APPROFONDIMENTO
Servizio civile
Libertá di Parola 2/2021 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
ALESSANDRO E ROBERTA ... GRAZIE DI TUTTO di Ada Moznich Alessandro e Roberta, mamma e papà, ci lasciano per altri progetti e tagliano il cordone ombelicale che ci lega a loro. Non ho sbagliato ad attribuire le parti, per noi sono invertite. Alessandro Zamai è stato la mamma: ci ha messi al mondo, ci ha coccolati e accompagnati nella nostra crescita. Roberta Sabbion è stata la figura paterna: ci ha insegnato le regole del gioco, ci ha tenuto per mano quando serviva e ci ha lasciato camminare da soli; lei è stata la figura autorevole, che ci ha detto “bravi” e che ci ha “sgridato” quando era il momento, ma soprattutto che ha valorizzato la nostra esperienza e si è appassionata con noi.
Sono stati e saranno sempre due figure importanti che non lasceremo scappare. Anche se non saranno più una presenza quotidiana, sappiamo che, quando avremo bisogno di consigli, loro ci saranno, perché i genitori ci sono sempre per i loro figli. Con Alessandro e Roberta abbiamo costruito un luogo che è un po' una casa da abitare e un po' un servizio nel quale prendersi cura di sé, al quale le persone possono accedere liberamente, imparando a rispettare poche regole di buona convivenza; un luogo in cui possono trovare educatori capaci di ascoltare “oltre” le parole, con cui condividere non solo i problemi, ma an-
C’era una volta il Servizio militare obbligatorio, disertore chi non lo faceva. Dal 1972 c’è il Servizio civile, prima come alternativa per gli obiettori di coscienza oggi come opportunità per chi vuole dedicare alcuni mesi al servizio di difesa, non armata e non violenta, della Patria, all’educazione, alla pace tra i popoli, attraverso azioni per le comunità. Le storie di chi ha fatto questa scelta. a pagina 7
che le emozioni. Li ringraziamo di cuore per la continua formazione che hanno saputo offrirci e che ha permesso alla nostra Associazione di affrontare i problemi di sempre – le dipendenze - stando al passo con i mutamenti della società che, nell’era digitale, sta cambiando le modalità e i luoghi di accesso alle sostanze. Per quanto mi riguarda posso solo dire di avere incontrato due persone meravigliose, che probabilmente non sanno cosa ha rappresentato per me la loro vicinanza. Alessandro e Roberta mi hanno trasmesso forza e fiducia grazie alle quali ho affrontato un percorso di vita non facile, hanno rafforzato le mie capacita e mitigato le mie paure ed ora affronto la vita con la leggerezza di una farfalla; questo lo devo anche a loro, che resteranno due protagonisti importanti nella mia biografia. Grazie davvero. Grazie di tutto.
CODICE A S-BARRE
Vivere in carcere è un lungo lockdown affollato a pagina 6
INVIATI NEL MONDO
A Capo Nord in Fiat 500 alla ricerca della fine del mondo a pagina 11
PANKAKULTURA
In ricordo di Lacchin, medico e comandante partigiano a pagina 12
PANKA NEWS
Premio Simona Cigana, menzione speciale alla redazione di LDP a pagina 13
NON SOLO SPORT
Elisa Martin, un’atleta paraclimbing di livello mondiale nelle “Teste di Pietra” a pagina 14
IL TEMA
Va in pensione il “padre” de I Ragazzi della Panchina «Un’esperienza così, se non sei un genio, non la metti in piedi» di Andrea Picco Ma ve lo immaginate Alessandro Zamai, braccia dietro la schiena, gli occhi appiccicati a quelle reti arancioni, che scuote la testa davanti a una squadra di operai? Dai, siamo seri, Zamai non può andare in pensione, la vita da pensionato non gli si addice proprio. Zamai è costretto ad andare in pensione, ma la sua testa non conoscerà la quiete della quiescenza, statene pur certi. Da qui ai prossimi trent'anni collezionerà almeno altrettante lauree, e poi dopo i cento rallenterà un po’. Forse. Ironizzo perché notizie come questa ti costringono a riavvolgere un nastro di 25 anni, e non è facile. Sgombro intanto ogni sorta di dubbio: Zamai, storico medico del Ser.D, è la mente più brillante che io abbia conosciuto a fondo. Fortuna ha voluto che lo conoscessi nel momento giusto, a 25 anni, né troppo presto per capire né troppo tardi per ascoltare. Mi ha dato gli strumenti per capire le persone, la società, il mondo: è stato per me un filosofo, un pensatore da cui trarre insegnamenti
fondamentali per la vita. Negli anni trascorsi insieme a lui ho assorbito come una spugna la sua generosità di pensiero. Ecco, se proprio mi chiedete le prime due cose che mi mancano di quei tredici anni passati quotidianamente insieme, metto al primo posto le ore passate a chiacchierare di tutto, riflessioni che ho ancora fresche in mente perché erano geniali, collegamenti tra campi completamente diversi - la medicina il cinema la filosofia la psicologia lo sport - una capacità di cogliere dettagli che ti facevano capire il quadro. Eravamo, per citare qualcosa a lui caro, lui Colombo e io Gutierrez nella celebre operetta morale di Leopardi. Io che avevo il polso del morale della truppa, lui che vedeva oltre, che interpretava i piccoli segnali
Ha coltivato la parte migliore di tutti noi «In 23 anni Zamai non mi ha mai mollato» di Andrea S. Non uno, non due, ma sono ben 23 anni che conosco Alessandro Zamai e che lui conosce me. La prima volta che l’ho visto è stato nella vecchia sede del Ser.T nei pressi della stazione ferroviaria, in via Codafora. Ero andato da lui per entrare in terapia. In realtà volevo solo il metano (metadone, farnaco sostitutivo). Mi ha accolto come una persona e non come un malato; meglio, ha preso in cura le parti
malate di me, non dimenticando chi era il portatore di quel guazzabuglio di problematiche. Il mio rapporto iniziale con lui è stato molto difficile perché all’epoca pretendevo molto e davo pochissimo, anzi quasi niente. Eppure lui non mi ha mai mollato, cercando di coinvolgermi nella cura che non capivo, che non volevo, che non mi interessava. Il nostro rapporto è stato sempre caratterizzato dalla conflit-
nel modo giusto, segnali che io non vedevo e che ho imparato da lui a guardare. Lui che teneva la barra dritta, io che mediavo con le persone che come me non capivano, cercando di spiegare. Al secondo posto, ma non meno importante, metto le risate che ci siamo fatti. Quanto mi sono divertito, in quegli anni. Sembrerà un paradosso che al Sert ci si potesse divertire, ma vi giuro che è stato così. Bellissimi anni tremendi, così li definirei, e sono convinto che la presenza di questo lato comico in quel contesto drammatico sia stata una sorta di difesa che ha contribuito a sopportare tutte quelle morti, ad andare avanti nonostante tutto quel dolore insopportabile, a superare le difficoltà di ogni genere che I Ragazzi della Panchina hanno trovato sulla loro strada. L’esperienza dei Ragazzi della Panchina, se non sei un genio, non la met-
ti in piedi e non la fai durare più di 25 anni. Poi certo, non è un tipo facile, Zamai, ma che sia geniale è fuori di dubbio. E scomodo. Come Baggio, che qualche allenatore metteva in panchina perché non sapeva dove metterlo, come se il genio avesse un ruolo in uno schema. Questo mancato riconoscimento del suo valore da parte del sistema l’ha fatto soffrire tantissimo. Di ogni nomina mancata faceva una tragedia. Non so, perché ho perso di vista la situazione, quanta “carriera” abbia fatto, Zamai. So però che ha lasciato il segno, come i grandi. Esce dal campo tra gli applausi di chi come me gli deve tutto, e la consapevolezza di chi non l’ha amato che comunque confrontarsi con lui, anche osteggiarlo, è stato uno sprone per dare il meglio, o il peggio, di sé. Alessandro, prima dell’ultima timbratura voglio che ti giunga il mio grazie, una parola che racchiude questi miei 25 anni, perché, anche se ormai il tempo che ho passato insieme a te è quasi quanto quello passato lontano, ho sempre avuto i tuoi insegnamenti come ispiratori. Da gennaio per te basta treno, basta insalate al bar, basta colloqui, basta “alzami il meta”, basta dati che ti stavano così simpatici, basta riunioni. Ti mancherà, sicuro. Non scrivo ti godrai i nipoti, è troppo. Mettila così: finalmente puoi solo studiare. Ma sì, cosa sarà mai... Goditela ‘sta pensione, amico, Maestro, secondo padre mio.
tualità: anche quando volevo togliermi la terapia e non era il momento giusto, lui ha sempre pensato al mio bene. E’ stato tra le poche persone a riuscire ad intravedere quel poco di bene che c’era in me e a farmelo coltivare: mi avrà telefonato non so quante volte per convincermi ad andare alla Panka, perché sapeva che avevo bisogno di un posto diverso dalla strada in cui, prima o poi, ci avrei rimesso la pellaccia. In ogni fase della mia vita lui c’è stato: quando ero in strada, quando sono stato in carcere e, soprattutto, nei miei diversi ricoveri ospedalieri. Ne ha convinte di persone ad accettarmi, poiché la mia fama di “ribalta scrivanie” mi precedeva sempre. Lui non mi ha mai mollato. Credo di avergli dato parecchi grattacapi, maledetto istinto, maledetta rabbia. Lui non mi ha curato, ma sicuramente ha
accolto, coccolato e reso più forte quella parte di me che si è presa cura, insieme a lui, di tutto resto di Andrea. Grazie a questo è arrivato quel fatidico giorno, il 24 dicembre del 2016, in cui, la mia parte buona, ha fatto sì che decidessi di andare in “pensione” dalla carriera di consumatore: mi sono tolto tutto il metano e mi sono ripulito. Piano a piano ho rielaborato tutta la mia storia, andando oltre l’istinto e la rabbia, riprendendo tutto ciò che Zamai mi aveva detto. Ho iniziato così ad ascoltare ed ascoltarmi, ma soprattutto ad affidarmi e a fidarmi di chi voleva veramente il mio bene. Lui non è stato il solo ad aiutarmi, ma sicuramente è stato quello che c’è sempre stato! Ora, finalmente, qui alla Panka, siamo Alessandro e Andrea che si sfidano solamente a calcetto! Grazie Alessandro.
Tredici anni a capo del Servizio per le dipendenze «Roberta, la Panka con te è stata capace di capovolgere il mondo e di incanalare le energie verso il nuovo» di Stefano Venuto Ci sono incontri professionali che indirizzano una vita. Ci sono incontri che hanno il potere di riempirti i pensieri ed il cuore dello stesso significato: bellezza, equilibrio, orizzonti possibili, condivisione. Sono incontri rari, profondi, da custodire. Aver avuto la possibilità di far crescere un pezzo della mia vita, professionale e no, assieme a te, è una gemma preziosa che conserverò con cura e gelosia. Grazie Roberta per tutto questo.
di me. Anche lei stava cercando di prendere in mano questo elefante dentro la cristalleria. Ci siamo incontrati lì. Ruoli diversi, responsabilità diverse, necessità diverse ma un obiettivo comune. Valorizzare. Un presupposto comune. Credere in quello che si fa. In qualche modo amare
quel mestiere, viverlo nel profondo, sentirlo vibrare dentro. Non essere solo al lavoro. Ho avuto la fortuna di poter vedere una donna gestire un contesto dalle forti caratteristiche maschili con quel mix di forza, coraggio, determinazione, costanza, sensibilità, accoglienza, accudimento che, al
Il mio arrivo alla Panka nel 2010 si è collocato in un momento di passaggio importante. La storia dell’Associazione era lì, con tutta la sua potenza, con tutte le sue dinamiche, con tutti i suoi traguardi raggiunti. Ma era anche una storia ingombrante, che a volte accecava, frenava, dava poco spazio al nuovo. Roberta era arrivata come responsabile di dipartimento poco meno di due anni prima
Come uno Tuznami che spazza via la palude «Cara Roberta, hai tracciato un solco profondo su questa comunità» di Giorgio Doardo Come credere, come pensare. Come immaginare possa essere possibile far trascorrere le mie giornate senza scorgere la sua immagine alla televisione, in qualche talk show oppure il suo sorridente volto in caricatura sul nostro “Libertà di Parola” a festeggiare chissà quale vittoria conquistata per noi. A pensarci
bene sono state rare le volte che abbiamo potuto stare assieme, perché il tempo a lei sfugge veloce: se la cerchi, lei è al centro del tutto, oppure in vetta ad un monte con il suo inseparabile tandem a dimostrare che nulla è impossibile, basta volerlo fino in fondo. Ripensandoci mi son reso conto che sarebbe stato incredibil-
mente superfluo raccontare i dettagli del nostro incontro: abbracci, carezze, sfuriate, elogi, pacche sulla spalla e parole. Parole che con la loro potenza, potenza profonda e avvolgente determinazione ti cambiano la vita. Posso solo immaginare quanti di noi sarebbero pronti ad inchinarsi al suo cospetto per baciarle il cammino riconoscendo in lei un angelo portatore di vita, mentre sono invece sicuro che indelebile rimarrà la sua imponente presenza su tutti noi. Un lontano giorno, che ancor bene rimembro, lei mi parlò del dirompente effetto a catena creato dal lancio di una pietra sulla palude stagnante. Le piccole onde create da un semplice, ma determinato gesto, sarebbero diventate un dirompente Tzunami in grado di ricomporti la vita che credevi persa. E cosi fu. Fu così sulla gente, sul territorio, sul
genere maschile è quasi del tutto precluso. Ma una cosa su tutte ho avuto la fortuna di vedere: come si affronta la fatica senza averne paura. Sono insegnamenti che non dimenticherò. Assieme a tutta la Panka e tutta la Panka assieme te, cara Roberta, in tredici anni, siamo stati capaci di capovolgere il mondo. Abbiamo riletto la realtà che si modificava davanti ai nostri occhi, che scorreva via tra le dita delle mani come sabbia e l’abbiamo incanalata nel nuovo. Oggi la Panchina è nuova, nuovi sono anche gli occhi del Servizio quando guarda l’Associazione. Non sono risultati banali ma sono processi culturali, sono emozioni, sono battaglie, sono atti di fiducia che una volta raggiunti vanno preservati, alimentati, manutentati. Lo faremo perché sono anche tuoi. Sono tracce che restano indelebili nella storia di un gruppo, nel cuore di tutti quelli che l’hanno vissuta quella storia. Nel mio cuore quelle tracce resteranno per sempre. Poi la vita ci insegna che ad un certo punto qualcosa finisce. Quando si ha la lucidità di capirlo, per quanto possa fare male, si cambia. Ci cambia. A me è successo dieci anni fa ed il risultato è stato una magia. Lo sarà anche adesso che lascerai Pordenone sarà un altro viaggio da affrontare. Lo sarà per il Ser.D, lo sarà per la Panka, lo sarà per te, Roberta. Ti basterà solo essere te stessa per far sì che ogni bellezza che ti meriti arrivi. suo lavoro e su di me. Ricordo sempre volentieri i suoi improbabili progetti di vita in cui amava coinvolgermi: sport, eventi musicali, incontri culturali e conviviali al sempre vivo scopo di risvegliare le anime perse nei ghetti pordenonesi. Mi trascinò fino a Napoli a recitare sul meraviglioso palco di Scampia dove la solitudine, la paura e la sofferenza sono incredibilmente palpabili. Come credere, come pensare. Come immaginare che un'altra persona riuscirà ad occuparsi di tutto ciò con la medesima empatia. Cara Roberta hai tracciato un solco profondo su questa comunità e l’acqua ha già iniziato a scorrere e non vedo più paludi stagnanti all’orizzonte. Arrivederci Roberta. Quando le onde avranno raggiunto le sponde, il tuo Tzunami avrà vinto, riportando una nuova esistenza per tutti.
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Dove stiamo andando? A poco meno di due anni dall’inizio della pandemia, infervora il dibattito sui vaccini e sul green pass di Celox Dopo oltre un anno e mezzo ancora si litiga su vaccini si, vaccini no, green pass e via dicendo. Nel momento in cui scrivo, non manca molto all’inizio della scuola e parte del corpo docente non è vaccinato. In realtà l’89% lo è, ma a mio avviso c’è una caccia alle streghe nei confronti dei non vaccinati. Mi chiedo, sono davvero loro il problema? In questi mesi non è stato fatto quanto si doveva: non c’è stato nessun lavoro sulle scuole per poter garantire una buona areazione delle aule e lo svolgimento delle lezioni in sicurezza; non c’è stato nessun potenziamento (in alcune province, non molte purtroppo, si è provveduto) del tra-
sporto pubblico, in modo che chi ne usufruisce, possa tenere la distanza raccomandata per motivi di sicurezza. Chi se lo potrà permettere, andrà a scuola con mezzi privati, con aumento di costi, traffico e smog. Nessuno vorrebbe tornare alla DAD, perché penalizzerebbe chi non ha la possibilità materiale di poter seguire le lezioni. Da quando è stato introdotto, il green pass è oggetto di contestazione. Proviamo a guardare un po’ oltre: e se con la pandemia dovessimo andare avanti un altro paio di anni? Già adesso c’è polemica tra chi ha il green pass e chi no. Non è neanche finita la
prima fase di vaccinazione, cioè non è stato raggiunto l’obiettivo di arrivare vicini al 90% di popolazione adulta vaccinata, che già si parla di terza dose. E poi? Chi ha fatto la terza dose discriminerà chi ne fatte solo due? Una domanda vien spontanea: “Se per l’HIV stanno ancora sperimentando il vaccino dopo quarant’anni circa, com’è che questi in meno di un anno sono riusciti a trovare il vaccino?”. Un altro effetto collaterale d e l virus è
Quando l’abito non fa il monaco e l’impegno conta su tutto «Nel mio nuovo lavoro mi sentivo gli occhi puntati addosso, poi ho sorpreso tutti» di Lele Mi mettono sempre ansia le nuove esperienze. Avete presente quando arrivate in un posto nuovo, dove non conoscete nessuno e nemmeno a farlo apposta vi fissano tutti, come se avessero appena visto un alieno? Bene, questo mi capita molto spesso, anzi è un genere di situazioni che ricerco. Passo ore e ore a scegliere il “costume” di un'altra me creata apposta per essere appariscente, “aliena” da quell’uniformarsi agli altri che è lontano anni luce dal mio essere. Non è una questione di egocentrismo, questo ne è in realtà la conseguenza. La verità è che adoro essere il puntino viola nella folla nera. Il vero problema però è che, anche quando penso di essere normale, la mia di-
versità si fa notare. Questo mi piace, certamente, ma non se è il primo giorno di lavoro. Faccio già fatica a gestire il mal di pancia delle nuove esperienze e mi devo anche
gestire gli occhi delle persone? Arrivo lì con delle aspettative, pensando di essere in quel posto per svolgere determinati compiti; credo di dover iniziare delle esperienze bellissime e invece capisco presto che non ho capito nulla. Passano i primi giorni e le prime dieci magliette fradice di sudore e i miei scopi lavorativi sembrano essere invariati. Sudo sempre di più, c'è sempre più caldo, le ore di lavoro si allungano e mi sembra di essere una delle poche persone che effettivamente lavora. Fino a qui, diciamolo, niente di entusiasmante però continuo, perché ho preso un impegno e anche perché il clima e il luogo non mi dispiacciono, anzi, lavoro in un posto dove
che hanno tolto il blocco dei licenziamenti. A questo si accompagnano i continui attacchi al reddito di cittadinanza. Guardando bene si vede che c’è una guerra ai poveri da un lato ed il tentativo, coi licenziamenti quasi quotidiani (via sms o mail), di erodere ancora potere contrattuale ai lavoratori. Quando il lavoro scarseggia e hai una famiglia da mantenere, finisci per accettare lavori con paghe al limite della sopravvivenza. Il fine ultimo sembra quello di far regredire i diritti dei lavoratori, per ridurli a mendicare un posto di lavoro ed una paga. Dulcis in fundo, alcuni politici dicono che bisogna soffrire (sempre facile, quando stai in poltrona e prendi dieci volte quello che prende un operaio). Tra gli effetti nefasti della pandemia c’è tutto l’odio (si odio) che circola in rete e che inevitabilmente finisce per spostarsi nel reale. E pensare che molti dicevano: “Ne usciremo migliori”. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere. posso essere tranquillamente me stessa. La mia stranezza è coinvolgente perché in realtà è appartenuta a più persone che quotidianamente mi dicono: “Sai che quelle scarpe le indossavo anch'io e le custodisco da più di vent’anni nell'armadio?”. Oppure, “Ho sempre adorato avere un taglio di capelli così, poi mi sono sposata”. Ma ecco, in un giorno qualunque, la responsabile mi avvicina e mi chiede di svolgere una mansione più impegnativa, per la quale si richiede responsabilità e soprattutto fiducia. Da quel momento le mie prospettive cambiano, poiché dall'alto della mia postazione privilegiata posso vedere i miei compagni di sudate (io per la fatica e per il caldo, loro più per il caldo che per la fatica) che lavorano stupiti del mio nuovo ruolo. Fino a ieri mi deridevano per l'impegno che mettevo in tutto ciò che facevo. Sono stata brava e non mi sono serviti i loro complimenti: molti erano lì da mesi, altri anche da anni, mentre io dopo così poco ero già riuscita a guadagnarmi un posto così importante. È il monaco che fa l'abito e non viceversa. Uno a zero per me!
Guardare oltre il pregiudizio «La tossicodipendenza è un aspetto che non definisce l'intera persona. Io l’ho compreso durante il Servizio civile al Dipartimento delle Dipendenze» di Simone Mi chiamo Simone e sono un ragazzo di 22 anni residente a Pordenone. Nell’anno 202021 ho deciso di partecipare al Servizio civile. Non sapevo a cosa sarei andato incontro e mi sono buttato facendo un salto nel vuoto in un portale ignoto. L’immersione in questa opportunità mi ha condotto al Dipartimento delle Dipendenze di Pordenone, realtà di cui non ero a conoscenza. Grazie
a questa esperienza ho conosciuto il territorio e i servizi della mia città fra cui il Dipartimento delle Dipendenze, una struttura in cui vengono seguite persone con diversi tipi di dipendenza, dalle sostanze stupefacenti all’alcol, dal gioco d’azzardo ad internet. La struttura è aperta a chiunque avesse bisogno di un consulto rispetto ad una situazione legata a queste
tematiche. Lo considero un servizio molto importante. Le attività che ho svolto all’interno della struttura riguardano soprattutto aspetti amministrativi e di supporto agli operatori come la misurazione della febbre in fase di Covid, la gestione dell’agenda del medico, l’accoglienza delle persone in entrata. Ho partecipato inoltre alle riunioni d’equipe e ad alcuni gruppi terapeutici.Nella fase iniziale ero preso e perso nel capire come si muovesse il tutto, quali attività e mansioni potevo svolgere. In questa fase percepivo una mancanza dal punto di vista emotivo e valoriale perché troppo preso dal “fare” che mi teneva/rendeva “lontano” dal significato dell’esperienza. “Ma cosa sto facendo io qui? Cosa mi rimarrà di questa esperienza?” Nonostante questo ho voluto proseguire per capirne di più e capirmi di più. Negli ultimi mesi c’è stata un’inversione e le domande sono state: “Cosa mi è rimasto? Che significato do a questa esperienza?”. In me erano apparsi alcuni concetti che ho voluto evolvere “approfondendoli” per dare
Raggiungere un traguardo e sentirsi felici Come la realizzazione personale può rinvigorire la fiducia in noi stessi di R.B. Quando mi hanno consegnato tra le mani il mio attestato di qualifica di istruttore per corsi BLSD sono stato travolto da emozioni che avevo ormai dimenticato (o che probabilmente non avevo mai provato prima). Non avete idea di che cosa si tratta? Ve lo spiego raccontandovi la mia piccola avventura personale. Circa un anno fa, cominciai ad occuparmi delle pratiche amministrative dei “corsi BLSD”, ovvero corsi sulla rianimazione cardiopolmonare e l’utilizzo del defibrillatore (se ci guardiamo intorno, camminando per le strade di Pordenone, ne troveremo diversi custoditi in piccole cabine con la scritta “DAE”). Questo era parte del mio lavoro, ma sbrigare le faccende burocratiche non mi era sufficiente, così ho cominciato a seguire i miei col-
leghi durante questi corsi e al tempo stesso a frequentarli come allievo per ricevere la qualifica di esecutore. Volevo poter contribuire anche io a sensibilizzare sull’importanza della rianimazione cardiopolmonare e di una risposta rapida ed efficace nelle situazioni con vittime di arresto cardiaco. L’idea di diventare istruttore è cresciuta in me anche grazie al mio datore di lavoro e collega. Osservare il suo modo di relazionarsi con le persone durante i corsi è stato fonte di ispirazione per la mia crescita personale e professionale. Ad un certo punto si era creata la possibilità di frequentare un corso per istruttori e così ho potuto realizzare questo piccolo ma fondamentale sogno, che mi ha concesso di provare emozioni che credo di non
aver mai provato: l’orgoglio, il riconoscimento da parte di formatori professionisti, di una qualifica non solo professionale ma personale nel sen-
loro maggiore significato. Finché non ho fatto un sogno. Vidi da lontano un satellite il quale riprendeva una persona, allontanandosi e avvicinandosi da essa. Il soggetto ripreso dal satellite era una persona grassa. Se da lontano la si vedeva come tale, da vicino emergeva altro. Se il giudizio inizialmente poteva essere “Sei grasso, perché è colpa tua, guardati, vergognati”, il giudizio finale cambiava in “Accolgo quello che sei e so che deriva da tante cose: il contesto in cui vivi e la storia che hai passato.” E così si ridimensionava il tutto. “Perché non applicare questo modo di vedere le cose anche al mondo delle dipendenze?”. Molto spesso, infatti, sicuri delle nostre conoscenze, ci rapportiamo con l’altro rimanendo sul primo sguardo, non affrontando quello che c’è oltre. L’aspetto della persona che va al SerD o che fa uso di sostanze non la definisce nella sua totalità perché lei è il risultato di molto altro. La “tossicodipendenza” è solo un aspetto della persona. Ringrazio mio padre per avermi proposto questa opportunità. so più intimo del termine. Mi sono sentito davvero felice di e per me stesso; era una cosa tutta mia, nessuno poteva togliermela, una sensazione impagabile. Finito il corso sono arrivato a casa, mi sono disteso sul letto e ho guardato prima il soffitto e poi fuori dalla finestra, come se non riuscissi a contenere le potenti emozioni che erano impazienti di manifestarsi: la sensazione era di pura fierezza, allacciata a una grande fiducia in me stesso. In quel momento pensavo solo a me, sentivo che ce l’avevo fatta e che avrei potuto farcela anche in altre situazioni, complicate o meno, della mia vita. Grazie a questa esperienza mi sento di potervi dire che, nonostante intraprendere la strada della realizzazione personale non sia semplice (soprattutto se non avete ben chiaro qual è il vostro scopo), se troverete anche un solo piccolo desiderio recondito e vi impegnerete perché diventi realtà, una volta raggiunto l’obiettivo proverete delle emozioni intense che bruceranno di speranza e vi permetteranno di capire che ognuno può sentirsi orgoglioso di se stesso, anche chi si è sempre considerato non abbastanza. Provateci sempre!
Prosegue la redazione del nostro giornale all'interno del carcere di Pordenone. “Codice a s-barre” è uno spazio gestito interamentedai detenuti. Tutti i testi nel nostro blog: www.iragazzidellapanchina.it
Vivere in carcere è stare chiusi in un lungo lockdown, si è come dentro una campana «Il sovraffollamento condiziona anche i nostri contatti con l’esterno, perché più siamo più le visite per ciascuno sono dilatate» di Alessandro e Michele Immaginatevi che i vostri spazi vitali siano dimezzati, se non di più, e di essere costretti a condividerli con altre persone, 24 ore su 24. Questo è il carcere. Nella Casa circondariale di Pordenone dovrebbero esserci al massimo 36 detenuti. Noi invece siamo almeno il doppio e tutto si dimezza. È il sovraffollamento, che per voi è semplicemente un concetto, per noi è una costrizione, una condizione di vita reale e soffocante. Pordenone (assieme a Udine) è una delle dieci carceri più affollate di Italia, secondo un servizio Rai Fvg andato in onda il 28 aprile del 2020. Il sovraffollamento è distruttivo soprattutto dal punto di vista psicologico ed è del tutto lontano dall’obiettivo sancito nell’articolo 27 della Costituzione, per il quale la finalità della pena deve essere la rieducazione del condannato. Nella nostra cella viviamo in sette persone ed è così tutti i giorni della settimana, per mesi o per anni. Essere qui dentro è un po’ come essere fuori in società ed essere privati, di questi tempi, di cellulari e social network, di ogni contatto con gli altri: è come essere e sentirsi estranei da tutto e da tutti, privi di riferimenti. Un lockdown totale e continuo, per di più con persone che non si conoscono con cui bisogna costruire una relazione a volte forzata. La situazione peggiora poi con l’arrivo della stagione calda, quando c'è la questione dell’aria, dell'ossigeno, dell’igiene. Ci si sente occlusi. La convivenza è già difficile e in carcere lo diventa ancora di più. Il sovraffollamento condiziona anche i nostri contatti con l’esterno.
Più siamo, più le visite con i famigliari si dilatano nel tempo. La stanza colloqui, già di per sé piccola, a causa della pandemia e della necessità di mantenere il distanziamento consente di ospitare contemporaneamente meno persone di prima: questo per ciascun detenuto significa ve-
stesse cose. Sembra di essere chiusi dentro a una campana. Tra noi detenuti parliamo delle nostre famiglie, sopratutto dopo i colloqui e le telefonate; ascoltiamo in televisione i vari telegiornali sempre nella speranza che ci sia qualche novità a nostro favore. In carcere non esiste
dersi diradare gli incontri con l’esterno. La turnazione è più lenta. Ogni giorno ci alziamo dal letto alle 7 del mattino, facciamo colazione, segue il controllo della cella da parte delle guardie, quindi ci viene data la possibilità di uscire dalla cella (a turno con l’altra sezione). La maggior parte di noi, tuttavia, rimane in stanza. Poi arriva il pranzo, quindi di nuovo un’altra apertura delle celle. La sera tutto chiuso dalle 18. Ogni giorno sempre le
privacy, nemmeno quando si tratta di telefonare a casa. In questo momento il telefono di una delle due sezioni nelle quali il carcere è suddiviso spesso non funziona. Ciò significa che tutti i detenuti si riversano sull'altro. Quando chiami a casa, hai una fila di persone dietro di te che aspettano, che loro malgrado ascoltano, mentre tu hai solo quella volta e poco tempo per poter comunicare con chi ami. Difficile sentirsi liberi
di parlare. Qui a Pordenone ci è consentito fare otto chiamate al mese, più altre quattro straordinarie; se le otto telefonate le usiamo nell’arco di due settimane, le straordinarie si riducono a due. Abbiamo fatto la domandina per aumentare il numero di chiamate, ma (nel momento in cui scriviamo) ancora non è stata accolta. A casa ognuno di noi ha genitori anziani, mogli e figli, fidanzate che non possiamo sentire quando vogliamo. Non è così dappertutto, però. Alla casa circondariale di Padova, ad esempio, il sovraffollamento c’è ma si sente di meno, perché gli spazi sono più ampi, la struttura non è un piccolo e vecchio castello diroccato e ci sono una palestra, una ludoteca, celle da due persone anche se ne dovrebbero contenere una, e le chiamate ai famigliari si possono fare tutti i giorni. Noi detenuti soffriamo a stare reclusi qui dentro e privati della libertà. Ma la sofferenza emotiva più grande la provano le nostre famiglie, fuori dal carcere. Noi proviamo ad adattarci alla nostra condizione di vita. I nostri cari, invece, soffrono di più, specialmente se si devono occupare di quanto abbiamo lasciato, se hanno bisogno del nostro aiuto. Loro soffrono, mentre noi viviamo questo tempo di pena con la costante paura di ritrovarci soli, di venire abbandonati. Percepiamo la stanchezza dei nostri famigliari e questo periodo di pandemia, in cui noi siamo preoccupati per loro e loro per noi, amplifica tutto. Il sovraffollamento aumenta la tensione e non c’è modo di distrarci. La pandemia ha azzerato le attività, data l’impossibilità di consentire le visite agli esterni per ragioni di prevenzione del contagio. In questo momento, perciò, in carcere a Pordenone di attività praticamente non ce ne sono, tranne le visite del sacerdote e delle suore, il laboratorio di Codice a s-barre, i corsi di italiano. Tutto il resto è fermo, sospeso, e il tempo lo passiamo praticamente sempre in cella, in compagnia dei nostri pensieri. Ne abbiamo troppo di tempo per pensare. Difficile stare lontani dai cattivi pensieri. Non ci si riesce. (Pordenone, 20 maggio 2021)
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
Dall'obiezione di coscienza al Servizio civile di Giorgio Achino I diritti di oggi sono le lotte di ieri. Quanto ne siamo consapevoli? Chi oggi gode di questi privilegi, quanto è consapevole di cosa si sia dovuto fare per ottenerli? Il Servizio civile universale ne è un esempio importante. La sua storia ha radici profonde che hanno portato a scontri di classe, politici, etici e religiosi. Contiene in sé quasi cento anni della storia del nostro paese. Non possiamo consentire che siano dimenticate le origini di ciò che oggi è non solo un diritto oramai acquisito, ma anche un'opportunità socialmente condivisa e apprezzata. I numeri lo confermano: dal 2001 (anno in cui è nato il Servizio Civile con la legge 64/01, poi diventato Servizio Civile universale con il decreto legge. 6/3/2017 n 40) ad oggi più di mezzo milione di giovani, tra i 18 e 26 anni, hanno servito la propria Nazione portando il loro contributo in progetti volti dall'assistenza alla protezione civile, alla tutela del patrimonio ambientale; dall’educazione e promozione culturale allo sport, al turismo sostenibile e sociale, all'agricoltura, alla promozione della pace tra i popoli, alla nonviolenza e alla difesa non armata alla promozione e tutela dei diritti umani. Tutto questo, però, nasce da una lotta dolorosa, che ha portato con sé storie di prigione, di latitanza, di lotta per la libertà di scelta. Il Servizio civile nasce dall’obiezione di coscienza che per più di mezzo secolo è stata considerata come una scelta negativa, al limite dello spregevole e gli obiettori considerati, nella migliore delle ipotesi, la peggio gioventù d'Italia. Ripercorrere la storia del servizio civile è ripercorrere la storia italiana partendo sin dalla sua unità quando la coscrizione obbligatoria introdotta nel 1861, incontrò una grandissima resistenza soprattutto tra la popolazione rurale del meridione, che non ne capiva i motivi ed era costretta a subirla forzatamente. Tracce importanti dell’obiezione si riscontrano durante i conflitti mondiali ove innumerevoli furono i casi di reati militari come diserzione, procurata infermità, disobbedienza aggravata, ammutinamento. È dagli anni ’60 in poi che iniziò la lotta vera e propria con riscontri mediatici di forte impatto e di iniziative parlamentari per la maggior parte ostacolate dalla
Alessandro Zamai con i ragazzi del Servizio civile al Ser.D
maggioranza parlamentare. Il primo tentativo ci fu nel 1966 con la legge Pedini che offriva una sorta di servizio civile “nel terzo mondo” che favoriva pochi privilegiati sfruttati da ditte private ed enti statali e religiosi. I movimenti culturali e le lotte del cosiddetto ’68, in cui sempre di più si vedevano al centro i diritti civili, portarono innumerevoli casi di obiezione di coscienza per motivi politici, etico-religiosi. Fu così che il 15 dicembre del 1972 il Parlamento promulgò la legge Marcora in cui si riconosceva l’obiezione e si istituiva il Servizio civile. La ratio di questa legge però non era volta al riconoscimento di un diritto quanto ad una concessione di un beneficio concesso dallo Stato. Pur permettendo la scarcerazione di molti di quelli che erano classificati come renitenti, la legge Marcora prevedeva la gestione del servizio civile da parte del Ministero della Difesa ed offriva, per così dire, un periodo di servizio di otto mesi in più alla leva (all'epoca di quindici mesi per Esercito/Aeronautica e ventiquattro mesi per la Marina), la sottoposizione ad una commissione giudicante che valutava la veridicità dell’idea di obiezione e l’esclusione delle motivazioni politiche. Di risposta il movimento di lotta degli obiettori portò alla nascita della Lega Obiettori di Coscienza (LOC). Ci furono lunghi periodi di lotta e di continui arresti e carcerazioni per quasi tutta la metà degli anni Ottanta. Lo stesso dottor Alessandro Zamai, nostro amico e fondatore dell’Associazione I Ragazzi della Panchina, medico del Ser.D fu carcerato a Peschiera per un mese e mezzo nel 1981. Il vuoto legislativo durò per altri quindici anni nonostante 16.000 domande di obiezione nel 1990, 30.000 domande nel 1994, 70.000 nel 1998. Finalmente con la legge 230/98 si è sancito il pieno riconoscimento giuridico dell'obiezione di coscienza come diritto alla persona. A seguire fu istituito l'Ufficio Nazionale per il Servizio Civile che, dal 1° gennaio del 2000, gestirà a pieno il Servizio Civile Sostitutivo. La riforma dell’Esercito, dello stesso anno, che istituì il servizio militare volontario e professionale fu una svolta radicale che portò rapidamente ad un cambio culturale sancendo la fine dell’Obiezione di coscienza nel 2007.
«La mia scelta pacifista, la latitanza e un arresto per renitenza alla leva» Zamai, medico del Ser.D, è stato militante del direttivo Lega Obiettori di Coscienza nei primi anni ‘80, in un periodo in cui la violenza sembrava l’unica strada possibile di Giorgio Achino Gli anni ‘80. Qualcuno li definisce fantastici, qualcuno li rimpiange, qualcuno addirittura li vorrebbe in qualche modo rievocare, sta di fatto che furono, di sicuro, anni complessi. Un filo rosso attraversa quegli anni, un filo rosso tinto di sangue. L’uso della violenza fu volta a creare terrore o a definire uno stato di tensione socio/politico/ culturale diffuso. Si consideri che quelli erano gli anni in cui tutte le istituzioni (politicheeconomiche-religiose) furono attaccate con una violenza efferata e senza esclusione di colpi. Erano gli anni dell’uccisione di Aldo Moro (’78); della strage alla stazione di Bologna (’80); dell’attentato al papa Giovanni Paolo II (’81); dell’uccisione del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (‘82). L’uso della violenza, insomma, era una scelta precisa messa in atto da una serie
di organizzazioni volte alla destabilizzazione, alla lotta contro chi deteneva il potere. Emerge chiaramente, quarant’anni dopo lo possiamo affermare, come alcuni dei fini trovassero una ragione d’esistere. Ma lo strumento (il mezzo) “violento”, oramai all’epoca “sdoganato” e considerato quasi come unica soluzione, trovava giustificazione? Noi, oggi, siamo assolutamente convinti di no, ma all’epoca a questa precisa domanda pochi scelsero la strada della non violenza, della mediazione, della lotta pacifica. Questo mi ha raccontato Alessandro
Zamai, medico del Ser.D e fondatore de “I Ragazzi della Panchina”, militante del direttivo LOC (Lega Obiettori di Coscienza*) nei primi anni ‘80. «Credevo molto in quella scelta pacifista – dice Zamai -, scelta che mi ha portato alla latitanza e ad un arresto per renitenza alla leva. La pace e la mediazione sono strumenti fondamentali per la vita so-
Nel 1993, in Val Tramontina con la “Caritas Car” Marco Pio Bravo: «Incontravamo la solitudine e le disgrazie delle persone e i nostri servizi erano delle esperienze di umanità» di Giorgio Achinoi e R.B. «Da piccolo ero sicuro di due cose, che odiavo la guerra e la violenza e che sarei diventato vegetariano! E su questi due punti non ho mai cambiato idea». Oggi Marco Pio Bravo è un giovane nonno, classe1966, e persona da sempre impegnata nell’ambito associativo, all’interno in particolare dell’Azione Cattolica Italiana. A chiedergli il perché abbia scelto l’obiezione di coscienza al servizio militare, ritorna con i ricordi alla sua infanzia, quando già
sull’argomento aveva già le idee chiare. Attualmente Pio Bravo è formatore all’ENAIP Friuli Venezia Giulia e referente per le ACLI dei giovani che hanno fatto la scelta del Servizio civile universale. Fin dalla prima gioventù, dice, si è sempre riconosciuto come obiettore, contro la guerra e ogni forma di violenza. Ispirato da Gandhi, ma soprattutto dalla figura di Don Lorenzo Milani, ha sempre creduto nell’importanza di «servire il proprio pa-
ese promuovendo la dignità dell’uomo attraverso azioni di pace locali». Dell’anno della sua obiezione di coscienza, il 1993, che ha svolto presso la Caritas diocesana, ricorda in particolare la funzione di monitoraggio delle persone anziane dislocate nei diversi paesi della Val Tramontina (Campone, Chievolis), ma soprattutto quelle persone che abitavano in alcune borgate come Clez, Val, Muinta e Tamarat. Queste persone spesso sole e in situazioni di disagio
ciale, dovrebbero essere sempre alla base di ogni scelta di libertà e in libertà. In quegli anni era come se i grigi non esistessero: apparivano ed emergevano per lo più solo le tonalità definite. Passai interi anni a diffondere la scelta in cui credevo. Ad ascoltarmi però erano sempre gli stessi (ovvero chi approvava la scelta stessa). Giravo tutta l’Italia per rispondere alle chiamate dei media e delle radio del tempo». Su questo punto, ho trovato una registrazione di un’intervista di Alessandro Zamai nell’archivio on line di radio radicale, registrazione del 21 luglio 1981 alla voce “obiezione di coscienza – zamai”. «La scelta della mediazione - continua Zamai - mi portò ad avere un’intuizione che col senno di poi oserei definire fondamentale: ricercare un campo di amplificazione del nostro messaggio non da un media estremista ed autoreferenziale, ma un amplificatore con caratteristiche di riconoscimento politicamente trasversale. Scelsi di contattare Stefano Rodotà, giurista ed intellettuale, riconosciuto da tutte le forze politiche come uomo super partes». La sua caratura e la sua affidabilità lo portarono anni dopo ad essere tra i papabili come Presidente della Repubblica: il suo contributo fu importante e fino alla sua morte, avventa nel 2017, fu considerato punto di riferimento per il tema dell'obiezione di coscienza. «Telefonai a Rodotà – continua Zamai economico godevano della presenza degli obbiettori che quotidianamente andavano a trovarle aiutandole in alcune mansioni quotidiane di cui necessitavano. «Molto spesso erano mansioni semplici – racconta Pio Bravo altre più impegnative come spaccare la legna o dipingere un locale della casa. Su di noi proiettavano la loro solitudine, ma anche la loro voglia di prendersi cura di qualcuno offrendoci piccole prelibatezze preparate in casa come il frico della famosa “Luzia”, oppure la grappa alla camomilla della signora Sila. Raggiungevamo i posti più disparati della Val Tramontina – prosegue - a bordo della mitica “Caritas Car”, una vecchia Ritmo a disposizione di noi obiettori. Ci occupavamo di circa cinquanta persone e tutte erano a loro modo bisognosi di rapporti umani». In quell’anno nacquero relazioni che si mantennero anche dopo la fine del servizio a tal punto che, al funerale
-.Una voce stentorea e ferma mi disse: “Mi mandi uno scritto che ne terrò considerazione”. Pochi giorni dopo fui chiamato dalla redazione del settimanale Panorama, con cui all’epoca Rodotà collaborava, per un’intervista. La pubblicazione di quell’articolo diede inizio ad un cambiamento di considerazione delle nostre istanze. Passai dall’essere ascoltato ed intervistato solo dai media di parte (Radio Radicale e Radio Popolare) o ad essere oggetto di interrogazioni parlamentari come vittima d’ingiustizia all’essere protagonista di un’audizione parlamentare in cui l’intero emiciclo mi ascoltava. Quell’episodio non fu risolutivo e ci vollero molti anni perché realmente le cose cambiassero, ma di certo fu l’inizio di una considerazione diversa di una scelta di libertà e pacifista; di una scelta diversa di servire la propria Nazione». La LOC, Lega Obiettori di Coscienza, è nata nel 1973 dopo l'approvazione della Legge 772 del 1972, che sancì il diritto all’obiezione di coscienza. Dapprima federata al Partito Radicale, dal 1979 assunse autonomia politica e di iniziativa. È l’associazione degli obiettori al servizio militare e di coloro che si riconoscono nei valori della pace, della solidarietà, della nonviolenza, e che, con la propria affermazione, intendono contribuire al superamento del modello e dell'organizzazione di una anziana signora, si ritrovarono tutti gli obbiettori che negli anni passarono per Tramonti e che l’avevano conosciuta. «Inoltre, se alla mattino ci occupavamo degli anziani – dice Pio Bravo - al pomeriggio conducevamo il Doposcuola per i giovani ragazzi della valle, aiutandoli nelle materie umanistiche e scientifiche». Dietro a tutto questo si scorgevano la grande solitudine e le disgrazie familiari, quindi i servizi erano delle esperienze di umanità. «Delle motivazione delle nostre scelte i tramontini probabilmente non ne capivano le sottigliezze – osserva -: a volte ci appellavano come soldati, dicevano “a son rivas i soldat”. Ma in ogni caso loro vedevano il concreto, i risultati e l’impegno che ci mettevamo. Dopo il nostro periodo il sevizio fu sospeso (non ho mai saputo il perché) creando notevole disagio in tutta la comunità a tal punto da richiederne l’attivazione due o tre anni dopo».
1979 in Val d’Arzino, tra la gente ancora scossa dal sisma
Fulvio Fabris fu tra i primi obiettori Caritas. «A 18 anni imparai a condividere la quotidianità e a dedicare agli altri il mio tempo»
di Milena Bidinost Fulvio Fabris oggi ha 62 anni e ricorda ancora in modo vivido e emozionato quei venti mesi trascorsi in Val d’Arzino sul finire degli anni Settanta. Fu tra i primi obiettori Caritas di Pordenone e visse quell’esperienza all’interno di una comunità di giovani volontari arrivati lassù attraverso il prete del paese, don Giosuè Tosoni, per assistere la gente del posto. Di quell’esperienza Fulvio parla mentre scorre un gran numero di foto dell’epoca che custodisce come una parte importante della sua gioventù: vi ritrova i volti della gente di San Francesco di Vito d’Asio che lo accolse, quelli dei suoi compagni di Servizio, le valli, le mucche, le vecchie abitazioni. In quelle immagini è immortalato un paese provato dal sisma del 1976 che lo aveva colpito appena tre anni prima che lui, diciottenne, salisse a vivere tra quelle valli per svolgere il Servizio civile. Era la primavera del 1979 quando successe. «Avevo una formazione di tipo cattolico – racconta Fulvio - e convinzioni non violente e pacifiste. Se non mi avessero accettato la domanda di Servizio civile, ero pronto a farmi i sei mesi di carcere militare a Peschiera». Non fu necessario, la Commissione del Ministero della Difesa a Roma di fronte alla quale dovette presentarsi accettò la domanda. Fulvio fu così destinato a San Francesco di Vito d’Asio, paese natale di don Tosoni, attuale parroco di Torre di Pordenone. «All’epoca don Tosoni era il mio insegnante di religione alle scuo-
le superiori – ricorda Fulvio –. Fu lui a parlarmi del Servizio civile tramite Caritas che stava partendo in quel periodo: ho presentato domanda e ho atteso due anni prima che mi chiamassero. Nel frattempo, dopo il diploma, ho trascorso una settimana a San Francesco per conoscere i luoghi. Lassù con i finanziamenti dell’Unione degli industriali di Pordenone avevano fondato una cooperativa agricola con una cinquantina di mucche ed erano già arrivati i primi due obiettori, Marco Pagura di Castions di Zoppola nel giugno del 1978 e Giovanni Sestini di Siena nel settembre dello stesso anno». Il Servizio civile per Fulvio, come detto, partì invece nella primavera del 1979. La scuola prefabbricata in cui i tre ragazzi vivevano divenne un luogo d'incontro per molti giovani del paese e punto di riferimento per i numerosi volontari che specialmente nel periodo estivo giungevano da diverse città italiane. Con loro vivevano anche due operatori della cooperativa sociale e arrivò poi anche Anna, una ragazza di Casiacco, affetta da una grave forma di distrofia mu-
scolare progressiva già in carrozzina e con una autonomia residua solo delle mani, che divenne parte della piccola comunità. Marco si occupava dell’assistenza agli anziani, Giovanni svolgeva soprattutto attività di animazione culturale e Fulvio seguiva la parte amministrativa della cooperativa agricola. Anche se, alla fine, tutti facevano un po’ di tutto. La casa era un via vai di gente e di momenti di condivisione. «Del gruppo io fui l’ultimo ad andarmene dal paese – ricorda Fulvio – con non poca nostalgia. Era la primavera del 1980 e fui io a chiudere la casa. Dopo di noi non arrivò più nessuno». Per Fulvio invece quell’esperienza lavorativa e soprattutto umana di fatto non si è mai chiusa: ha continuato a produrre frutti nella sua vita. Oggi Fabris è un imprenditore nel settore della sicurezza e continua ad essere impegnato anche nel volontariato della sua parrocchia, la San Lorenzo di Rorai Grande, e come direttore della Cooperativa Oasi di Pordenone che accoglie e dà lavoro agli ex carcerati. «Nella mia prima visita a San Francesco – ricorda - ho conosciuto mia moglie; poi nei quasi due anni di Servizio civile che seguirono ho vissuto con persone di tutte le età alle quali ho avuto la possibilità di dedicare il mio tempo: ho imparato a vivere in modo spartano, adattandomi, a gestire i conflitti, dialogando, e la promiscuità, rispettando l’altro. Quando a 18 anni vivi tutto questo, impari che dare è bello e che nel farlo davvero ricevi molto di più. Finisce così che non puoi più smettere di dedicarti agli altri».
Vuoi arricchirti? Scegli il servizio civile! «Dopo la laurea in Educazione Professionale, ho pensato: non c’è il lavoro, va bene, si fa il volontariato per un anno. Per me ne è valsa davvero la pena» di Cristina Falcomer Come parlare del Servizio civile senza dire sempre le stesse cose del Servizio civile? Bella domanda, forse risulta difficile non essere banali quindi non prometto niente di buono da questo piccolo articolo. Mi è stato chiesto di raccontare qualcosa dell’esperienza fatta in questo anno: sicuramente ci sarebbe tantissimo da dire a partire dalla domanda: “Perché mai una persona dovrebbe scegliere di fare ben dodici mesi di Servizio civile al posto di lavorare, godersi la vita o semplicemente farsi gli affari propri? Per quanto mi riguarda tutto è partito da una data importante, il 12 novembre 2019. Ecco, quel giorno mi sono finalmente laureata in Educazione Professionale: alla fine
della giornata di festa sono arrivata a casa e ho iniziato a chiedermi cosa sarebbe successo da quel momento in poi. Giusto un mesetto prima della laurea mi era arrivata all’orecchio una proposta: era uscito un bando di Servizio civile per l’Azienda sanitaria Friuli Occidentale, nello specifico c’era un progetto che riguardava l’area delle dipendenze. Bisogna dire che da febbraio a settembre 2019 avevo fatto tirocinio presso il Servizio per le Dipendenze di Azzano Decimo e una delle cose che mi ha fatto capire quel periodo è che quello è il mio posto, esattamente ciò che voglio fare nella vita. Purtroppo però, al termine di quell’esperienza, non c’erano possibilità di lavoro per rima-
A tu per tu con il mondo delle dipendenze «È stato un percorso che mi ha fatta sentire per tutto il tempo sulle montagne russe» di Elisa Simoncioni La mia esperienza come volontaria del Servizio civile universale è iniziata il 15 luglio 2020 e solo con il suo termine, luglio 2021, ho realizzato quanto esperienze di questo tipo possano arricchirti sotto molteplici punti di vista. Ho deciso di intraprendere questo percorso soprattutto perché spero in futuro di poter lavorare con quello che più amo fare, ovvero ascoltare le persone. Ho sempre avuto il desiderio di approfondire gli studi di psicologia iniziati alle superiori, motivo per cui l’ho scelta come corso universitario. Questa mia propensione mi ha portata spesso a chiedermi in quale settore mi sarei voluta inserire una volta finiti gli studi, ma in un campo così ampio e specifico non avrei saputo sceglie-
re con certezza una disciplina in cui potessi operare bene e per la quale fossi portata senza prima aver fatto un po’ di esperienza sul campo. Ho colto subito questa opportunità
nere in quell’ambito. Ecco che la proposta di Servizio civile ci stava perfettamente! La mia scelta di provare questa esperienza quindi è nata proprio dal profondo desiderio di spendermi in questo contesto: non c’è il lavoro, va
che ha stravolto tutte le mie aspettative e idee iniziali. Stare a contatto con il mondo delle dipendenze mi ha fatto capire come funziona la vita di tutti i giorni, ovvero che ci sono delle difficoltà che si devono per forza di cose affrontare, trovando delle strategie, guardando le cose da prospettive diverse; il difficile è sapersi rialzare perché le cose non andranno sempre bene ma non solo, cosa più importante è saper chiedere aiuto e trovare
il supporto necessario per non affrontare le cose da soli. Tutto questo viene reso possibile da un grande lavoro di equipe che sa guardare alla globalità bio-psico-sociale dell’utente,
bene, allora si fa il volontariato. L’anno di Servizio civile è stato per me fonte di grande ricchezza e di nuove scoperte. Purtroppo la situazione legata al Covid non ha permesso a me e agli altri volontari di svolgere tutte le attività previste: ci ha reso la vita difficile però ognuno è riuscito a portarsi a casa molto di più di quello che si aspettava. All’inizio ero partita con l’idea di voler dare gratuitamente qualcosa di me alle persone però mi sono resa conto, con il passare di questo anno e soprattutto alla fine dell’esperienza, di aver ricevuto molto di più di quello che io potessi mai dare. Le persone che ho conosciuto e quelle con cui ho approfondito il rapporto, le storie che ho sentito, la lotta contro i miei pregiudizi e quelli degli altri, la consapevolezza di quello che mi sta attorno e di quel poco che io posso fare per stare accanto a chi ne ha bisogno: questo è quello che mi porto a casa e credo fermamente che sia un grande tesoro. Auguro anche a te che leggi, se sei arrivato fino alla fine, di darti la possibilità di vivere questa esperienza e di godertela al massimo perché ne vale davvero la pena!
quindi al problema come una conseguenza inserita all’interno di un macro contesto e che sa intervenire con strategie che possono essere rese possibili solo se vi è la volontà di mettersi in gioco e di curarsi da parte del paziente. È stato un percorso che mi ha fatta sentire costantemente sulle montagne russe e sono certa che proprio grazie a questo io sia riuscita a riscoprirmi e ad avere delle idee più chiare anche sul mio futuro. All’interno del servizio oltre alle attività di accoglienza, ho potuto cimentarmi un po’ in tutto, ho affiancato diversi membri dell’equipe in alcuni colloqui, ho seguito un utente dal punto di vista educativo, ho aiutato le infermiere con la distribuzione delle terapie, ho partecipato alle attività riabilitative in ambiente, ho svolto dei lavori di archivio e ho partecipato alle riunione d’equipe. Inevitabilmente, in un anno di esperienza, sono entrata in empatia con ciascuno degli utenti che ho avuto modo di conoscere, ed è soprattutto a loro che devo la ricchezza di questa esperienza, alle loro storie e alla loro tenacia. Mi porto con me un bellissimo ricordo e tanti insegnamenti sia da parte dell’equipe che da parte degli utenti stessi. Un grande grazie a tutti voi.
INVIATI NEL MONDO
Inseguendo il mito di Finis Terrae Da Ceolini a Capo Nord e ritorno in Fiat 500 di Renato Rossetti e Patrizia Stefani
Un mito tra i più persistenti nel tempo è quello del limite estremo o ultima frontiera. Già nella letteratura classica le Colonne d'Ercole (Eracle per gli antichi Greci) indicano il limite estremo del mondo conosciuto. Oltre che un concetto geografico, esprimono metaforicamente anche il concetto di “limite della conoscenza”. Quest’anno, nel mese di luglio, io e mia moglie Patrizia abbiamo voluto andare a visitare il “Finis Terrae” del Nord Europa: Capo Nord. Attraverso le nostre esperienze sul cammino di Santiago, abbiamo esplorato altri luoghi in cui nel passato si pensava che il mondo finisse: in Galizia a Muxia e Cabo Finis Terrae, in Portogallo a Cabo de Sao Vincente. Il percorso che ci ha portato da Ceolini a Capo Nord è durato quindici giorni, ci ha fatto attraversare 12 Paesi europei, nei quali abbiamo visitato sei capitali, utilizzato tre traghetti e macinato 8.400 km tra passi alpini, pianure, foreste, fiordi e centinaia di laghi. Per fare questo viaggio non ci siamo appoggiati a nessuna agen-
zia turistica e non abbiamo prenotato niente da casa: giorno per giorno costruivamo il percorso, dalla prima all’ultima tappa. Essenzialità. “Non esiste buono o cattivo tempo, ma esiste
buono e cattivo equipaggiamento”.(Baden Powell) Abbiamo pensato di andare con l’automobile più piccola che possediamo: la Fiat 500. Certamente un mezzo non ideato per questo tipo di viaggio, in particolare per il piccolissimo bagagliaio nel quale
però siamo riusciti a far stare l’essenziale: la piccola tenda nella quale abbiamo dormito all’interno dei camping, un piccolo fornello, un frighetto elettrico e una miriade di scatole con tutto il necessario: dalle spezie all’immancabile olio d’oliva e a del buon vino. Tutto questo per essere completamente autonomi sia per i costi elevati della Scandinavia, sia per l’emergenza pandemia, sia per non sentire troppo la nostalgia del buon cibo italiano. Gli scandinavi ci danno dei punti? Esempi di civiltà nordica. Era la nostra prima esperienza nei paesi scandinavi, il Nord un altro luogo, altra gente, altri usi e costumi. Avendo
realizzato il nostro viaggio in auto una delle cose che salta all’occhio è il comportamento dell’automobilista: le regole stradali sono strettamente rispettate, in particolar modo i limiti di velocità. Più vai a nord meno autostrade e/o superstrade trovi più la velocità diminuisce anche per la possibilità non così remota di trovarti un animale che attraversa tranquillamente la strada. Non abbiamo trovato alcun casello autostradale, nessuna sbarra che fermasse il nostro cammino per farci pagare un pedaggio. La civiltà vuole che se usufruisci di un bene devi anche pagarne l’utilizzo: ci è arrivata dalla Svezia la fattura per il transito su di un ponte a Stoccolma per il valore di 90 centesimi! In Norvegia tutte le autostrade, ponti e tunnel funzionano così, anche il traghetto con cui siamo
andati alle isole Lofoten! Per inciso, stiamo ancora aspettando le fatture ma abbiano usufruito di una comodità inestimabile. Aiuto inaspettato e provvidenza. «Mettiamo il passato nella misericordia di Dio, il futuro nella sua provvidenza e facciamo del presente un atto d’immenso amore». (Sant’Agostino) Anche se prima di partire la concessionaria aveva fatto tutti i controlli alla nostra auto, le sventure sono sempre in agguato. Durante il ritorno, mentre attraversavamo la Lituania, improvvisamente si è accesa la luce rossa dell’olio motore. Ci siamo fermati in un parcheggio di una fabbrica per chiedere informazioni su dove trovare un meccanico. Il titolare della fabbrica, oltre a mettere a nostra disposizione un suo collaboratore per cambiare l’olio ed aggiustare il guasto per farci ripartire, ha condiviso con noi, insieme ad alcuni impiegati il “branch.” «L’Olocausto, una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria» (Primo Levi) Dopo aver visto tanta bellezza: fiordi, montagne, foreste, renne libere che ti attraversano la strada, il sole di mezzanotte, il nostro viaggio ha fatto due tappe in Polonia nei luoghi tristi dell’olocausto: i campi di sterminio di Treblinka e Auschwitz-Birkenau. Come ogni viaggio che si intraprende possiede in sé tante pieghe, tanti risvolti, esperienze diverse, di curiosità, di divertimento, di incontri, di bellezza, di fatica e anche di tristezza. Nel viaggio si possono leggere molte metafore della vita: viaggio e vita sono forme di movimento e portano con sé il desiderio del cambiamento.
PANKAKULTURA
Il “Chirurgo Glucor” e la sua battaglia per la giustizia e la libertà La vita di Raimondo Lacchin, partigiano e comandante della Brigata Ciro Menotti, che con i suoi uomini difese le popolazioni del Cansiglio dai rastrellamenti nazifascisti. di Selene Mazzocco L’estate nell’altipiano del Cansiglio si iniziava a far sentire, nel giugno del 1944, bruciando l’erba accanto alle mulattiere che collegavano la civiltà dalle sperdute malghe montane. Il calore del sole allo Zenit si univa all’odore della terra e dei pini, si dipanava tra le loro cime, entrando difficilmente tra le loro fronde. Poca luce si infiltrava sino a terra, nelle buie foreste, se non la luce più resiliente e speranzosa. E così era anche nei cuori degli uomini nascosti nelle malghe. Considerati criminali e non patriottici, i loro ideali, la loro sete di giustizia e senso morale li avevano portati verso le montagne, in una strenua battaglia nelle prime linee difensive. La loro scelta venne fatta in protezione del benessere civile, poiché l’invasore aveva portato il campo di battaglia in mezzo alle popolazioni, che subirono continue razzie e atti inumani in uno stato di perenne ansia. In quelle montagne quell’estate saliva un ragazzo, Raimondo Lacchin, classe 1919, originario di Polcenigo. Percorreva gli stretti sentieri che lo avrebbero condotto alle casere occupate dalle forze partigiane, dove si sarebbe unito ai garibaldini del Battaglione Manin del Gruppo Brigate Garibaldi “Vittorio Veneto”. Il giovane aveva abbandonato gli studi di medicina all’Università di Bologna e si sarebbe guadagnato presto il nome di “Chirurgo” prendendosi in
carico il presidio medico del Battaglione. Successivamente, si mise al comando della Brigata Ciro Menotti, formazione partigiana con cui Lacchin si spostò in località Col dei Scios. Qui si fermarono anche missioni alleate che collaborarono alla costruzione e al mantenimento di un campo di lancio. Lacchin condusse i suoi uomini anche moralmente, inserendo un decalogo di regole comportamentali e belliche che determinavano la condotta del buon partigiano: “ribelli per amore di Giustizia e non per odio, per la Libertà, l’Uguaglianza, per una Coscienza Onesta e Responsabile”. Erano valori per cui questi partigiani erano pronti a combattere fino alla morte e dai quali derivò l’acronimo che fu il secondo soprannome di Lacchin, “Glucor”. Chiunque venisse trovato a violare i paradigmi della vita partigiana veniva processato e punito in
base alla propria offesa poiché la guerra era barbara ma non era una giustificazione per essere crudeli. Presto la Brigata Ciro Menotti si distinse per la propria lealtà, divenne simbolo della resilienza dimostrata in guerra; il comandante “Chirurgo Glucor” credeva nell’importanza della motivazione per le proprie azioni, maggiormente in quelle drastiche fatte in una crudele guerra. Durante quei mesi la Brigata Ciro Menotti si ritrovò a salvaguardare i civili dai numerosi rastrellamenti compiuti dai tedeschi. Questi colpirono anche il paese di Mezzomonte. L'ultimo in ordine di tempo venne fatto dai nazifascistisi il 7 marzo 1945, dopo l'eccidio di 8 partigiani sulla piazza del borgo il 4 febbraio 1945. Durante il rastrellamento del 7 marzo quasi tutte le abitazioni del borgo furono saccheggiate e date alle fiamme, mentre la popolazione venne rinchiusa in cimitero. In molte località, come a Coltura, i rastrellamenti significarono anche l’arresto di innocenti, spediti ingiustamente nelle varie prigioni del territorio. La Brigata Ciro Menotti partecipò a numerosi combattimenti, riuscendo a non perdere nemmeno un uomo sotto i colpi di arma da fuoco delle forze nazifasciste. Finché nell’aprile del 1945 le truppe statunitensi e sovietiche liberarono progressivamente tutti i campi di sterminio e si accese il barlume di speranza per la sconfitta dei nazifascisti. Presto i vari reggimenti degli alleati circondano le città piagate dal dominio tedesco e portano al suicidio di Adolf Hitler il 30 aprile del 1945. Parallelamente, nel nostro territorio la Brigata garibaldina Nino Bixio
occupa la Val Cellina, per poi scendere a Malnisio, Montereale e Giais di Aviano. Il 25 aprile 1945 le truppe di liberazione partigiana arrivano a Sarone e Caneva. Il 28 aprile il Battaglione Manin libera le città di Sacile e Fontanafredda; il 29 aprile il Bixio entra nelle città di Roveredo e Budoia, per neutralizzare il re- parto di repressione antipartigiana comandata dal tenente Donnenburg, responsabile degli eccidi di Mezzomonte e Coltura. Il tenente tedesco verrà arrestato a Maniago il 30 aprile, dove si consegnerà all’armata inglese. Al termine della guerra, Raimondo Lacchin si laureò e operò per tutta la sua carriera come primario del reparto di psichiatria dell’ospedale di Sacile, investendo sulla qualità della vita dei propri pazienti, trattandoli con cura e attenzione. Il Comune di Sacile lo decorò di Medaglia d’argento per il ruolo svolto nella Resistenza. Fu consigliere provinciale dell’Anpi e ricoprì per anni anche l’incarico di presidente della Sezione di Sacile. Il “Chirurgo Glucor” si spense il 3 ottobre del 2009. La sua salma è stata inumata nella tomba di famiglia dei Lacchin, a Polcenigo. La sua storia è raccontata nel libro “Quando vestivamo alla garibaldina – Diario 1944-1945”. La sua vita, infine, rappresenta un esempio di eroismo, guidato da ideali che potrebbero essere considerati irraggiungibili, ma che lo accompagnarono fino al suo ultimo giorno.
PANKA NEWS
Menzione a LDP La redazione tra i finalisti del Premio Simona Cigana Venerdì 10 dicembre, ad Aviano, sono stati proclamati e premiati i 29 finalisti della 12ˆ edizione del “Premio Simona Cigana”, il concorso giornalistico nazionale annuale, multimediale, multilingue del Circolo della Stampa di Por-
denone. C’eravamo anche noi, la redazione di “Libertà di Parola”, a ritirare una menzione speciale fuori concorso per testate giornalistiche. E’ il primo riconoscimento per il nostro giornale di strada e arriva a motivarci ancora di più
a proseguire nello spirito che lo ha sempre caratterizzato. Condividiamo questa speciale menzione con tutti i nostri collaboratori, passati e presenti, e con quanti ci leggono oramai da dodici anni. La dedichiamo a chi non c’è più e soprattutto a Guerrino “Gueri” Faggiani, nostro ex capo redattore, che con passione e cuore ha sempre creduto in questo progetto editoriale quale strumento di integrazione e di sensibilizzazione per superare i pregiudizi sociali. La motivazione della menzione ci rende orgogliosi e grati a tutti voi che avete contribuito a rendere LDP “una pubblicazione coraggiosa che abbatte le barriere tra la società dei “normali” e la società dei giovani emarginati. Fondamentali gli interventi che sostengono la tutela della salute come impegno personale e sociale, così come le testimonianze di vita e le proposte per entrare nella vita lavorativa e culturale per restarci a pieno titolo. Nel complesso, LDP contiene un messaggio che riguarda tutti, indistintamente”.
HIV DAY 2021 Nella giornata mondiale della lotta all’Hiv-Aids abbiamo incontrato telematicamente circa 300 alunni delle scuole secondarie di secondo grado IAL, Mattiussi, Pertini, Vendramini e Isis Zanuzzi. In collaborazione con la dottoressa Astrid Callegari, infettivologa dell’AsFO, abbiamo sviscerato la tematica affrontando anche il tema delle malattie sessualmente trasmissibili. Agli studenti è stato somministrato un test conoscitivo prima dell’incontro, uno subito dopo e un terzo verrà compilato a distanza di sei mesi perché: Hiv DAY non è solo il 1° dicembre. Inoltre fino a metà dicembre è stata affissa in città la consueta campagna di informazione.
La direttrice Milena Bidinost, con la presidente Ada Moznich e il capo redattore Giorgio Achino
PANKA LIBRI
"Noir" friulano tra le due guerre Nel “Del giovedì e altre disgrazie" di Paola Zoffi la storia di Isotta e Lidia, due donne diversissime di Antonio Zani I vialoni alberati e le contrade son tutto un brulichio di “baffoni con cilindro” e donzelle eleganti dalle ampie gonne con cappellini ed ombrelli. Il vociare ammanta l'aria sostenuto dagli scoppiettii delle prime automobili e dallo scalpitio degli zoccoli dei cavalli che sui selciati urbani precedono dì poco il rollio delle ruote di nobili carrozze tirate a lustro. Siamo nel cuore della pianura friulana, dove a nord si stagliano maestose ed imponenti le cime oltre le quali s'è da poco ritirato l'invasore austro-ungarico. Gli anni sono quelli compresi tra le due grandi guerre mondiali che hanno lasciato cicatrici indelebili nella storia del secolo scorso: è il tempo in cui il ricordo della “Belle
Époque” sta volgendo al suo definitivo crepuscolo. È in quest'atmosfera di declino ed incertezza che Isotta Canciani vive la sua Udine borghese accompagnata passo dopo passo da altre figure tra cui spicca Lidia, l'amica timorata di Dio e di origini semplici. È in quest'epoca “color seppia” che le due amiche di estrazione sociale così diversa Isotta benestante e libertina o perlomeno “oltre i canoni dell'epoca" e Lidia, semplice quasi ingenua popolana - intrecciano le loro esistenze e tessono le trame di questo “noir” avvincente scritto da Paola Zoffi, una delle firme più promettenti del Nord est, originaria di Romans d'Isonzo (Gorizia) e residente a San Giorgio di Nogaro (Udine).
Siamo tra le pagine del suo “Del giovedì e altre disgrazie”, edito da Gaspari Editore. La borghese Isotta Canciani, bella donna con un piccolo difetto fisico, vive la sua epoca a mille all'ora, entrando ed uscendo da situazioni di vario genere, fors'anche scandalizzando l'amica Lidia, donna di chiesa e di casa, che vede in Isotta ciò che lei vorrebbe essere, anche se in fondo non lo ammette nemmeno a se stessa. Le vicende delle due amiche ruotano attorno al ritrovamento di un'anfora di pregio e del suo misterioso contenuto: da qui il racconto diventa sempre più intrigante e coinvolgente fino all'epilogo finale. Paola Zoffi con la sua virtuosa penna ci fa rivivere una stagione storica
della nostra aspra ma amata terra, facendoci immergere in quel clima surreale denso di sensazioni ed intriso di colori ed odori ormai sbiaditi che in fondo non sono stati null'altro che “la realtà di vita” dei nostri avi, la loro storia, i loro patemi, le loro sensazioni, le loro gioie e le loro preoccupazioni. Grazie Isotta, grazie Lidia. Grazie a tutti i personaggi di questo romanzo per avermi fatto cavalcare accanto a loro, portandomi all'interno delle loro vicende. Un grazie di cuore all'amica Paola Zoffi per aver creato con il suo talento un qualcosa di delicatamente profondo.
NON SOLO SPORT
Paraclimbing, quando montagna e sport migliorano la tua vita Elisa Martin delle "Teste di Pietra" è campionessa di livello mondiale nella sua categoria. L’arrampicata è una passione che condivide con il compagno e la figlia di Giorgio Achino Ho sempre creduto fortemente nella “arrampicata sportiva” come veicolo di messaggi importanti, messaggi educativi di relazione con l’altro e di relazione con sé stessi, a tal punto da scriverci la mia tesi di laurea in ambito educativo. Nella mia carriera professionale ho condiviso questi strumenti con diverse persone nell’ambito della montagnaterapia, ma ancora una volta l’arrampicata, in particolare, mi stupisce e mi fa conoscere un nuovo lato di sé (nuovo almeno a me) che alimenta questo amore per questa disciplina sportiva. Ho conosciuto Elisa Martin grazie ad un contatto comune, Daniele Bucco, presidente delle Teste di Pietra, la prima Associazione di arrampicata sportiva in provincia di Pordenone (è nata nel 1997) e Associazione di cui io sono socio da svariati lustri. Proprio grazie a un post di Daniele su Facebook ho scoperto che l’associazione, e quindi il Pordenonese tutto, può vantarsi di avere un’atleta paraclimber di livello mondiale. Sissignore, avete capito bene! Elisa Martin, quarantenne originaria di Cecchini di Pasiano e residente a Castelnovo del Friuli, a luglio si è piazzata al terzo posto nella sua categoria RP3 alla “Second IFSC Paraclimbing
foto di Giampaolo Calzà
approdata alla Teste di Pietra. «Splendida è stata l’accoglienza di Daniele Bucco – racconta Elisa -: lui mi ha regalato un’opportunità unica per allenarmi e mi ha sempre sostenuto al massimo». Ad ascoltare questa giovane donna percepisco la sua caparbietà, la sua curiosità e la forza di far qualcosa in più per vivere meglio. Un vivere meglio di cui la sua famiglia è parte attiva. Il compagno di vita è il suo compagno di cordata e i loro figli la seguono. World Cup of the 2021”. Si è così meritata la convocazione ai mondiali di Russia, che si sono svolti a Mosca a settembre. Ma non è di questo che intendo raccontare. I risultati sportivi di Elisa, seppur eccellenti, non sono di certo quello a cui lei tiene di più, anzi. Lei è una dei pochi atleti che in primo piano non mettono le proprie prestazioni. La vita è una sorpresa continua: non sempre è piacevole, ma sta a te coglierne le opportunità che inequivocabilmente ti si aprono difronte. Questo Elisa lo sa bene. Lei è mamma, lavoratrice e atleta. Incontrandola e conoscendola, ciò che mi ha fin da subito
colpito è quanto il lavoro di squadra sia fondamentale e di come da soli non si vada da nessuna parte. Mi colpisce anche come descrive il racconto dell’incidente che dieci anni fa l’ha segnata agli arti inferiori, ma di fronte al quale non si è fermata, è tornata ad arrampicare e a vincere. Elisa si era avvicinata all’arrampicata molti anni fa, per caso e senza nessuna velleità. Accompagnando una persona che voleva iscriversi ad un corso di arrampicata sportiva, si era ritrovata lei stessa con un imbrago addosso. Il resto è una storia che comprende anche quell’incidente altrettanto incredibile, ma sul quale Elisa non si sofferma troppo perché per lei è stato una tappa, dolorosa, complicata e faticosa, ma pur sempre una tappa. La vera folgorazione per l’arrampicata è avvenuta guardando le Paralimpiadi del 2016 alla televisione, quando si è detta: “Voglio arrivare lì”. Il passo successivo è stato breve. Confrontandosi con la sua fisiatra, che l’ha introdotta al mondo paralimpico, nel 2018 ha cercato una società sportiva che le desse l’opportunità di allenarsi anche in base ai suoi impegni famigliari e lavorativi ed è
IL PROGETTO Molti i progetti legati alla arrampicata come terapia riabilitativa. Tra questi l’atleta di paraclimbing Elisa Martin pone l’accento su “Accept”, un progetto del Politecnico di Milano e della Fondazione FightTheStroke. “Accept” sta per “Adaptive Climbing for Cerebral Palsy Training” e il progetto ha l’obbiettivo di realizzare una parete per l’arrampicata adattata, sensorizzata, riconfigurabile e interattiva che risponda ai bisogni riabilitativi dei bambini tra i 6 e i 13 anni con paralisi cerebrale infantile, la più frequente tra le disabilità neuromotorie che colpiscono i più piccoli. Tale parete può aiutare a raggiungere obiettivi funzionali altrimenti ottenuti in tempi più lunghi. L’arrampicata come metodo terapeutico, diventa anche in questi casi com’è stata per Elisa sport, allenamento, inclusione sociale, attività ricreativa e strumento di analisi dei progressi motori realizzati.
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada de I Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost Capo Redattore Giorgio Achino
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Celox Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili.
Si lancia dai pendii con i suoi rollerblade e siccome ha talento è riuscito a piazzarsi al 18° posto nel mondiale della disciplina e, pazzo com'è, con i suoi rollerblade va dapperttutto, perfino a dormire. La prossima sfida è diventare attore e giornalista: ce la farà il nostro eroe?
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Giorgio Achino Teatrante per diletto adesso applica la tecnica in Panka. A tutti dice: "Sarò chi vuoi, nella tua personale rappresentazione della vita"; palco e Panka si confondono. Benarrivato in questo teatro! Sempre in scena Giorgio
Redazione Ada Moznich, Andrea Picco, Andrea S., Stefano Venuto, Giorgio Doardo, Celox, Lele, Simone, R. B., Alessandro, Michele, Cristina Falomo, Elisa Simoncini, Renato Rossetti, Patrizia Stefani, Selene Mazzocco, Antonio Zani Un ringraziamento per la collaborazione alle sezione di Pordenone dell'Anpi. Editore Associazione I Ragazzi della Panchina Odv Via Fiume 8, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto Impaginazione Ada Moznich Stampa Faros Group s.r.l. Via Gorizia, 2 33077 Sacile PN
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Stefano Venuto La sua storia professionale lo ha portato lontano da noi ma il suo cuore rimarrà per sempre nostro! Oramai vive con lo smartphone attaccato all’orecchio ma nonostante tutto per la Panka trova e troverà sempre del tempo! Copywriter per eccellenza, penna delicata e poetica della Panka, chiedetegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 18.00!
Antonio Zani Quando una persona legge molto, quando poi si accorge che scrivere gli riesce, quando è costretto a fare attività fisica ma non gli riesce e non ne ha voglia, quando in tutto questo conosce la Panka, allora che fa? La risposta è Libertà di Parola! Dopo una gavetta alle rubriche ora spazia anche in altre pagine, ma non ti preoccupare Antonio, sempre senza correre!
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Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”
Fotografie A cura della redazione. Foto a pagina 1 di Ada Moznich Foto a pagina 4 e 5 dal sito: https:// pixabay.com/it/ Foto a pagina 9 Fulvio Fabris Foto a pagina 10 a cura degli autori Foto a pahina 11 di Renato Rossetti Foto a pagina 12 dal libro "Quando vestivamo alla garibaldina" Foto a pagina 14 di Elisa Martin Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone Tel. 0434 371310 email: panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Instagram: panka_pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN BCC: IT69R0835612500000000019539 Codice IBAN Credit Agricol Friuladria: IT80M0533612501000030666575 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930
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Milena Bidinost Per noi avere a che fare con una giornalista di professione non è mai facile: “Milena sai che ho sentito dire che.. vabbè dai, non importa”. Per lei avere a che fare con gli articoli che escono dalla Panka non è mai facile: “Scusate ma non credo che questa cosa si possa scrivere così perché giornalisticamente.. vabbè dai, non importa”. Milena, la mediazione è un’arte! Ben arrivata al MoMA!
Andrea S. Quando la storia della tua vita è un film di Tarantino, quando decidi che la voglia di vivere diventi il finale del film, quando tutto questo è condensato in un unico uomo, all’accendersi delle luci in sala non puoi che applaudire il protagonista. Fa dell’informatica la sua ragione di vita e per ora riesce con grande stile ad accendere il computer! In miglioramento!
La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al giovedì dalle ore 13:00 alle 17.30 e il venerdì dalle 13.00 alle 15.30
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Selene Mazzocco Quando la vedi per la prima volta entri in un sogno parigino e già ti culli in quello stile anticonformista alla ricerca di verità, libertà e bellezza. Selene abita in rue bohémienne, a Pordenone! Poi vieni risvegliato dal tornado di parole e di idee che ti investe! Di sicuro non soffre della sindrome della pagina bianca: è un fiume pure lì. Bienvenue!
NON C'È MAI STATA UNA BUONA GUERRA O UNA CATTIVA PACE BENJAMIN FRANKLIN
I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA