Liberta di parola 1/2020

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APPROFONDIMENTO

Andar per monti

Libertá di Parola 1/2020 ——

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

“Scrivere di passeggiate in montagna tra boschi e vallate al tempo del covid-19 è un esercizio di speranza e di positività volto ad una ricerca dell’essenziale, di quello che nella propria vita non può mancare”. Inizia con queste parole il nostro viaggio alla scoperta dei segreti della montagna: come si affronta e cosa serve per poterla viverla al meglio e in sicurezza? Ve lo raccontiamo. a pagina 7

CODICE A S-BARRE

Pensieri in libertà dalla redazione della Casa circondariale a pagina 4

INVIATI NEL MONDO

Nell’Asia centrale alla scoperta dell’Uzbekistan, lungo la Via della Seta a pagina 11

PANKAKULTURA

Pensando a chi è più fragile e solo Il nuovo coronavirus ci ha costretti tre mesi in casa, che cosa ci ha insegnato? di Ada Moznich Quando è iniziato il lockdown il primo pensiero è andato ai ragazzi senza fissa dimora: “Dove andranno? Come passeranno il loro tempo?”, ci siamo chiesti. Il pensiero immediatamente successivo, è stato per le persone che si trovavano nel dormitori come la Locanda di Pordenone: “Durante la giornata cosa faranno, se non hanno a disposizione un luogo?”. Per fortuna la Caritas di Pordenone ha trovato una soluzione e anche uno dei nostri ragazzi ha potuto avere un posto dove passare il tempo. “Ma tutti gli altri, non solo qui da noi, dove andranno? Saranno costretti a nascondersi per non infrangere il lockdown e non prendersi una multa?”. Poi il pensiero

è andato alle persone che, pur avendo una casa, vivevano da sole: molti dei nostri ragazzi sono in questa situazione e sappiamo che per le persone fragili la solitudine è una brutta bestia. Non tutti sono dotati di tecnologie digitali per permettersi dei contatti con il mondo esterno e il momento della spesa settimanale diventava l’unico modo per riuscire ad avere un contatto umano. La nostra sede è rimasta chiusa, ma abbiamo cercato di mantenere dei contatti con tutti i mezzi possibili, anche con delle semplici telefonate, in modo che le persone fossero consapevoli che comunque qualcuno le pensava. Paradossalmente sembra che la vita in lockdown

sia stata più difficile per tutti gli altri, per la così detta gente “normale” abituata cioè a non essere mai da sola, ad avere una vita piena di impegni, magari agiata; in molti casi, a queste persone il trovarsi da sole con se stesse ha fatto provare un senso di smarrimento più forte che non ai nostri ragazzi. Speriamo che questa strana esperienza obbligata abbia fatto “pensare” tutti, abbia sensibilizzato la gente ad essere più compassionevole verso gli altri, più attenta ai bisogni dei più fragili, più capace di capire che a volte un sorriso, un saluto, il chiedere semplicemente all’altro “come stai” oppure dirgli “ti penso” fa la differenza per chi è solo e ha poco.

“Dormi stanotte sul mio cuore”, il nuovo libro del professore Enrico Galiano a pagina 12

PANKAMBIENTE

Curare l'ecosistema fa bene alla salute pubblica a pagina 13

NON SOLO SPORT

I tanti volti dello sport giovanile a pagina 14


IL TEMA

La paura, come farne buon uso senza esagerare Assumere un attegiamento positivo ci rende protagonisti di ciò che accade di Francesca Marino, psicologa Ser.D. Azzano Decimo Dal momento in cui abbiamo iniziato a fare i conti con chiusura delle scuole, limitazioni alla mobilità e sospensione della maggior parte delle attività lavorative, ci siamo abituati a fare i conti con i bollettini quotidiani della Protezione Civile, in merito alla progressione del numero delle vittime da covid-19, sul territorio nazionale ed internazionale, direi mondiale, per rendere meglio l’idea. Credo non ci siano dubbi, in merito alla più comune e frequente delle emozioni che stiamo sperimentando, ossia la paura, certamente affiancata da moltissime altre emozioni come frustrazione, disagio, sensazione di essere deprivati delle libertà individuali, noia e molte altre. Tuttavia, l’emozione che, pur

essendo da noi generalmente piuttosto temuta, in questo periodo potrebbe essersi dimostrata una delle più “utili”, è proprio la paura. Utile in quanto, nella storia dell’evoluzione della specie umana e delle altre specie animali, è quella che funge da salvavita. Essa, infatti, ci mette in guardia dai pericoli, e predispone tutte le trasformazioni fisiologiche necessarie a compiere atti di fuga o di messa in sicurezza. Naturalmente, per svolgere a pieno la propria funzione di salvavita, è necessario che la paura sia proporzionata ad un reale pericolo, diversamente, ci lascerebbe in balia di ansie incontrollabili ed eccessivo allarmismo, e quindi rischierebbe di divenire paralizzante ed invalidante. Proporzionare la paura al

pericolo reale è una abilità complessa, che può risentire negativamente di una serie di elementi di contesto, fortemente legati ai moderni sistemi di informazione. In un’era in cui tutti possiamo accedere, molto rapidamente, ad una ingente mole di dati e notizie, quasi in tempo reale, il rischio della sovraesposizione è tangibile ed elevato. Tale rischio diviene ancora più saliente per le persone che presentano, per caratteristiche individuali, particolari sensibilità o fragilità, che le rendono ancora più recettive ed attente

agli aspetti negativi contenuti nelle informazioni. Questo è uno dei motivi principali per cui, da subito, tra i consigli ai cittadini, individuati dall’Ordine Nazionale degli Psicologi, troviamo la raccomandazione di riferirsi solo a fonti di informazione attendibili ed ufficiali, e ad evitare di esporsi a fonti ripetute, e talvolta ridondanti, riguardanti la medesima informazione. Assumere posizioni passive e/o vittimistiche incrementa visioni catastrofiche, scenari temporali indefiniti e sempre, comunque, troppo lunghi ed

lenta così che a volte, come stanotte, riesco pure a farci due chiacchiere in modo intimo, bilanciato, armonico, riesco ad amalgamarmi a me stesso a riunirlo al mio essere, ad unire ciò che riesco a fare con ciò che il mio "io" ha già programmato per me. Sono liete queste ore notturne, dove finalmente tutto tace, tutto si aliena e svanisce per far sì che domani prenda vita un giorno nuovo. Penso a tutto ciò che sta accadendo a

livello mondiale con misurato distacco come sempre, come con tutto, come con tutti. Non è un distacco incosciente il mio, non sminuisco la tragicità insita nelle ore di questi giorni difficili, no, assolutamente no. Il mio è un distacco diverso, proviene dal mio passato, dalla tragicità del mio passato e dagli insegnamenti che da esso sono stato capace di saper cogliere. Io credo che, in momenti di elevatissima emergenza sociale, come nell'attuale circostanza di questa pandemia planetaria, sia basilare la riflessione, l'elaborazione degli eventi e la misurata attenzione a tutto ciò che è e che si fa. Sostanzialmente credo che il troppo storpi alla stessa stregua del troppo poco; la giusta misura sta nel mezzo, sempre. Viviamo un'epoca dove è l'eccesso a salire costantemente agli onori della ribalta, e si confonde troppo spesso l'onore della ribalta con la cosa giusta, con l'atteggiamento giusto, in fondo io non credo sia così, in fondo io credo sia un travisamento della realtà dei fatti questa consuetudine po-

Riflessioni notturne in piena pandemia «Il mio non è un distacco incosciente, anzi, proviene dalla tragicità del mio passato e dai suoi insegnamenti» di Antono Zani Che surreale questo silenzio che mi giunge dalla finestra di casa che si affaccia sulla via principale. Trovo buffa pure la veduta dal poggiolo esterno che mi offre come sempre una bella vista sul mio paesino di periferia accoccolato da secoli sulle sue generose risorgive pedemontane. Stanotte qui è tutto silenzio, è un urlo muto irreale, c’è una pandemia in atto, la gente ha paura, si schermisce, si nasconde, sviluppa enorme-

mente quell'ancestrale senso di diffidenza che ha insito in sé il significato di tutta la miseria umana. Il mio cane ronfa tranquillo, io ho dormicchiato qua e là tra una sigaretta rollata e qualche pagina di un buon libro, ma ora sono sveglio davanti ad un'altra tazza di caffè all'americana e qui, in questa atmosfera che pare il preludio di un qualcosa che nessuno comprende, è notte, è notte fonda. Sono questi i frangenti in cui il mio "io" ral-


insopportabili, conducendo a sensazioni molto spiacevoli come impotenza, depressione, ansia e rabbia generalizzata. Diversamente, assumere un atteggiamento attivo, meglio ancora se proattivo, nel rispetto delle restrizioni sancite a livello nazionale, ci permette di rimanere protagonisti di quanto sta accadendo attorno a noi. Alcuni suggerimenti per assumere e mantenere nel tempo tale predisposizione, risiedono sicuramente nella capacità di individuare una gamma di passatempi ed attività, all’interno della quale è possibile conseguire nuove abilità e conoscenze, trovare soddisfazione e divertimento, e sviluppare creatività. A tal fine, è possibile utilizzare i supporti informatici ampiamente disponibili, e facilmente accessibili, per trovare suggerimenti ed idee, seguire tutorial utili ad imparare tecniche nuove, nonché sostenere la motivazione individuale sentendosi parte di una comunità più ampia che con noi condivide le difficoltà legate a questa specifica situazione. Provare a rimanere protagonisti, nel nostro piccolo, di come facciamo trascorrere questo “tempo sospeso”, ci permetterà di superarlo più velocemente e traendone nuove abilità. polare assai diffusa. Io penso che troppa gente stia usando in modo sconsiderato il proprio potere di convinzione sulle masse. Mi riferisco, senza giri di parole, ai mass media tutti, a chi fa informazione. No, informazione è una parola grossa scusate, aggiusto il tiro. Mi riferisco a chi usa i canali d'informazione per spostare opinioni e creare consensi favorevoli al proprio "padrone". Ecco, in fondo io credo che il male dell'uomo sia l'uomo medesimo. Ribadisco, non mi spaventa affatto questa critica situazione, la rispetto, questo assolutamente, ma non mi faccio travolgere. Penso che dovremmo tutti, dico assolutamente tutti, nessuno escluso, essere più razionali, più misurati, in tutto, nella diffusione delle notizie come nel saperle valutare senza sminuirle né tanto meno ingigantirle, così come nei comportamenti da adottare in frangenti delicatissimi come quello che ci sta investendo. L'isterismo collettivo, se non calmierato, potrebbe alla lunga dimostrarsi assai più deleterio socialmente del coronavirus stesso.

Il lockdown ha ribaltato un’altra volta la mia vita «Non avevo più la libertà di vedere mio figlio, l’unica cosa bella delle mie giornate. Ora spero di trovare un po’ di normalità» di MM Sono un ragazzo di 35 anni, da otto anni vivo a Pordenone e da due per strada. Nella mia vita ci sono stati una compagna con cui ho avuto un figlio, una casa, un lavoro, una vita normale. Stavo bene. Due anni fa ho perso quasi tutto, mi è rimasto solamente il mio bimbo, che è ciò che ho di più caro al mondo, l’unica ragione per cui sono rimasto qui, per rimanergli vicino e poterlo crescere. È cominciato tutto quando io e la mia ex compagna ci siamo lasciati. Non avendo un posto dove andare né la mia famiglia vicina che mi potesse dare una mano, ho dovuto arrangiarmi. Dormivo dove capitava, in stazione, nei parcheggi sotterranei oppure al parco; mangiavo una volta al giorno alla Croce Rossa; giravo, inviavo curricula e guardavo su internet annunci di case in affitto, ma con quel poco di disoccupazione che prendo le agenzie non mi consideravano nemmeno. Era sempre più dura e piano piano ho perso completamente la fiducia e ho smesso di cercare. Ogni tanto riuscivo a vedere mio figlio, esclusivamente con sua mamma presente: questa cosa non mi andava bene perché prima lo accudivo, lo portavo in giro e adesso, perché sono in questa situazione, non posso più farlo. Ero triste e arrabbiato ogni giorno di più. Le cose sono migliorate un po’ quando un ragazzo mi ha detto “ma vieni alla Panka al pomeriggio che almeno stai al caldo e in compagnia”. Ho deciso di andar-

ci ed era bello perché potevo lavarmi, fare delle lavatrici, mangiare al caldo, sedermi su quel divano blu dove ogni tanto mi riposavo: gli operatori sono gentili, ci puoi parlare, ti ascoltano e non ti giudicano. Grazie ai loro consigli ho contattato gli assistenti sociali: avevano un posto in un dormitorio che si liberava di lì a un mese. È stato il mese più lungo della mia vita. Il dormitorio è un’ex locanda vicina al centro di Pordenone: lì dormivo, consumavo colazione e cena, mentre il resto del tempo dovevo restare fuori dalla struttura. Mi sono iscritto anche in palestra, per scaricare la rabbia che mi portavo dentro. Le cose davvero migliorarono, ero più calmo, la mia ex vide dei miglioramenti in me e accettò la mia proposta di andare a prendere mio figlio all’asilo e stare con lui al parco. Poi è arrivato il corona virus, questa cosa di cui sentivo parlare, ma della quale non mi preoccupavo. Finché non è arrivata anche da noi la chiusura delle scuole, dei bar e dei locali e la Pankina che aspettava indicazioni se doveva o no chiudere. Io avevo paura per i miei cari, paura di tornare in strada perché non si sapeva se il dormitorio

avrebbe tenuto aperto. Non potevo andare in palestra e già ero nervoso; non potevo soprattutto stare con mio figlio. In locanda mi dissero che dovevano spostare alcune persone ed io ero una di quelle. All’inizio ero preoccupato. Poi mi proposero un appartamento con un altro signore all’interno della Madonna Pellegrina, dove sto ancora. Saltavo dalla gioia, almeno una cosa buona mi stava capitando. La situazione però pian piano è diventata complicata perché durante il lockdown non si poteva uscire, ed io non avevo la libertà di poter vedere mio figlio: praticamente mi venivano tolte le uniche belle giornate cha passavo. Stavo impazzendo e l’alcol era il modo per non pensare. Speravo finisse la quarantena, il periodo brutto che stavo vivendo emotivamente, speravo di rimettermi in piedi, trovare un lavoro, un appartamento, trovare la normalità, niente di più. Da quando sono diminuite le restrizioni ho finalmente potuto rivedere mio figlio e passare del tempo con lui e anche la situazione abitativa si sta pian piano risolvendo. Forse anch’io potrò avere la mia normalità.


Prosegue la redazione del nostro giornale all'interno del carcere di Pordenone. “Codice a s-barre” è uno spazio gestito interamentedai detenuti. Tutti i testi nel nostro blog: www.iragazzidellapanchina.it

Il pallone per il mio compleanno

telli, lei aveva pensato che, dato che ora avevo un pallone, non avrei più giocato con

lei ma con gli altri. Allora io presi il pallone e lo tagliai in due pezzi, facendoci due copricapo. Uno l'ho detti a lei e uno lo tenni per me. Le dissi che in questo modo, quando pioveva, ce li saremmo messi in testa così da non bagnarci i capelli. Mia mamma si mise a ridere e mi fece contento perché non mi aveva sgridato per aver rotto il pallone che lei mi aveva regalato per il mio compleanno. Mia mamma era contenta perché aveva capito che mia sorella per me contava più del pallone. Così io e Chetti tornammo di nuovo a giocare felici di quello che avevamo. Anche se era poco, ci bastava. Quello che mi ha colpito di più di questa storia è che mia mamma non si è mai arrabbiata con me, anche se ero il più casinista di tutta la famiglia. E non mi ha neppure mai sgridato. Anzi, mi difendeva sempre anche quando mio papà si arrabbiava con me, lei era sempre pronta a difendermi, anche se io provavo più affetto per mio padre.

Oggi vi voglio raccontare di me e della mia vita in carcere. Al mattino mi sveglio presto. Non possono mancare un caffè e la prima sigaretta della giornata, dopodiché tutti noi sei che condividiamo la cella la riordiniamo insieme. C’è poi chi va al corso di mosaico, chi al lavoro (si fa a turno tra noi carcerati). Io personalmente frequento il corso di mosaico. Nemmeno volevo andarci all’inizio, ma poi mi è piaciuto tanto e la mattina ci vado ben volentieri. Il resto della giornata lo si trascorre aspettando che cambi qualcosa, oppure che arrivino notizie da casa. Oggi, ad esempio, ho fatto il colloquio, è venuto mio figlio che ad ottobre ha compiuto 13 anni. Vi giuro, è già più alto di me di due, tre centimetri. Da piccolo, per qualche anno, gli ho fatto frequentare nuoto, poi crescendo ha giocato in una squadra di rugby di un agente penitenziario; per due anni ha fatto il centravanti di sfondamento e quindi ecco che ora è diventato più grande di me. In questo

periodo mio figlio sta facendo palestra, perché dice che gli piace. Mentre a calcio, quando aveva 11 anni, giocava con ragazzini più grandi di due anni di lui, perché – vi ripeto – è più alto della sua età. Sono felice perché è un bravo ragazzo, va bene a scuola, e quest’anno avrà l’esame di terza media e passerà alle superiori. Sono felice in generale della mia famiglia, non vivo nell’oro ma non ci manca niente, stiamo bene. Ora basta solo che esca io, a giugno: mi mancano cinque mesi e poi, finalmente, metterò fine per sempre a questa vita. Io qui, intanto, me la cavo. Cerco di far passare le giornate alla meglio. Sono fortunato perché abbiamo fatto piano piano una bella stanza tra di noi andiamo d’accordo, due dei miei compagni di cella stanno al corso Codice a sbarre. A volte scrivo a casa, mentre mia moglie mi scrive di più. Al suo compleanno le ho regalato trenta rose rosse, una per ogni anno. È rimasta senza parole per l’emozione, idem anche io.

«Avevo cinque anni e nella mia famiglia non eravamo abituati a festeggiare gli anniversari». Condivisi il gioco con mia sorella minore di Alessandro Da bambino mi ricordo quando avevo cinque anni, era l'8 di gennaio ed era il mio compleanno. Non sapevo che quel giorno fosse il mio compleanno, perché nella mia famiglia non si usava festeggiare gli anniversari. Eravamo una famiglia molto povera e a malapena avevamo da mangiare. Per quel giorno però mia mamma, con tanto sacrificio, era riuscita a mettere da parte qualche soldino per comprarmi una piccola torta e un pallone. Avevo una sorella più piccola di me con la quale giocavo tutto il giorno. Si chiamava Chetti. Quando vide il pallone che mia

mamma mi aveva regalato, si mise a piangere. Poiché in famiglia eravamo in tanti fra-

La mia vita in carcere «Ogni giorno aspetti che cambi qualcosa» di Bruno


Libero di tornare a casa «La prima volta che lasciai il carcere fu una vera sorpresa: me ne andai via com'ero, in ciabatte, tanta fu la mia gioia» di Ionel Ciao Ragazzi della Panchina, volete sapere cosa prova un ragazzo che esce la prima volta da un carcere senza conoscere il giorno della sua liberazione? Il 17 marzo 2005 fui arrestato per la prima volta. Vivevo ancora in Romania, il mio paese, ed avevo 20 anni. Il 7 ottobre 2005 andai davanti al giudice per capire se dovevo rimanere ancora in carcere oppure no. Siccome non ero stato attento a quello che diceva il giudice, non avevo capito che mi sarebbe arrivata la risposta

nell’arco di quattro o cinque giorni. Così, quando tornai dal Tribunale, entrai in cella dove vivevamo in venti ragazzi. I miei compagni mi chiesero cosa avevo fatto in Tribunale. Risposi che non lo sapevo, che non avevo capito nulla. Il 10 ottobre 2005, era un lunedì pomeriggio, appena arrivato il carretto con il cibo, mi presi il pasto ed iniziai a mangiare. In quel momento arrivò l’assistente, e per cercarmi pronunciò come sempre il mio cognome. «Sono io», risposi. «Cosa

stai facendo?», mi chiese lui. «Sto mangiando», dissi. E lui, ancora: «Lascia stare, mangerai a casa, preparati la roba che vai via». Io non ci credevo. Mentre l’assistente se ne stava andando, lo richiamai indietro per chiedergli, con gli occhi pieni di lacrime, se mi stesse prendendo in giro. No, non era uno scherzo. Quando lo capii, non presi nulla dalla cella, lasciai tutto in carcere. «Sono pronto non prendo nulla, vado via così, in ciabatte», dissi. Ragazzi, quando mi ha portato in matricola e quan-

La religione dietro le sbarre «La domenica andiamo in chiesa: mussulmani, ortodossi e cattolici, ognuno prega insieme secondo la propria fede» di Francesco Ogni domenica andiamo in chiesa. Qui nel carcere di Pordenone in chiesa ci vengono mussulmani, ortodossi e cattolici. È quanto può succedere in un carcere, ovvero che il carcere unisca le persone al di là del proprio credo personale. Sono convinto che la sofferenza - che è pure essa stessa una galera - ci mette in sintonia gli uni con gli altri, cosa che non succede sempre quando ci si trova in libertà. In chiesa preghiamo il Vangelo. Guardo i mussulmani e li vedo attenti, ma quello che mi mette gioia è il momento in cui ci prendiamo tutti per mano e disegniamo un grande cerchio. C'è chi prega secondo il rito islamico, chi secondo

quello cattolico oppure ortodosso. Credo che la forza di Dio in questi luoghi si faccia

sentire di più, ma nello stesso tempo mi domando: «Pensa se fossimo governati da don

do ho firmato il foglio di scarcerazione, piangevo di gioia. Quando ho messo i piedi fuori dal carcere, nella libertà, ho guardato a destra e sinistra e mi sono detto «Ora che direzione prendo?», perché la mia famiglia non sapeva che sarei uscito. Mentre camminavo lungo la strada ciò che vedevo per me era un altro mondo. Mi succedeva dopo sette mesi di carcerazione. Mi chiedo cosa possa provare chi in carcere trascorre dieci, venti anni della sua vita. Non lo immagino nemmeno. Giorgio e dai volontari, come sarebbe più semplice». Se i politici, di ogni estrazione, iniziassero a visitare più carceri, più periferie, più ospedali e ascoltassero e prendessero esempio da questi angeli che ci aiutano - come don Giorgio e i volontari e le insegnanti dei corsi - sentirebbero diventare i loro cuori molto più teneri. Soprattutto non si vedrebbero tutti questi teatrini in televisione, dove a volte emerge una certa ignoranza. Ogni domenica, anche solo attraverso una telecamera, vorrei far vedere ai signori politici come noi detenuti di tante etnie e religioni preghiamo tutti insieme senza fare dibattiti inutili. Forse noi nel nostro piccolo possiamo dare loro l'esempio di come la semplicità unisca le Nazioni. Forse voi politici dovreste accogliere questo appello che faccio: guardateci da una telecamera, poi veniteci vicino e vedrete che dalle spine nascono le rose. Io invece in voi non vedo tutto questo oro che luccica. Ho usato un vecchio proverbio, perché i vecchi proverbi non sbagliano mai.


RUBRICHE

L'Aviaria ha insegnato che la paura fa bene alle case farmaceutiche Nel 2005 scoppiò la psicosi da virus dei polli e fu corsa ai rifornimenti di farmaci antivirali di Emanuele Celotto Da mesi il coronavirus - covid-19 - domina l'informazione di tutto il mondo, con il corredo di fake news, psicosi e dubbi assortiti che vi ruota attorno. Sembra di rivivere il periodo dell'aviaria. Vi ricordate l'aviaria? Era il 2005 e tutto ebbe inizio con dei cigni morti. Da lì iniziarono a rimbalzare notizie del tipo “Altra morte sospetta in Indonesia, chiediamo che i Governi investano per arrestare l'epidemia tra gli animali”. A dirlo fu in quel caso la FAO. E da lì un susseguirsi di appelli ed inviti a tenere la guardia alta. “Virus dei polli: gli scienziati si misero al lavoro per capire come e quando arriverà”. Da noi il Ministero della Salute faceva eco: “È evidente che da noi già muoiono animali per l'aviaria; resta da capire se

c'è bassa o alta patogenicità”. La psicosi già dilagava e molti si astenevano dal comprare carne avicola e guardavano con sospetto i polli. Contro questa psicosi gli allevatori, per dimostrare l'assoluta inesistenza del problema, offrivano cosce di pollo nel centro di Roma. Della psicosi ne stava facendo le spese un intero settore. Nello stesso periodo a Malta si tenne una conferenza con rappresentanti di governo ed esperti vari, assieme all'Organizzazione Mondiale della Sanità che dette questa notizia: “Gli

scienziati dicono che sarà solo questione di tempo ed il virus dilagherà” e poi citava la “spagnola” (che fece milioni di morti) per rafforzare la teoria. Peccato che venne trascurato un particolare: la conferenza era sponsorizzata dalle case farmaceutiche. Seguendo l'onda emoziona-

Una fata schiava dell’orco Conobbi mia sorella in un night club, faceva la spogliarellista ed era succube del suo uomo, spacciatore e violento di Simone Quando venni a conoscenza della morte di mia sorella A., che avevo appena ritrovato, la sognai in compagnia degli angeli celesti. Era assieme ad un padre indegno di tale epiteto, ma al quale grazie alla misericordia del divino gli erano stati rimessi i peccati e che poté quindi fare il padre e unirsi ad una figlia fino a quel momento perduta. Dopo avere assorbito l’ennesima dose di dolore, mi recai a Lubiana, nel night club dove l’altra mia sorella di nome L. lavorava come barista-spogliarellista. Entrato in quel che non era altro che un postribolo, lei venne al tavolo in cui mi ero accomodato; mi chiese se ci volevamo appartare e divertire insieme. Le risposi che non ero lì per

quello e le raccontai chi fossi in realtà. Rimase esterrefatta e la curiosità fu palese in lei. Mi disse di aspettare che finisse il turno di lavoro, offrendomi innumerevoli consumazioni. Alla chiusura del locale mi prese per mano, ci recammo al parcheggio e salimmo nella sua auto. Le raccontai con meticolosità qual era stata la mia vita fino a quel momento, poi toccò a lei. Mi raccontò la sua esperienza e che si prostituiva come aveva fatto la nostra madre biologica, che era cocainomane e che conviveva con un ragazzo sloveno che spacciava cocaina. Lui ha una fedina penale chilometrica, ma le sembrava un angelo per come si comportava con lei. Ma, come si suol dire, quando il diavolo ti

accarezza è perché vuole la tua anima, infatti la intossicò con malizia e la sfruttava sia per vendere la sua merda, sia per i soldi che guadagnava prostituendosi, diventando a

le, l'Unione europea decretò che gli Stati facessero scorta di farmaci antivirali per il 25% della popolazione. Tutto fu fatto in segreto. L'Italia comperò 35 milioni di dosi di vaccino e non si seppe dove vennero stoccati i farmaci: “Non possiamo rischiare che in caso di epidemia possa succedere un qualcosa di simile all'assalto dei forni (di manzoniana memoria)”, fu la risposta. Spesa totale per vaccini 50 milioni di euro. Nel mentre la Banca Mondiale lanciò un non precisato danno/allarme economico. Seguì il Consiglio dell'OMS che invitava a fare scorta di farmaci. Negli Stati Uniti, Bush diceva: “Se la storia insegna qualcosa abbiamo ragion d'essere preoccupati”. Di seguito il Congresso, con voto unanime, stanziava 7 miliardi di dollari per farmaci virali e laboratori di studio sul virus. Guerra preventiva come in Iraq. Ma il colpo di scena venne offerto in diretta sul TG5: Lamberto Sposini si mangiò un pollo davanti alle telecamere con un: “[…] ed è anche buono!” ed in poco tempo tutto finì in una bolla di sapone. La morale? La paura fa bene alla salute. Si! Soprattutto alla salute dei bilanci delle case farmaceutiche che moltiplicano gli utili. volte violento. Mia sorella mi apparve succube di lui poiché la teneva legata a causa della “bamba” (cocaina) e perché lo vedeva come punto di riferimento. Lui le vietava di avere contatti con altre persone a meno che non fossero clienti o persone a lui gradite. Dopo questo fiume impetuoso di parole amare, io piansi. L. mi riaccompagnò in hotel e mi invitò a casa sua il giorno dopo dato che era di riposo. Me lo chiese, dopo aver chiesto il permesso all’orco discutendoci almeno venti minuti. Quello che successe dopo è un altro triste capitolo.


L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————

Vivere la montagna servizi a cura di Giorgio Achino Scrivere di passeggiate in montagna tra boschi e vallate al tempo del covid-19 è un esercizio di speranza e di positività volto ad una ricerca dell’essenziale, di ciò che nella propria vita non può mancare. Immaginando che nel prossimo futuro muoversi non sarà più semplice com'era prima della pandemia, penso che ai pordenonesi non manchi comunque proprio nulla per evadere camminando in mezzo alla natura a pochi chilometri di distanza da casa. Il nostro territorio offre, infatti, un’ampia scelta di paesi, di luoghi e di tipologie di paesaggi che il solo pensarci crea meraviglia. In altri numeri di Libertà di Parola ci siamo già occupati dei magnifici borghi del Friuli Occidentale, in questo approfondimento ci concentriamo invece su dove e come camminare per valli, boschi e montagne. La nostra fascia alpino-montana è caratterizzata da una alta variabilità di ambienti che è stata poco o niente modificata dall'intervento dell'uomo. Insomma le nostre valli - la Val Cimoliana, la Val Colvera, la Val d’Arzino, la val Cosa e la val Tramontina - si sono preservate bene grazie alla scarsa presenza dell’uomo che poco le ha popolate nell'arco della storia. Da alcuni decenni, grazie all’istituzione del Parco Naturale Dolomiti Friulane, flora e fauna autoctona riescono a mantenere la loro eccellente vivacità tutelate da una normativa ambientale che le preserva. L’idea del parco risale al 1973: nel triennio 1986-89 venne quindi stilato il piano di conservazione e sviluppo su incarico della Regione e di concerto con i comuni interessati che portò, nel 1996, all'istituzione del Parco Naturale Dolomiti Friulane. La conformità delle valli e le abbondanti piogge hanno permesso la sopravvivenza di innumerevoli specie tipiche e consentito a specie provenienti da altre zone di differenziarsi creando specie arboree uniche. Durante le vostre passeggiate potreste incontrare, anche senza contare troppo sulla fortuna, camosci, caprioli, marmotte, galli cedroni, cervi o una consistente colonia di stambecchi in continua espansione. Nelle zone più meridionali sono presenti rapaci diurni e notturni, come ad esempio il gufo reale, il biancone, il falcone pellegrino e il nibbio bruno. Segno dell’elevato grado

di naturalità dell’ambiente del Parco Naturale Dolomiti Friulane è la densità di popolazione dell’aquila reale; non mancano osservazioni di grifone, mentre va sottolineata la buona consistenza di specie legate ad habitat forestali poco disturbati, come il falco pecchiaiolo, il picchio nero, la civetta capogrosso e la civetta nana. La notevole ricchezza floristica di tutto il comprensorio del Parco ha origini antichissime risalenti al periodo dell’espansione dei ghiacciai. Il maggiociondolo, il faggio, il tasso, il nocciolo, il carpino, il pioppo, il mugo, il cirmolo e la betulla sono gli alberi che popolano maggiormente i nostri boschi. Di sicuro non si possono dimenticare l’acero montano e il frassino maggiore o il pino nero. Infine, per quanto riguarda la vegetazione erbacea ricordiamo alcune specie che vanno a condire e ad arricchire le nostre tavole: l’ortica, la carlina, il latte di gallina a fiori giallastri, la radichiella, l’erba del buon Enrico, solamente per citarne alcune. Per chi non sapesse da dove iniziare a camminare nelle nostre valli consigliamo di “girar per casere”. Sono mete quasi sempre raggiungibili facilmente offrendo panorami piacevoli ed un minimo di appoggio logistico. Casera di Giais - Sentiero CAI n.988 - Situata nelle Prealpi Carniche affacciata sorge a 1289 mt, in buone condizioni anche per un eventuale pernottamento. Casera Bitter - Sentiero CAI n.978 - Accogliente ricovero in zona Barcis (PN). Sorge a 1138 mt in una radura in mezzo al bosco. Casera Podestine - Sentiero CAI n.376 - Sorge a 1015 mt, in fondo alla val di Gère, nelle Prealpi Clautane. Facilmente raggiungibile anche da bambini vista la mancanza di dislivello. Casera Lodina - Sentiero CAI n.374 sorge a 1567 mt su un bel prato soleggiato, nel Parco delle Dolomiti Friulane. Valida meta escursionistica con una magnifica vista sul Monte Duranno. Traversata delle casere dal Rifugio Pordenone: Casera Bregolina Grande, Casera Bregolina Piccola e ricovero Casera Pramaggiore. Almeno due giorni con pernottamento. Itinerario stupendo riservato ad escursionisti esperti nel cuore del Parco delle Dolomiti Friulane. (Fonte: www.parcodolomitifriulane.it)


Andare per rifugi, casere e bivacchi Le buone regole per chi vuole dormire in montagna a stretto contatto con la natura Camminare in montagna, è risaputo, rilassa. L’occhio gode delle tonalità del verde, l’orecchio ascolta ogni battito della fatica e anche l’olfatto si rilassa nei profumi del sottobosco vivacizzati dall’aria tersa. Per percepire al massimo la vitalità dell’ambiente montano il momento giusto è al mattino presto, al sorgere del sole oppure, diametralmente opposto, all’imbrunire. È in questi due momenti della giornata che si possono cogliere meglio tutti gli aspetti della vitalità del bosco. Mi rendo conto che questo tipo di esperienza non sia alla portata di tutti, ma chi volesse goderne deve fermarsi a dormire almeno una notte in montagna. Oggi giorno la possibilità di farlo, con un buon spirito di adattamento, è possibile per chiunque soprattutto nelle nostre zone ricche di casere e bivacchi e in cui si trovano anche tre rifugi

(Pordenone, Maniago, Pussa) facilmente raggiungibili. Vediamo quindi alcuni consigli per affrontare una notte in queste strutture. In rifugio. Non è un albergo, ricordatevelo! La maggior parte del lavoro di chi gestisce queste strutture

consiste nei rifornimenti dei beni di consumo che permettono ai clienti di godere dei comfort impensabili per le caratteristiche del luogo (prima di fare delle richieste "cittadine" riflettete su dove siete). L’improvvisazione in

montagna è l’ultima opzione quindi prenotiamo sempre; è poi una pessima abitudine quella di utilizzare le terrazze dei rifugi per consumare il proprio pranzo al sacco, sarebbe come portarsi il pranzo al ristorante. Per la notte ci sono poche e semplici regole da seguire: si cammina in ciabatte, messe a disposizione dal rifugio; si dorme nel sacco lenzuolo e le coperte sono fornite in quantità. Alle 22 scatta l’ora del silenzio totale. Una pila frontale è indispensabile per orientarsi nell’oscurità. Un’ottima abitudine è, invece, quella di comunicare al rifugista (o scriverlo nel libro del rifugio) la vostra prossima destinazione soprattutto se si hanno in programma escursioni impegnative. In bivacco e in casera. Se avete scelto queste due tipologie di strutture il vostro spirito di adattamento è sicuramente alto. La possibilità che vi troviate

va. Questa è la parola chiave: adattamento. Non è assolutamente facile e tanto meno immediato. Come già detto la prevenzione degli incidenti in montagna è soprattutto un fattore culturale che ognuno costruisce attraverso la conoscenza e la pratica; considerando le proprie capacità ed attitudini; considerando chi è e con chi affronta l’escursione; conoscendo il territorio in cui si andrà. Le statistiche dicono che la maggior parte degli incidenti coinvolgono escursionisti poco esperti con una casistica in cui l’equipaggiamento inadeguato, la scarsa consapevolezza dell’itinerario scelto e la bassa preparazione ad

un repentino cambiamento delle condizioni atmosferiche, vanno per la maggiore. Fatta questa doverosa premessa cercherò di riassumere alcuni aspetti importanti per la prevenzione degli incidenti in montagna. La maggior parte di noi non nasce alpinista o escursionista, quindi, facciamo un’adeguata preparazione ed affidiamoci all’esperienza di associazioni riconosciute o di professionisti per frequentare corsi ed acquisire esperienza. L'abbigliamento che usiamo deve prevedere il peggior cambiamento climatico per la stagione in corso. Affrontare repentini cambi climatici o lunghi percorsi completamen-

Vivere la montagna in sicurezza «Tanti gli elementi che incidono, dall'attrezzatura alla preparazione alle capacità personali» "Nini, prima di andare da solo in montagna ne devi mangiare di polenta!"; "Ricordati che l’escursione è finita quando sei tornato a casa e saper rinunciare non equivale ad una sconfitta". Queste le parole dei “miei veci” che riecheggiano nella mia testa ogni volta che penso ad un’escursione. Dietro queste frasi c’è un mondo di cultura, di vissuti e di tradizioni che possono essere incomprensibili fino a quando non vengono vissuti. Appare allora chiaro che, quando si parla di sicurezza in montagna, il primo aspetto da considerare sia la cultura che ognuno ha di essa. Ognuno di noi poi è dotato di

una capacità di reazione alle difficoltà differente dagli altri, si adatta alle situazioni nuove e si relaziona al pericolo in maniera diversa: per questo motivo in ogni escursione la responsabilità, anche legale, viene affidata alla persona che è più esperta. Altro aspetto da tenere in considerazione è l’impossibilità di azzerare del tutto i pericoli. Anche chi è iper equipaggiato non può ritenersi completamente sicuro, anzi, l’esasperazione tecnicistica va a discapito dell’attenzione creando false illusioni. Frequentare la montagna in sicurezza corrisponde poi alla capacità di adattarsi alla situazione in cui ci si tro-


a dormire vicino a degli sconosciuti è infatti molto elevata, la presenza di servizi igienici confortevoli è rara (assenti nei bivacchi e nelle strutture non gestite) e non sempre vi è disponibilità dell’acqua quindi è necessario informarsi prima per farne una scorta adeguata. "Autonomia" e lo "stretto necessario" sono due concetti che dobbiamo mettere nello zaino per affrontare al meglio l'escursione. Date queste prime ed essenziali informazioni

possiamo affermare che la sistemazione spartana abbia sicuramente il suo fascino. Il camino o la stufa accese in casera scaldano non solo il corpo; usufruire delle provviste lasciate da chi è passato prima di noi dà il senso della cultura montana; fare una lettura a lume di candela (portatevene via una) o confrontarsi tra escursionisti sul percorso del giorno dopo alla luce della pila frontale sa di avventura. Oltre al sacco a pelo è una buona idea, anche per i meno esigenti, portarsi via i tappi per le orecchie. In ogni caso ricordate che i rifiuti si portano sempre a valle (anche quelli degli altri), che la legna che si utilizza andrebbe rimpiazzata e soprattutto che si deve lasciare puliti i locali (anche il camino) e chiudere finestre e balconi. Insomma fate in modo che chiunque arrivi dopo goda di un meritato riposo.

te bagnati può essere poco sicuro e poco piacevole. L'attrezzatura deve essere adeguata al percorso: dalle calzature (calzettoni compresi), zaino e mantellina (dotazione base) fino all'imbracatura, corda, cordino e moschettone (se si fanno vie ferrate), casco, lampada frontale, bastoncini, piccozza, ramponi e via dicendo. È bene essere sempre dotati di una cartina aggiornata: le migliori sono le Tabacco. Si possono utilizzare anche le App per cellulare. Infine, da ultimo, ma non per

importanza, tenere sempre d'occhio il meteo. Informiamoci sempre prima di partire e ricordiamoci che si parte col bel tempo. Se fosse in arrivo una perturbazione è meglio lasciar stare. Sempre in tema di meteo e sicurezza, teniamo sempre in mente che la dispersione termica avviene maggiormente da testa, mani e piedi: quindi proteggiamoli; in montagna ci possono essere repentini cambiamenti climatici ed atmosferici e la temperatura si abbassa di 6/7 gradi ogni 1000 metri.

Dizionario ragionato dei vocaboli della montagna Le parole che più spesso incontriamo quando parliamo o leggiamo sul tema Per chi si approccia alla montagna uno dei passaggi fondamentali è capirne il linguaggio. Molti sono termini di uso comune, ma altri possono mostrare significati che risultano apparentemente incomprensibili. Riportiamo per tema alcuni termini che potreste incontrare leggendo e parlando di montagna. I primi tre termini fondamentali e che devono essere messi sempre in correlazione sono la durata, il dislivello e la difficoltà. DURATA. Le tabelle CAI (quelle bianche e rosse) indicano i percorsi e riportano in ore la distanza dalla meta; riportano l’andamento medio di una persona e servono da riferimento (se sforate di più di un’ora c’è qualcosa che non va). DISLIVELLO. Si intende la somma di tutte le salite che compongono un percorso. Una delle DIFFICOLTÀ di un sentiero è data dal rapporto tra la durata e il dislivello (più è breve il tempo rispetto al dislivello più si alza la difficoltà). Ci sono poi gli altri termini. La QUOTA, invece, è il riferimento topografico di un rilievo (es. “Quota 2704 m”). Dove sostare? Fondamentale conoscerne la tipologia, la presenza d’acqua o se qualcuno vi accoglierà. Questi i principali termini. Il BIVACCO è una struttura utilizzata normalmente come ricovero di emergenza, spesso in lamiera ed incustodite. La MALGA è un'abitazione con terreno volto al pascolo: d’estate le malghe sono abitate e spesso sono rivendite di prodotti caseari. Il RIFUGIO è una costruzione alpina in genere custodita con servizio d'albergo. I termini che seguono, invece, fanno riferimento alla conformità della montagna o dei sentieri. Si parla di CENGIA/ BALLATOIO per riferirsi ad un ripiano di dimensioni e fogge differenti. La cengia ha la parete rocciosa da un lato, ma lo strapiombo dall'altro. Attenzione quindi alle vertigini! L'ESPOSIZIONE è una particolare situazione dove maggiormente si avverte la presenza del vuoto. FORCELLA/COLLE/SELLA, è un collegamento tra due vallate attraverso una catena

montuosa. Nel caso di colli molto stretti, spesso si parla di forcelle cresta o di un crinale. ROCCETTE invece è un tratto di sentiero che richiede il superamento di una o più balze rocciose: si farà utilizzo anche delle mani per la progressione. Si usa il termine COSTA (sentiero in) per un percorso che taglia un pendio montuoso in senso longitudinale. È normalmente caratterizzato da una pendenza moderata e da una scarsa esposizione. In CRESTA si dice invece di un sentiero caratterizzato per la sua esposizione a destra e a sinistra: non è indicato cioè a chi soffre di vertigini (a meno che non sia definita ampia). Il SENTIERO è ATTREZZATO quando è dotato di un sistema di protezioni artificiali degli escursionisti di passaggio e per questo non richiede l'attrezzatura. Una VIA FERRATA è un itinerario dotato di attrezzatura fissa in metallo per rendere possibile una salita: per affrontarlo si necessita del Kit adeguato. Quindi abbiamo il termine OMETTO (di pietra) parlando di un sistema di segnalazione di un sentiero specialmente in zone rocciose, che è formato da sassi impilati, che seguono la traccia del percorso. Vietato distruggerli. La SEGNALAZIONE DI UN SENTIERO (indicazioni CAI) è composta da un palo sul quale sono apposti i cartelli con le informazioni di direzione, numero del sentiero e tempo per la destinazione. Per non rischiare di perdervi seguite sempre le pitture bianche e rosse che trovate su alberi e rocce.


Come mi preparo lo zaino Sei regole d'oro per non dimenticare a casa nulla di necessario. Pensiamo anche a portare con noi scarpe adatte e un ricambio di abiti L’abbigliamento montano ormai assomiglia sempre più ad una sfilata di moda. Tralasciamo quindi volentieri questo aspetto e decidiamo di concentrarci su due componenti molto importanti dell'equipaggiamento: lo zaino e le calzature. Partiamo dal basso. Le scarpe sono fondamentalmente di due tipi: la pedula e lo scarpone. Questa distinzione è fondamentale sia per il vostro piede, sia per il vostro portafoglio. La prima è una calzatura che permette di avere una buona aderenza in qualsiasi tipo di terreno, non è troppo pesante e, non essendo rigida, consente di avere un'ottima sensibilità del piede. Lo scarpone, invece, è rigido, decisamente più pesante (a scapito della sensibilità), un po’ più costoso. In compenso, rispetto alla pedula, presenta grossi vantaggi in caso di gite sulla neve o lungo i corsi d'acqua. Quindi parliamo dello zaino.

Una volta scelto quello che fa per voi capiamo come e cosa metterci dentro. Un minimo di effetti personali bisogna sempre averli al seguito, anche per le passeggiate di un paio d'ore. Mettiamo nello zaino qualche cosa da mangiare ma, soprattutto, da bere. Il concetto è che non bisogna appesantirsi lo stomaco: occorre solo integrare per non finire l'energia. Meglio una cioccolata soprattutto verso la fine della fatica che cibi troppo salati o poco digeribili. I carboidrati sono più adatti ad uno sforzo prolungato. La frutta secca è ricca di potassio ed aiuta a prevenire i crampi. Per quanto riguarda le bevande evitare le bibite gasate e non esageriamo con gli integratori. La soluzione migliore rimane l’acqua o un thermos di the caldo, nel caso facesse freddo. Per quanto riguarda l’abbigliamento jeans vanno bene in città, non in montagna: anche i più comodi non

La cartina topografica

proteggono dal freddo e se bagnati si asciugano molto lentamente; un ricambio va sempre portato nello zaino protetto da un sacchetto di plastica e uno va lasciato in macchina pronto per il rientro. Ecco le sei regole per pre-

parare lo zaino. Prima di tutto, gli oggetti più pesanti devono stare il più possibile aderenti alla schiena; quindi, seconda regola, evitare oggetti appesi all’esterno, sbilanciano e si possono impigliare. Terza regola, gli indumenti più morbidi e leggeri vanno sul fondo dello zaino così le nostre anche saranno protette; quarta, le attrezzature di peso medio come l’abbigliamento è meglio che siano posizionate nella zona centrale o superiore, preferibilmente verso l’esterno; quinta, nella patella superiore mettete gli oggetti più piccoli. Da ultimo, sesta regola, nelle tasche laterali esterne, nei taschini della cintura e nella tasca sul top dello zaino va tenuto solamente ciò che è veramente essenziale: il telefono, eventualmente la fotocamera, qualche snack o barretta, l’acqua, il coltellino svizzero e poco altro. Vi consigliamo di arrotolare maglie e calzoni, per risparmiare spazio e per mantenerli indumenti più in ordine. Gli oggetti essenziali sono: il coltellino multiuso; la lampada frontale a led; il caricatore con riserva di carica del cellulare; l'accendino o fiammiferi; un telo termico e un fischietto d’emergenza e, naturalmente, cartina escursionistica aggiornata; kit di pronto soccorso.

Con la tecnologia d’oggi la cartina topografica sembra essere diventata uno strumento obsoleto. Al di là delle considerazioni romantiche (ricordate che alla cartina cartacea non si scaricano le batterie) averne una sotto mano quando si affronta un sentiero resta comunque una raccomandazione molto importante. La prima caratteristica da individuare in una cartina topografica è la scala. Più è basso il rapporto e più sarà dettagliata la cartina: una cartina 1:25.000 sarà molto più precisa e dettagliata di una con un rapporto maggiore (1:35.000 o 1:50.000). Fatta questa prima distinzione è fondamentale sapere che essendo 25.000 volte più piccole del territorio rappresentato un centime-

tro su una cartina corrisponderà a 250 metri. Altra informazione importante è che leggere una cartina è come interpretare le isoipse. Queste, fondamentalmente, ci servono per capire l’entità del dislivello che andremmo ad affrontare e sono quelle linee che si ripetono in forma concentrica una dentro l’altra fino ad arrivare alla rappresentazione delle cime della montagna. In linea di massima (ed è il caso di dirlo) più le isoipse sono vicine tra di loro tanto più quel tratto di sentiero sarà ripido soprattutto se la linea del sentiero le taglia perpendicolarmente. Inoltre, su di esse, troveremo indicate le quote di altitudine altra informazione fondamentale. Infine è utile sapere che per convenzione si considera di poter percorrere, in media, 350 m di dislivello in un'ora di cammino in salita; impiegando circa o poco meno dei tre quarti del tempo per l'identico tragitto in discesa.

Legenda della cartina Cai

I percorsi ➔ Un percorso Turistico (T) non richiede un allenamento fisico specifico, può essere breve o di media lunghezza, è adatto anche a famiglie con bambini e non presenta problemi di determinazione della posizione. Sulle mappe sono indicati da linee rosse continue sulle mappe. ➔ Un percorso Escursionisti (E) è segnalato da paletti rossi e bianchi, di solito si svolge in aperta montagna e richiede un minimo di attrezzatura (mappa e scarpe, come minimo). ➔ Un percorso Escursionisti Esperti (EE) è ben segnalato e prevede fondi ghiaiosi, pendii innevati e anche qualche arrampicata rocciosa (di bassa difficoltà). Fortemente sconsigliato a chi soffre di vertigini. Sulle mappe, sono indicati da linee tratteggiate. ➔ Un percorso Escursionisti Esperti con Attrezzatura (EEA) prevede l’uso di ganci, corde e imbracature e una preparazione di alto livello. Indicati sulle mappe da una serie di linee punteggiate, sono da evitare per i principianti del trekking. ➔ Un percorso Escursionisti Esperti con Attrezzatura invernale (EEI) rappresenta il massimo grado di difficoltà e prevede l’uso di ramponi, ciaspole e attrezzi utili per avanzare sulla neve.


INVIATI NEL MONDO

Tra la gente dell'Uzbekistan, sui passi di Tamerlano Un popolo dai gesti gentili e dalle tradizioni semplici che conquista il cuore dei visitatori di Giorgia Franceschin

Alla fine di ogni viaggio mi piace pensare di poter mettere dentro al cuore piccoli momenti di crescita personale, frammenti di vita che non tornano indietro, vanno solo avanti e si moltiplicano in positivo ogni volta che la testa poi li stringe forte a sé. L'Uzbekistan è un paese meraviglioso e l'itinerario che ho seguito ha previsto le tappe più citate dalle guide turistiche: Khiva, Buckara, la famosa Samarcanda, Tashkent, il passo del monte Pamir che si porta fino all'Himalaya, i confini con l'Afghanistan, il deserto rosso. Arrivando in Uzbekistan ho conosciuto volti amici. "Amico" infatti ho scoperto essere colui che, passandoti accanto per un solo minuto, ti resta accanto per tutta una vita. Di questo si tratta: avere nel cuore persone di cui non conosco

il nome ma che non dimenticherò mai per cosa mi ha detto il loro sguardo in quei pochi secondi in cui ha incrociato il mio. Dalla corriera con cui ci spostavano ho osservato ogni giorno il mondo passarmi accanto e i bambini uzbeki, dal bordo dei loro marciapiedi sempre impolverati, hanno saputo rapirmi il cuore con la tenerezza che arrivava dai loro sorrisi. "Chissà che sogni hanno" mi chiedevo io, guardandoli. Poi, accorgendomi di essere incastrata in pensieri orientati con fretta sempre al "domani", mi sono detta "Non pensano a niente". "Semplicemente vivono e guardano me, seduta dietro a un finestrino, con i blue jeans, una maglietta occidentale e un modo di pensare che sente nostalgia del tempo in apnea. La meraviglia della

vita è così grande che necessita sempre di parecchio tempo per scendere dagli occhi fino al cuore: come la sabbia in una clessidra che trova la strettoia e, pur fluendo, si fa aspettare. Ecco il tempo di cui sento nostalgia: quello che si ferma pur andando avanti". Una sera poi un altro sguardo si è fatto amico del mio sorriso: quello di un uomo anziano che, passando accanto a noi fuori da un caravanserraglio a Khiva, ha chiuso gli occhi, ha portato una mano al petto, ha abbozzato un inchino e ci ha detto "Assalomu Alekum" che significa "la pace sia con te". Quel gesto mi è servito per ricordare che sta proprio lì il centro delle cose: nel cuore. Così gli uzbeki hanno continuato a stupirmi per quegli atti di gentilezza gratuiti che a casa mia chiamiamo buona educazione ma che oggi io vorrei chiamare "santa umanità" perché di buona educazione c'è sempre bisogno ma della consapevolezza di essere umani e belli in quanto tali a volte ce n'è di più. I giovani nei treni, sulla metro, al bar lasciavano sempre il loro posto a sedere a chiunque avesse avuto il volto solcato da qualche ruga in più. Mohammed, il nome di uno di loro: origini iraniane, autista del fuoristrada che ci ha portato al passo del monte Pamir. "How old are you?" gli ho chiesto mentre, durante una sosta per visitare il mercato, sgranocchiavamo insieme qualche mandorla tostata. Lui timidamente ha risposto dispiaciuto "io no capire inglese" così per non interrompere la nostra conoscenza ho interpretato la parte dell’italiana vera: quella che gesticola. Con la mano ho creato in sequenza il segno di un 2 e di un 5 e lui, capendo che

25 erano i miei anni, ha sorriso felice e mi ha mostrato il suo passaporto. Io e Mohammed siamo nati a tre giorni di distanza e a pensarci bene sono proprio questi momenti di attesa prima della festa del "tanti auguri" a tenerci distanti, non tanto 4815 km. Passati quei tre giorni le distanze si accorciano e sono quasi convinta che se lui il 3 di aprile mangerà del plov (=piatto tipico uzbeko, assolutamente da provare!) per festeggiare il nuovo anno di età appena cominciato, busserà alla mia

porta per offrirmene un po'. "Felicità è tenersi per mano andare lontano”: laggiù tutti conoscono le canzoni di Al Bano perfettamente a memoria. Vedere uomini guidare carri ancora trainati da asini e bambini giocare a pallone lungo le strade, mangiare il plov e i shashlik (=spiedini di montone), sorseggiare thè caldo con biscotti al sesamo in un locale tipico di Buckara, assistere a sfilate di moda uzbeka accompagnate da musica Shash Maquam, osservare sarte intrecciare la seta al cotone, vedere maestre di scuola elementare far ballare i bambini e ricordarsi che questi davvero ballano ogni volta che gli adulti si ricordano di cantar loro una canzone, sono davvero tutte emozioni che si riconducono allo stesso grande calderone: la felicità. Quella cantata da Al Bano, quella del cuore, degli sguardi, quella contagiosa che porta bene al mondo e ricorda che è la vita in fin dei conti sempre il più bel viaggio che si possa organizzare.


PANKAKULTURA

La paura di toccare l’altro che nasce dai pregiudizi “Dormi sta notte sul mio cuore”, l’ultimo libro del professore e scrittore Enrico Galiano di Enrico Galiano La prima volta che ho sentito la voce di Mia è stato nel 2006. Lavoravo in un call center, non facevo ancora l'insegnante. Siccome quel lavoro lo odiavo dal profondo delle mie viscere, avevo adottato una tecnica: sbrigavo super-velocemente tutte le incombenze, totalizzavo quasi subito il numero di chiamate necessario a fare il minimo sindacale, e poi il resto del tempo lo passavo cazzeggiando su internet, guardando gli highlights dei mondiali di Germania, leggendo il Manifesto, navigando fra i primi blog. E fra un blog e un altro mi capitò di incrociare una ragazza che viveva in Finlandia, che scriveva da dio. Chattammo un po', e mi ricordo che c'era qualcosa nel suo modo di scrivere che mi parlava, che mi attirava. E così uno di quegli eterni pomeriggi al call center buttai giù un testo: parlava di una ragazza di nome Mia che raccontava di come i suoi genitori si erano conosciuti, della sua infanzia e poi di un ragazzino arrivato in casa sua,

Fede. Due pagine, non di più. E poi le ho messe lì, ogni tanto le guardavo, ma non riuscivo più a sentire la voce di Mia. Due anni fa un pomeriggio sono andato a correre, sull'argine del fiume Meduna, sotto casa mia: e l'ho sentita di nuovo. Ho capito che c'era una storia, lì, qualcosa di davvero forte. Una storia che parla di pregiudizio, di paura del diverso, di paura del contatto con gli altri. Mia infatti adesso mi diceva che era cresciuta, aveva ormai trent'anni, e aveva una cosa che si chiamava afefobia: la fobia del contatto umano. Quasi non ci credo a scriverlo adesso, in piena pandemia, in un momento in cui tutti

Quando un dipinto diventa poesia I versi di Katia Bulgarini ispirati da tele artistiche alla scoperta dell'indefinito immenso che c'è dentro ognuno di noi di Antonio Zani Ci sono libri e libri, molti di narrativa, storia, filosofia ed altri generi letterari e poi ci sono i libri di raccolte di poesie. Il libro d’esordio della poetessa marchigiana di Osimo, Katia Bulgarini, esula da questi consolidati cliché, è un libro diverso. "Essenza di me",

il volume scritto dalla mia cara amica è tutt’altra cosa, per certi versi direi è unico, innovativo in quanto contiene all’incirca una trentina di poesie riferite ad altrettanti dipinti, opere di una decina di diversi maestri del pennello. L’idea geniale è quella di

nel mondo hanno paura di toccare e farsi toccare, ma Mia mi raccontava proprio di questo, e lo faceva due anni fa, quando nessuno si sarebbe mai immaginato quello che è successo. Mia ha paura di farsi toccare dagli altri perché qualcuno le ha fatto qualcosa di brutto, ma non ricorda cosa: ha rimosso tutto. E così prova a ricostruire il suo passato, a mettere insieme i pezzi, e capisce che al centro di tutto c'è quel ragazzo capitato in casa sua quasi vent'anni prima. Scappato dal Kosovo, i suoi genitori lo avevano preso in affido ma poi lo avevano rimandato in orfanotrofio perché le aveva fatto del male. Così Mia si mette

alla ricerca di Fede, prova a scoprire se è vero che è stato lui e a capire cosa può averle fatto di così terribile da lasciarle una ferita tanto grande. E in questo viaggio, in questa storia, ci sono tante persone che sono un vento contro, ma c'è anche chi è tetto e casa, qualcuno che la protegge e la ascolta: Margherita, la sua maestra delle elementari in pensione, che ha con sé un quaderno che è una specie di enciclopedia dell'assurdo, dove dentro c'è tutto ciò che è strano e anomalo, curioso e imprevedibile, del mondo della scienza, dell'arte, della storia. Dentro quel quaderno ci sono sempre le risposte alle domande di Mia: infatti questo libro è dedicato tutto ai maestri, ai miei che sono nominati sulla dedica e a tutti, in generale. Perché se dovessi riassumere questa storia in poche parole direi che è un viaggio alla ricerca di ciò che ci rende vivi, ciò che ci fa essere noi. E noi siamo quello che siamo, ma siamo anche ciò che i nostri Maestri ci tirano fuori.

mettere in poesia le sensazioni che i dipinti evocano alla sensibilissima autrice e che lei, di getto, fa sgorgare dalla sua anima e lascia che la penna li imprima su carta. Katia da oltre un lustro, per passione, scrive versi ispirata da tele che la emozionano, da qui l’idea della pubblicazione di questa opera così originale. Per Katia mettere in poesia i dipinti è un atto di anima, le esce spontaneo, è il suo modo di traslare le forme ed i colori dando così voce in versi alle opere d'arte pittorica; è l'apoteosi delle sue emozioni, dei suoi stati d'animo e primordiali insiti in lei . Questo modo di creare arte viene chiamato in gergo "poesia guidata" dove il poeta fa da tramite alla sua anima ed i versi sfociano, fluiscono, quasi in possesso di un loro soffio vitale e vanno a confluire sull’inchiostro che marcherà

la carta. L’artista osimana già nota agli amanti dei sonetti in quanto spesso comparsa su blog e riviste del settore di ottimo livello, in questa sua prima fatica (oserei dire gioia per la verità) letteraria dà il meglio di sé. Personalmente, leggendo le sue parole e ammiccando con lo sguardo al quadro di riferimento, ho provato profonde sensazioni di delicatezza ed amore, sono versi che di quadro in quadro ti avvolgono in un vortice e ti travolgono portandoti alla scoperta dell'indefinito immenso che c'è dentro ognuno di noi. Sono parole che si tramutano in visioni, odori, sensazioni che vanno oltre il tangibile e volano leggere come foglie fluttuanti nella brezza leggera verso l’infinito, alla ricerca del tutto, dell'incommensurabile, dell'essenza, nel caso di Katia appunto nella "essenza di me".


PANKA AMBIENTE

Virus e ambiente, una responsabilità tutta umana «Lasciare in pace gli ecosistemi non deve più essere visto come una battaglia ambientalista, ma come un'azione a tutela della salute pubblica globale» di Elisa Cozzarini

È un tempo che ci riporta in modo dirompente alla dimensione locale, quello che stiamo vivendo, chiusi in casa in attesa che passi la pandemia. Eppure, per comprendere come siamo arrivati a tutto questo, è necessario guardare molto lontano e ragionare in termini globali, e ambientali. Nel giro di pochissime settimane, il nuovo coronavirus ha raggiunto, dalla Cina, quasi tutti gli angoli del pianeta. Non lo credevamo possibile. Ha colpito il nostro paese, i nostri cari, stravolgendo la nostra vita. Telmo Pievani, evoluzionista dell'Università di Padova, spiega come, dal punto di vista del virus, noi siamo «l'ospite perfetto per diffondersi. Siamo 7,5 miliardi di potenziali ospiti, diffusi in tutto il mondo, e abbiamo inventato mezzi di trasporto in cui ci ammassiamo, viviamo in metropoli. Il virus obbedisce a un imperativo darwiniano primordiale: moltiplicarsi, fare copie di se stesso finché può». Ma il punto è un altro: oltre a essere gli ospiti perfetti, abbiamo perturbato e deturpato gli ecosistemi, consentendo ad alcuni microrganismi di fare il "salto di specie" da animale a uomo. Distruggere l'ambiente, significa aumentare il contatto con il selvatico. È già successo con la rabbia, la leptospirosi, l’antrace, la SARS, la MERS, la febbre gialla, la dengue, l’HIV, Ebola, Chikungunya e i coronavirus, ma anche la più diffusa influenza. Tutelare la biodiversità, lasciare in pace gli ecosistemi, in questo senso, non deve più essere visto

come una battaglia ambientalista, ma come un'azione a tutela della salute pubblica globale. Se si distrugge una foresta, si cacciano animali esotici e si portano nei mercati di una grande città come Wuhan in Cina, la responsabilità dei problemi che ne derivano è tutta umana, altro che complotti! Ed è causata dagli squilibri che gli ambientalisti denunciano da anni, inascoltati. La pandemia da coronavirus che ci ha travolto non ha a che fare con la lotta al cambiamento climatico, ma guardando la situazione con uno sguardo ampio, capace

di comprendere la complessità della realtà che viviamo, i collegamenti non mancano. Il traffico aereo abnorme, che connette ogni angolo del mondo con qualsiasi altro luogo in poche ore, produce una quantità enorme di emissioni di gas serra, responsabili del riscaldamento globale. Alcuni studi scientifici, non confermati per ora, suggeriscono che la diffusione del coronavirus in pianura padana sia stata favorita dall'inquinamento pesante da polveri sottili, che ora sta diminuendo perché noi siamo fermi. Di certo, per chi soffre di patologie legate al sistema respiratorio, il nuovo virus colpisce in modo più forte. Un mondo che rallenta, in cui gli scambi commerciali sono maggiormente legati alle necessità reali, in cui non si vuole sempre di più ma ci si accontenta, un mondo in cui le filiere produttive si accorciano riducendo le emissioni dovute ai trasporti, un mondo più rispettoso dell'ambiente e dei diritti umani, in cui al primo posto non c'è solo il profitto in termini monetari, ma il benessere della popolazione

umana, degli animali, nostri alleati, e delle foreste, dei corsi d'acqua e di tantissime cose splendide che ora non possiamo vedere, sarebbe un mondo anche più sano e sicuro per tutti. Perché, come ha detto Papa Francesco, non si può essere sani in un mondo malato. Ora siamo obbligati a fermarci, ma dobbiamo prepararci a ripartire con un passo più leggero e rispettoso, innanzitutto per noi stessi.

PANKA NEWS

Sede chiusa, ma la Panka non si è fermata Il rapporto con i ragazzi è stato sempre mantenuto di Sara Lenardon Il lockdown causato dall'emergenza covid-19 ha colpito negli scorsi mesi anche la nostra Associazione. Dal 24 febbraio la Panka ha dovuto sospendere l'attività diretta adeguandosi alle normative vigenti. Era dal lontano 2012, quando l'Associazione ha avuto lo sfratto dalla vecchia sede, che non ci si trovava costretti a chiudere. Tuttavia, come allora, lo staff ha deciso di non abbattersi e di continuare, in modalità differenti, l'attività educativa e di prossimità. Fortunatamente le nuove possibilità comunicati-

ve hanno permesso di "continuare ad esserci"; durante i mesi di chiusura grazie ad un costante lavoro di équipe e di confronto con il Dipartimento delle Dipendenze molte sono state le attività portate avanti virtualmente. Il rapporto e la vicinanza ai ragazzi, seppur telefonicamente, sono stati sempre mantenuti; il gruppo giovani della Panka ha continuato ad incontrarsi settimanalmente attraverso le videochiamate, parte dell'équipe ha portato il suo contributo come esperti di settore all'inter-

no del corso di Psicologia delle Differenze Culturali e Clinica della Devianza della facoltà di Psicologia di Padova e la programmazione per le future progettualità è stata costante. Dal mese scorso, finalmente, pur attendendo la possibilità di riprendere le ordinarie aperture, la sede ha riaperto con orari ridotti e garantendo il rispetto delle misure di sicurezza; gradualmente i vari appuntamenti con la Panka stanno ripartendo . Cosa dire di più sennonché: noi siamo pronti!


NON SOLO SPORT

Lo sport è molte cose tutte insieme «E’ qualcosa che ti entra dentro, e non esce. Nel mio caso, è vita, relazioni, vicinanza, trasmissione di conoscenze. Interessare allo sport i più piccoli è l'avventura più bella» di Piero Della Putta

Parlare di sport, e di sport giovanile, in tempi di coronavirus potrebbe essere la cosa più facile del mondo, ed al contempo quella più difficile. Facile per chi – come me – ha un ruolo attivo nello sport: ho praticato nel mesozoico pallacanestro e tennistavolo, sono stato runner quando per andare a correre non erano indispensabili quelle tutine attillate e un po’ ridicole, ho frequentato assiduamente le nostre montagne e sono stato consigliere del CAI, sono allenatore di base di pallacanestro, istruttore nazionale minibasket, ho scritto di più sport per vent’anni, sono delegato provinciale minibasket, ho parlato di sport in televisione, ho diretto le rappresentative della ex provincia di Pordenone…. Parlare di sport è in-

vece difficile per chi - ancora come me - spesso è voce fuori dal coro, e deve ascoltare un sacco di corbellerie nella visione generale, che dimentica la pratica di base, e si focalizza solo sul professionismo e su quello che è spesso sport mascherato da dilettantismo. Innanzitutto, cos’è lo sport? E’ impegno, passione, è divertimento, è fatica, è senso di appartenenza, è amicizia ed è territorialità. Lo sport è i tuoi migliori amici ed è doversi relazionare anche con chi proprio non sopporti: è, in sostanza, scuola di vita, perché è parte della vita e della vita ricalca tutte le caratteristiche. E’ crescita, è qualcosa che va affrontato in età evolutiva, e che accompagna il cammino di ragazzi e ragazze verso l’età adulta. E’ qualcosa che

ti entra dentro, e non esce. E’ scienza, è relazione, lo sport: è agonismo che diventa antagonismo, è linguaggio ed è psicologia spicciola. E’ la necessità ed è la capacità di ritagliarsi un ruolo, soprattutto nello sport di squadra. E’ un qualcosa che genera autostima o disistima. Che porta in alto, ma che alle volte distrugge. E’ consapevolezza dei propri mezzi, è capire cosa sappiamo e possiamo fare, e capire cosa non sappiamo e non possiamo fare. E’ cultura dell’impegno, perché l’impegno, pur sopravvalutato nell’attività agonistica, è l’unica costante di chi voglia andare oltre le sue possibilità. E’ un insieme di conoscenza e di dubbi, che crescono assieme: invecchiando sai più cose, e hai più dubbi. Nel mio caso, sport è soprattutto vita, relazioni, vicinanza, trasmissione di conoscenze: è soprattutto trasmissione di conoscenze, considerato che il ruolo che rivesto attualmente, di delegato provinciale e di istruttore, va in questa direzione. Lavoro con i piccoli, nell’arco che va dai cinque anni agli undici, e lo faccio per scelta, considerato che chi lavora con loro non gode della ribalta di grandi palcoscenici o può aspirare a rimborsi faraonici. Lavoro con i piccoli perché, a differenza di quanto sia agevole pensare, è facile pur se estremamente faticoso, considerato il dovere di restare sempre attenti, vigili. Con i piccoli – che, amo ripeterlo, sono degli adulti senza esperienza, e con molta meno malizia – si sviluppano relazioni meravigliose, destinate a durare per sempre. I piccoli sono onesti, hanno un senso della giustizia superiore, sono perfettamente consapevoli del loro livello e del loro talento, cosa che li porta ad impegnarsi, a dare il massimo, a perseguire con forza un obiettivo individuale o collettivo. Nei piccoli lo sport è àncora di salvezza, cosa che non sarà sempre successivamente: a loro basta un canestro per essere felici.

Vederli crescere, migliorare di allenamento in allenamento, acquisire sicurezza, capacità di affrontare gli altri e le proprie paure, è impagabile. Lo è, impagabile, avere la conferma quotidiana di come i bambini di oggi non siano diversi da noi, o dai nostri padri e dai nostri nonni, ma vivano semplicemente in un mondo diverso, del quale sono figli. In questo mondo hanno agevole accesso al sapere, cosa che però fa si che siano pronti ad affrontare problemi nuovi e che sviluppino un enorme deficit attentivo. E qui si inserisce la sfida più grande, che

come ogni altro istruttore ho scelto di cogliere: interessare i nostri allievi, utilizzando linguaggi e metodologie che li migliorino in quelli che sono i loro punti deboli, e che diano sfogo alla loro passione, in un contesto nel quale il rispetto e la collaborazione con i compagni siano le due regole fondamentali; che faranno di loro bambini, ragazzi e quindi adulti consapevoli, e in ultima analisi migliori. Adulti che magari, come già successo, mi affidino tra qualche anno i loro figli, commuovendomi e rendendomi orgoglioso di quanto ho saputo trasmettere loro in un momento chiave dello sviluppo.


Hanno collaborato a questo numero

LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada de I Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009

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Simone Nel corso degli anni aveva raggiunto tutti gli apici possibili, che fosse Everest o Fossa delle Marianne, che fosse vita o che fosse morte, che fosse amore o che fosse odio. Stare con lui significava passare dall’essere certi che non ci fosse più nulla da dire al restare sbalorditi dal fatto che ti aveva ascoltato per davvero. Dopo un’assenza di tre anni era tornato con una carica speciale…quella che è rimasta nei racconti che ci ha lasciato.

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Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: "...si bello, ma non si scrive così in Italiano!" S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara

Emanuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili.

Milena Bidinost Per noi avere a che fare con una giornalista di professione non è mai facile: “Milena sai che ho sentito dire che.. vabbè dai, non importa”. Per lei avere a che fare con gli articoli che escono dalla Panka non è mai facile: “Scusate ma non credo che questa cosa si possa scrivere così perché giornalisticamente.. vabbè dai, non importa”. Milena, la mediazione è un’arte! Ben arrivata al MoMA!

Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”

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Elisa Cozzarini Liberata dai fardelli del dover fare per gli altri si è messa in proprio, così può scrivere, leggere, scrivere, progettare, scrivere, studiare, scrivere. Non manca di farlo anche per la Panka perché, se è vero che il futuro è, appunto, tutto da scrivere, quello che sei lo ritrovi nei posti che abiti.

Redazione Ada Moznich, Francesca Marino, Antonio Zani, MM, Alessandro, Bruno, Ionel, Francesco, Emanuele Celotto, Simone, Giorgia Franceschin, Enrico Galiano, Elisa Cozzarini, Sara Lenardon, Piero della Putta, Chiara Zorzi. Editore Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone

Impaginazione Ada Moznich

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Giorgio Achino Teatrante per diletto adesso applica la tecnica in Panka. A tutti dice: "Sarò chi vuoi, nella tua personale rappresentazione della vita"; palco e Panka si confondono. Benarrivato in questo teatro! Sempre in scena Giorgio

Stampa Faros Group s.r.l. Via Gorizia,2 33077 Sacile PN Fotografie A cura della redazione. Foto a pagina 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 14 dal sito: https://pixabay.com/it/ Foto a Pagina 7, 8, 9 e 10 di Ada Moznich Foto a pagina 11 Giorgia Franceschini Foto a pagina 112 Enrico Galiano Foto a pagina 113 Elisa Coizzarini Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone Tel. 0434 371310 email: panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Instagram: panka_pordenone Youtube: Pankinari

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Sara Lenardon Seguendo le orme del fratello decide di fare il tirocinio da noi. Pazza. Per cui perfetta. Ginnasta di professione, studentessa per cultura, panchinara per passione. Scrive il suo primo articolo dall’altra parte del mondo, adesso scrive perché da noi ha scoperto un altro mondo.

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Antonio Zani Quando una persona legge molto, quando poi si accorge che scrivere gli riesce, quando è costretto a fare attività fisica ma non gli riesce e non ne ha voglia, quando in tutto questo conosce la Panka, allora che fa? La risposta è Libertà di Parola! Dopo una gavetta alle rubriche ora spazia anche in altre pagine, ma non ti preoccupare Antonio, sempre senza correre!

Capo Redattore Giorgio Achino

Creazione grafica Maurizio Poletto

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Direttore Responsabile Milena Bidinost

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Piero Della Putta La particolarità di questo uomo è quella di non farti capire immediatamente da che parte sta. Ci parli, ti chiede, tu chiedi, analizza, critica ma poi ti regala il lato che funziona. La cosa straordinaria è che poi, senza particolari, ti accorgi che sta con te.

Per le donazioni: Codice IBAN BCC: IT69R0835612500000000019539 Codice IBAN Credit Agricol Friuladria: IT80M0533612501000030666575 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al giovedì dalle ore 13:00 alle 17.30 e il venerdì dalle 13.00 alle 16.00


ESSERE VICINI O LONTANI NON È UNA QUESTIONE DI METRI O CHILOMETRI, MA DI SENTIMENTI CARLO PIN

I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA


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