APPROFONDIMENTO
Signora morte
Libertá di Parola 1/2022 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. Evelyn Beatrice Hall
In passato la morte era vissuta come una "compagna di vita", tradizionalmente gestita in famiglia come un momento naturale della stessa, sotto gli occhi di grandi e piccini. In passato il supporto della comunità di fronte ad un lutto era parte integrante del processo di elaborazione. Oggi vi è una evidente incapacità a parlare di morte e la tendenza a occultarla, convincendosi che non sia cosa che ci appartenga. E' davvero così? a pagina 7
Il vescovo Giuseppe Pellegrini in visita alla sede de I Ragazzi della Panchina Reciproco ascolto, dialogo e condivisione ai fini dell'Assemblea sinodale del diacono Giovanni Mauro Dalla Torre, delegato vescovile per la Cultura
IL PERSONAGGIO
Giacomo Ragazzoni, un mercante veneziano a Sacile a pagina 6
PANKA NEWS
I rischi e la prevenzione dell'overdose nel consumatore di sostanze a pagina 11
INVIATI NEL MONDO
Nella Russia del 1993, per consegnare alla Chiesa una reliquia di San Nicola a pagina 12
Giovedì 17 marzo il vescovo di Concordia Pordenone, monsignor Giuseppe Pellegrini, ha incontrato, nelle strutture proprie dell’associazione, i ragazzi e gli educatori. Ad accompagnarlo io stesso e il direttore Caritas Andrea Barachino. L’incontro si è realizzato su richiesta precisa del vescovo, in quanto la Chiesa è dentro un cammino in preparazione all’Assemblea sinodale. È “assemblea”: luogo e tempo nel quale ci si raccoglie per ascoltare, dialogare, condividere, riprendere forza per il cammino che attende la Chiesa nei prossimi decenni. È “sinodale”: è un cammino insieme attraverso una struttura partecipativa agile e dinamica che favorisca l’ascolto e il dialogo con tutte le persone presenti in un territorio e le realtà che sono a servizio della società. Nel dialogo intercorso tra il vescovo, gli educatori e
gli utenti sono emerse diverse suggestioni. Innanzitutto si è evidenziata la filosofia che sorregge l’agire dell’associazione: la riduzione del danno e ciò a vari livelli. Le tante emergenze alle quali far fronte rendono sempre più necessaria la presenza di un servizio di operatività immediata, in sinergia con le diverse realtà operative sul territorio (Croce Rossa, Caritas ecc.) e in forma stabile, per non subire eccessivamente le variabili della precarietà. Si sente la necessità di una formazione etica che risponda al dettato della cura di sé e dell’altro, per un serio discernimento personale rispetto alle tante offerte che si pongono e propongono alle nuove generazioni. Purtroppo il mondo degli adulti non è sempre all’altezza del proprio compito educativo e in questa confusione si rende necessaria
la presenza anche di comunità terapeutiche, capaci di affrontare e rielaborare le tante dinamiche (positive e negative) del crescere e del maturare. Si evince che l’attenzione è particolarmente rivolta alla persona, piuttosto che alla rigida osservanza dei protocolli, che pur ci vogliono. Diventare adulti, autonomi e responsabili, è la grande sfida e vale per tutti, non solo per alcune fasce di giovani. In caso di fallimento, di scarto, di insuccesso la scorciatoia può essere l’uso di sostanze di ogni genere, perché anestetizzano il dolore. Ecco emergere la centralità dell’educare e dell’accompagnare verso l’adultità. Il vescovo al termine dell’incontro ha manifestato tutto il suo interesse a operare sinergicamente per rispondere ad alcune questioni, ben rappresentate nel dialogo.
PABKA AMBIENTE
Salviamo i fiumi, un bene a rischio a pagina 13
NONSOLOSPORT
«Il sittingvolley mi aiuta a superare la mia malattia» a pagina 14
IL TEMA
Rileggere la "tossicodipendenza" a partire dal "non giudizio" Per attuare interventi riabilitativi o di cura serve ribaltare la questione morale sull'uso di sostanze partendo da un utilizzo corretto delle parole di Giorgio Achino È una questione morale che ruota attorno alle parole. Quando parliamo di droga inevitabilmente in ognuno di noi si crea un’immagine mentale negativa derivante da un background oramai consolidato. Droga e drogati non sono certo epiteti positivi. Droga e drogati hanno il sapore di giudizio. Un giudizio basato sul non si deve (o non si dovrebbe). Sta di fatto che le droghe esistono e sono vecchie quanto l’uomo e, ad oggi, il consumo non si è mai fermato. Questo non comporta una resa nei confronti del fenomeno, tanto meno un suo favoreggiamento, ma la considerazione di un dato di
La ricerca del benessere «In ognuno di noi esiste la spinta innata alla ricerca di un piacere sano. Perché quindi non chiederci ogni giorno: cosa posso fare oggi per prendermi cura di me?» di Sara Lenardon “Stato armonico di salute, di forze fisiche e spirituali”. È il significato di benessere, una parola che alle volte viene abusata o, sfortunatamente, dimenticata. Quante volte ci capita di fermarci a chiederci cosa veramente ci fa stare bene? Quali esperienze ci lasciano un senso di soddisfazione? Il tempo talvolta è così tiranno che come persone, tendenti per natura all’auto-realizzazione e all’auto-guarigione, ci scordiamo di vivere con pienezza svolgendo attività ed esperienze che contribuiscano a generare un senso di piacere generale. Viviamo in una società dove è molto più spontaneo cercare il piacere e la risposta immediata
ai bisogni che sentiamo, ma veramente è nell’immediatezza che possiamo dirci appagati in modo duraturo?Di benessere, a livello clinico, se ne occupa una branca della psicologia poco conosciuta e forse anche poco di tendenza: la psicologia positiva la quale mission non è dunque gapprofondire gli aspetti patologici della natura umana quanto quelli apitologici, ovvero tutte le tendenze innate correlate alle risorse personali e ai comportamenti proattivi funzionali all’equilibrio psicofisico. Studi e ricerche condotti in ambito preventivo constatano come occuparsi delle parti di sé correlate a quanto sovrascritto non solo implica il raggiungimento di
uno stato di maggior benessere psico-fisico, ma comporta la costruzione di un’immagine di sé auto-determinante e in grado di soddisfare gli istinti eudemonici tale da prevenire psicopatologie e assunzione di comportamenti a rischio. A fronte di ciò, facendo un affondo sui quadri di di-
fatto. Proponiamo un cambio di paradigma per la lettura di una situazione con cui, volenti o nolenti, dobbiamo convivere. Il primo passo è iniziare ad utilizzare le parole adatte che contestualizzino e non giudichino. Al posto di “droghe” iniziamo a chiamarle sostanze psicoattive (o psicotrope) e ne conseguirà che non ci sono sostanze buone o cattive, pesanti o leggere, ma solamente sostanze che possono generare dipendenza, il vero problema da contrastare. Ugualmente, la parola “tossico” deve essere sostituita dalla parola consumatore o dipendente da sostanze. Anche in questo caso la differenza è sostanziale: non esistono persone tossiche, ma comportamenti tossici attuati da persone in quel momento disfunzionali per sé e gli altri. Se non tenessimo questa distinzione, non si potrebbe attuare nessun tipo di intervento riabilitativo o di cura. I comportamenti e le risposte a degli eventi si possono modificare, le persone no. Fatta questa doverosa distinzione, appare chiaro che esistano sostanze accettate e sostanze meno accettate, semplicemente per un fattore cultupendenza, strettamente legati psicofisiologicamente al circuito del piacere, appare dunque importante sottolineare come in modo preventivo o anche riabilitativo all’interno di casistiche già conclamate, lavorare in ottica di educazione al benessere personale risulti essere un tassello terapeutico fondamentale. Favorire la consapevolezza di sé in merito alle proprie risorse e a quelle
rale e di come una sostanza anziché un'altra viene vissuta dalla società. Si pensi ad esempio al vino. Per la nostra cultura è la sostanza psicoattiva per eccellenza (il vino assieme a tutti gli alcolici a seguire), nonostante i danni che un suo abuso provoca siano visibili quotidianamente e sebbene i suoi effetti collaterali abbiano un’incidenza elevatissima sulle cause di morte in Italia. È indiscutibile che il vino faccia parte della nostra cultura dalla notte dei tempi ed è assodato che nella nostra tradizione si attuino comportamenti inconsapevoli che ne favoriscano il consumo. Quante volte nelle cene in famiglia si invitano i bambini a brindare con gli adulti? Non vi è mai capitato di vedere un adulto che intingendo il dito nel bicchiere “battezza” il piccolo facendogli succhiare il dito? A tal proposito ricordo che l’apparato volto alla metabolizzazione dell’alcol non è completamente efficiente prima dei 21 anni ed è inefficiente sino ai 16 anni. Una bevanda alcolica è dunque tossica per chiunque l’assuma prima di quest’età ed è perciò un incosciente chi gliela fornisce. esterne alle quali attingere e ricercare e sostenere la persona nella messa in pratica costante di attività ed esperienze che vadano ad attivare il circuito del piacere permette conseguentemente di facilitare il naturale ed equilibrato rilascio dei neurotrasmettitori imputati alla soddisfazione del piacere senza quindi dover ricorrere ad agenti esterni quali ad esempio psicofarmaci, sostanze e comportamenti estremi. Considerato per cui che in ognuno di noi esiste la spinta innata al benessere così come alla ricerca di un piacere sano, perché non chiederci ogni giorno “cosa posso fare oggi per prendermi cura di me?”. Ricordiamoci che non è necessario scalare le montagne per raggiungere la felicità, camminare a piedi nudi sull’erba, per esempio, potrebbe essere un semplice modo per sentirci appagati. Se non abbiamo mai pensato a cosa ci rende felici potremmo iniziare a rifletterci stilando una lista delle dieci cose che ci fanno star bene e, facendo un patto con noi stessi, potremmo darci un appuntamento con ognuna di queste!
Mettere la "persona" al centro, non il suo comportamento L'approccio contraddistingue la politica della riduzione del danno nell'accompagnamento dei consumatori di sostanze di Ada Moznich Parlare di sostanze psicoattive, comunemente chiamate “droghe”, non è facile perché o si cade nel moralismo, oppure si viene additati come favoreggiatori. Quindi, dobbiamo partire dalla storia dell’uomo, perché le sostanze psicoattive sono nate con lui dal momento che la ricerca del piacere, in fondo, è insita nell'uomo stesso. Anche nella Bibbia si parla di Noè, grande estimatore del vino. Anche nel mondo animale abbiamo diversi comportamenti rispetto alla ricerca del piacere: alcuni animali conoscono perfettamente gli alimenti che provocano alterazioni piacevoli della realtà, la stessa erba gatta che piace tanto ai nostri mici ha un effetto psicoattivo in loro. Purtroppo alcune volte la ricerca smodata del piacere porta a non sapere più gestire il piacere stesso che si trasforma quindi in bisogno e alla fine diventa un dovere, creando nella vita del consumatore qualche problema. La riduzione del danno (RDD), intesa come insieme di azioni, strategie e politiche sociali, nasce proprio per questo, perché mette al centro dell’attenzione la Persona e non il suo consumo, limitando diverse problematiche. La riduzione del danno nasce a cavallo tra gli anni '80 e '90 quando si presenta lo spettro dell’Aids che aumenta i numeri dei morti tra i consumatori di sostanze per via iniettiva, e va a sommarsi a quello delle overdose, rischiando di falciare via una intera generazione di giovani. I vari strumenti messi a disposizione, quali siringhe sterili gratuite, preservativi, così come l'informazione capillare nei servizi dedicati
ai consumatori e via dicendo, fanno sì che sia le overdose sia le nuove diagnosi di Hiv, e di conseguenza le morti per Aids, crollino vertiginosamente. Nell'ambito della RDD, nel corso degli anni, agli strumenti di base per la prevenzione della trasmissione dell'Hiv si è aggiunta la formazione di operatori professionali, che si sono rivelati delle figure fondamentali per l'accoglienza e la costruzione della relazione con i consumatori, sempre nell'ottica di mettere al centro la persona e non il suo comportamento. Questi servizi, spesso gestiti dal Terzo settore, con operatività agili e informali aprono ai consumatori altre opportunità, che possono sfociare anche in un accompagnamento al cambiamento dello stile di vita fino all'abbandono del consumo. Dobbiamo anche valutare poi il costo economico sanitario che comporta il consumo
di sostanze perché, se abbiamo meno persone con problemi di salute, ne beneficiamo tutti. È per questo che la RDD da qualche anno è stata inserita all'interno dei LEA, i Livelli essenziali di assistenza, del sistema sanitario nazionale. Per la nostra associazione, I Ragazzi della Panchina, la RDD rappresenta un caposaldo: attuarla ci permette di stare accanto alle persone valorizzando la parte positiva, rimanendo attenti ai loro bisogni, soprattutto dimostrandoci tempestivi nel cogliere il momento in cui c’è uno spazio per il cambiamento di stile di vita ed accompagnarle ad esso. In tutto questo è la riflessione che si è fatta assieme al vescovo, monsignor Giuseppe Pellegrini, il nostro approccio laico e professionale è in linea con lo spirito cristiano che vuole anch'esso al centro di ogni relazione la Persona e non il suo comportamento.
RUBRICHE
Dopo l'emergenza sanitaria, una nuova guerra mina l'economia «Il tessuto sociale, messo a dura prova dalla pandemia, difficilmente reggerà ad un ulteriore aumento di prezzi e povertà» di Celox Dopo oltre due anni è finito lo stato di emergenza e anche se non è finita col virus, sembrava un nuovo inizio. L’economia era ripresa ed erano ricominciate le assunzioni. La pandemia ha lasciato il segno con un aumento sia dei costi che della povertà ma, sembrava ci fosse un lento ritorno verso la normalità. Poi la guerra Russia-Ucraina (attualmente ci sono 59 guerre nel mondo) ha scompaginato tutto e le conseguenze si sono fatte sentire subito. Abbiamo rapporti commerciali con entrambe le Nazioni: dalla Russia importiamo gas
(40% del fabbisogno), petrolio, grano, soia, legno e carta; dall’Ucraina il mais per gli allevamenti e l’olio di girasole (80% del fabbisogno). Con le sanzioni alla Russia la situazione si è complicata e non poco; di alcune cose (legno carta) ci si può approvvigionare altrove ma la dipendenza dal gas, ci costringe a fare i conti con la realtà. Reperire altri fornitori in tempi brevi non è facile e molte imprese sarebbero costrette a chiudere, con conseguente perdita di posti di lavoro, aumento di disoccupazione e povertà. Già la pandemia ha eroso i risparmi
ed aumentato la povertà, già cresciuta quando hanno tolto il blocco ai licenziamenti. Nel frattempo si è verificato un aumento dei combustibili fossili (speculazione) ed anche dell’inflazione. All’aumento dell’inflazione non è seguito alcun aumento di salari e pensioni, quindi, scende il potere d’acquisto delle famiglie. Si poteva e si doveva fare di più per le rinnovabili, visto che dipendiamo per il 90% da altri Paesi per l’energia. Per completare il quadro, bisogna aggiungere che la grande distribuzione ha sempre frenato un aumento dei prezzi
al dettaglio (che ci ha portato a credere che il cibo debba costare poco), ma non ha mai rinunciato a parte dei profitti, scaricando tutto sui produttori. Alcuni, vedendo il margine di guadagno ridotto all’osso, sono stati costretti a chiudere con conseguente minor quantità di merce sul mercato. Una minor offerta farà salire i prezzi e le conseguenze, senza mezzi termini, saranno catastrofiche per molte famiglie. Già adesso, andando al supermercato, si trovano le prime limitazioni (non più di tot quantità per scontrino) e più andrà avanti la guerra peggio sarà. Fino a che punto la grande maggioranza di persone sarà in grado di reggere? Dopo due anni di ristrettezze e perdita del potere d’acquisto, che per molti ha significato povertà, ci ritroveremo con alcuni beni di consumo che avranno, causa scarsità, prezzi assurdi. Il tessuto sociale, messo a dura prova dalla pandemia, difficilmente reggerà ad un ulteriore aumento di prezzi e povertà. Il rischio di sommosse e saccheggi non è più una cosa da telefilm, potrebbe diventare una realtà futura.
PANKA DOG
L'incontro tra due cani, come seguirne la natura L'istinto potrebbe spingerci a evitarlo, ma va affrontato di Giorgio Achino Come ci si comporta quando si passeggia con il proprio cane e se ne incrocia un altro? È una situazione che spesso mette a dura prova un conduttore, suscitando in lui mille domande, paure e incertezze. La paura più frequente è che i cani si azzannino e che quindi non si sappia affrontare la situazione. Ahinoi, la soluzione adottata più frequentemente è quella di cambiare strada e non fare incontrare i cani. Questo però, se da un lato evita ogni problema, dall'altro non fa altro che aumentare le nostre incertezze e frustrare il nostro cane. Quindi impariamo a far incontrare i nostri amici. Il primo e più importante aspetto
da tenere in considerazione è l’interazione tra i due conduttori. La prima cosa che questi devono decidere è se far incontrare i loro cani: senza quest’accordo non si può far nulla. Dopodiché bisogna prestare attenzione alla comunicazione e al comportamento tenuto dai cani: come si salutano
tra di loro? La cosa che accade più frequentemente è quella di far tenere ai cani un comportamento umano, mettendoli muso a muso. Nulla di più sbagliato. Magari si rinforza quest’errore, tenendo in tensione i rispettivi guinzagli. Questa posizione, nella comunicazione canina, significa posizione di lotta e, se sommata alla tensione dei guinzagli (ostacolo che il cane vuole superare, ricordate che tenere in tensione il guinzaglio corrisponde ad un incitamento) è preambolo di scontro in arrivo. Quindi,
per fare incontrare due cani ragioniamo da cani e non da umani. I cani si salutano, si presentano annusandosi reciprocamente il posteriore. Lasciamo laschi i guinzagli, ma pronti all’intervento, facciamo in modo che non si attorciglino e lasciamo che i nostri animali si annusino reciprocamente. Contemporaneamente osserviamo i segnali diretti che lanciano i nostri amici: se il pelo della schiena si alza è un segnale di tensione, la coda a seconda di come si posiziona ha un significato preciso (alta dominanza, tra le gambe sottomissione). Qual è inoltre la posizione assunta dal cane: mostra il sedere? Si gira repentinamente invitando al gioco? Si mette a pancia all’aria? La sommatoria di questi segnali ci dà la misura della predisposizione all’incontro di ciascun cane. Ricordiamoci che la socializzazione per il nostro amico a quattro zampe è fondamentale. Non evitiamo a causa delle nostre insicurezze una parte fondamentale della sua natura di cane. Lasciamo che la comunicazione canina abbia il suo corso naturale.
La mia passione dei vecchi barbieri di un tempo con schiuma e rasoio In ogni viaggio cerco i profumi e i rumori della mia infanzia, di quando da bambino andavo a tagliami i capelli con papà di Giorgio Achino “Barba Time, Mary!”, esclamo con gioia. Con pazienza infinita mia moglie gongola, mettendosi alla ricerca di un barbiere del posto. Nella maggior parte delle volte, però, accade che, gironzolando per la città in cui ci troviamo per le nostre meritate ferie, io rimanga folgorato da una vetrina tipicamente anni ’80. Per cui mi fermo, scruto, entro. Ed è sempre un tuffo nella memoria. Era così bello quando con papà andavamo a tagliarci i capelli. Lui era "Kociss", così veniva soprannominato, e credo che abbia tagliato i capelli a centinaia di migliaia di soldati che tra la metà degli anni '70 e '90 sono passati per "naja" nel mio paese. Era di statura medio bassa, pelato e con una grossa pancia. Procedeva con “lo scalpo” quasi meccanicamente e per questo era soprannominato come l'eroe del film western The Battle at Apache Pass, anno 1952. Era simpatico e con me portava molta pazienza visto la mia incapacità di stare fermo. Di per sé tagliarmi i capelli non era così piacevole visto che i miei riccioli non mi permettevano acconciature particolari. Ero invidioso delle soluzioni trovate dai miei amici dai capelli lisci: creste e contro creste, rasature azzardate e ciuffi particolari. Quello per cui, invece, adoravo andare da Kociss era perché mio padre si faceva fare la barba. Per me che avevo poco meno di 10 anni era un rituale magico, quasi una danza: per prima cosa il suo viso veniva avvolto da un asciugamano caldo per dilatare i pori della barba; poi il pennello deponeva la schiuma prodotta in un’apposita ciotola sul paffuto viso di papà. Ed ecco il rasoio la cui lama era tenuta tra pollice indice e medio, mentre il manico usciva tra anulare e mignolo. Non so se si possa racchiudere in una sola parola il suono che viene prodot-
to dallo scorrere della lama sulla pelle, ma è inequivocabilmente riconoscibile. Il rito si concludeva con la pulizia delle parti rasate, ma con un altro asciugamano, questa volta per coccolare i pori “violentati”. Ed infine il profumo vaporizzato con la grazia degna di Carla Fracci. In un gesto continuo la magia si concludeva quando papà veniva liberato dall’ultimo telo a sua protezione: devo essere sincero ho sempre sopportato poco quando le dita di Kociss si infilavano tra il mio collo ed il telo per chiuderlo quasi ermeticamente attorno a me. Credo che sia per questo motivo che mi piace ricercare il barbiere più vecchio (inteso come esercizio, ma le cose a volte coincidono) per riassaporare quei profumi, quelle sfumature cromatiche che solo in quei luoghi si possono vivere ancora. Generalmente i colori pastello la fanno da padrone e le sedie da barbiere sono almeno tre. L’ampia vetrina ha una porta d’entrata anche questa dal rumore evocativo di un tempo che non c’è più. La porta in lamiera non può essere sbattuta troppo forte perché altrimenti la vetrina del negozio sarebbe a rischio (già provata abbastanza dalle vibrazioni prodotte dal traffico). Alle pareti vi sono rigorosa-
mente affissi: almeno un poster di qualche prodotto per capelli oramai sgualcito dal tempo e che generalmente si trova sulla parete opposta agli specchi; una sciarpa della squadra di calcio locale in questo caso appesa sopra gli specchi; una fotografia di un parente più prossimo dal quale l’attuale gestore è stato a bottega. Quest'ultima, invece, è posta sopra la cassa. Non può mancare mai la foto di Padre Pio o della Madonna di ... (a seconda del luogo ne viene venerata
una con una denominazione diversa), che si può trovare vicino, ma più in alto rispetto alla foto del parente deceduto, oppure nella parte di muro che sorregge la vetrina, poco prima dell’angolo con la parete degli specchi. Infine l’immancabile calendario con i mesi scanditi dalle pose provocanti di qualche showgirl, unico tocco contemporaneo e che si rinnova di anno in anno. I suoni, i sapori ma soprattutto gli odori hanno un legame indissolubile con la nostra memoria. Per me, quindi, varcare quelle soglie è come attraversare una porta spazio temporale emotiva che mi riporta alla mia infanzia, abbandonandomi alla “sindrome della Madeleine di Proust”, facendomi coccolare dalla potenza dei ricordi evocati da questi luoghi, dallo sforbiciare dalle diverse tonalità a seconda della vicinanza all’orecchio, ma soprattutto al trattamento unico ed irripetibile ottenuto pronunciando le parole magiche: “Vorrei farmi fare barba!”. Per tre quarti d’ora ritorno bambino, esaudendo quel desiderio di sentirmi grande come il mio papà. Se chiudo gli occhi vedo ancora le mani curatissime e sento il profumo gentile di Kociss che ho ritrovato in Fabio di Galatina, Ettore di Nardò, del parrucchiere uomo di Poggio Mirteto oppure nel maestro di Ascoli da me soprannominato “Alì” perché, come il grande pugile quando si metteva in guardia, anche lui, prese le forbici in mano, il Parkinson lo abbandonava momentaneamente. E penso che era davvero bello andare dal barbiere con papà.
PANKAKULTURA
Giacomo Ragazzoni, mercante e diplomatico veneziano che segnò la storia di Sacile Vissuto nel Cinquecento, dal suo palazzo fece vivere alla città sul Livenza anni di lustro e fama di Selene Mazzocco La storia può prendere forme impreviste in una concatenazione di eventi, maggiori o minori che siano, in un fenomeno chiamato effetto farfalla. Esso è l’indice di come qualsiasi evento possa portare al capovolgimento della realtà. Un esempio locale è la vita di Giacomo Ragazzoni, mercante veneziano vissuto nel Cinquecento la cui esistenza ha inciso sulla forma attuale della città di Sacile, all'epoca sotto il governo della Serenissima. Ragazzoni, inoltre, ha favorito anche la nascita del tradizionale Christmas pudding, il dolce inglese consumato durante le festività natalizie caratterizzato da noci, frutta secca, spezie e uvetta: deteneva cioè il monopolio del commercio dell'uvetta passa, tra l'impero ottomano e l'Inghilterra, e per questo oltremanica diffuse questo ingrediente senza il quale il Christmas pudding non sarebbe stato inventato. Giacomo Ragazzoni nacque a Venezia nel 1528 da una famiglia di mercanti benestanti originaria di Valtorta, in Lombardia. Si distinse presto per l'acuta intelligenza e appena quattordicenne venne mandato a Londra dal padre per imparare l'arte della mercatura e seguire gli affari della famiglia. Si inserì presto nella corte inglese di Enrico VIII, re entrato nella storia per la istituzione della Chiesa d'Inghilterra, anglicana. Dopo la morte di re Enrico VIII venne instaurata la monarchia della cattolicissima Maria I Tudor. Al Ragazzoni venne proposto di partecipare come mediatore alle trattative matrimoniali della regina con l’erede al trono di Spagna Filippo II. Come segno di riconoscenza, dopo la sua investitura a regina, Maria I Tudor permise a Giacomo di inserire la rosa dei Tudor nell’araldo di famiglia. Rientrato in Italia, Ragazzoni ebbe una fruttuosa car-
riera commerciale e divenne pedina fondamentale della diplomazia estera della Repubblica Veneziana. Gli venne richiesto di viaggiare in gran segreto fino alla città di Costantinopoli, dove avrebbe dovuto negoziare e discutere la pace con il sultano Salim II, interessato all’annessione dell’isola di Cipro al suo impero. Lo storico incontro segreto tra le due fazioni si svolse nella città ottomana, dove Giacomo si presentò ricoperto di offerte d’oro per i ministri del sultano; i piani però ven-
l’immenso impero ottomano. L’oggetto del contendere erano le tratte commerciali che interessavano l’isola di Cipro strategicamente posizionata al centro delle stesse. Giacomo cedette le proprie navi alla causa cristiana, le stesse che poi vennero utilizzate per il commercio tra i possedimenti ottomani e quelli anglosassoni trasportando spezie, grano, alimenti ma soprattutto uva passa, di cui detenne il totale monopolio nel grande mare. Per il suo grande contributo nella battaglia
nero alterati dall’intrusione negli accordi da parte dello Stato Pontificio, il quale scoprì le reali intenzioni di Venezia, mirate a proteggere i propri interessi commerciali. In passato, gli ottomani erano noti per non rispettare le immunità diplomatiche, uccidendo i mediatori, ma Ragazzoni si salvò poiché il sultano stesso lo utilizzò come ambasciatore per portare a Venezia una dichiarazione ufficiale di guerra. Lo Stato Pontificio chiamò tutte le forze del mondo cristiano europeo a coalizzarsi in una lega militare per combattere la minaccia ottomana. La guerra trovò il suo culmine nella famigerata battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, che vide lo schierarsi della Lega Santa contro
di Lepanto, la Repubblica di Venezia concesse a Giacomo e suo fratello la nomina di conti di S. Odorico e il titolo di Contea per i territori sacilesi. Grazie a ciò, fu permesso a loro di possedere un posto nel parlamento friulano e di espandere i loro confini territoriali e politici. Finita la guerra Ragazzoni poté dedicarsi anima e corpo alla direzione dell’intensa rete commerciale e industriale per il rafforzamento della città di Sacile, e alla restaurazione del palazzo sulle sponde del Livenza, poi chiamato con il nome di famiglia. A palazzo vennero ospitati, sempre sotto la direzione della Serenissima, diversi personaggi di spicco dell’epoca. Famosa fu la visita di Stato di Enrico III di Valois, figlio di Ca-
terina de Medici, per il quale vennero organizzate sontuose feste che tennero piacevolmente occupato e intrattenuto il capo di Stato. Il monarca stesso omaggiò la famiglia Ragazzoni con l’onore di porre i gigli di Valois nello stemma araldico, già ornato della rosa dei Tudor. A Francesco Montemezzano, allievo del Veronese, fu affidato l’incarico di immortalare i momenti salienti della vita e della carriera dei fratelli Ragazzoni tramite un ciclo di affreschi ancora oggi ammirabile nella sala degli imperatori. La saga dei Ragazzoni si conclude con un’amara nota. Alla morte di Giacomo, le speranze familiari vennero riposte sul nipote, suo omonimo. Il ragazzo si distinse presto per la fama da enfant terrible partecipando a razzie e rapimenti e utilizzando il palazzo come ricettacolo delle sue malefatte. Presto venne costretto a nascondersi tra i boschi, per poi concludere la sua vita, e con lui il nome dei Ragazzoni, in una bettola mantovana. Appare evidente che se non fosse stato per il genio commerciale di Giacomo, in Inghilterra forse non degusterebbero il Christmas Pudding e soprattutto Sacile non sarebbe la perla che oggi possiamo ancora ammirare.
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
Vivere la morte di Antonio Loperfido, psicologo e psicoterapeuta La nostra cultura dimostra di avere un pessimo rapporto con la morte, perché l'omologa come nemica, come minaccia alla vita. Per un corretto uso del linguaggio bisognerebbe evitare di contrapporre la vita alla morte, e parlare piuttosto di nascita e di morte, come due importanti aspetti della vita. L’ingresso e l’uscita nell’esistenza terrena fanno parte entrambe del ciclo vitale. Nell’antichità il giorno della morte veniva chiamato il giorno natalizio, cioè il giorno della nascita, il passaggio dalla vita terrena al dormitorio (il termine cimitero deriva dalla parola greca koimêtêrion che significa dormitorio). In passato, il cimitero non aveva quell’aria funebre che normalmente ha, esclusivamente riservato ai morti; in esso era normale trovare botteghe e mercanti, ballerini, burattinai, ciarlatani e divertimenti vari, tant’è che nel 1231, il concilio di Rouen proibì di danzare nel cimitero, e un altro concilio, nel 1405 oltre la danza proibisce il cimitero ai giocolieri, ai musicanti, pena la scomunica. Il cimitero era simile ad una piazza del mercato dove la vita e la morte coesistevano. Oggi, la morte è completamente affidata alla medicina, all’industria farmaceutica, alla chirurgia plastica, con l’arduo compito di sconfiggerla. L’uomo vuole diventare immortale, allontanando con ogni mezzo l’incontro con la morte. Le biotecnologie, la genetica, l’informatica, l’Intelligenza Artificiale (I.A.), l’elettronica, la chimica, le scienze mediche e farmaceutiche mirano a prolungare oltre ogni aspettativa la durata della vita umana. Viviamo in quella che la sociologa canadese Céline Lafontaine ha chiamato “società post mortale”, dove le frontiere tra la nascita e la morte si confondono e si aggrovigliano, e gli uomini, come scriveva Blaise Pascal "non avendo potuto guarire dalla morte hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci più". In questa ricerca di eternità la morte rappresenta un ostacolo da superare ad ogni costo, anche andando contro le stesse leggi della natura. Per esempio, la fisica ci insegna che qualsiasi cosa esistente in natura, dal più minuscolo insetto al più imponente corpo celeste, sia ineluttabilmente desti-
nata a deteriorarsi e morire. Si può essere molto longevi, sopravvivere centinaia, migliaia o milioni di anni, ma non si potrà mai evitare di essere trasformati in qualcos'altro. Lo psichiatra francese E. Minkowski, nel suo libro dal titolo “Il tempo vissuto”, scriveva che: “La morte in quanto distruzione genera un divenire e non un essere... La morte è un fenomeno essenzialmente individuale... perché viene a perfezionare la nozione di individuo...è l'essere vivente che muore e per essere un essere vivente, cioè un essere che sia vissuto, che abbia una vita dietro a sé, bisogna essere mortali”. Ai giorni attuali si sta facendo di tutto per far morire la morte: la biogenetica sta cercando di creare la vita, l’ingegneria geriatrica e la medicina rigenerativa cercano di allungarla il più possibile. Oggi non si muore più, si muore per malattia, per incidente, per vecchiaia, si muore per la guerra, si muore sempre per una causa. Anche la morte è considerata una malattia e, come tale, deve essere sconfitta dalla biomedicina. Questo tentativo di uccidere la morte modifica anche il concetto del tempo, riportandolo al qui ed ora, ad un eterno presente, dove non trovano più significato le stagioni della vita. Dallo stesso corpo si fa di tutto per eliminare le tracce dello scorrere dei giorni. Si vedono corpi al silicio, corpi con innesti di organi artificiali simili ai cyborg. Uccidendo la morte si uccide anche il concetto di futuro. Pensare al futuro, alle generazioni future, significa pensare alla propria morte per lasciare spazio agli altri, significa lasciare il posto ad un altro essere umano. Invece, l’idea dell’uomo post mortale è quella dell’uomo assoluto, libero da ogni legame, individualista, che ricerca la propria realizzazione e il proprio godimento, che tende verso una vita individuale sempre più lunga e sana, nella sostanziale indifferenza verso l’altro. Nel passato, la morte era l’ultimo gesto d’amore dell’individuo nella sua esistenza terrena, significava “regalare” ad altri la propria morte, la propria storia, la propria esperienza, il proprio posto, offrendo un senso che gli altri potessero accogliere.
“Nulla si crea e nulla si distrugg
In cerchio senza giudicare, gruppo di auto mutuo aiuto in sede Loperfido a I Ragazzi della Panchina: «Che cos'è per voi la morte?». Una prima esperienza per l'associazione e tante riflessioni sul tema di Milena Bidinost Se c'è qualcuno che vive decisamente "vicino" alla morte è colui o colei che fa uso di sostanze, succede continuamente. Parliamo quindi di cosa rappresenta per noi, Ragazzi della panchina, la morte. Lo facciamo in un luogo protetto, tranquillo, in cerchio e con due regole da seguire: non si giudica e non si commentano gli interventi degli altri. Su tutto prevalgono la condivisione della propria filosofia della morte e l'ascolto di quella altrui. Giungere a una verità assoluta è impossibile e, soprattutto, non interessa. Che cos'è dunque per ciascuno di noi, perché cercarla, perché temerla? La domanda prova a rompere il ghiaccio di un primo incontro- esperimento che si tiene sul tema della "morte" nella sede dell'Associazione. A condurlo è Antonio Loperfido, psicologo e psicoterapeuta con una lunga esperienza sul tema, formatore e supervisore di gruppi di auto mutuo aiuto. «Sono figlio dei libri, sui quali ho studiato, ma soprattutto dei miei pazienti che ho ascoltato e dai quali ho imparato a conoscere la morte», esordisce, guardando uno a uno noi partecipanti al gruppo. «Per me la morte non esiste - prosegue Loperfido -, credo invece in un processo di trasformazione. La morte la immagino nel non essere più nel pensiero degli altri che mi hanno conosciuto». Poi il giro di interventi inizia e il tema che abbiamo deciso di trattare assieme ai nostri "ragazzi e ragazze" comincia ad assumere tante sfaccettature. La privacy è un'altra regola del gruppo e la rispetteremo anche in questo caso, scegliendo di usare nomi di fantasia. La prima persona che interviene per dire la sua filo-
sofia è Anna, per lei «la morte è come un lasciarsi andare, una salvezza; suppongo che la morte sia la risposta a tutto, ma quotidianamente scelgo la vita tenendomi occupata», dice. Raffaele non usa tanti giri di parole, ha le idee chiare: «Quando una persona muore, non deve morire dentro di sé anche un'altra persona a causa della sofferenza. Ho perso mio nonno, ma ero concentrato su un progetto e sono rimasto proiettato sul mio futuro». Per Lucia «la morte esiste perché esiste la vita, sono preparata alla mia morte - sostiene - ma provo rabbia quando colpisce i più giovani che non hanno vissuto». Qui Loperfido, accompagnando la riflessione, interviene facendo notare che "porre l'argomento sul piano della giustizia è qualcosa di esplosivo". Osserva inoltre come a esempio «nei gruppi di auto mutuo aiuto capita spesso che nei confronti di persone che fanno uso di sostanze si provi rabbia, quasi si pensasse che loro si meritino di morire mentre altri no, eppure non è così». Ce lo insegna la stessa morte del resto che non è una questione di meritocrazia. La morte non «non ti giudica, ma ti accoglie». Per contro in chi la sfiora ogni giorno, consumando sostanze, come fa notare Luisa, «il bisogno di essere fatto è molto più grande della paura di morire, anche perché non pensi mai che possa accadere a te». Eppure in questi casi non esiste una sequenza certa di comportamenti che ti garantisce il premio di non morire. Lo sa chi come Giovanni ha visto morire di overdose. «Ho visto morire un amico - racconta - e non ho potuto fare nulla, perché non sapevo cosa fare. Ho sensi di colpa, vedere una
persona morta è una cosa, vederla morire è un'altra. La morte ti mette di fronte al tuo limite e ti fa sentire impotente».
Insieme è meglio, i gruppi di auto mutuo aiuto per l'elaborazione del lutto a Pordenone Il gruppo “Dal dolore al colore” Il gruppo per i “Sopravvissuti al suicidio di un proprio caro”, “Dal dolore al colore”, nasce nell’ottobre del 2004 presso la sede del Dipartimento di Salute mentale di Pordenone. Esso si rivolge a persone che hanno avuto un familiare o conoscente suicida, che hanno tentato il suicidio, che esprimono idee suicidarie e a persone che non riescono più a intravedere un motivo per vivere. Per le tematiche che si affrontano, il gruppo richiede quasi sempre la presenza di un “conduttore” (psicologo, medico, infermiere). Esso si incontra ogni quindici giorni presso la sede del Centro di Salute mentale di Pordenone, in via Martiri Concordiesi n°1, dalle ore 18 alle ore 19.30. Il gruppo è costituito da un numero di persone che varia da dieci a quindici, e rappresenta il luogo per uscire dall’isolamento, dalla depressione, dal vittimismo, dai sensi di colpa e dallo stigma. Referenti: Caterina, cell. 3201167186 - Francesca, cell. 3421475500. Il gruppo “Farfalla”, nato nel 2005 all’interno dell’Hospice “Il gabbiano” dell’AsFO, situato presso l’Ospedale di S.Vito al Tagliamento, opera a Pordenone dal 2017 presso la sede dell’Associazione “Giulia”, in via S.Quirino n°5. Esso si configura come uno spazio d’incontro, guidato, dove dedicare del tempo per l’elaborazione del lutto. Il gruppo è aperto a chiunque abbia vissuto, recentemente o meno, la perdita di un proprio caro e senta il bisogno di condividere, in un clima di ascolto e di rispetto, il proprio dolore, cercando insieme a persone che vivono o hanno vissuto la medesima esperienza, le risorse e le strategie per affrontarlo o trasformarlo. Inoltre, il gruppo offre conforto e incoraggiamento; l’esperienza di ciascuno diventa motivo di riflessione e di approfondimento utile a tutti. Il gruppo si incontra una volta al mese, dalle ore 18 alle ore 19.30, ed è condotto dal dottor Antonio Loperfido, psicologo-psicoterapeuta, dalla dottoressa Arianna Pezzutto, psicologa-psicoterapeuta, e da Ketti Liut, coordinatrice e referente del gruppo, alla quale vengono indirizzate tutte le richieste di partecipazione al gruppo (cell. 333 1072740). I corsi sono coordinati dallo psicologo e psicoterapeuta Antonio Loperfido, che da anni si occupa di tematiche inerenti la fine della vita e il lutto. Loperfido è stato dipendente dell’AsFO (Azienda sanitaria Friuli Occidentale), responsabile della Struttura semplice “Attività territoriale psichiatrica area periferia”, afferente alla struttura complessa del Centro salute mentale. E' autore di numerosi libri sul tema.
ge, tutto si trasforma”
Antoine Lavoisier
Il ricordo, la rabbia, la mancanza «La morte ha portato via i miei sogni, i miei progetti. Mio padre era il mio migliore amico» di Giulia Il mio nome è Giulia, da poco ho compiuto diciotto anni e frequento l’ultimo anno di liceo scientifico. Quattro mesi fa è deceduto il mio adorato papà. Un tumore al fegato se l’è portato via a soli cinquant’anni. È successo nel giro di due soli mesi. Ancora oggi ho l’impressione che mio padre debba ritornare da un momento all’altro, che sia andato via per lavoro. In casa, tutto ciò che appartiene a mio padre è rimasto al suo posto. Anche quando apparecchio la tavola mi viene spontaneo apparecchiare non solamente per mia madre e per me ma anche per lui. Mio padre, per me, era tutto: la gioia, la forza, il coraggio, la tenacia, il sostegno, era anche il mio migliore amico, il mio confiden-
te, il mio compagno di giochi, come ci piaceva dire quando facevamo scherzi a mia madre. Anche se qualche volta litigavamo, alla fine riuscivamo sempre a far pace. Lui mi incoraggiava sempre, era sempre presente nella mia vita. Adesso incomincia il ricordo. A volte sento di non poter vivere senza di lui, sento che il dolore, generato dalla sua assenza fisica, prende il sopravvento e mi distrae dai miei impegni scolastici. Mi assale un profondo senso di sconforto. Il problema è adesso. Studio senza neppure riuscire a concentrarmi, non riesco a gestire le mie crisi di pianto, sempre più frequenti. Percepisco insormontabili tutti i problemi e le difficoltà che prima mi sembravano nor-
mali. Mi sento rabbiosa, specialmente nei confronti della vita, del destino, a volte dello stesso Dio che mi ha portato via la persona più cara della mia esistenza. La rabbia aumenta quando penso che mio padre non sarà mai presente nei momenti più importanti della mia vita, quando lui non potrà condividere con me la gioia di quando mi diplomerò, di quando mi laureerò, di quando incomincerò ad avere le mie soddisfazioni professionali, di quando diventerò mamma e lui non potrà essere il nonno dei miei figli. La morte ha portato via i miei sogni, i miei progetti. In passato, qualche volta immaginavo il giorno del mio matrimonio, io vestita da sposa e mio padre che
mi accompagnava all’altare. Ora, tutto è cambiato. So che mio padre vive e vivrà per sempre in me, qualche volta gli parlo già, ma non è come quando lo potevo vedere, toccare, abbracciarlo, sentire il profumo del dopobarba, il tono della sua voce. Mi manca già il suo amore per me, la sua protezione, il suo conforto. Sta già aumentando la mia sete fisica di lui, il desiderio di averlo vicino per potermi ancora confrontare sui miei dubbi, sulle prossime scelte di vita che dovrò fare, già quanto concluderò il liceo. Di tanto in tanto mi viene l’angoscia generata dal fatto che penso che non sarò più pensata da lui. Adesso mi sento responsabile anche della vita di mia madre, che non voglio lasciare da sola, che vedo completamente persa e disorientata. Spesso trattengo le lacrime per farmi vedere coraggiosa ai suoi occhi, per non mostrare la mia paura di vivere, per aiutarla a non scoraggiarsi, ad andare avanti. Sento che ora non solo dovrò prendermi cura di lei ma, ancor di più, di me stessa.
La morte in versi, com'è nata la storia dei Ragazzi della Panchina Il 10 ottobre 1995 l'evento che dette inizio a tutto Ospite d'eccezione il poeta Andrea Zanzotto di Milena Bidinost «Negli anni Novanta imperversava l'epidemia di Hiv e non esistevano ancora terapie per fermarla. Pordenone era una delle città in Italia con il più alto tasso di decessi per Aids in proporzione agli abitanti. Paura e un senso di profondissimo abbandono credo fossero le emozioni dominanti, finché qualcosa non cambiò e ai funerali carbonari, dai quali la gente si teneva lontana, cominciarono a seguire momenti ai quali anche la città cominciò a partecipare. Cos'era successo? La poesia era riuscita ad abbassare i muri, facendo incontrare le persone, scavalcando il pregiudizio. Successe il 10 otto-
bre 1995, una data che dette inizio alla storia dei Ragazzi della Panchina». A raccontare è Alessandro Zamai, in quegli anni medico del Sert, il Servizio per le tossicodipendenze dell'Azienda Sanitaria di Pordenone, e oggi uno dei testimoni di un'epoca che fu rivoluzionaria. Da lì nacque il modello, unico in Italia, de I Ragazzi della Panchina, esperienza che fece parlare e riflettere la politica nazionale e il mondo accademico sul tema dell'Hiv e della tossicodipendenza da una prospettiva diversa. Nel 1995 nacque in particolare l'amicizia tra questi ragazzi, un gruppetto di "tossicodipendenti" che si riuniva in via Monte-
reale intorno alla panchina rossa che si trovava all'uscita dall'ospedale civile, e il compianto Andrea Zanzotto, sommo poeta di Pieve di Soligo, quell'anno candidato al Nobel per la letteratura. Il 10 ottobre Zanzotto "presentò" questi ragazzi alla città nel primo incontro pubblico organizzato dal gruppo. Il tema non fu scelto a caso, si parlò della morte. Lo strumento con cui venne affrontato fu la poesia, ovvero dieci componimenti che Zanzotto aveva scritto per persone che ne s'erano andate. «Parlare della morte attraverso la poesia - osserva Zamai - fu un'intuizione che cambiò il modo di leggere la storia di questi
ragazzi fino ad allora vissuta dalla cittadinanza come una storia a parte: quell'incontro toccò le corde della sensibilità delle persone e creò un'apertura da cui scaturì una diversa mentalità. Tantissime persone erano venute ad ascoltare Zanzotto e le sue poesie, ma ciò che fu straordinario è che con lui c'erano anche i nostri ragazzi, per la prima volta in un evento pubblico. I ragazzi della panchina avevano trovato nella cultura il modo per dialogare con la città e per iniziare quel percorso di integrazione con essa che continua tutt'ora e che in quel momento storico rappresentava un'assoluta novità».
... per i più piccoli
Le fiabe per raccontare con delicatezza la morte ai bambini «I piccoli non vanno lasciati soli davanti ai lutti della vita, ma accompagnati a parlarne» di Daniela Dose Si può parlare della morte ai bambini? E se sì, come? È questo un argomento molto delicato e purtroppo di estrema attualità, sia per l’esperienza della pandemia, sia per le notizie che arrivano attraverso i mass media sulle guerre che inevitabilmente comportano violenze, morte e distruzione. Fino a trent’anni fa era ancora usanza, soprattutto nei paesi di campagna, vegliare il defunto in casa. Questo permetteva ai bambini un approccio familiare e spontaneo con la morte. Oggi le abitudini sono cambiate: il saluto ai defunti si fa nelle cappelle mortuarie degli ospedali. Inoltre, spesso si evita di parlare della morte ai bambini, ma in questo modo si viene a creare una sorta di tabù. Li si vorrebbe proteggere e invece
li si lascia soli. I bambini infatti, vengono a contatto con la morte inevitabilmente, basti pensare alle notizie alle quali sono esposti tutti i giorni. Diverse ricerche hanno stabilito che il bambino intuisce cosa sia la morte già a 3 anni, ma è solo intorno ai 7 anni che ne capisce anche le conseguenze, cioè l’irreversibilità dell’evento. Fino ai 7 anni il bambino pensa difficilmente alla propria morte, tuttavia prova angoscia e paura per la separazione che essa comporta. Dopo i 7 anni (cioè dopo il superamento della fase del pensiero onnipotente), ma forse anche prima, teme la morte anche per sè stesso e prova angoscia relativa a possibili aggressioni. È bene essere sinceri con i bambini, dire loro ciò che accade. A 3-4 anni,
se pensano che il nonno si sia addormentato, tuttavia capiscono che si è "allontanato”, che non c’è più e ne soffrono. Parlare con i bambini significa non lasciarli soli davanti agli eventi luttuosi, sia famigliari che sociali. Parlare con sincerità ai bambini è la strada vincente, ma senza gettare su di loro il proprio dolore o sgomento. È l’adulto che contiene le forti emozioni del bambino. Se il piccolo si sente accolto e accompagnato nei suoi sentimenti di paura, può trovare la strada per capire i propri vissuti . In questo modo si rielaborano esperienze e sentimenti che potrebbero essere anche traumatici. Anche le fiabe hanno un ruolo importante in questo dialogo tra adulti e bambini. Per la sua stessa natura narratologica
Parlare di lutto con i più piccoli, la letteratura ci viene in aiuto Ma quali libri? Per rispondere alla domanda "quali libri leggere per spiegare la morte ai bambini", la bibliografia oggi a disposizione da riportare sarebbe lunghissima. Abbiamo perciò selezionato alcuni testi e albi illustrati che riteniamo validi, attraverso i quali è possibile accompagnare i bambini, figli e nipoti, sul tema del ciclo della vita e dell’elaborazione del lutto. Prima di parlare con i bambini è però fondamentale essere in grado di spiegare la morte a se stessi, cercare di capire cosa rappresenta per noi. Per questo primo passo consigliamo: - R.Vianello, M.L.Marin, La comprensione della morte nel bambino, Giunti Barbera - Tiziano loschi, I bambini e le paure, Cappelli editore - Margot Sunderland, Raccontare storie aiuta i bambini, Erickson Da leggere assieme ai bambini invece: - Carmen Valentinotti, Fiabe toccasana, edizioni Red - Daniela Dose, Matilda e il coronavirus, edizioni Segno Fiabe sulla morte: - Sarolta Szulyovszky, Nonna nivea e il fiore riconoscente, Editrice Leonardo - Christian Voltz, La carezza della farfalla, edizioni Arka - Anna Lavatella, David Pintor, La nonna in cielo, Edizioni Lapis Fiabe sulla guerra - Nicola Davies, Rebecca Cobb, Il giorno che venne la guerra, Nord-Sud Edizioni
la fiaba è un testo che “parla alla finestra per parlare alla porta”. Attraverso i personaggi della fiaba il bambino può identificarsi con l’eroe, con la vittima, o rimanere semplice spettatore. Questo processo di identificazione è molto positivo perché permette al bambino di esterne rare i suoi sentimenti. Grazie alla fiaba inoltre, il bambino scopre che c’è sempre una soluzione, che c’è un modo per risolvere i problemi, e che quasi sempre questa soluzione è positiva . Non importa se si arriva alla soluzione attraverso la magia, il percorso esiste ed è questo che parla al bambino. Biancaneve torna alla vita con un bacio. Che significato può avere? Non sarebbe meglio la realtà? Cioè che non si torna in vita dopo la morte? No. È il bambino che elabora i significati e ciò che lo aiuta nel percorso di accettazione della “realtà”. Ci sono moltissime fiabe, oltre a quelle classiche, che parlano della morte, e lo fanno con delicatezza e maestria. Ho potuto osservare direttamente come i bambini, dopo aver ascoltato queste fiabe, con semplicità abbiano poi parlato della loro esperienza di perdita di figure care. Ed esplicitare i traumi significa già rielaborarli.
PANKA NEWS
Overdose, come si può prevenire Dai farmaci da somministrare agli atteggiamenti da tenere, partendo dall'essere informati e dall'abbandonare il giudizio di Giorgio Achino Overdose, la si può prevenire, la si può combattere? Secondo quanti come noi de I Ragazzi della Panchina lavorano nella riduzione del danno, la risposta è sì! Le condizioni necessarie per affrontare questo fenomeno sono tenere sempre in primo piano il valore della persona, cercare di capire sempre meglio il fenomeno del consumo e scrollarsi di dosso quell’atteggiamento giudicante che allontana il contatto umano. È necessario trovare un focus d’intervento capace di agire contemporaneamente a più livelli, che si spogli dei toni dell’emergenza e che si concentri sulle persone, smettendo di stigmatizzare chi usa sostanze e coinvolgendo direttamente i consumatori che sono i primi a intervenire per salvare la vita di chi va in overdose. Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza su questo fenomeno che, come ogni situazione legata all’essere umano, porta con sé un bagaglio di complessità enorme. Attualmente i numeri ci dicono che in Italia i casi di overdose sono sotto la media europea e mondiale, ma la nota dolorosa riguarda il nostro Nord-est. Anche la nostra associazione, I Ragazzi della Panchina, negli ultimi mesi è stata segnata da due morti per overdose di altrettanti nostri ragazzi: quanto successo ha profondamente scosso il gruppo, motivo per il quale riteniamo sia necessario torna-
re a parlare dell'argomento. L’overdose può essere provocata da molte sostanze, ma è fondamentalmente legata all’eroina e ai mix ad essa collegati. I sintomi sono depressione respiratoria, miosi, diminuita temperatura corporea, diminuzione della pressione e della frequenza cardiaca, fino al raggiungimento di shock e coma che possono portare alla morte se tempestivamente non vengono somministrati antagonisti dei recettori oppioidi (Naloxone, Narcan). Ciò comporta che il primo rischio da eliminare è quello di non essere mai da soli quando si consuma. Molti di voi potrebbero sostenere che il primo rischio da eliminare sia lo stesso consumo di sostanze ma, se ci pensate bene, capirete quanto sia impossibile eliminare qualcosa che è vecchio quanto l’uomo. La somministrazione tempestiva di questi farmaci da parte dei soccorritori diventa dunque fondamentale. Rispetto agli anni Novanta sono stati fatti notevoli passi in avanti, il numero di overdose mortali è notevolmente diminuito grazie agli interventi di riduzione del danno e soprattutto ad un diverso stile di consumo delle sostanze in generale. L’Italia è un paese nel quale il Naloxone è farmaco da banco e quindi potenzialmente accessibile a chiunque, ma il suo accesso non è così semplice. Le complicazioni per ottene-
re il farmaco salvavita sono molteplici e spesso basate su un retaggio culturale. Non tutte le farmacie ne sono dotate e, purtroppo, non sono rare le farmacie che lo consegnano solo su prescrizione medica. Contemporaneamente, all’emergere delle sintomatologie tipiche dell’overdose in una persona, emergono altrettante situazioni e risposte comportamentali disfunzionali di chi è coinvolto nella situazione stessa. Il panico è una di queste. Il non saper cosa fare o la paura di conseguenze (legali) che appaiono inaffrontabili generano fughe e conseguenti abbandoni della vittima di overdose. Questo comportamento è dovuto ad uno stigma sociale attribuito al consumatore, ma soprattutto alle conseguenze legali nelle quali potrebbe incorrere anche chi chiama i soccorsi. La ratio della legge attuale crea un impedimento in chi, pur di non incorrere in sanzioni amministrative o in proble-
matiche familiari e lavorative, evitando il coinvolgimento mette a rischio la vita di una persona. Proprio per questo motivo e, seguendo gli ottimi risultati americani, Itardd e Itanpud (rispettivamente Rete Italiana Riduzione del Danno e Rete Italiana Consumatori di Sostanze) stanno lottando per l’approvazione del testo di legge cosiddetto “del buon samaritano” che considera proprio la condizione per la quale chi chiama i soccorsi non venga coinvolto nelle indagini come invece attualmente accade. Altro aspetto fondamentale è il numero non quantificabile dei consumatori cosiddetti sommersi e come tali non a contatto con la circuitazione sanitaria pubblica o privata. Questa tipologia di target dovrebbe essere quella maggiormente informata e messa a conoscenza delle pratiche di salvavita. Ultimo punto da tenere in considerazione è il vissuto di chi riesce a salvarsi da un’overdose. Infatti, il funzionamento dei meccanismi dell’overdose prevede che lo stato di incoscienza sopraggiunga subito dopo a quello del piacere, non lasciando nessun tipo di ricordo di malessere nella persona che, pur risvegliandosi in ospedale ,non ricorderà di essere andato vicino alla morte. È probabile che questa tipologia di consumatori sia fortemente a rischio di una successiva overdose, purtroppo fatale.
I fattori di rischio nell’overdose • • •
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Eroina usata per via endovenosa La convinzione che capiti solo agli altri Riprendere il consumo dopo un periodo di sospensione (ospedale, comunità, vacanze..) la capacità di tolleranza del corpo alla sostanza diminuisce con l’aumentare della sospensione; L’assunzione in solitaria o in posti poco visibili Un mix di sostanze aumenta il rischio (es. il pericolo di consumare alcol e eroina insieme è molto sottovalutato) Il cambio di fornitore; Il cambio di città L'assunzione fumata è meno pericolosa, ma non la esculde
Se sei un consumatore • • • •
Non consumare da solo Porta sempre con te una fiala di Naloxone/Narcan In caso di emergenza chiama il 112 Somministra il Naloxone/Narcan seguendo le istruzioni se qualcuno è in overdose
INVIATI NEL MONDO
Nel cuore della Russia del 1993 A due anni dalla dissoluzione dello Stato sovietico, in un paese alle prese con la crisi economica e la povertà. Viaggio nei ricordi, tra foto ingiallite e persone generose mai dimenticate di Enri Lisetto Quasi trent’anni fa. Erano i primi giorni di maggio 1993 quando ebbi l’occasione di recarmi nella Russia appena uscita dalla dittatura comunista. Fu grazie a un roveredano, Gaspare Chiaradia, che aveva mobilitato le diocesi di Pordenone e Bari per fare avere una reliquia di San Nicola alla chiesa russa. L’evento ebbe rilevanza sui media russi, compresa la radio di Mosca e la famosa Pravda. Con il placet dei rispettivi vescovi, monsignor Mario Del Bosco, parroco di Roveredo in Piano, e monsignor Antonio Talacci, parroco della Madonna del Rosario di Bari, portarono la reliquia a Volzhsk, città di 65 mila abitanti sulle rive del Volga, oggi moderna e industriale, che si trova a 800 chilometri da Mosca. Con loro, otto laici, io compreso. Alle stazioni eravamo accolti dai canti dei bambini, nei paesi dai sindaci e dalla banda musicale, e poi ospiti nelle famiglie del posto. Che ne sarà stato di tutte queste tanto povere quanto buone e generose persone? Riapro una busta ingiallita dal tempo: contiene alcune foto e degli appunti. Mi tornano in mente quelle strade con buche profonde percorse per ore e ore, seguiti discretamen-
te da un paio di uomini che non ci lasciarono mai, la gente che si spostava a piedi o con i malandati mezzi pubblici della Repubblica Mariskaja, le automobili più nuove e frequenti che erano le nostre vecchie Fiat 124, le centinaia di motocarrozzette biposto. Là, in quella cittadina che avevamo raggiunto dopo un giorno e mezzo di viaggio in treno da Mosca, il disgelo tra chiesa cattolica e ortodossa aveva compiuto un grande passo in avanti. «Fino a poco tempo fa – ci disse il sindaco Victor Ivanovich Gavrilov – alimentare il popolo era compito dello Stato, mentre oggi che non è più così è logico che abbiamo dei problemi. In questi momenti la gente ha bisogno di credere in qualcosa e allora dà molta importanza alla religione». Così fu costruita una chiesa dedicata a San Nicola. La cerimonia di consegna della reliquia nelle mani del vescovo di Kazan Anastasio fu solenne e durò ben quattro ore. Il giorno dopo, alla festa nazionale della Vittoria parteciparono il sindaco, i reduci, la banda e sei soldati della Marina russa. Centinaia di ex combattenti salirono gli scalini del monumento e deposero tanti tulipani da coprire tutto il piazzale. Per la prima volta dopo 75 anni si poté svolgere all’aperto anche la cerimonia religiosa. Alla stazione i saluti: i bambini ci donarono un rublo (allora equivalente a due lire), qualche fiore di campo, caramelle, a me
persino una gallina. Un giornalista russo mi consegnò una spilla a forma di bandiera rossa sulla quale era raffigurato Stalin. «L’ho portata per tanti anni, ora portala tu», mi disse. Il viaggio della delegazione italiana proseguì in forma privata. Nei cimiteri, accanto alle tombe – segnate da una croce per i defunti cristiani e da una stella per quelli atei – c’erano tavolini per una sorta di picnic con i propri cari. Alcuni giovani pranzavano in cerchio, su una coperta dove al centro erano disposti un pezzo di pane, della vodka e due pacchetti di sigarette. Una notte soggiornai in una piccola baita in legno di una generosa famiglia che sfortunatamente aveva in “casa” un defunto. Lo spazio era talmente esiguo che la bara, aperta, era collocata parallelamente al tavolo della cuci-
na. Ricordo una donna che con una mano teneva il mestolo per mescolare la minestra e con l’altra accarezzava e alzava (ma perché!) il capo del defunto. Rimasi molto impressionato – avevo vent’anni ed ero al primo viaggio all’estero senza familiari – e chiesi al parroco di cambiare casa: non si poteva, non sarebbe stato educato. Un’altra sera soggiornammo in un hotel in mezzo alla foresta. Era l’unica struttura, fuori dalla stazione. Le porte delle stanze erano prive di serratura: dormii dopo avervi appoggiato contro l’armadio e tenendo i soldi in una sacca che la nonna aveva cucita all’interno della maglietta della salute per quel viaggio. Lasciando alle spalle decine di chilometri di boschi e un asfalto che sembrava gruviera, arrivammo a Jaskarola, capitale della Repubblica di Mariskaja (23 mila chilometri quadrati, il 49 per cento dei quali coperti da boschi), dove si stavano rifacendo le strade: un gruppetto di donne, con la pala in mano, scaricava il catrame dai camion per coprire le profonde buche. Tanti condomini costruiti con materiali poveri e scalini diversi l’uno dall’altro. A Mosca invece la povertà della provincia sembrò perdersi tra il traffico cittadino e la gente che brulicava nelle strade. I supermercati erano semivuoti: pochissima carne, un po’ di pesce, ma patate in abbondanza. La pasta aveva un costo proibitivo. Il rublo si svalutava di giorno in giorno: al nostro arrivo un dollaro ne valeva 840, alcuni giorni dopo 990. All’aeroporto, per rientrare su Milano e poi su Venezia, le ultime difficoltà. Chi offriva una sigaretta alle guardie di frontiera passava velocemente, altrimenti scattava la minuziosa perquisizione. (in foto: Lisetto è il primo a destra)
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"Il Maestro e Margherita" Attraverso la figura del diavolo Bulgakov descrive l'inferno degli anni Trenta a Mosca di Claudio Pasin Michail Bulgakov nacque a Kiev nel 1891, medico, drammaturgo e scrittore fu l’autore di “Il Maestro e Margherita”, romanzo che gli assicurò fama immortale, anche se fu pubblicato nel 1967 a quasi trent’anni dalla sua morte avvenuta nel 1940. Siamo nella Mosca post-rivoluzionaria e l’odissea che accompagna la stesura di questo romanzo satirico è notevole, verrà infatti scritto e riscritto, cambierà titolo più volte e addirittura bruciato per essere riscritto a memoria. L’autore ci lavorerà fin sul letto di morte, dando al romanzo una struttura altrettanto tortuosa. Il Maestro, ad esempio, entra in scena solo nel tredicesimo capitolo. Attraverso l'affascinante figura del diavolo, Bulgakov ci descrive l'inferno degli oppressi-
vi anni Trenta della dittatura staliniana. L'assoluto protagonista, Woland, si nutre delle meschinità dell'uomo e, in un incalzante show, le dileggia, le mette a nudo e le castiga, ma il tratto che lo contraddistingue non è levantino come la tradizione popolare vorrebbe. Woland è equanime e corretto, arrivando a sopperire alla mancanza di misericordia di Dio nei confronti di Margherita e del Maestro non pienamente degni della sua luce, come quando Levi Matteo, portavoce divino, invita Satana a prendere con sé il maestro. “Non starò a discutere con te, vecchio sofista", rispose Levi Matteo. “Non potresti comunque discutere con me, per la ragione che ti ho detto: sei stupido,”
rispose Woland, e domandò: “Allora, sii breve, non mi estenuare, perché sei venuto?”. “Mi ha mandato lui.” “Che cosa ti ha ordinato di dirmi, schiavo?” “Non sono uno schiavo”, rispose Levi Matteo, sempre più ostile, “io sono il suo discepolo.” “Noi due parliamo lingue diverse come sempre,” ribatté Woland “, ma non per questo le cose di cui parliamo cambiano. E quindi?...” “Ha letto l'opera del maestro”, disse Levi Matteo, “ e ti chiede di prendere con te il maestro e ricompensarlo con la pace... O ti sarà difficile farlo, spirito del male?” “Per me non c'è niente di difficile,” rispose Woland, “lo sai bene”, tacque un momento e aggiunse: “E perché non lo portate con
voi, nella luce?”. “Non ha meritato la luce, ha meritato la pace”, disse Levi con voce dolente. “Riferisci che sarà fatto,” rispose Woland, e aggiunse, mentre il suo occhio fiammeggiava: “ e lasciami all'istante ”. Il magazine online Flavorwire inserisce "Il Maestro e Margherita" anche nella lista dei dieci migliori libri in cui compare il diavolo e quella dei cinquanta libri da leggere. Inoltre a questo intrigante personaggio, Woland, è ispirata la famosissima e bellissima canzone dei Rolling Stone “Sympathy for the Devil”, uscita nel 1967 . E alla scena di Margherita che vola su Mosca, nuda a cavallo dello spazzolone, si sono ispirati nel 2003 i Franz Ferdinander per la loro “Love and destroy”:
PANKA AMBIENTE
Il grido d'allarme dei fiumi «Non possiamo continuare a sfruttare e inquinare fino all'ultima goccia delle nostre acque» di Elisa Cozzarini Quasi nessuno sa dove nasce il Noncello. Google maps posiziona la sorgente, erroneamente, presso la piscina di Cordenons. Invece è leggermente a monte. La siccità di quest'anno, però, ne ha prosciugato la olla principale, stretta tra le case e invasa dai rovi in via Rigolo, senza neanche un cartello. Si fa fatica a seguire da terra il corso del fiume: ci si avvicina a tratti, ma si incontrano ostacoli di ogni tipo, dovuti al fatto che i privati si sono appropriati delle sponde, senza lasciare libero il passaggio, come sarebbe obbligatorio per legge lungo i corsi d'acqua, oppure la vegetazione non è gestita in modo corretto. Il tratto più bel-
lo e fruibile è quello del parco del Seminario, a Pordenone, un pezzo di natura che si incunea nel paesaggio urbano. Un esempio di come i fiumi, rinaturalizzati, possono diventare parte integrante delle città e delle nostre vite. La siccità degli ultimi mesi suona come l'ennesimo grido di allarme: non possiamo continuare a sfruttare e inquinare fino all'ultima goccia delle nostre acque, dimenticando che i fiumi sono ecosistemi complessi e dinamici, pieni di vita, che solo per il fatto di esserci, offrono diversi vantaggi a noi umani. Si parla di "servizi ecosistemici", cioè quei benefici che traiamo, gratuitamente, dalla natura, come la capaci-
tà autodepurativa dei fiumi. A livello comunitario, la Direttiva Acque 60 del 2000 chiedeva il raggiungimento dello stato di qualità ambientale buono per tutti i corpi idrici entro dicembre 2015. Da tempo, quel termine è scaduto, rinviato, mentre ancora meno della metà dei corsi d'acqua europei raggiunge l'obiettivo di qualità. Non è solo la siccità il problema, quindi. «L'acqua non è un prodotto commerciale al pari degli altri, bensì un patrimonio che va protetto, difeso e trattato come tale. Le acque comunitarie subiscono pressioni sempre maggiori a causa del continuo aumento della domanda di acqua di buona qualità in quantità sufficienti per qualsiasi utilizzo», si legge nel preambolo della norma europea, scritto alla fine degli anni Novanta.
Figuriamoci adesso! Con la nuova Strategia europea per la Biodiversità al 2030, l'Europa chiede la rinaturazione di 25.000 chilometri di corsi d'acqua: un altro appello per i fiumi. In Italia potrebbero essere 1.600 km, dove attuare interventi di ingegneria basata sulla natura, partendo dalla rimozione delle moltissime barriere obsolete, riconnettendo le sponde, gestendo la vegetazione riparia in modo oculato. Così facendo, si riporterebbero le persone a contatto con i corsi d'acqua, per il benessere umano e quello dell'ambiente.
L'INTERVISTA
Oltre il cancro con il sitting volley «Da anni vivo sul filo del rasoio: giocare a pallavolo per me fa la differenza tra vivere e sopravvivere» di Mia Camilla Lazzarini Ho avuto un grande amore da ragazza, assoluto e totalizzante come capita solo a quindici anni o giù di lì, fatto di allenamenti e partite, di battute, palleggi, schiacciate e sogni sotto rete. La pallavo lo ha riempito tredici anni della mia vita, ma poi il tempo è passato e, con il mal di schiena che non mi dava tregua e l’ingresso nel mondo del lavoro, è iniziato un capitolo della mia vita in cui non c’era più spazio per lo sport agonistico. Ma in un angolo del mio cuore è rimasto il rimpianto per quell'amore perduto. A trentasei anni ho iniziato una partita a scacchi con il cancro, che una recidiva dopo l’altra si è portato via pezzi del mio corpo e del mio futuro. Il 2019 è stato un anno terribile: due interventi chirurgici difficili e demolitivi, nove mesi di ospedale, un deserto di dolore e solitudine, un recupero lungo e faticoso. Ne sono uscita senza la gamba e le ossa del bacino di destra, ma con tanta voglia di riempire quello che resta della mia vita, poco o tanto che sia, di cose belle e pensieri felici. E di gatti, ovviamente. Nella primavera del 2021, circa un anno e mezzo dopo l’amputazione mi sono imbattuta per caso in un video di sitting volley, la pallavolo paralimpica che si gioca seduti per terra. Le regole sono quelle della pallavolo con poche differenze: quando si colpisce la palla, una parte del busto deve sempre toccare terra, si può murare la battuta e si commette fallo di invasione solo
se si tocca la parte superiore della rete. Le rappresentative nazionali sono composte soltanto da atleti con disabilità, mentre nelle squadre locali giocano insieme persone con e senza disabilità e spesso anche uomini e donne. Non sapevo nemmeno che esistesse questo sport, mi ha incuriosito, ma di certo non era cosa per me. “Ma dove vuoi andare, a cinquantadue anni, con la stazza di una megattera e la velocità di un bradipo sotto anestesia?” Ma il tarlo aveva iniziato a scavare. Alla fine di agosto puntavo la sveglia alle tre del mattino per seguire la Nazionale femminile alle paralimpiadi di Tokyo. “Grandiose queste ragazze! Guarda, quella ha un'amputazione simile alla mia…. eh, ma ha almeno vent’anni e venti chili di meno!” Poi però ho scoperto che la capitana della nazionale italiana aveva la mia età e che in altre squadre c’erano atlete decisamen-
te “over”, sia per età che per corporatura. E il tarlo rodeva sempre più forte. “Ma per me è difficilissimo stare seduta su un piano rigido, perché non avendo più le ossa del bacino da un lato, perdo l’equilibrio!” E intanto guardavo se per caso ci fosse una squadra nei dintorni di Portogruaro. Provincia di Venezia: niente. Provincia di Treviso: una squadra a Codognè. “Uhm, un po' troppo lontano per andare su e giù due volte a settimana, magari con la nebbia…” Un post su Facebook e il tarlo inizia a fare la ola: A.S.D Alta Resa di Pordenone cerca giocatori per l’unica squadra di sitting volley del Friuli Venezia Giulia. La notte del 14 settembre 2021 il dolore da arto fantasma non mi lasciava prendere sonno. Mi sono girata e rigirata per ore, tra dubbi e speranze, e alla fine ho realizzato che c’era un solo modo per uscirne: alle tre e un quarto del mattino ho inviato una mail ad Alta Resa chiedendo se potevo andare a provare il sitting volley. Mi hanno contattato il mattino dopo: Simone Drigo, capitano della squadra e atleta della Nazionale, mi ha detto che gli allenamenti sarebbero iniziati la settimana successiva e sarei stata la benvenuta. L'odore di linoleum della palestra, il pallone tra le mani, l'accoglienza calorosa di un gruppo in cui “inclusione" non è uno slogan, ma uno stile di vita: ero tornata a casa. Dopo due mesi di allenamenti, faticosi,
divertenti e bellissimi, l’emozione delle prime partite, a fine novembre, nel torneo Pordenone Sitting Volley League, concluso con un ottimo terzo posto per Alta Resa. Al termine della semifinale, un’intervista per il TG regionale FVG di Rai3: mi hanno chiesto cosa significa per me il sitting volley. Non mi ero mai posta questa domanda, ma la risposta è arrivata immediata e spontanea: per me che convivo da tanti anni con il cancro, sempre sul filo del rasoio, il sitting volley è la differenza tra vivere e sopravvivere, la possibilità di fare qualcosa di più che cercare solo di resistere alla malattia, la voglia di andare oltre il cancro. In aprile e maggio sarò impegnata nel campionato italiano femminile, purtroppo non con la squadra di Pordenone perché è necessario avere campo almeno tre atlete con disabilità e in Alta Resa per ora sono l’unica donna disabile, quindi vado in prestito alla squadra di Cesena, in cui avrò la possibilità di imparare da alcune atlete della Nazionale, proprio quelle che meno di un anno fa ammiravo in televisione. Alta Resa partecipa invece al campionato italiano maschile, che farà tappa a Vallenoncello il 1° maggio. A giugno saremo impegnati con la squadra mista nella Coppa Rotary in Emilia Romagna, mentre a fine marzo è iniziata l’attività promozionale nelle scuole. Per la prossima stagione sarebbe bellissimo riuscire a partecipare al campionato italiano anche con la squadra femminile di Pordenone, ma abbiamo bisogno di più atlete, con o senza disabilità: venite a sedervi con noi! (www.miasorriso. blogspot.com)
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada de I Ragazzi della Panchina Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost Capo Redattore Giorgio Achino
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Celox Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili.
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Milena Bidinost Per noi avere a che fare con una giornalista di professione non è mai facile: “Milena sai che ho sentito dire che.. vabbè dai, non importa”. Per lei avere a che fare con gli articoli che escono dalla Panka non è mai facile: “Scusate ma non credo che questa cosa si possa scrivere così perché giornalisticamente.. vabbè dai, non importa”. Milena, la mediazione è un’arte! Ben arrivata al MoMA!
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Giorgio Achino Teatrante per diletto adesso applica la tecnica in Panka. A tutti dice: "Sarò chi vuoi, nella tua personale rappresentazione della vita"; palco e Panka si confondono. Benarrivato in questo teatro! Sempre in scena Giorgio
Elisa Cozzarini Liberata dai fardelli del dover fare per gli altri si è messa in proprio, così può scrivere, leggere, scrivere, progettare, scrivere, studiare, scrivere. Non manca di farlo anche per la Panka perché, se è vero che il futuro è, appunto, tutto da scrivere, quello che sei lo ritrovi nei posti che abiti.
Impaginazione Ada Moznich
Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone Tel. 0434 371310 email: panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Instagram: panka_pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN BCC: IT69R0835612500000000019539 Codice IBAN Credit Agricol Friuladria: IT80M0533612501000030666575 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al giovedì dalle ore 13.00 alle 17.30 e il venerdì dalle 13.00 alle 15.30
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Creazione grafica Maurizio Poletto
Fotografie A cura della redazione. Foto a pagina 2 e 7 dal sito: https:// pixabay.com/it/ Foto quadro "El banco", 1987 di Gustavo Acosta Foto a pagina 6 Selene Mazzocco Foto a pagina 12 Enri Lisetto Foto a pagina 13 Elisa Cozzarini Foto a pagina 14 Mia Camilla Lazzarini
Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”
Selene Mazzocco Quando la vedi per la prima volta entri in un sogno parigino e già ti culli in quello stile anticonformista alla ricerca di verità, libertà e bellezza. Selene abita in rue bohémienne, a Pordenone! Poi vieni risvegliato dal tornado di parole e di idee che ti investe! Di sicuro non soffre della sindrome della pagina bianca: è un fiume pure lì. Bienvenue!
Editore Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone
Stampa Faros Group s.r.l. Via Gorizia,2 33077 Sacile PN
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Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: "...si bello, ma non si scrive così in Italiano!" S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara
Redazione Giovanni Mauro Della Torre, Sra Lenardon, Ada Moznich, Celox, Selene Mazzocco, Antonio Loperfido, Giulia, Daniela Dose. Enri Lisetto, Claudio Pasin, Elisa Cozzarini, Mia Camilla Lazzarini, Chiara Zorzi.
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Sara Lenardon Seguendo le orme del fratello decide di fare il tirocinio da noi. Pazza. Per cui perfetta. Ginnasta di professione, studentessa per cultura, panchinara per passione. Scrive il suo primo articolo dall’altra parte del mondo, adesso scrive perché da noi ha scoperto un altro mondo.
NON C'E' CURA PER LA NASCITA E LA MORTE SE NON GODERSI L'INTERVALLO GEORGE SANTAYANA
I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA