coscienza. Spero infine che non si attualizzi il pianto di Gesù sulla prevista distruzione della città, i cui capi non lo ascoltavano: «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!». Potrei chiudere con un profeta contemporaneo e laico, De Andrè. Il cantautore nella sua "La canzone del Maggio" scrisse e cantò: « Anche se il nostro maggio - ha fatto a meno del vostro coraggio - se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento - ...se il fuoco ha risparmiato le vostre millecento... - se credete ora - che tutto sia come prima - perché avete votato ancora - la sicurezza, la disciplina - convinti di allontanare - la paura di cambiare - verremo ancora alle vostre porte - e grideremo ancora più forte - per quanto voi vi crediate assolti - siete per sempre coinvolti».
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
Buone prassi di Giustizia ripartiva di Maria Rita Bonura, Assistente Sociale presso Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Udine, Pordenone e Gorizia Nel gennaio di quest’anno è stata stipulata una convenzione fra l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) di Udine, Pordenone e Gorizia e l’associazione “I Ragazzi della Panchina” con l’obiettivo di avviare percorsi di giustizia riparativa. Questo passaggio vuole rappresentare l’inizio di una nuova collaborazione fra il pubblico ed il settore del no profit nel difficile compito di favorire il percorso di reinserimento di persone condannate. Il termine “giustizia ripartiva” fu coniato per la prima volta alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti per differenziare la risposta statuale alla devianza, fondata sull’afflittività della sanzione penale, da quella rivolta, invece, a rimuovere il danno o attenuare o lenire la sofferenza che l’azione delittuosa provoca in varia misura alle vittime. Le caratteristiche della giustizia riparativa consistono nel pagamento del debito alla società, non con la punizione, ma attraverso il recupero del senso di responsabilità della persona, la quale è invitata ad intraprendere un’azione, in senso positivo verso la vittima. In questo modo non solo il debito è saldato direttamente nei confronti di chi ha subito un danno, ma si rivaluta la figura del reo che in questo modo diventa una figura attiva. Il modello ripartivo pertanto pone la vittima ed il reo in una posizione dinamica ed attiva. Gli strumenti di cui dispone la giustizia riparativa sono le “restitution”, il “community service order” e il programma di conciliazione fra vittima-autore del reato. I diversi modelli di giustizia riparativa, sebbene siano noti ed ampiamente utilizzati
in molti paesi europei, soprattutto come modalità sostitutiva alla pena, in Italia, invece, trovano applicazione nel settore penale minorile ed in procedimenti di competenza del Giudice di pace. Nell’ambito dell’esecuzione penale degli adulti, il risarcimento alla vittima del reato è sempre richiesto a chi presenta istanza di affidamento in prova al servizio sociale e, solo da qualche anno, in molte realtà italiane è posto come obbligo nel verbale delle prescrizioni. Nel caso in cui non sia possibile risarcire la vittima, la Magistratura di Sorveglianza prevede che l’affidato svolga un’attività di volontariato in favore di enti o associazioni. Ciò rappresenta un’importante azione di responsabilizzazione e di restaurazione del legame sociale che si è interrotto con la commissione del reato soprattutto per chi, con la sua condotta illecita, ha provocato dei danni alla società. Ed è in questo senso che si colloca la collaborazione avviata con l’associazione “I Ragazzi della Panchina”. Essa vuole offrire agli affidati in prova al servizio sociale la possibilità di mettere a disposizione le proprie capacità e competenze, partecipando nel territorio, con la proprie azioni, a creare esperienze innovative di ricomposizione dei conflitti, consentendo a loro stessi di promuovere un processo di responsabilizzazione e di prevenzione delle condotte illecite. Infine, si auspica che la collaborazione avviata possa contribuire, non solo ai condannati, ma anche a tutti i gli attori coinvolti di scambiarsi esperienze ed accrescere il proprio capitale sociale.
Altre misure alternative alla detenzione Oltre alla giustizia riparativa anche affidamento in prova, detenzione domiciliare e semilibertà
di Silvia Suman, assistente sociale Progetto Master Uepe di Udine, Pordenone e Gorizia Le misure alternative alla detenzione rappresentano una forma di esecuzione penale diversa dalla tradizionale pena detentiva. Esse si caratterizzano per l’esecuzione in luogo diverso dal carcere e prevedono un trattamento rieducativo personalizzato. L’ideologia che sta alla base della loro istituzione è rappresentata dall’evitare o dal contenere gli effetti della carcerazione, specie per chi ha commesso reati di lieve entità, soggetti prossimi alla scarcerazione, fasce particolarmente deboli quali i giovani o i tossicodipendenti. Esse sono state introdotte dalla legge 26 Luglio 1975 n.354, meglio conosciuta come legge penitenziaria, e negli anni, per effetto di diverse leggi, hanno subito diverse modifiche. La competenza a decidere sulla loro concessione è affidata al Tribunale di Sorveglianza, organo giurisdizionale. La legge prevede la possibilità di accedere alle misure alternative in relazione al possesso di requisiti oggettivi e di meritevolezza sia dalla detenzione che dallo stato di libertà. Quest’ultima modalità di accesso attualmente risulta quella prevalente sul totale delle misure concesse. L’affidamento in prova al Servizio Sociale è la misura più ampia, si svolge totalmente nel territorio evitando alla persona condannata il percorso detentivo e le ripercussioni legate alla condizione di privazione della libertà. Essa può essere richiesta da coloro che sono stati condannati ad una pena, non superiore a quattro anni o residuo di pena maggiore. L’affidamento in prova in casi particolari è rivolto ai tossicodipendenti e agli alcooldipendenti che intendono intraprendere o proseguire un programma terapeutico. Il legislatore in quest’ultimo caso ha previsto tale possibilità a coloro i quali sono stati condannati a pena inferiore a sei anni o residuo di pena maggiore. Questa misura privilegia prevalen-
temente l’aspetto di cura e riabilitazione di condannati che presentano dipendenze da sostanze psicoattive. La detenzione domiciliare è stata introdotta dalla Legge n. 663 del 10.10.1986 che ha modificato l’ordinamento penitenziario. Dopo tale modifica si sono succeduti tutta una serie di ulteriori interventi volti ad ampliare tale beneficio, tanto che si può affermare che attualmente è la misura più applicata, soprattutto in tempi recenti, da quando la preoccupazione principale di chi fa le leggi è di far fronte al problema del sovraffollamento carcerario. La misura consiste nell’esecuzione della pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, o in luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza e prevede in alcuni casi specifiche autorizzazioni per permettere al condannato di lavorare o studiare. Essa si caratterizza per i numerosi obblighi e controlli cui la persona è sottoposta. Sono previste alcune detenzioni domiciliari specifiche per particolari categorie sociali quali gli ultrasettantenni, madri di prole inferiore ai dieci anni, persone in Hiv conclamata; più recentemente è concessa una detenzione domiciliare cosiddetta “speciale” per coloro che sono stati condannati a pena inferiore a diciotto mesi e dispongono di un idoneo domicilio.Infine, fra le misure alternative si annovera la semilibertà, misura sui generis visto che il condannato permane per parte della giornata in stato di libertà per seguire un programma utile al suo reinserimento, che può prevedere un impegno di lavoro, di studio o di volontariato e rientra in carcere al termine dell’attività. La responsabilità della misura è affidata al Direttore dell’Istituto di pena. Generalmente viene concessa a chi non presenta i requisiti oggettivi e soggettivi per accedere alle altre misure.
Era il 21 ottobre del 2007. Per colpa di alcune persone, che nella mia ingenuità ritenevo amici e di cui credevo di potermi fidare, fui arrestato e, patteggiando attraverso il mio avvocato, dopo due settimane di carcere, fui trasferito in una comunità di recupero dove avrei scontato la mia pena agli arresti domiciliari. Questa comunità si trovava a Bellaria di Cei, a 2000 metri di altezza, in Trentino. Ero spaventato, più che in tutta la mia vita e, mentre con il furgone percorrevamo tornante dopo tornante, i pensieri affollavano la mia testa. Uno in particolare rimbombava. Penavo che: «Comunque sarebbe andata, la mia vita sarebbe cambiata, stava solo a me decidere come». Avevo dovuto lasciare la mia ragazza e questa era la cosa più difficile da accettare, oltre al fatto che non sarei più uscito di lì
Vivere in una c
«Fu un'esperienza d luci ed ombre della di Alessandro Amato per parecchio tempo. Ad un certo punto arrivammo a Bellaria: c’era una casa enorme in mezzo al verde, da cui vidi uscire un uomo e una donna. Erano i responsabili del centro. Mi vennero incontro, accogliendomi nel migliore dei modi. La struttura sembrava vuota e, mentre mi dirigevo nell'ufficio per un breve colloquio, scrutavo in giro per studiare il posto, pensando che non era per niente come me lo aspettavo. Sembrava quasi di essere in un oratorio con dei bambini posti davanti a delle caramelle, ai quali bril-
Se gli arresti domiciliari pesano più del carcere «A casa devo dipendere da tutti e il tempo non passa mai» di S. G. 20 Settembre 2013 ore 14:15 circa. Le mie orecchie sentono la famosa e tanto aspettata frase che tutti i detenuti sognano: «Si prepari le sue cose che è liberante!». Wow! Questa frase scatena un susseguirsi di emozioni che non basterebbe un libro intero per descriverle. Ancora oggi non riesco a trovare le parole per poter spiegare bene ciò che si prova! La testa è racchiusa in un vortice, le mani tremano mentre riempi la borsa con le tue cose; gli abbracci, che ti vengono regalati dalle tue compagne di sventura, sono stretti, ma così stretti da farti mancare il respiro e nel mentre non riesci a fermare le lacrime che ti rigano il viso. Hai un nodo alla gola, sapendo chi e che cosa lascerai, ma non a cosa andrai incontro! Ecco così inizia l’avventura, chiamata “detenzione domiciliare”. Arrivata a casa mi si è presentata davanti una realtà “nuova” per me, completamente diversa da come me l’aspettavo, da come l’avevo lasciata un anno e mezzo prima e che nemmeno
lontanamente mi sarei potuta immaginare. Vivere in un contesto carcerario è duro: per me però gli arresti domiciliari sono molto peggio. Ai più potrebbe sembrare assurdo il mio pensiero, perché per tanti che non hanno provato queste esperienze risulta impossibile capire l’idea che si stia meglio in carcere piuttosto che a casa propria! I primi due mesi li ho passati interamente a casa, ad esclusione di due ore al giorno per poter soddisfare le mie esigente. Dopo, ringraziando il cielo, ho avuto la possibilità di entrare a far parte di una cooperativa dove mi è stato proposto un contratto di sei mesi con una borsa lavoro finanziata dall’azienda sanitaria locale. Così, almeno per le piccole spese personali, non ho più avuto bisogno di chiedere nulla a nessuno. Oltre alle ore di lavoro e alle due ore di libertà mi sono state aggiunte altre quattro ore presso l’associazione “I Ragazzi della Panchina”, dove frequento il corso di teatro e dove seguo la redazione del
comunità terapeutica
dura, che mi insegnò ad affrontare a mia vita» lavano gli occhi. La comunità era dura per il fatto che era spirituale. Ogni mattina alle 8, dopo aver pulito le camere e la casa, ci facevano sedere in cerchio per leggere il Vangelo del giorno e meditarlo tutti assieme; serviva soprattutto per aprirsi, visto che chi entrava in quel luogo, come era successo a me, non era in grado di parlare, soprattutto di sé stesso. Non c’era fiducia, ma quasi un guardarsi negli occhi per capire chi avrebbe fatto cosa durante la giornata o se tutti eravamo persi. C'erano poi una messa al giorno e dei momenti di preghiera
serali. Durante tutto il giorno ci si divideva in settori lavorativi: due persone stavano in cucina per fare il pranzo e la cena con il lavaggio piatti; c’era il settore della falegnameria, nel quale si restauravano mobili, il settore artistico, in cui si pitturavano dei vetri per venderli, poi, a seconda delle stagioni; c’era l’attività di raccolta tartufi col cane, giardinaggio, orto o taglio erba anche a casa di privati, raccolta uva, traslochi e altro. L’attività che preferivo di più erano le uscite in strada, durante le quali si andava via per giorni ed era
loro giornale, due esperienze nuove per me! A teatro ho scoperto di avere un “talento” nascosto e sono riuscita a mettermi in gioco in un’attività che mai mi sarei immaginata potesse diventare un bel passatempo. Nella redazione del giornale, invece, il mio compito è quello di copiare al computer dei testi scritti da dei ragazzi detenuti e posso dire che alcuni di questi mi fanno tornare indietro nel tempo. Ciò succede sia che scrivano dei rapporti con i propri cari, in cui riescono a trasmettere delle forti emozioni (che solo chi ha provato questo genere d’esperienze può capire fino in fondo), sia che trattino temi relativi alla vita carceraria come il sovraffollamento ecc. Ritornando alla mia situazione, vi posso garantire che tra una realtà e l’altra c’è una differenza abissale, soprattutto per quanto riguarda l’approccio alla giornata. All’interno del carcere è molto schematica. La giornata tipo dei galeotti è sveglia, colazione, terapia, pulizie della cella, doccia, passeggi, pranzo, telegiornale, passeggi pomeridiani, corsi, cena, terapia, film e nanna. Di questa routine magari può cambiare un qual cosina, se hai un colloquio o la telefonata con i tuoi familiari. Quando sei a casa, invece, la routine non c’è, le giornate le trascorri principalmente da sola, non parli con nessuno al di fuori delle persone con cui abiti, che però a differenza dei detenuti non possono capire determinate tematiche, legate alla mancanza della libertà. Ti ritrovi anche a non essere in grado di po-
terti permettere nemmeno un pacchetto di sigarette e ti senti come un peso nel dover dipendere in tutto e per tutto dalla tua famiglia. Quando sei dentro in carcere e ti arrivano i soldi dai tuoi cari non ti senti così, perché davanti agli occhi non vedi il loro sacrificio per farti sopravvivere. Tutto questo va poi sommato al fatto che per anni, almeno nel mio caso, non hai mai avuto bisogno di chiedere niente a nessuno. Credetemi, non esiste cosa più frustrante di questa. Vivi in uno stato di nervosismo, di ansia e tutto ciò va ad incidere sul rapporto con i tuoi familiari. Io, infatti, sto vivendo una continua tensione con mia madre, dovuta innanzitutto ad un suo problema molto serio, che ho scoperto solo al mio ritorno a casa. Questa tensione ha creato delle liti e delle discussioni più o meno accese e l’unica cosa che a volte mi viene voglia di fare è prendere la porta e sbattermela alle spalle… quella porta che però è più chiusa di un blindo! Vorresti uscire, non per scappare davanti alle difficoltà, ma soltanto per trovare un po’ di serenità e di pace! Ti senti impotente e per me non esiste niente di peggio di questo. Poi non tutti i casi sono uguali al mio, in tanti magari vanno a casa e ritrovano l’armonia, la gioia. Con questo non voglio far passare il messaggio che in carcere si sta meglio che a casa propria, però se in famiglia avete anche solo il più piccolo sentore che le cose non vadano bene, non fate nessuna richiesta perché, credetemi, si rischia di vivere una pena raddoppiata!
come andare in vacanza. In realtà andavamo ad accogliere la gente in strada per darle ascolto ed aiuto, oppure facevamo le testimonianze per le scuole di tutta Italia. Ho vissuto in questa comunità la prima volta 2 e 6 mesi, poi ci sono tornato altre due volte, ovviamente dopo delle durissime ricadute: ogni ricaduta era più dura della precedente. Ho odiato la comunità con tutto me stesso, ma solo perché ero giovane e orgoglioso. Oggi userei meglio quel tempo che ho buttato. Oggi posso dire che quell’esperienza mi ha aiutato molto interiormente, dandomi conoscenze che prima non avevo e sopratutto in quella comunità ho imparato a fidarmi e a voler bene anche senza niente in cambio. Ancora oggi mi capita di rapportarmi alle persone con uno scopo, ma questo succede perchè non ho cambiato
vita, ma solo la modalità di vita. In questo periodo di comunità sono riuscito a mettermi in discussione parecchie volte, guardando la luce e l’oscurità della mia storia, che è tutt’altra storia da questa di cui vi sto parlando, ma precede e procede a questa dandole sostanza e motivazioni. Ad un certo punto credevo d’impazzire, al punto d’immaginare delle persone: avevo delle vere e proprie allucinazioni, penso dovute alla mia emotività, in quel periodo sperimentata più che mai. Lì sono stato anche felice e questo rimarrà per sempre come uno dei più bei ricordi. Ho incontrato persone che mi hanno voluto bene e che mi hanno trattato come se fossero la mia famiglia. Mi ha colpito quanto bene può esistere anche tra persone che di bene non ne hanno visto mai.
Semilibertà
«Grazie ad una borsa lavoro ho scoperto nuovi valori» di Giacomo Nel 2009 mi è stata data una pena alternativa per i due mesi rimanenti dal mio fine pena. Non mi aspettavo niente da questi due mesi se non uscire il mattino alle 6.30 per poi rientrare alle 18.30; l’unica soddisfazione era non stare in carcere durante il giorno. Si trattava di una borsa lavoro pagata 232 euro al mese e di un lavoro che non conoscevo per niente: per me era solo un modo come un altro per stare fuori. Ho iniziato in modo un po’ superficiale l’esperienza-opportunità che mi era stata data dall’équipe del Dipartimento delle dipendenze della Ass6 di Pordenone e grazie alla fiducia del Magistrato di Sorveglianza. Quest’avventura l’ho vissuta presso la cooperativa l’Arca e in una casa famiglia di Azzanello, la prima lavora con ragazzi portatori di handicap, la seconda con bambini dati in affido dai Tribunali. Dopo aver finito i due mesi di semilibertà, ho continuato a lavorare lì per un anno e mezzo. Pensavo di dover aiutare le persone che vi lavoravano e i ragazzi che vivono queste situazioni di handicap e svantaggio, invece mi sono reso conto che erano loro che stavano aiutando me. Ero arrabbiato e povero di sentimenti una volta fuori dal carcere, ma
quando ero lì con loro ero felice; quando mi vedevano al mattino, si presentavano con un sorriso e un forte abbraccio. Mi trasmettevano tutti i giorni i loro sentimenti senza giri di parole e non per convenienza, come succedeva invece nel mondo da cui venivo. Nella loro semplicità mi davano tutto quello che avevo sempre voluto e non avevo più bisogno delle droghe per dire ad una persona «sei un amico, ti voglio bene». Sono stato contagiato dalla loro semplicità e gioia di vivere. Io da persona “sana”, che forse in passato pensava di più alle cose materiali, oggi capisco che se voglio stare bene mi devo circondare di persone come loro per vivere una vita felice e dignitosa. Oggi non lavoro più con loro, ma scrivendo di questa esperienza mi sento felice di aver conosciuto ragazzi, volontari ed operatori di quelle associazioni e quando sono in difficoltà penso spesso a loro e riesco così a superare i problemi della vita. Certo non è facile, ma se ce la fanno loro devo riuscirci anch’io. Spero di avere l’opportunità di fare altre esperienze di questo tipo, perché sono cresciuto grazie ad esse e spero di aver contraccambiato almeno una minima parte di quello che ho ricevuto.
IL COMPLESSO RUOLO DELL'UEPE Decise dal Magistrato di Sorveglianza, le misure alternative vengono seguite dall'Uepe, l'Ufficio di esecuzione penale esterna di Maria Rita Bonura, assistente sociale Uepe Udine, Pordenone e Gorizia Il nostro ordinamento annovera fra le misure alternative alla detenzione l’ affidamento in prova al servizio sociale, affidamento in casi particolari, la detenzione domiciliare e la semilibertà. Ad occuparsene sono gli Uepe, gli uffici di esecuzione penale esterna, istituiti dalla legge di riforma penitenziaria del 1975 con la convinzione che il trattamento del condannato, quando possibile, deve essere realizzato nel territorio, nella vita libera, fuori dal contesto carcerario, puntando ad un graduale reinserimento della persona, in linea con una nuova concezione dell’uomo nel rispetto dei principi espressi dal dettato costituzionale dell’art. 27. Gli Uepe sono uffici periferici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia. Si trovano in tutto il territorio
nazionale e le sedi di servizio coincidono con le sedi degli Uffici di Sorveglianza, mentre le nuove sedi distaccate corrispondono alle provincie. L’Uepe di Udine, Pordenone e Gorizia ha la sua sede principale a Udine, una sede distaccata a Gorizia ed è in attesa, da anni, di reperire una sede a Pordenone. Di recente segue anche l’utenza del territorio di Portogruaro. La sede conta otto unità di servizio sociale, un direttore delegato, un’esperta psicologa e tre assistenti sociali libere professioniste con orario e compiti limitati. La caratteristica distintiva di questi uffici è rappresentata dal personale operativo costituito interamente da assistenti sociali. Questa specificità del servizio sociale rappresenta il senso del lavoro svolto con le persone condannate, che ha come finalità principale della
pena il reinserimento del condannato, attraverso funzioni di aiuto. Esse si concretizzano attraverso azioni volte alla valorizzazione delle risorse del condannato e delle sue reti sociali in collaborazione con i servizi formali ed informali del territorio. Gli Uepe si avvalgono anche di personale amministrativo e di polizia penitenziaria. Alla funzione di aiuto, soprattutto negli affidati in prova al servizio sociale, si accompagna quella di controllo del rispetto delle prescrizioni imposte dalla Magistratura di Sorveglianza e dell’intero progetto di recupero formulato. Gli esperti psicologi hanno il compito di delineare il profilo di personalità di condannati che presentano istanze di misure alternative o che si trovano già in esecuzione penale esterna e richiedono particolari interventi di supporto. All’interno degli istituti penitenziari, gli assistenti sociali degli Uepe partecipano l’attività di osservazione scientifica della personalità del detenuto, offrono consulenze su segnalazione dei direttori degli istituti penitenziari su problematiche presentate dai detenuti, seguono le esperienze dei permessi premio, curano tutti gli aspetti della relazione fra il detenuto e la sua famiglia e predispongono programmi post dimissione per detenuti dimittendi. Nel settore dell’esecuzione penale esterna, invece, gli assistenti sociali svolgono inchieste sociali per il Tribunale di Sorveglianza e per la Magistratura
“Non giudicare!!”, i carcerati si raccontano Giovedì 26 giugno presentazione del libro edito da “I Ragazzi della Panchina” che raccoglie gli scritti della redazione in carcere “Codice a S-barre” di Stefano Venuto “Non giudicare!! Pensieri di uomini liberi” è il titolo dell’ultima fatica editoriale dell’associazione “I Ragazzi della Panchina”, realizzata grazie al sostegno dell’Ambito Urbano 6.5. E’ una raccolta di scritti realizzati all’interno del progetto “Codice a S-barre”, la redazione in carcere avviata a settembre nella Casa Circondariale di Pordenone. Alcuni
degli scritti hanno trovato e troveranno spazio all’interno del nostro giornale, “Libertà Di Parola”. L'insieme degli articoli costituisce, invece, l’anima del libro “Non giudicare!!”. La prima presentazione del volume si terrà giovedì 26 giugno, alle 18, nella sala “Teresina Degan” della biblioteca civica di Pordenone. “Non giudicare” è molto di più di una
semplice raccolta di pensieri: è una pubblicazione che ha l’ambizioso intento di far conoscere, almeno in parte, l’ambiente carcere attraverso le parole ed i pensieri di chi lo vive, abbattendo così virtualmente i muri che dividono persone che abitano, anche se diversamente, la stessa città. Il progetto “Codice a S-barre” è tuttora in corso.
di Sorveglianza per soggetti che richiedono una misura alternativa e più recentemente si occupano di accertare il domicilio per chi ha richiesto la detenzione domiciliare speciale; svolgono funzioni di aiuto e controllo di adesione ai programmi di inclusione e delle prescrizioni per gli affidati in prova al servizio sociale e compiti di sostegno per i detenuti domiciliari. Ad essi sono inoltre assegnati compiti di vigilanza e assistenza per i semiliberi, interventi nei confronti di soggetti sottoposti a misure di sicurezza non detentive e le inchieste sociali per fornire alla Magistratura di Sorveglianza dati utili per la modifica, proroga e revoca di misure alternative, misure di sicurezza. La recente legge n. 67del 2014 prevede che gli Uepe dovranno occuparsi di imputati che richiedono ai Tribunali ordinari il nuovo istituto di messa alla prova con svolgimento di indagini sociofamiliari ed elaborazione del programma di trattamento. L’Uepe di Udine, Pordenone e Gorizia, in particolare, nonostante la cronica e grave carenza a di personale, negli anni, ha promosso e sviluppato, con le diverse agenzie del territorio, varie collaborazioni, progetti e diversi momenti di condivisione con la cittadinanza, con l’intento di promuovere una maggiore sensibilità tra la popolazione, evitando l’emarginazione o il pregiudizio cui sono destinate molte persone in esecuzione penale. Attraverso di esso, grazie alla disponibilità della direzione della Casa Circondariale, è stato strutturato uno spazio di condivisione, dibattito ed elaborazione di testi su tematiche plurali, attraverso incontri settimanali in cui si è discusso, ma anche concretizzato i pensieri, attraverso l’arte della scrittura. Intento ulteriore è stato quello di sviluppare dinamiche relazionali, che coinvolgano soggetti provenienti da contesti differenti, ma accomunati dall’esperienza carceraria. Giovedì 26 giugno, alla presentazione del libro, interverranno Ada Moznich, presidente dell’associazione “I Ragazzi della Panchina”; Cristina Colautti, operatrice dell’associazione stessa; Alvise Sbraccia, ricercatore in Sociologia del diritto della devianza e del mutamento sociale, membro dell'Osservatorio nazionale “Antigone” sulle condizioni di detenzione; Alberto Quagliotto, direttore della Casa Circondariale di Pordenone.
INVIATI NEL MONDO
LA RAGAZZA CHE INTRECCIAVA IL LOTO Un incontro fugace seduta nel pick up da Ngapali beach a Thandwe. Nel Myanmar, ex Birmania, dove il tempo si è fermato ad un’altra epoca di Elisa Cozzarini Si racconta che sia stato un napoletano con la nostalgia di casa a dare il nome a Ngapali beach (si legge napali). Siamo nella perla del Myanmar, una spiaggia affacciata sul Golfo del Bengala, appena sfiorata dal turismo. Sabbia bianca, acqua tiepida e cristallina, palme, pescatori, bambini che si rotolano sul bagnasciuga e vento fresco dall'Himalaya. Ma qui, nello stato Rakhine, c'è l'ombra delle violenze del governo contro la minoran-
za musulmana. A Ngapali puoi arrivare solo in aereo da Yangon e da lì non ti puoi muovere liberamente. Funziona così in tutto il Myanmar, ex Birmania, il paese del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. La campagna, le montagne e le foreste nascondono abusi e sfruttamento nei confronti delle minoranze etniche, cose che i visitatori occidentali non devono vedere. Quello che noti sono sguardi intensi e sorrisi di benvenuto, tipicamente
asiatici, indecifrabili. Pochissimi parlano inglese. Sul retro del pick up da Ngapali beach a Thandwe, una ragazza ascolta e osserva attentamente, senza dire una parola. Capisce l’italiano. Stiamo uno appiccicato all’altro sui sedili stretti e quando sembra che davvero non ci sia più posto per nessuno, spunta uno sgabello minuscolo per l’ennesima vecchina con il cesto di verdura da vendere al mercato. Ogni cento metri c’è uno stop. Si paga all’arrivo, al ragazzo in bilico sul retro del veicolo, con i soldi piegati a ventaglio in una mano e l’altra per tenersi e non cadere giù. Dopo mezz’ora di strada tra le buche arriviamo a Thandwe. «Cento», dice la ragazza, in italiano, traducendo il prezzo del viaggio da Ngapali a qui. Ha le guance coperte di “tanaka”, una polvere ricavata dal tronco del sandalo, il trucco naturale che usano tutte le donne e i bambini. La ragazza abbassa lo sguardo, timidamente, come se parlando avesse già rivelato troppo. Vorrei farle mille domande. Lei racconta solo che ha vissuto a Brescia per un breve periodo, lì ha imparato l’italiano, poi è tornata in Myanmar. «Ciao», dice di sfuggita. E scompare come un'ombra nella confusione del mercato. Gli incontri con la gente sono apparizioni fugaci, misteriose. La distanza maggiore l'ho provata durante il trekking più popolare tra i turisti: due giorni a piedi nei campi tra Kalaw e il lago Inle, al centro del paese. Qui vedi uomini, donne e bambini che lavorano la terra con strumenti arcaici. Sopportano la fatica senza fare una piega, ma loro, a differenza di tutte le altre persone che ho incontrato, non sorridono davanti alle macchine fotografiche. Si muovono con carretti trainati dai buoi, raccolgono a
mano migliaia di peperoncini, la sera portano a casa il fieno per gli animali. I turisti camminano zaino in spalla a due passi da loro, sfiorano i villaggi di un mondo rurale di un'altra epoca. Fuori dal tempo sono anche gli orti galleggianti sulle acque del lago Inle, le donne ai telai nelle palafitte e la ragazza che crea gomitoli di loto. Le sue dita sottilissime spezzano uno alla volta infiniti gambi di questa pianta. Ne afferrano la linfa filamentosa che esce dal punto di rottura e uniscono veloci i filamenti uno con l'altro. Ci vogliono
giornate di lavoro per ricavare un tessuto dal loto e farne oggetti più rari e preziosi della seta. Quando indosso quella sciarpa, fresca sulla pelle, leggera, penso a quella ragazza, china a intrecciare loto con sapienza atavica. Immagino il suo volto, mentre sorride paziente ai turisti. E, appena si voltano, lei ricomincia a spezzare il loto e intrecciare fili.
PANKAROCK
Paolo Nutini, la bianca voce del blues
grande maturità artistica, nell’arrangiamento e nei testi delle nuove canzoni. Manca però un filo conduttore che accumuni i 13 pezzi di questo nuovo lavoro. In alcuni momenti dell’ascolto sembra di immergersi nei locali fumosi di New Orleans, soprattutto grazie al timbro fortemente blues della voce di Nutini, a tratti fantasticamente soul, come nel brano a mio avviso meglio riuscito e cioè “Iron Sky”: un grido viscerale di impotenza, con un intermedio vocale estratto dal film di Charly Chaplin “Il grande dittatore” e con una citazione finale ai The Who, con la celebre frase “Rain on me”. Le musiche di questa canzone sono arricchite da una sezione di fiati e soprattutto dalla voce graffiante e profonda di Nutini, che ricorda la Dixieland della capitale
del blues. L’amore è un tema ricorrente nei testi dell’artista. Canzoni belle come “Better man”, dove si scopre la consapevolezza dell’autore che non tutto fila liscio quando si è innamorati, sono seguite da una non esaltante dichiarazione d’amore vero la sua amata Diana, il cui nome dà anche il titolo al brano. In attesa della piena maturità in studio del cantante, che a soli 18 anni stupì il mondo, vi invitiamo a non perdere le imminenti date italiane del tour: 16 luglio al Porto Antico di Genova, il giorno dopo a Piazzola sul Brenta (PD) ed il 19 dello stesso mese al Festival “Rock in Roma”, nella capitale. Di sicuro, la sua vibrante voce ed una band di musicisti di altissimo livello, sapranno trasmettere il calore e l’ecletticità di un artista più unico che raro.
E’ uscito ad aprile il nuovo album del cantautore scozzese “Caustic love”. di Fabio Passador Dalle prime note del singolo “Scream (funk my life up)”, il terzo lavoro in studio del cantautore scozzese Paolo Nutini, potrebbe apparire in continuità con gli album precedenti. Il ritmo coinvolgente del primo singolo estratto da “Caustic Love” sembra non volersi discostare dai suoni
scanzonati del precedente disco e da canzoni che hanno fatto la fortuna del ventisettenne di Paisley. In verità, quest’album dalle tante sonorità, che esce a cinque anni di distanza dal fortunatissimo “Sunny side up”, ci mostra un cantante, che, seppur giovanissimo, dimostra una
PANKA LIBRI
Orwell e la fattoria degli animali Il romanzo satirico scritto nel 1947, allegoria del totalitarismo sovietico e del periodo staliniano recensione di Daleo In questa storia si parla di una fattoria dove gli animali hanno la capacità di ragionare e comunicare tra loro. Gli animali, alla sera, quando il padrone si reca a dormire, tengono delle riunioni segrete e, parlando, si rendono ad un certo punto conto che vivono in uno stato di schiavitù governati da un padrone tiranno e aguzzino. Iniziano, così, a discutere della possibilità di un cambiamento ed alla prima occasione fanno scoppiare una rivolu-
zione che porterà la fattoria a diventare di loro possesso. Gli animali creano un governo di uguaglianza dove tutti hanno gli stessi diritti, stesse regole e stessi comandamenti. Le decisioni vengono discusse da tutti ed approvate tramite il voto. Ma in breve tempo i più intelligenti si prendono dei privilegi ed in seguito uno dei privilegiati fa un colpo di stato, scacciando coloro che lo contrastavano, prendendo il potere sulla fattoria, delegando i rimanenti
privilegiati come mediatori tra lui e gli altri animali. Si crea in questo modo un impero con un unico imperatore ed un Senato. L’imperatore si ricopre di onorificenze da lui decise; costringe gli altri animali al lavoro più duro e al razionamento del cibo. Con furbizia ed inganno, con le menzogne e con l’aiuto del Senato l’imperatore fa credere a tutti gli animali che il lavoro è utile a tutti e che loro stanno lavorando per il benessere e la loro libertà. Nella
fattoria si susseguono molte altre vicende che lascerò a voi scoprire. A voi lettori posso dire che, malgrado l’argomento trattato, lo si legge con piacere e il racconto è avvincente. Vi auguro una buona lettura
LA STORIA Il 4 settembre 1886 si arrese Geronimo, ultimo capo indiano combattente. Negli ultimi due anni con un manipolo di una cinquantina di uomini aveva dovuto vedersela con l’esercito americano e con quello messicano. Fu arrestato, ma la prigionia durerà pochi anni. Visse girando per le fiere, vendendo prodotti artigianali indiani. Fu invitato a cavalcare in onore dei festeggiamenti di Theodore Roosvelt del 1905 e gli venne riconosciuto così un ruolo nella storia americana. Altri numerosi e validi capi guerrieri si opposero ai bianchi e al loro sfrenato bisogno di terre. Immaginate un posto sconfinato che va dal Canada al Messico e dall'Oceano Pacifico a quello Atlantico dove vivevano una trentina di milioni di pellerossa; era un mondo in perfetto equilibrio ed armonia tra uomo e natura. I primi a cercare di "entrare" furono gli spagnoli che nel giro di qualche anno inviarono un paio di spedizioni. Le popolazioni indigene furono annientate, perché la fama che precedeva l'uomo bianco non suggeriva molte alternative. Gli spagnoli desistettero, ma nel nord iniziarono ad arrivare gli inglesi. All'inizio era un modo "democratico" per liberarsi dai galeotti, ma successivamente ci fu anche la promessa di nuove terre ad attirare gente. All'inizio le cose sembravano prendere anche una piega favorevole per i nativi. Il governo inglese impediva l'acquisto di terre da parte dei coloni; una delegazione indiana veniva ricevuta dal parlamento inglese con tutti gli onori per meriti nella guerra contro i francesi. Ma fu solo un fugace momento; i coloni diventavano sempre di più e per l'Inghilterra mantenere quelle colonie si faceva sempre più difficile. Alla fine scoppiò la guerra tra le colonie e l'Inghilterra. La motivazione "no tax whitout rapresentation" era più che altro di facciata, in realtà nascondeva il desiderio di accaparrarsi le terre dei nativi. Lo stesso George Washington ordinò lo sterminio delle tribù dei grandi laghi, che furono costrette a riparare in Canada, che a quel tempo era dell’Inghilterra. Con la fine delle ostilità tra Inghilterra e Stati Uniti la situazione per i pellerossa precipitò. Si trovarono di fronte due mondi contrapposti. Da un lato il bianco che parlava di civiltà e progresso ma era mosso da possesso, avidità,
La marcia delle lacrime L’uomo bianco tolse ai pellerossa ciò che il grande spirito aveva loro donato: oltre alla loro terra, la dignità di un popolo di Emanuele Celotto doppiezza e profitto e vedeva nel popolo rosso solo un ostacolo alla realizzazione dei suoi interessi; o si integrava o veniva spazzato via.... Dall’altro, il pellerossa che si sforzava di capire il senso di certi comportamenti: «Si può vendere una terra che il grande spirito ha dato in abbondanza per tutti?». La maggior parte degli indiani era inorridita dall'uomo bianco e dai suoi modi di pensare. Cercarono di resistere alle continue pressioni in ogni modo: ci furono eroiche
battaglie e massacri di villaggi inermi per rappresaglia. Per i pellerossa il concetto di guerra era totalmente diverso: irrompevano in qualche villaggio, rubavano cavalli, qualche donna e bambini. Chi perdeva non diventava prigioniero di guerra; dopo un certo periodo veniva adottato e seguiva le usanze della nuova tribù. Nei loro scontri raramente si uccideva l'avversario. Invece contro l’uomo bianco le cose erano ora diverse ed incomprensibi-
li. Costretti dalle circostanze, i pellerossa furono praticamente obbligati a firmare trattati per concessioni di passaggi carovanieri (ne verranno firmati oltre 400) che dopo poco venivano disattesi dai bianchi. Questi ultimi infatti volevano le terre dei pellerossa e se le prendevano. Tra il 1830 e il 1835 furono trasferite da est ad ovest del Mississippi le tribù dei Cherochee, dei Chickcasaw, Seminole, Creek in quella che passò alla storia con il nome di "La marcia delle lacrime": 1600 chilometri lungo i quali trovò la morte oltre un terzo delle tribù indiane a causa del freddo, della fame e delle intemperie. Molti altri pellerossa morirono poco dopo. Di numerosi altri massacri si rese protagonista l'America non ultima quella dello sterminio dei bisonti per togliere loro il cibo. Altri fattori che contribuirono alla fine del popolo rosso furono: le malattie che l'uomo bianco portava e diffondeva (ordini documentati di distribuzione di coperte infettate dal vaiolo a varie tribù); l'alcool di pessima qualità, generosamente distribuito, ebbe effetti devastanti sulla psiche e sulla salute degli indiani. Il colpo di grazia alla cultura degli spazi liberi e sconfinati lo dette la ferrovia e tutto ciò che si portò dietro. Ingannato, sterminato e derubato della sua cultura oltre che della sua identità, del glorioso “popolo rosso” sopravvivono poco più di un milione e 500 mila discendenti, la maggior parte confinata in riserve; solo un terzo di loro abita nelle città vivendo tra il disadattato ed il forzatamente adattato. Per certi versi le riserve restano degli angoli di paradiso incontaminato, dove l'esenzione fiscale, grazie alle case da gioco che ospita, ha permesso di migliorare il tenore di vita. In altre riserve fanno danze rituali ad uso e consumo di turisti. Chiudo con la dichiarazione di un capo indiano che sognava la nazione dei pellerossa: «Dove sono oggi i Pequot? Dove sono i Narragansett, i Mohicani. i Pokanoket e molte altre potenti tribù?» Sono svanite di fronte alla cupidigia e all'oppressione dell'uomo bianco come neve al sole. Ci lasceremo distruggere anche noi senza combattere, rinunciando alle nostre case e alle nostre terre che il grande spirito ci ha lasciato e a tutto ciò che ci è caro e sacro? So che come me anche voi griderete «Mai! Non sia mai!».
NON SOLO SPORT
Il Pordenone calcio è in serie C Emile Zubin, capitano e capocannoniere dei neroverdi: «La vittoria è di tutti, della squadra, della società, di chi sta dietro le sue quinte e della nostra tifoseria» di Alain Sacilotto e Andrea Lunardon Quando avete capito di poter vincere il campionato? C'è stato un particolare punto di svolta nella stagione? Siamo partiti fin dall'inizio per vincerlo, non ci siamo nascosti. Ci sono stati diversi punti di svolta, il principale probabilmente è stato a Belluno quando noi abbiamo vinto, il Marano ha pareggiato e siamo tornati a pari punti. Nei momenti di difficoltà, non abbiamo mai pensato però di non farcela mai. Il picco negativo è stato dopo San Paolo quando noi abbiamo perso, il Marano ha
Campionato di serie D 20132014: il Pordenone Calcio rincorreva da anni il sogno dello scudetto e della promozione in Lega Pro. Quest'anno il sogno è diventato realtà! I neroverdi sono stati autori di una splendida cavalcata che li ha visti giocare, vincere, perdere, rialzarsi e comunque sempre lottare per la vittoria, senza mai smettere di sognare. A fine anno il Pordenone non solo ha stravinto la serie D, ma si è anche laureato campione d'Italia a livello nazionale dilettanti, vincendo lo scudetto italiano
contro le altre vincitrici dei gironi di serie D, meritandosi così il salto di categoria. Noi abbiamo avuto il piacere di intervistare uno dei protagonisti assoluti di questa stagione: Bomber Emile Zubin, il capitano dei neroverdi.
«Ci siamo anche noi!» Questo è stato il mantra del dopo Este, giornata per cuori forti e soprattutto la fine di questa agognata stagione da risvolti grotteschi, adrenalina a manetta e fiducia cieca ai nostri colori. Stagione che, dalla lettura dei contendenti alla vittoria finale, è stata tutto un patos. Ho ancora nei miei occhi la delusione di Porto Rolle, dove siamo stati battuti sul fil di lana, cosa che, scritta ora, ha poco senso, ma che noi tifosi non ricordiamo con piacere... anzi! Questo è il nostro anno, ci guardiamo tutti in faccia con un pizzico di pudore misto a scaramanzia, ma tutti convinti che sarà un anno storico: o saliamo in serie C ora o dopo sarà ancora più dura, visto tutti i derby che il Pordenone si ritrova e gli avversari con il coltello tra i denti per la partita della stagione. … ma ormai sono alle spalle e per un bel pezzo, spero! Passiamo a ricordare questo campionato appena concluso. Si annuncia già duro con la Triestina in pole position e tutte le altre contendenti determinate. Partiamo
«CON TE PORDENONE ABBIAMO VINTO ANCHE NOI»
Capitano, dopo la delusione dell'anno scorso quali erano gli umori e le sensazioni a inizio campionato? Quello che si percepiva era una diffusa voglia di ripartire anche perché l'anno scorso quel secondo posto lasciava l'amaro in bocca.
Campionato da cardiopalma per la tifoseria nero verde. Da non dimenticare di Jackie
vinto e siamo andati a meno cinque punti. Quanto hanno influito i vari derby della stagione sui risultati del campionato e, tra moduli e accorgimenti tattici, quanto la mano dell'allenatore Carmine Parlato? Sinceramente da parte nostra non si sentivano tanto i derby, devo dire che sì gli altri ci mettevano qualcosa in più, ma per noi comunque ogni partita aveva lo stesso valore. Quanto al mister, curava molto i particolari, infatti variavamo tattica e modulo con ottimismo e facciamo bene, dieci, dico dieci partite vinte tutte di fila e dentro di noi aumenta il patos. Il ramarro finisce addirittura nella bibbia del calcio, la mitica “rosa”, e noi vediamo la nostra fuoriserie andare a mille: le nostre aspettative e l'adrenalina a dosi che stordiscono rispetto alle nostre abitudini aumentano e questo è solo l'inizio. Nelle partite in casa siamo una squadra da altra serie e anche in trasferta diventiamo un incubo per gli avversari. Non bisogna dimenticare le partite per la Coppa Italia, finite in finale con il Pescara (dico Pescara!) formazione di serie B e perdendo solo per uno a zero e per giunta in fuori gioco, testimoni gli Ultras a seguito dei ramarri fino nelle Marche. Ritorniamo al campionato … dopo tante partite dominate, con il nostro capitano Zubin in stato di grazia, arriviamo anche a cinque punti di vantaggio dalla seconda e questo ci dà ancora più fiducia, essendo tranquilli dalle insidie dell'altra corazzata, il Marano, visto che al Bottec-
spesso per non dare punti di riferimento agli avversari. La ricetta del nostro successo in ogni caso è stata voglia, determinazione, sacrificio di squadra e società tutta. 85 punti sono tantissimi, qual'è stato il momento epico della stagione? Sicuramente ad Este, quello della vittoria, un momento di gioia indescrivibile. E' stata la promozione più bella, più sentita e più difficile da parte mia. Dopo una rincorsa così, il triplice fischio finale è stato come una liberazione. Anche la festa in piazza XX Settembre al nostro ritorno è stata bellissima: una festa spontanea, non programmata con tante persone che ci aspettavano e un sacco di bandiere neroverdi che sventolavano.
conta, inoltre il prossimo anno la Lega Pro è un'unica categoria, quindi abbiamo fatto un doppio salto di categoria. Emile Zubin capocannoniere, qual'è il tuo segreto, a chi ti ispiri? Non ce nessun segreto. In settimana impegnarmi sempre al massimo e la domenica concretizzare il più possibile in gol gli assist dei compagni, senza di loro non avrei potuto segnare e diventare capocannoniere. Il giocatore al quale mi ispiro è da sempre Marco Van Basten. Quali sono i progetti per il prossimo anno? I progetti dovreste chiederli al presidente, i miei personali
sono di rimanere al Pordenone e anche se è una categoria nuova cercheremo di
Avete dedicato la vittoria a qualcuno in particolare? Chi ringraziare per questo successo? La vittoria e il ringraziamento vanno a tutti! Alla società, a quelli che ci lavorano dietro e non si vedono ma fanno un grande lavoro, a noi giocatori, allo staff e poi magari ad altri dei quali mi dimentico. A tutta Pordenone perché la piazza se lo meritava, si meritava di tornare al calcio che chia abbiamo vinto lo scontro diretto, sebbene la vittoria che più ci ha galvanizzato è stato il rotondo 4-1 al Nereo Rocco con la sempre temibile Triestina. Qui siamo ancora al girone di andata: il bello, per modo di dire, deve ancora venire! Arrivano le piogge e per noi che giochiamo palla a terra, diventano partite in salita e così cominciamo a soffrire, ma sopratutto perdiamo i primi punti e diamo modo ai vicentini (il Marano), che non ne sbagliano una, di avvicinarsi in modo pericoloso. Noi tifosi e Ultras abbiamo continuiamo a sostenere la squadra sia in casa che in trasferta, sempre uniti e ottimisti anche nei momenti più problematici, incitandola tanto che in certi momenti siamo stati il “dodicesimo” in campo. Penso che anche i calciatori se ne siano accorti. Arrivano i giorni della gloria, ma ci sono anche i momenti di “para” dura, giornate da star male fino alla domenica successiva, sperando in sussulti migliori. Non vi sto a raccontare le domeniche dove abbiamo dilapidato i
fare il meglio possibile. Non sarebbe male riuscire a fare una salvezza tranquilla il primo anno per poi magari pensare in grande, ma sono tutti discorsi prematuri. Ti chiediamo un ultimo commento spontaneo e un voto da bomber alla stagione. Saluto e ringrazio tutti quelli che ci sono stati vicini, è stato un anno sofferto e anche grazie al loro sostegno siamo arrivati fin qua. Gli Ultras sono stati fantastici, ci hanno seguito dappertutto e dall'inizio alla fine! Se dovessi dare un voto da 1 a 10, a questa stagione le darei certamente un 11
5 punti di vantaggio e persi per strada altri 5... Voi non ci crederete, ma anche i più ottimisti hanno cominciato a dubitare nel recupero dei Ramarri. Comunque, non é tempo di piangersi addosso, il motto é “vincerle tutte e poi vediamo cosa fanno i vicentini”. Piano piano noi facciamo le nostre belle partite mentre il giocattolo “Marano” perde colpi e arriviamo ad essere a pari punti e questo sarà fino alla ultima partita. Lo spettro
di uno spareggio in caso di parità punti finale si avvicina sempre di più e la paranoia cresce di pari passo. Arriviamo all’ultima di campionato con l’ostica trasferta ad Este, partita non scontata, mentre i vicentini vanno da una squadra già retrocessa, quindi lo scontro diretto sembra l'epilogo per la Lega Pro. Due corriere di sostenitori del Pordenone raggiungono Este, con la speranza di una vittoria da una parte e un orecchio alla
radio dall’altra. Partita dura. Noi giochiamo senza il nostro bomber Zubin, ma c’è un altro forte ed esperto calciatore, Maccan. Alla fine del primo tempo a Monfalcone il Marano perde, ma noi sappiamo che fino alla fine ci sarà da trepidare. Al primo gol del Pordenone esaltazione alle stelle, dopo doccia fredda per il pareggio su rigore dell'Este e il pareggio del Marano. Scontro diretto alle porte, ma a pochi minuti dalla fine azione travolgente del Pordenone, palla al centro e gol di Maccan ed é estasi pura. Fischio finale ed é vittoria! Pochi momenti ancora e c’è la gioia assoluta: il Marano ha pareggiato, il Pordenone é in serie “C”! Invasione di campo e abbracci tra tutti noi! Questa stagione me la ricorderò per sempre! Anche noi sostenitori e Ultras abbiamo vinto. Come sempre dopo ogni vittoria, “anche stasera festa VerdeNera”. La festa in piazza all’arrivo del pullman scoperto con i giocatori è la giusta apoteosi di una stagione fantastica! Forza Ramarri. Forza Pordenone.
IL PERSONAGGIO
Il mito di una giornalista, la forza di una donna Oriana Fallaci è scomparsa nel 2006, ma resta un'icona del femminismo e dei valori della giovinezza di Irene Vendrame Oriana Fallaci (Firenze, 29 giugno 1929 – Firenze, 15 settembre 2006) è stata una grande giornalista, scrittrice e attivista italiana. A me, che ho 16 anni e il sogno di diventare giornalista, leggere la sua biografia, ha permesso di conoscere una professionista e una donna che trovo essere l’incarnazione dei valori della giovinezza: sfacciata, forte, dura, creativa, eccessiva, passionale. Un animo che non invecchia mai. Oriana Fallaci è stata soprattutto una donna soldato. Lo fu fin da bambina quand’era un piccolo soldato che, in sella alla sua bicicletta e treccine al vento, faceva da staffetta per i partigiani, diventando parte attiva della Resistenza. Fu in quel periodo che la personalità e il pensiero di Oriana presero forma: l’ideale del coraggio e la forza di opporsi alle ingiustizie la accompagnarono poi per tutta la vita, lasciando un'impronta nelle sue opere di giornalista e scrittrice. Lo testimoniano libri come “Niente è così sia” (1969), “Intervista con la storia” (1974), “Insciallah” (1992), ma soprattutto “La rabbia e l’orgoglio” (2004). La Fallaci non smise mai di lottare, portando avanti le sue idee con determinazione. Il suo stile è inconfondibile: tagliente, sincero, diceva sempre quello che pensava. Riusciva a catturare i lettori mantenendo alta la loro attenzione; compiaceva il suo direttore (scrisse soprattutto per il settimanale “L’Europeo”, diretto da Arrigo Benedetti) e acquistò ben presto fama mondiale. Inizialmente costretta, essendo una donna, a scrivere di spettacolo e mondanità, riuscì successivamente ad occuparsi di argomenti che le interessavano di più: nei primi anni Sessanta si dedicò alla con-
dizione femminile in Oriente, scontrandosi con la realtà dell’Islam, mentre in seguito si recò alla Nasa per conoscere gli astronauti che sarebbero andati sulla Luna. Ottenne importanti incarichi come corrispondente di guerra, in particolare in Vietnam, che la segnarono profondamente. La sua posizione rimase sempre fermamente contraria alla guerra: si impegnò a farsi portavoce degli oppressi, a denunciare le atrocità commesse da entrambe le parti coinvolte nei conflitti, senza parteggiare per alcuno. Oriana Fallaci fu una femminista impegnata: tutto il suo lavoro, il suo stile di vita, le sue scelte servirono a dimostrare che la donna non è inferiore all’uomo e deve avere quindi gli stessi diritti. Quest’idea la influenzò soprattutto nella sua vita sentimentale. Dopo una storia di amore non corrisposto con il giornalista Alfredo Pieroni, le sue relazioni furono per lo più avventure. Fu un’eccezione il caso di Alekos Panagulis, un attivista greco, che era stato imprigionato e torturato a seguito di un tentativo di colpo di stato contro il regime dei Colonnelli. Oriana lo conobbe durante un’intervista: diventerò il suo compagno di vita fino alla morte di lui, causata da un incidente stradale dalle dinamiche mi-
steriose. La loro storia finirà tra le pagine di “Un uomo” (1979). Durante la loro relazione, Oriana scrisse invece “Lettera a un bambino mai nato”: parla dell’aborto e le servì per sfogare tutti i sentimenti che provava ripensando ai suoi bambini mai nati; più volte infatti, ebbe degli aborti spontanei. Le esperienze di vita e di lavoro della Fallaci sono raccolte in numerosi suoi libri che, pur mantenendo la forma di romanzi, sono strettamente autobiografici e trattano i grandi temi della realtà. A partire dagli anni Ottanta, dopo aver seguito gli scontri in Libano, la Fallaci si ritirò nella sua casa di New York, decisa a scrivere un romanzo sulla sua fa-
miglia. L’unico avvenimento che la riportò all’attualità fu l’attentato alle torri gemelle. I fatti dell’11 settembre 2001 la scossero terribilmente, lasciandola profondamente sconvolta. Scrisse un articolo infuocato per il “Corriere della sera”, con il quale condannò il terrorismo e l’Islam così duramente, da essere accusata da parte di molti di razzismo. In particolare, la sua figura fu utilizzata dalla destra, anche se lei, in realtà, continuò a definirsi con decisione un’anarchica. Nel frattempo, le diagnosticarono il cancro, che finì per consumarla lentamente. Oriana Fallaci si spense il 15 settembre 2006, ciò che ha lasciato di lei è oggi il mito vuoto di una donna ideale, che non può essere considerata un modello, perché è irraggiungibile. Andando più a fondo però emergono i lati bui, quelli che ogni essere umano ha: tutte le paure, le fragilità, le debolezze, le ferite che la vita lascia irrimediabilmente. Allora le si può riconoscere una grande forza, grazie alla quale ha saputo superare i problemi, grazie alla quale non si è mai arresa e non ha mai rinnegato se stessa.
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost
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Pino Roveredo Penna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. Toscano, non di origine ma fedele compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.
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Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli
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Sara Rocutto IInformatica ma soprattutto collegata, in rete ma mai nel sacco! Nonostante le infinite ore passate davanti allo schermo, trova sempre il tempo per delle belle uscite culturali, perché tra esser impegnata ed impegnarsi, passa una bella differenza.
Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Ada Moznich, Sara Rocutto, Emanuele Garbin, Adriano, Marcel, Andrea, Marco Z., Emanuele Celotto, Tina, Ferdinando Parigi, Franca Merlo, Maria Rita Bonura, Silvia Suman, Alessandro Amato, S. G., Giacomo, Stefano Venuto, Elisa Cozzarini, Fabio Passador, Daleo, Alaine Sacilotto, Andrea Lenardon, Jackie, Irene Vendrame. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone
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Fabio Passador Attualmente panchinaro di lusso! Come ogni giocatore di calcio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di testa, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist
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Elisa Cozzarini Bici gialla per passare inosservata, capello corto per non rischiare mai di non osservare. Fedelissima firma di LDP, presenza eterea in una fossa di leoni.
Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia
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Manuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili
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Andrea Lenardon Tirocinante, educatore, psicologo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.
Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!
Impaginazione Ada Moznich Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 1,2 e 3 gentimlente concesse dagli artisti Foto a pagina 6,7,9, 14 e 15 da sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pagina 13 Elisa Cozzarini Foto da pagina 16 e 17 gentilmente concesse dall'Ufficio Stampa della Pordenone Calcio Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle dipendenze di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00
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Stefano Venuto Mimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!
Creazione grafica Maurizio Poletto
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Ferdinando Parigi Voce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si trovano raramente, la nostra nuova penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800
Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.
AMA LA VERITA' MA PERDONA L'ERRORE Voltaire
I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA CON IL PATROCINIO DEL COMUNE DI PORDENONE