LDP 03/2009

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APPROFONDIMENTO

Pordenonelegge.it

Libertá di Parola 3/2009 ——

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

L' EDItoriale

LA MIA GALERA di Pino Roveredo “Ferro batte ferro e sbarra chiama sbarra… Mettete via i deliri e conservateli per stanotte, che la chiave ha fame di serrature e i cancelli hanno voglia di musica! Sveglia delinquenti, che è ora di scontare… Tirate fuori le condanne e togliete le lancette dagli orologi! Forza! Andare, camminare, e girare sopra il rammarico e i frammenti di catena… Ecco, così inizia un mio testo teatrale: “La bela vita”, che racconta la pesante quotidianità del carcere, un carcere che, nonostante l’abbia vissuto e pagato molti anni fa, continua a girarmi nel ricordo, sulla pelle, e dentro l’angoscia che stringe l’animo quando provo a ripercorrerlo con la memoria. Passo dopo passo, rumore dopo rumore… Le condanne si scontano, il carcere no, mai nella vita, perché ti gira addosso e dentro vivo come una ferita, e senza mai concederti di raggiungere la calma della cicatrice. Ancora oggi, durante gli incontri e le interviste, quando mi chiedono dei miei trascorsi da detenuto, io continuo a rispondere con assoluta certezza e fermezza che, io, al carcere, non devo mezza virgola della mia salvezza, e che anzi, in quel luogo di rieducazione e riabilitazione, si sono alzate le montagne del mio disagio, con tutta la fatica delle “capriole” che ho speso per affrontarle. “…Girando tra quella folla di inutili, capireste che: se la paura è una sensazione umana, è umana solo oltre le mura. La paura carceraria invece, fa parte dell’istinto bestiale: lei ti cattura, ti stravolge, e con il pretesto di un piccolo errore, ti stritola nell’impasto sbagliato. Ah, dimenticavo, casomai vi dovesse succedere, non vi venga mai in

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Dal 16 al 20 settembre si svolgerà la decima edizione di Pordenonelegge.it, la Festa del Libro con gli Autori che attira in città migliaia di appassionati lettori. I grandi nomi e le nuove promesse si alterneranno sui palchi delle varie piazze in cinque giorni di incontri e iniziative che hanno come protagonista il piacere di leggere. Abbiamo voluto essere anche noi parte attiva della festa, con le nostre recensioni in libertà.

IL TEMA

Un castello chiamato carcere a pagina 2

il personaggio

Andrea Zanzotto e un'amicizia che non conosce età a pagina 14

Buona lettura a tutti! a pagina 7

il CASO

Futuro a rischio per la Panchina In quindici anni di storia, mai come in questo momento ci siamo trovati di fronte alla concreta possibilità di dover concludere quest’esperienza. Difficoltà economiche, lo sfratto esecutivo al 31 dicembre, le caute posizioni da parte delle Istituzioni mettono un grande punto interrogativo sul futuro della Panchina. Ma perchè è importante, per tutti, che la sede rimanga aperta? a pagina 6

INVIATI NEL MONDO

Ultima fermata: Tajikistan E’ il 4 dicembre 2008, 3.40 del mattino, e siamo appena atterrati a Dushanbe, la capitale del Tajikistan. E’ buio, ma mi rendo subito conto di essere in un altro mondo. L'aeroporto di Dushanbe, la capitale del Tajikistan, è un'enorme autorimessa fatiscente, il parco aeromobile a terra sembra un museo del cielo. continua a pagina 13

COMIX

La storia della Panka a fumetti: a 1 Puntata a pag. 16


L' EDItoriale

LA MIA GALERA di Pino Roveredo segue dalla prima pagina mente di tirare fuori le vostre referenze oneste, perché lì dentro non conta niente il futuro… figuratevi il passato!". Il mio esordio dentro la paura carceraria risale ai primi anni ’70. Rammento gli insulti e le carezze pesanti della Questura, poi l’ufficio Matricola, le foto, le impronte, e l’ispezione del dito gommato. Rammento la cella d’isolamento, con le scritte di morte incise sul muro, il rumore del mio pianto, e la conta di un tempo che imbrogliava la misura e non si lasciava contare. Rammento l’arroganza istituzionale, la rabbia cattiva di alcuni compagni, le violenze, le urla, i colpi, e gli strappi dei tentati suicidi di chi non riusciva più a sopportare il peso della condanna. Rammento anche la morte di tre ragazzi della Sezione Minorile, soffocati dentro il fumo dei materassi bruciati nelle celle per protestare contro la bestialità del trattamento. Quello era un periodo di rivolte, e anche di grande solidarietà, con scioperi della fame, sit-in giù nel cortile ristretto dell’”Aria”, posate pestate sulle sbarre, lettere, implorazioni, suppliche… Tutto inutile, se è vero che dopo quarant’anni, la situazione è anche peggiorata. Oggi c’è il sovraffollamento, ci sono le brande messe in terza, con sei passi mossi a turno, quaranta sigarette al giorno, e una disperazione disperata che si mastica il pensiero. Disperazioni giudicate, pregiudicate, disperazioni mescolate: belli, brutti, sani, handicappati, fascisti, comunisti, sieropositivi, omosessuali, zingari, disgraziati, poveri, laici, islamici, cattolici, e “senzadio!”. Disperazioni riempite fino all’orlo con una rabbia che non ha tempo né per la sosta della riflessione né per quella della ragione, se è vero che, come e più degl’anni ’70, il settanta per cento del popolo carcerario tornerà a delinquere. Oggi, come quarant’anni fa, il carcere, per un suo gioco perverso, continua ad ingoiare paure e sputare delinquenti! Ieri, come oggi, per combattere l’utopia di una riabilitazione, ci difendiamo con l’ipotesi di nuovi carceri. Avanti così, fino a diventare i figli di un… “Ferro batte ferro e sbarra chiama sbarra… Mettete via i deliri e conservateli per stanotte! La sentenza ha fame di condanne e il carcere è uno stomaco senza fine, preparate le posate di catena e le gamelle del rimorso e… buon appetito alla coscienza”.

IN UN CASTELLO CHIAMATO CARCERE, DIETRO LE QUINTE DELLA COMMEDIA UMANA A colloquio con il direttore della Casa circondariale di Pordenone. Ad agosto è stato tra i 185, dei 221 penitenziari italiani, presi ad esame dall’iniziativa dei Radicali,“Ferragosto in carcere” di Milena Bidinost

Dal luglio 2008 il direttore a Pordenone è Alberto Quagliotto. Ha 44 anni, una laurea in legge e la passione per la storia: arriva in città ogni giorno da Maser (Tv), dove vive. Nel suo curriculum vitae c’è il Santa Bona di Treviso,

uno dei tanti carceri italiani che in questa estate ha fatto parlare le cronache locali sotto il titolo: “Drammi da sovraffollamento”. Qui per dieci anni Quagliotto ha ricoperto il ruolo di vicedirettore, prima di approdare in pian-

Che tempo sarà?

larità del rumore delle chiavi: chiavi che aprono, chiudono, riaprono, richiudono. Cancello, chiavi, altro cancello, altre chiavi. Nel mezzo corre il tempo che in qualche modo devi passare: da lucido o imbottito di farmaci, steso in branda ad oziare o iperattivo a far pesi e a correre all’aria. Quando esci ti trovi davanti le cose che puoi o devi fare e ti sembra che il tempo non sia mai abbastanza. Tutti vanno sempre di corsa, guardano l’orologio maledicendo il tempo che corre troppo in fretta. Eppure il tempo non è una cosa che si possa quantificare. Non puoi andare da una persona e chiedergli se ti impresta un paio di ore oppure dirle: “Tieni, ti regalo mezza giornata!”. Lì dentro il tempo intanto è già deciso prima e non da te. Sai

di Manuele Celotto Eccomi qui, di nuovo fuori. Tutto sembra insolito. Quando respiri, assorbi a pieni polmoni l’aria e ti sembra che abbia quasi un sapore diverso, anche il sole sembra più luminoso. Passata l’euforia iniziale inizi coi confronti, riprendi contatto con la vita reale. Sì perché quella è una realtà separata, non si può di certo definirla “vita” quella che passi tra le mura carcerarie. Guardi al quotidiano e al concetto di tempo in maniera completamente diversa, direi distorta. Quando sei dentro il tempo è scandito dalla rego-

ta stabile a Pordenone. Questa della Destra al Tagliamento, per contro, è una casa circondariale per maschi adulti che può accogliere detenuti condannati ad una pena cosiddetta minore (non eccedente cioè i 5 anni di reclusione) e imputati in attesa di giudizio. Un carcere incastrato fin dall’Ottocento all’interno di uno dei punti storici più affascinanti della città, l’antico castello del XIII secolo, e che da anni è in attesa di essere trasferito nel nuovo sito individuato dall’amministrazione comunale nell’area della Comina, alla frontiera con Roveredo in Piano. Tra dibattiti politici, progetti urbanistici e speranza di finanziamenti il carcere di Pordenone resta a tutt’oggi una città nella città, dove detenuti e operatori sono quotidianamente impegnati a trovare un compromesso dignitoso con l’incognita dello spazio. Direttore, ci spiega com’è la vita di un detenuto? “La convivenza com’è ovvio non è semplice perché la persona non può scegliere con chi divi-

che devi stare tra le mura per quel determinato periodo ma…Il “ma” è un insieme di cose spiacevoli, di spazi ristretti, convivenze forzate, e questo vuoto da riempire che le mura amplificano. Sei fuori dalla realtà: sai già che è quasi impossibile cavar fuori un qualcosa di utile per il tuo futuro. Il lavoro è poco, per arrivarci devi aspettare tanto e poi non è retribuito un granché. Puoi frequentare vari - anzi rari - corsi, ma quasi sempre sono dei passatempo, quasi mai di riqualificazione professionale. Siamo davanti a un paradosso: fuori c’è chi non ha il tempo per fare tutto ciò che rientra nei suoi desideri. Dentro chi tempo ne ha tanto e non può fare niente di ciò che desidererebbe davvero fare.


dere la cella, e soprattutto con quante persone. Appena arrivato viene inserito dove lo spazio lo consente. Nonostante ciò notiamo che gli ultimi arrivati vengono per lo più accolti bene dai compagni. Anche da noi, resta comunque valida la regola per la quale sono prima di tutto i detenuti ad emettere la sentenza contro gli imputati. Nel senso che i reati o le ipotesi di reato contro donne, anziani e bambini sono condannati duramente anche dietro le sbarre. Per questo esiste una sezione protetta”. Nel castello ci sono due piani di celle dai tre metri per quattro fino ai cinque per quattro massimi di grandezza composte da un letto e uno stipetto a detenuto, più un bagno unico. Sei celle stanno al piano terra, destinate ai reati comuni, una dozzina al piano superiore lungo entrambi i bracci del castello per i protetti, i sex offenders, i colpevoli cioè di reati per lo più a sfondo sessuale. Ma soprattutto celle che hanno una capienza regolamentare di 53 posti, tollerata di 68, effettiva, ad agosto di quest’anno, di 79. Di cui il 60 per cento sono stranieri. “La situazione è al limite anche da noi, con picchi anche di maggiore criticità quanto ad affollamento. Come gestirla? Da un lato garantendo la manutenzione continua dei locali a fini igienici, dall’altro facendo leva su personale professionale, quanto a sicurezza, assistenza medica e psicologica e una serie di attività intramurarie che facciano leva sui bisogni del detenuto piuttosto che sulle sue aspirazioni. E’ mia convinzione infatti che, trattandosi di un carcere a breve permanenza, dove la maggior parte sono soggetti con problematiche psicologiche, ciò che più possiamo fare all’interno è proprio dare supporto in questo senso. Teatro o corsi professionali vanno bene, ma non sono le priorità”. Cosa significa lavorare in un carcere? “Premetto innanzitutto che non mi sento certo investito di un compito divino. Lavorare in un carcere non è per certi versi diverso dal farlo altrove. Tuttavia, se pensiamo alla vita come ad una commedia, direi che il la-

vorare in carcere è un po' come vederla da dietro le quinte: un osservatorio particolare e privilegiato, quindi. Personalmente più faccio questo lavoro più divento mentalmente tollerante. Non si tratta di provare simpatia per un detenuto, quanto di vedere, per così dire, l’altra faccia della luna di una umanità da sempre alle prese con il dilemma della scelta tra il bene ed il male. Una scelta che non è mai definitiva, perchè in nessuno il lume del bene è spento, anche se non si vede. Si finisce per comprendere con più profondità i meccanismi che mettono in moto il lato cattivo della natura umana. Forse è per questo che a lungo andare il nostro è un lavoro che logora”. Direttore, l’abbiamo tenuta per ultima perché si sa che è argomento di competenza della politica nazionale legata all’annoso problema dell’edilizia penitenziaria. Una domanda, tuttavia, sul nuovo carcere di Pordenone gliela vogliamo porre comunque. Da addetto ai lavori, che ne pensa? “Quella che viviamo all’interno del carcere di Pordenone è una condizione comune a molti altri penitenziari. Nel nostro caso abbiamo un turnover elevato, soprattutto tra i detenuti comuni, e i già noti problemi di affollamento. Mancano anche gli spazi per le attività educative. E’ perciò chiaro che una struttura più grande migliorerebbe sia la qualità della vita dei detenuti, che il lavoro di noi operatori. Struttura a parte, tuttavia, il nostro è un carcere meno problematico di altri”. Da che cosa lo si capisce? “Dal clima che si respira e dallo stretto rapporto che c’è tra detenuti e operatori, tale da favorire, seppur per il breve tempo di loro permanenza, azioni di supporto. Per tipologia dei detenuti e per professionalità degli agenti di sicurezza e degli altri operatori il castello è cioè un luogo caratterizzato da un clima umano, dove i casi di violenza tra detenuti o nei confronti delle guardie, piuttosto che di autolesionismo o di suicidio, così come di richieste di trasferimento in altri penitenziari sono praticamente pari a zero. Variabili importanti per giudicare lo stato di salute interno”.

IL "CASTELLO" IN CIFRE

CODICE A SBARRE Cari Raga Panka, come va? Io qui sempre bene. Ci sono buone probabilità che esco o con la semilibertà o la messa in prova, oppure mal che vada vado in comunità. Mi sembra strano detto da me che ero molto contrario, ma questa volta ho preso un bel colpo, sono stufo di questa vita, non fa per me. È da tempo che voglio ricominciare da zero, anche se so che questi sono gli anni migliori e io li ho proprio buttati nel cesso. Scusate la malinconia di queste mie parole, ma in questi giorni dopo che ho parlato con lo psicologo e con l’assistente sociale mi è arrivata la prima depressione carceraria. Non che mi faccia bene ma piango molto, sento che mi sono buttato via, penso alla mia vita e mi rattristo molto. Sono stato nella mia vita in mille posti, ho visto cose stupende, ho imparato cinque lingue e ho posto mille sorrisi per tutti per poi accorgermi che come un comico o il più bravo dei pagliacci la tristezza mi stava corrodendo come un male incurabile, come la notizia che state per chiudere. Mi ha fatto male per me e per voi. Perché vi vogliono chiudere?!? Sono drogati o che cazzo si bevono? Secondo me dovreste imbastire una bella manifestazione in piazza, pacifica naturalmente, ma lo scopo sarebbe sensibilizzare di più i giovani della città sul problema droga e trovare il modo di mettere la sede in una posizione di centro d’informazione e prevenzione alle sostanze, e a quelli che vengono già lì far capire che non è solo una sala di ricreazione, ma anche uno dei pochi anzi l’unico posto rimasto dove si possono aprire dibattiti. Che propongano qualcosa, che si diano da fare anche loro cazzo! Avete lottato fino adesso, non arrendetevi, e se anche gli altri tengono a quel posto che pensino anche che se chiudete dove andranno dopo?, dove si rilasseranno senza che nessuno li giudichi? Ora vi lascio con la speranza di risentirvi presto, vi ringrazio per i 10 euro, almeno per una decina di giorni non devo fumare sulle spalle degli altri, vi voglio bene a tutti e tengo le dita incrociate per la sede! Un abbraccio Big Foot

CHI CI LAVORA Sulle 59 unità di polizia penitenziaria previste, al momento ne sono in forza solo 47, di cui due donne con mansioni amministrative. Assieme al sovraffollamento delle celle, la condizione di sotto organico rispetto ai posti di servizio da coprire nell’area sicurezza rappresenta quindi l’altra grande criticità del penitenziario cittadino. L’area sanitaria è seguita da un medico incaricato, affiancato da medici di guardia. Le problematiche di tossicodipendenza sono invece affidate agli operatori del Sert dell’Azienda sanitaria del Friuli occidentale. Due gli educatori e uno lo psicologo che seguono le diverse attività intramurarie per i detenuti. Chiude la pianta organica l’area amministrativa e il cappellano del carcere.

I DETENUTI A metà agosto a Pordenone erano richiusi 79 maschi adulti, di cui 56 stranieri (60%). Il carcere ha una capienza regolamentare di 53 posti, tollerata di 68. Il picco massimo di sovraffollamento è stato nel 2008 con 90 detenuti, distribuiti nelle 18 celle disponibili. Nonostante ciò, pari a zero tra lo scorso e la prima metà di quest’anno sono stati i casi di suicidio, decesso, aggressioni in carcere. Un’unica eccezione è rappresentata da un episodio di autolesionismo. I REATI Dei 79 detenuti totali, 24 sono comuni e i restanti sex offender; 17 con condanna definitiva non superiore ai 5 anni di detenzione, 62 in attesa di giudizio. Undici invece i detenuti con problemi di tossicodipendenza. Quanto alla tipologia, in maggioranza si trattava di reati contro la persona (60), seguiti da quelli contro il patrimonio (13) e di violazione della legge sulla droga (12) e sulle armi (12). (I dati sono quelli forniti dalla Direzione del carcere pordenonese nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Ferragosto in carcere", promossa dai Radicali. Preziosa nella realizzazione del servizio è inoltre stata la collaborazione di Stefania Boni, educatrice)


CHE ARIA TIRA A PORDENONE? La città è al 93° posto nella classifica nazionale Istat quanto a indicatori ambientali di Gino Dain e Elisa Cozzarini

CAMERIERE, UNO SPRITZ! Storia, curiosità e qualche leggenda sull'aperitivo più discusso del momento di Guerrino Faggian Cosa!? Bella roba, si fa presto a dire al bar: “Mi fa uno spritz?”. Potreste sentirvi rispondere: “Che spritz? Bianco? Quello classico con vino secco, acqua gassata, seltz o tonica? Oppure, come in Veneto, con Prosecco e aggiunta di Campari o Aperol, con una fetta di limone, di arancia o un’oliva? Volendo glielo posso fare anche rosso con il Cynar o China Martini. O come lo si beve nel Trentino? Ghiaccio, Aperol, spumante, acqua e una fetta d’arancia? “Mah non saprei, uno spritz!”. Eh già, si fa presto a dire: “Uno spritz”. “Lo vuole come lo si beve in Alto Adige e nel triestino? Alla austriaca: vino bianco e acqua? E’ da là che è nato, sa? Al tempo dell’Impero austriaco i soldati di stanza nei territori della Repubblica Serenissima, per alleggerire l’alta gradazione dei nostri vini li allungavano con una spruzzata di seltz o acqua, da qui il nome: “spritz” in tedesco significa spruzzata. Perché ride? Non sto mica parlando dell’aperitivo di Sturmtruppen e compagnia sa?”. “Mi scusi è stato solo un momento”. “Niente niente, nel Triestino dicevo, specialmente i ragazzi lo bevono anche con vino bianco e aranciata. Nel Goriziano e nel Monfalconese invece l’aranciata la aggiungono al vino rosso, lo chiamano appunto rosso aranciata, mentre nel Vicentino lo stesso lo chiamano rabaltà. Vuole un rabaltà?”. “Guardi che rabalto lei e tutta la baracca qua se non mi porta uno spritz, uno qualsiasi!”. “La prego non si arrabbi, sapessi almeno di dov’è lei.. vuole un veneziano come lo chiamano in Alto Adige: Prosecco e Aperol?”. “Io sono di Pordenone” .“Ahaaa Pordenoneee, ma perché non l’ha detto subito?! Allora vuole un spris furlan: vino, Aperol e oliva, ma voi da quelle parti fate tendenza.” Da noi varia da paese a paese anche da barista a barista, di conseguenza anche con gradazione diversa e servito con un’infinità di stuzzichini, basta che rispetti la regola non scritta che sia rosso. Da noi lo si beve sin dalla tarda mattinata, nei locali del centro magari con uno swing in sottofondo che fa tanto trendy, non importa anche se non lo si capisce, l’importante è che ci sia. Anche nei bar di paese va alla grande, c’è chi lo beve come una bibita e chi lo beve con il mignolo alto come Ian Anderson dei Jethro Tull suonava il suo flauto. Vestiti da lavoro o da festa, soli o in compagnia, dà il via al pranzo come aperitivo e al buon umore con gli amici visto che si aggira intorno agli otto gradi. Ghiaccio, limone, arancia o oliva, e poi patatine, sott’olio, crostini, stuzzichini salati, scaglie di grana, salumi e chissà che altro. “Certo che vi inventate di tutto, da voi lo spritz ormai è un costume popolare. Bhe, ma allora visto che siete così aperti alle novità magari apprezzerà uno spritz foresto. Allora ricominciamo, bianco o nero?” “Senta meglio che mi porti un’acquetta frizzante ed un caffè va, si ma adesso non mi faccia tutta la manfrina sulle minerali”. “Va bene, va bene non si arrabbi, l’acqua è acqua”. “Meno male!”. “ Ma il caffè? Si fa presto a dire mi faccia un caffè, di miscela arabica o lo preferisce.. che cos’ha?”. “Mi vien da piangere”. “Mi dispiace non volevo, cercavo di capire quale preferisse” .“Hei, amico”. “Si?”. “Portami tutti gli spritz che ti vengono in mente, basta che la fai finita, ok? E poi, come diceva Mike Bongiorno: ALLEGRIAAA”

Neverland, l’isola che non c’è, è il luogo che Michael Jackson aveva sognato e creato per se stesso, a sua misura. Ma senza andare tanto lontano, c’è chi ama il silenzio degli antichi paesi di montagna, chi vorrebbe stare in un’isoletta deserta in mezzo al mar. Ivan odia e ama la sua città, Pordenone. La odia perché non è ancora una città. La ama perché da quando si è popolata di immigrati da tutto il mondo, le sue strade si sono trasformate, diventando quelle di una vera metropoli, come Milano. Altri strillano che a Pordenone i nuovi arrivati stranieri hanno rubato l’anima.

Sarebbe infinita quanto gli esseri umani la lista dei luoghi ideali in cui vivere, data la diversità di vedute e la molteplice offerta di qualsiasi cosa. Il fatto è che noi siamo qui a Pordenone, o nei dintorni. E siamo, secondo l’Istat, 93^ in classifica su un totale di 111 capoluoghi di provincia esaminati in Italia nel 2008. Non ci conforta e rispetto al 2007 siamo pure scesi di una posizione, considerando l’insieme degli indicatori ambientali: acqua, aria, energia, popolazione, rifiuti, rumore, trasporti e verde urbano. Però a Pordenone è migliorata del 16,7% la raccolta differenziata.

MONDO FELIX

CARA ITALIA, MASCHILISTA! Ronde, migranti , sicurezza. La donna non ne esce troppo bene dai provvedimenti entrati in vigore negli ultimi tempi di Felice Zuardi In questi ultimi mesi di cose ne sono successe e io mi sono fatto un po’ di domande, per cercare di capire cosa sta succedendo fuori dalle mura di casa mia. Mi domando: “Devo avere paura di girare per la strada?”. Certo, se avessi un'altra mentalità, non riuscirei a vedere le cose come stanno veramente. Per questo mi sono chiesto anche: “Se fossi una donna giovane o casomai una signora già pensionata, piuttosto che una casalinga che segue i Tg o legge i quotidiani, cosa penserei di tutta questa violenza propinata dai mass media?”. Non lo so, forse non posso mettermi nei panni di una donna, però posso permettermi di fare comunque delle mie riflessioni in merito, perchè non trovo per niente giusto questo comportamento da parte dell'informazione e dei governanti di questo Paese. Non trovo giusto tutto questo propinarci di violenze messe in atto da parte di immigrati, e amplificato da politici e media

- guarda caso - in corrispondenza dell'approvazione del “Pacchetto sicurezza”, cercando così di fare crescere l'odio e la paura perché, si sa, il terrore è l'arma migliore. Vorrei ricordare che l'84 per cento delle violenze sulle donne è commessa da nostri connazionali e soprattutto tra le mura domestiche. Mi dico: “Vogliamo quindi sfatare questi luoghi comuni?” Ormai si parla di "stupro etnico", e non piuttosto di un problema che, com’è noto, riguarda essenzialmente il carattere ancora maschilista della nostra società. Stando alla prima, è chiaro che per difendere le "proprie donne" serve disporsi in assetto da guerra con ronde, poliziotti, militari, vigili con pistola, Polizia penitenziaria, forestale, Finanza e chi più ne ha più ne metta. A me sembra, in realtà, che questi discorsi offendano ancora di più le donne, considerate come vittime da proteggere o prede da catturare. Penso: “Siamo tutti umani e cittadini”. O for-


Con il rumore, la nostra città è messa proprio male. Non ce ne accorgiamo quasi più, ma il continuo brusio di fondo di auto e sirene varie, motorette e quant’altro, ci fa diventare ogni giorno un po’ più sordi. L’aria che respiriamo lavora sul nostro sistema polmonare come un carro armato, facendoci tossire sempre più. Su mille pordenonesi, ben 695,3 sono motorizzati. È bassa, non a caso, la domanda di trasporto pubblico: 48,9, sempre su mille,

se che, se a commettere violenze sessuali sono gli immigrati, magari anche drogati, vanno puniti, lasciati alla piazza e espulsi, mentre se sono professori, padri di famiglia, figli di famiglie "per bene" o addirittura preti, devono

nel 2008, rispetto a 234,5 in Italia. Alessandra dice che basterebbe fare come in Bolivia, dove per i tratti di strada più frequentati ci sono piccoli mezzi di trasporto collettivo che ti danno un passaggio. Ragionando su come ci piacerebbe che fosse il posto dove viviamo, ci viene in mente che meno traffico non guasterebbe per il bene della comunità. Così starebbero bene pure meno cemento e meno maleducazione,

meno rifiuti e “cicche” qua e là. Parlando di ambiente, non succede come ne “La Pankina” di Pino Roveredo, in cui “le cicche vanno nei portacenere e le carte negli appositi cestini”. Le bottiglie di plastica e i blister di pastiglie colorano le aiuole. I marciapiedi, invece, sono colorati dalle “merde” dei cani, certo perché è faticoso abbassarsi a raccogliere. La terra, in effetti, l’hanno fatta troppo in basso. Insomma servirebbe un po’ più senso civico e un po’ meno affarismo e fretta. Invece a tutti manca il tempo, abbiamo perso calma e tranquillità e siamo sempre di corsa. I numeri dell’Istat non bastano a misurare come dovrebbe essere il posto che ci piacerebbe abitare. Quello ce lo dobbiamo costruire o inventare, dobbiamo ritagliarcelo in un mondo così caotico, fatto solo di consumo a tutti i costi, dove è ben difficile mettere assieme serenità e praticità giornaliera. Vorremmo un mondo libero, come lo intende il premio Nobel indiano per l’economia Amartya Sen. Il vero sviluppo non si misura con il Pil, si valuta dall’espansione delle libertà di ciascun essere umano, in qualsiasi parte del mondo. Libertà di vivere in un ambiente sano, sicuro e non inquinato.

venire quasi scusati o perdonati? Ripenso a quanto, sull’argomento, mi scrive una ragazza:"Forse è questa la vera emergenza – dice – ovvero il monopolio maschile del discorso pubblico, l’accondiscendenza collettiva al gioco

perverso dei tombeur de femmes, il silenzio collettivo degli uomini “normali” sulle loro responsabilità, l’incapacità di cogliere che la matrice dello stupro sta proprio nel sessismo, in una cultura che esclude dalla soggettività politica le donne e le relega al ruolo passivo di sedotte e seduttrici, donne per bene e donne male, destinatarie in ogni caso di politiche di controllo sociale volte alla disciplina del loro utero, sia esso come strumento di maschio piacere o come strumento di maschia preservazione della specie. Come se lo stupro – è sempre lei che mi scrive - in casa o per strada, non fosse frutto di una cultura patriarcale, che vuole la donna disponibile, oggetto sessuale che sorride ammiccante dai grandi cartelloni pubblicitari sulle strade, dalle riviste dei giornali, dai reality, dal Parlamento, sempre disponibile a ruoli servili, gratis in casa e sottopagate fuori. In Italia stuprare una donna è reato, ma la “cultura dello stupro” non solo è moralmente lecita, soprattutto è socialmente e simbolicamente dominante." Io dico: “Come darle torto!!!” A tutto questo la risposta che arriva dal nostro Governo è una promessa di una maggiore sicurezza, di una giustizia che sarà fatta. Il Governo proteggerà le "sue donne" e dimostrerà una volta di più la cultura del maschio dominante.

dicono di noi

RdP A SCUOLA Martedì 26 maggio nella classe 2^ BSO del nostro Istituto si è tenuto un incontro con l'associazione I Ragazzi della panchina. Gli allievi della 2^ BSO hanno manifestato interesse ad entrare subito in comunicazione con i ragazzi coinvolgendoli poco alla volta su aspetti sempre più profondi e intimi delle rispettive storie private. Centrale è stata l'esperienza di Gigi, di cui alcuni conoscevano il libro o qualche altro scritto. Gigi ha sintetizzato quanto viene riferito nel suo libro, che rispecchia la sua vita personale e pubblica, poi si è dedicato a rispondere ai numerosi interventi degli allievi. La presidente dell’Associazione ha invece fatto prima una sintesi su come è nata e si è sviluppata l'associazione, poi su richiesta dell'uditorio, partendo a sua volta dalla propria storia personale, ha chiarito in modo schietto ed esaustivo ogni perplessità sul virus Hiv, raccontando il modo inaspettato con cui si è resa conto a suo tempo di averlo contratto. Sorpresa fra gli allievi ha destato la storia di Francesco, che ha comunicato un tipo di sofferenza sua e della propria famiglia, differente e per certi aspetti opposta a quella di Gigi. Il confronto a mio giudizio è stato altamente formativo per gli allievi, come pure per me stesso, in quanto ha portato contributi teorici e metodologici di avanguardia sul piano della ricerca sociale e su quello dell'intervento socio terapeutico-riabilitativo. Ha lasciato, a mio modo di vedere, tutti soddisfatti anche sul piano relazionale per i contributi di spessore emozionale trasmessi e assimilati in modo intenso ma adeguatamente misurato e calibrato ai quesiti e agli interessi espressi dai ragazzi del nostro istituto. Forse una risposta a tali quesiti è già venuta fuori durante il dibattito e la maggior parte degli studenti l’hanno compresa, ma i pregiudizi sociali in cui siamo immersi non sempre ci consentono di capire fino in fondo l’altro. Auspicando un prossimo nuovo incontro si ringrazia e si porgono i migliori saluti. Professore Sergio Cevasco Istituto Flora, Pordenone


CONTINUARE A POTER DIRE “NOI” Il ruolo dell'associazione sul territorio come emerso dalla ricerca condotta nel 2005 dall'Università di Padova di Gian Piero Turchi* L’ associazione “I Ragazzi della Panchina” mostra da anni sul territorio di Pordenone la sua valenza di “servizio innovativo”, generando un cambiamento rispetto ai luoghi comuni alla base delle carriere da emarginato, da “tossico”. Il consumo di una sostanza psicoattiva può infatti divenire elemento di identificazione, sino a coincidere con la persona e con le possibilità che questa si attribuisce e che le vengono attribuite dagli altri, per cui la propria biografia, ovvero la “trama” del “libro” che ognuno di noi scrive a più mani con la collaborazione di altri, ha un esito che è già conosciuto, come se fosse già scritto. Questo processo implica alti costi sociali e socio-sanitari, in quanto il territorio risulta lacerato ed i problemi che in esso si generano vengono visti come irrisolvibili, legati ad un esito rispetto al quale nessuno può fare nulla. L’associazione si fonda sull’intuizione che così non è, e per questo vede che può portare un valore aggiunto per tutta la città, perché ognuno è sottoposto al rischio di trovarsi a pensare ed essere pensato come un film che si sa già come va a finire. A fronte della consapevolezza di tale forza, sebbene la cultura della valutazione non sia ancora diffusa e tanto meno sancita a livello normativo, a differenza di altri Servizi l’associazione decide nel 2003 di investire in una ricerca di valutazione dell’efficacia, che

attestasse scientificamente in che misura avesse sinora raggiunto ciò che si proponeva di raggiungere, affidandosi ad una istituzione “terza”, ovvero l’Università di Padova. La ricerca coinvolge uno spaccato dell’intera comunità pordenonese, 949 persone dalle forze dell’ordine al clero, passando per le amministrazioni comunali e la stampa locale. Cosa emerge da questa ricerca? Rispetto a coloro che l’hanno frequentata direttamente, emerge come l’associazione abbia contribuito a generare una cultura della salute tra coloro che consumavano sostanze, rendendo questi maggiormente in grado di valutare ed operare scelte che mantenevano aperta la “trama” piuttosto che chiuderla, contribuendo alla diminuzione delle condotte cosiddette “a rischio” (es. minore frequenza di rapporti non protetti, uso di siringhe usate da altri) o di devianza (minori arresti/denunce) ed allo stesso tempo incrementando diverse pratiche relativamente al tempo libero (es. attività culturali). Considerando invece il versante della comunità allargata, emerge come confrontando le risposte date da chi non conosce l’associazione rispetto a chi la conosce si riscontrano diverse modalità di porsi di fronte a condotte devianti o che mettono a rischio la salute come il consumo di sostanze: laddove nel primo caso vi è la tendenza a porre una divisione, pensando

che certi problemi riguardano solo certe persone (i “drogati”, appunto), i secondi costruiscono la salute come una questione che riguarda tutti, rispetto alla quale ciascuno può giocare un ruolo, contribuendo a creare unione e gestione dei problemi piuttosto che divisione ed attribuzione dei problemi a colpe dei singoli. Si assiste dunque a come l’associazione abbia generato una “rivoluzione”, facendo sì che coloro che prima ragionavano in termini di contrapposizione (“noi normali” e “voi devianti”, e viceversa) trovassero un terreno comune, segnando la comparsa della prima persona plurale (“noi”): ci si descrive dunque come abitanti di uno stesso sistema-paese, ugualmente responsabili rispetto a ciò che in esso si genera, anche se in modalità diverse. Tali risultati sono da ricondurre alla maniera in cui si è caratterizzata l’associazione sin dal suo esordio, non solo aprendosi a tutta la cittadinanza, ma mirando ad essere di beneficio per tutti, e trovando nella promozione della salute una dimensione che potesse accomunare e quindi fare comunità. In questo senso l’associazione configura un servizio unico nel panorama sociosanitario, rappresentando un prototipo trasferibile in altri contesti territoriali, in grado di rendere gli utenti risorsa piuttosto che mero costo sociale. Una tale tipologia di servizio risulta dunque per certi versi invisibile, nella misura in cui, essendo embricato nel tessuto sociale, genera una riduzione dei conflitti tale per cui questo diviene l’assetto “normale” del territorio. Paradossalmente, è nel momento in cui cessa di esistere che un servizio di questo tipo diventa massimamente visibile, in quanto la comunità si trova a dover gestire una serie di processi che vengono immediatamente etichettati come “anormalità”, “problemi”. Allora gli utenti tornano a porsi in contrapposizione con la comunità e dunque all’infuori di essa, rivendicando piuttosto che proponendo, e ci si accorge solo a quel momento della valenza e del valore del servizio.

Per quanto riguarda il futuro che si proietta a fronte di quanto sinora descritto, questo non può che rappresentare un esito incerto per definizione, in quanto prodotto e costruito giorno per giorno. La garanzia non è nel risultato, il quale deve essere mantenuto e che si vede solo a posteriori, quanto nel fatto che tutti gli attori in causa mantengono a riferimento la considerazione che ognuno possa dare il proprio contributo, prendendosi la responsabilità di scelte coerenti. Auspichiamo dunque che l’associazione e la comunità pordonenonese continuino la straordinaria esperienza di questo “laboratorio della salute”.

Gian Piero Turchi Docente di “Psicologia delle Differenze culturali e Clinica della devianza”, “Psicologia Clinica” e “Psicologia della Salute” presso la facoltà di Psicologia dell’Università de­ gli Studi Padova. Responsabile scientifico in attività di ricerca in convenzione con enti pub­ blici e privati (CNR, MURST, ISS, DAP) relativamente agli ambiti: consumo di sostanze stupefacenti illegali, valutazio­ ne dell’efficacia dei servizi alla persona. Nel suo percor­ so di ricerca, approfondisce l’adozione di un’architettura dei servizi alternativa al mo­ dello medico, emanazione del modello dialogico.

Cosa sta succedendo. In quindici anni di storia, mai come in questo momento ci siamo trovati di fronte alla concreta possibilità di dover concludere quest’esperienza. Difficoltà economiche, lo sfrat­ to esecutivo al 31 dicembre, le caute posizioni da parte delle Istituzioni mettono un grande punto interrogativo sul futuro della Panchina. Ci sono tre mesi di tempo per riuscire ad invertire la rotta. Facciamo appello a tutti indistintamente: teniamo desta l’attenzione, per continuare a poter dire “Noi”.


L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————

LEGGERE È UNA FESTA! conversazione con Gloria De Antoni di Milena bidinost

Driin.“Mi scusi, siamo della redazione di Libertà di Parola, permette un’intervista?”.“E’ sicura che io sia la persona giusta? E’ vero che ho col­ laborato diverse volte con i curatori, fin dagli inizi della manifestazione tra l’altro, ma non saprei cosa dirle. Comunque, se per lei vado bene, mi fido”. Gloria De Antoni, a nostro parere, è per davvero la persona giusta per aprire le pagine di questo nostro speciale inserto tutto dedicato alla manifestazione più attesa dell’anno dalle migliaia di persone che, tra il 16 e il 20 settembre, arriveranno in Città per viversi la decima edizione della Festa del libro con gli autori. “Sa, di questa manifestazione mi piace la scelta del periodo – settembre è come fosse un saluto all’estate – i luoghi – il centro storico è un salotto così familiare – il clima che si respira – non c’è mai ad esempio la rin­ corsa al vip del momento. Ma soprattutto, le dirò, mi piace il pubblico di Pordenonelegge.it”. Udinese per nascita, spilimberghese di adozione, romana per i molti impegni di lavoro, Gloria De Antoni da vent’anni è autrice e conduttrice in Rai, radio e televisione, ma soprattutto è una delle presenze storiche e più affezionate della manifestazione letteraria promossa dalla Camera di Commercio di Pordenone con il sostegno, tra gli altri, di Regione Friuli Venezia Giulia, Provincia di Pordenone, Comune di Pordenone, Fondazione Crup, Pordenone Fiere, Banca Popolare FriulAdria e Cinemazero, “Sono stata al Festival della Letteratura di Mantova, sette o otto anni fa, per intervistare un Mauro Covacich non ancora troppo famoso. E’ una fiera grandissima, dove però ho avuto l’impressione di perdermi. A Por­

denone invece mi sono sentita sempre a mio agio. Qui il pubblico non è mai andato a caso: con il tempo poi è diventato ancora più consapevo­ le, attento, sceglie con cura gli appuntamenti da seguire e soprattutto è un pubblico per cui si sente che leggere è un piacere”. A Pordenonelegge.it la De Antoni, sabato 19, modererà due incontri da non perdere. Il primo è alle 12 all’ex convento di San Francesco, quando sul tema “Lasciare e essere lasciati” si confronteranno Pino Roveredo e Francesco Piccolo. Alle 17.30 la giornalista passerà poi a palazzo Montereale Mantica per intervistare Letizia Muratori e Sandra Petrignani. “Le proposte in calendario anche quest’anno sono davvero tante: autori di fama internazionale, percorsi tematici, momenti glamour, intratteni­ menti. C’è l’imbarazzo della scelta. Bene sarà appuntarsi gli incontri che non si vuole perdere, arrivare sul posto per tempo e poi, per tutto il resto, gironzolare per il centro storico come in una grande libreria, dove entri con un‘idea ed esci con la borsa piena”. Qualche suggerimento quanto ai libri protagonisti di questa edizione noi Ragazzi abbiamo provato a darvelo. Letture e recensioni sotto l’ombrellone senza pretese letterarie, intendiamoci, ma di gente per cui leggere è sempre una festa. “A proposito di leggere, lo sa che non ho mai capito chi dice che non ama leggere! Lei conosce ad esempio Alice Mounroe, o David Sedaris, oppure Alain De Botton o Richard Ford? Bene, se ha più confidenza con i curatori, mi farebbe una cortesia? Faccia loro presente che mi piace­ rebbe davvero tanto incontrare questi i miei scrittori preferiti, magari in una delle prossime edizioni di Pordenonelegge.it” .


VITALIANO TREVISAN

Grotteschi e arabeschi Einaudi, 2009

“I quindicimila passi”, “Il Ponte”…. Quest’uomo ha scritto uno dei migliori libri che abbia mai letto. Le storie di Trevisan ti portano dentro ai sintomi di una società inquinata ( come la pianura padana) nei suoi rapporti socio esistenziali e familiari. Non mi permetto di andare oltre, troppo complicato per un simplex come me parlare o recensire la sua opera. So solo che i suoi libri li ho letti quasi tutti. “Guarda che è uscito l’ultimo di Trevisan” mi ha detto il mio amico un po’ di tempo fa. Via in libreria, lo prendo in mano, 89 pagine 5 racconti 12 euro, lievissima delusione, non so se per le poche pagine o per la spesa oltre la soglia psicologica di budget. La voce saggia da dentro sento che mi sussurra dai, “sempio, che son mesi che aspetti”. Leggo con la solita passione i primi due bei racconti e attacco il terzo, “Madre con cuscino”, 24 pagine. Finisco il racconto e penso “cazzo”, quest’uomo è veramente un grande, lui e la sua scrittura schiva, sobria, originale, crudele, solitaria, semplice, lui e il malessere e i pensieri scritti che girano in cerchio nella ruota ossessiva della vita quotidiana di provincia. Gigi Dal Bon

HO LETTO L'ULTIMO DI... I nostri lettori non leggono solo Libertà di Parola. Impressioni dopo una estate di letture CHRISTIAN FRASCELLA

Mia sorella è una foca monaca Fazi, 2009

Leggendo questo libro si ha la netta sensazione di entrare in un mondo diverso, è la storia di un mondo molto simile al nostro. Molto simile, ma diverso, un mondo in cui per qualche motivo le cose sono andate diversamente, in qualche punto della storia. La storia di un uomo che deve fare i conti con il suo passato, un passato che fa male e che spesso confonde con la realtà, uno scrittore di saggi nel passato e uno scrittore a tempo perso, di racconti che si fondono con la realtà, nel presente. Incontra una giovane ragazza di cui si invaghisce e poi si innamora, molto coinvolgenti le descrizioni delle sensazioni che provava quando la incontrava la sfiorava la toccava. Un libro che quando cominci a leggere non puoi fare a meno di continuare, coinvolgente, ma con un finale che quasi ti fa sperare che ci sia un seguito, ma che d’altra parte sai che deve finire così, quasi lo scrittore volesse che il lettore voli di fantasia, immaginandosi come potrebbe continuare questa strana storia di amore e sesso tra il protagonista e la giovane ragazza di Vajont.

Romanzo di formazione (e deformazione) ambientato tra la caduta del muro di Berlino ed i primi anni novanta, quando la fabbrica come luogo alienante per eccellenza non aveva ancora ceduto il passo ai call-center e per telefonare ad una persona dovevi cercarne il numero sull’elenco, “Mia sorella è una foca monaca” racconta con la giusta vena di distaccata ironia le vicende del classico adolescente in crisi, malmenato dalla vita e con una famiglia che perde pezzi. Il ragazzo (di cui non sapremo mai il nome) è una sorta di kamikaze senza punti di riferimento, un campione dell’errore di valutazione: si caccia impetuosamente in pasticci senza senso, cercando conferme che non arrivano. Ci vorranno molte “mazzate” (alcune metaforiche, altre da codice rosso in Pronto Soccorso), un passaggio allucinato alle catene di montaggio ed una storia d’amore (immancabile, ma gestita con originalità dall’autore) con Chiara “la gastronoma” per farlo entrare nel mondo adulto con un passo più sicuro. Comunque non c’è il lieto fine; oppure sì? Non l’ho capito del tutto, a dir la verità: il che depone a favore di Christian Frascella, il giovane autore. Consigliato a chi vuole leggere una vicenda di adolescenti scritta per adulti e detesta, cordialmente, cose come i lucchetti di Ponte Milvio.

Laura Serra

Andrea Russo

TULLIO AVOLEDO

La ragazza di Vajont Einaudi, 2008

L'intervista

Daria Bignardi, il dolore di una figlia “Non ci potevamo credere. Non poteva essere successo veramente. Non alla nostra terribile e temibile madre, inaffondabile e immortale”. di Milena Bidinost Non teme domande troppo personali, la giornalista e conduttrice televisiva emiliana de “L’era Glaciale”, talk show serale di Rai Due. A Pordenone arriverà per presentare il suo “Non vi lascerò orfani”, romanzo d’esordio come scrittrice, edito da Mondatori. Non teme domande perché lei, Daria Bignardi, ha già messo nero su bianco molto della sua intimità di donna e di figlia. Daria, mi permetto di darle del tu, se posso. A settembre sarai tra gli ospiti più attesi della manifestazione Pordenonelegge.it. Sei mai stata a Pordenone e in Friuli Venezia Giulia?

“Sono stata tanti anni fa a Casarsa della Delizia e a Pordenone per intervistare un'antica maestra di Pier Paolo Pasolini, e più recentemente a Udine a trovare degli amici. Vorrei conoscere meglio questi posti, che sembrano così misteriosi e mi attirano molto”. Nei tuoi salotti televisivi hai visto passare un infinito numero di personaggi. Ebbene, hai qualche ricordo particolare di gente arrivata da Pordenone? E dei nostri scrittori locali? “Ho conosciuto attraverso i loro romanzi, e con molto piacere, Carlo Sgorlon e Tullio Avoledo, ma non mi è mai capitato di incontrarli personalmente”.


DINO CARRISI

MARTINEZ CAROLE

Il suggeritore

Cuore cucito

Scrittore veramente brillante, descrittivo. Il suo libro potrebbe essere un film, se ridotto ai minimi termini. Un giro di vite che si intersecano ognuna con una propria personalità, una propria storia. Un libro che ti trascina in un viaggio attraverso la coscienza umana, portando alla luce in ogni essere la propria malvagità, la propria pietà, il proprio egocentrismo, l’odio, la falsità, la vergogna di se stessi palesando a ogni partecipante il macabro susseguirsi di morti e situazioni mostruose e costringendo quest’ultimo a sentirsi in qualche modo attratto da questo nell’inconscio, sia pur odiandolo per la sua atrocità e malvagità. Il libro rivela le poliedriche facce e lati nascosti dell’essere umano, insegnando che l’uomo è anche questo. Il libro mette a nudo la falsità dell’uomo, il suo lato oscuro che a volte diventa padrone, e il male, parte integrante del bene, fin quasi a non avere alcuna differenza da esso. Si parla dei “sussurratori”, o suggeritori, esseri che riescono ad entrare nella mente di una cospicua parte del genere umano, facendole commettere dei veri e propri massacri restando sempre pulita legalmente. Fa capire come una mente umana, minata da anni di frustrazioni nella vita reale, grazie alla propria vita “normale” possa essere indebolita fino a diventare un automa nelle mani del suo fottuto padrone.

E’ un’Odissea familiare al femminile quella che Carole Martinez tratteggia con tinte stravaganti, mescolando il sacro al pagano. Il filo conduttore è la magia: il dono condanna che unisce di generazione in generazione le protagoniste femminili della storia. Lo sfondo: un paese al confine della civiltà. Parte da un paesino perduto nell’affascinate Andalusia, la storia di Frasquita Carasco, la sarta, dei suoi sei figli e dei suoi tre uomini. Si conclude sotto il sole ardente d’Africa, una saga familiare cui è Soledad, l’ultima della famiglia e voce narrante, a scegliere di porre la parola fine. Parte da una scatola magica, che custodisce per ciascuna donna un talento che la renderà strega, e finisce con … Ma l’Odissea di Frasquita procede all’incontrario: in fuga cioè da casa, attraverso un Sud europeo devastato dalla guerra civile fino al Nord africano, scappando assieme ai figli dalla violenza dei maschi e dalla condanna di un dono. Scrittrice francese dalle origini spagnole, la Martinez con questo suo primo romanzo ha colpito il cuore della Francia. Sebbene però i temi della magia e della femminilità rimandino alla migliore letteratura femminile spagnola, forse, qui manca una certa fluidità linguistica e capacità di tenere alta l’attenzione e la compassione del lettore.

Mondadori 2009

Longanesi, 2009

Milena Bidinost Vittorio Agate

Il tuo primo libro, “Non vi lascerò orfani”: raccontare la propria famiglia, a partire da un dolore forte come la perdita di una madre “ingombrante” e per questo tanto amata. Qual è, secondo te, per uno scrittore il confine della propria intimità, il recinto di protezione dentro al quale non si può far entrare nemmeno il lettore più discreto e rispettoso? “Non saprei rispondere. Ma credo che la narrazione, una volta che diventa parola scritta, non abbia più molto a che fare con l'intimità di chi scrive: è come se si distaccasse, divenisse universale. Come se non ti appartenesse più”. Tu li chiami “babbo” e “mamma”. Anche da adulti i genitori continuano a chiamarsi così, anche se non sono più i giganti buoni di quando si è bimbi. Anche se il rapporto a volte è conflittuale, come è stato il tuo con tua madre. Tu lo descrivi con un realismo disarmante, eppure lo difendi con grande rispetto e amore. Come ci sei arrivata a questo equilibrio? “Con molti e molti anni di amore e guerra”. I tuoi figli, Emilia e Ludovico, cinque e undici anni. Hai pensato anche a loro mentre scrivevi dei loro nonni? “Sì ho pensato che speravo di lasciargli qualcosa di importante,

come i miei genitori hanno lasciato a me, pur con molti errori” E’ una generazione da reality show la nostra, in cui tanto più il personaggio è famoso tanto più il pubblico entra prepotente nel suo intimo per sentirselo più umano, più vicino a sé. Perché, tu che sei famosa, hai scelto di dare al pubblico una fetta così intima della tua vita: la tua famiglia d’origine? Che senso ha per te questo libro? “E' un libro che volevo scrivere da moltissimi anni. Ancora da prima di fare televisione. Almeno da dieci anni prima. Più o meno da quando ho vent'anni. Quindi da una vita”. Giornalista, conduttrice televisiva, con esperienze anche in radio. Oggi scrittrice, che muove i primi passi dalla sua autobiografia. Daria, quali altri strumenti esistono per parlare alla gente? Ma soprattutto perchè si finisce per fare un lavoro che parla alla gente e come farlo al meglio? “Come si finisce a farlo non lo so, a me è capitato. Volevo scrivere da sempre, poi dopo i trent'anni, quando facevo la giornalista già da cinque, è capitata anche la tv, ma per caso. Bisogna aver molto bisogno di comunicare, credo. Un bisogno profondo, urgente, anche un po' doloroso”.


... E COM'È? STEFANIA CONSIGLIERE MASSIMO CIRRI

A colloquio Feltrinelli 2009

Cirri è psicologo e giornalista, autore di programmi e voce di Radio 2,da venticinque anni impiegato nei servizi pubblici di salute mentale. Solitamente quando leggo un libro non conosco la storia dell’autore nè il volto, questa volta invece addirittura la voce mi è molto familiare, diciamo pure che mi accompagna da dieci anni ogni giorno con il programma radiofonico “Caterpillar”. Così ho avuto l’impressione che fosse la sua voce a leggermi il suo “A colloquio”. Cirri racconta alcuni colloqui avuti negli anni con diversi pazienti che per svariati motivi si sono rivolti al centro di salute mentale. Incontriamo il signor L. che ha un problema con le donne, nonostante sei appuntamenti in tre mesi, mai nessuno va a buon fine;il signor S. che vive costantemente incazzato; la signora A. che vive in mezzo ad un grandissimo disordine in casa, mentre esternamente è molto curata;la signora D. che pare venire da un altro secolo. Tra un incontro e l’altro c’è anche il sollievo e il rifugio della bellissima capoufficio, la dottoressa B., verso la quale il dottor Cirri prova un amore adolescenziale. Storie che fanno da filo conduttore all’autoanalisi dell’autore che in modo “politicamente scorretto” spesso, prendendo spunto dalle vicende dei suoi pazienti, smette per un attimo di ascoltarli riflettendo invece su di sè, sulla sua storia , sulla sua famiglia e sui massimi sistemi. Ne esce il quadro di una persona chiusa nel manifestare i propri sentimenti, fortemente amante e rispettoso di un padre che incarnava la cultura contadina toscana, rimastagli primordialmente nel carattere, e pesantemente influenzato da una madre pressante e molto presente. Tra tanti intenso è il racconto di una sua vacanza in Patagonia dove fu colto dalla “psicosi acuta del viaggiatore” provando il terrore di “diventare matto”. Forse per questo Cirri scrive di sé: “una linea ininterrotta unisce il più banale dei normali al più estremo dei folli”. Impensabile: il dottor Cirri somiglia a Vasco, un uomo per cui “la vita è tutto un equilibrio sopra la follia”. Chi lo avrebbe detto! Gio

Sul piacere e sul dolore. Sintomi della mancanza di felicità DeriveApprodi 2004

Non so se vi è mai capitato di cominciare la lettura di un libro e di scoprire che il suo contenuto è quello più adatto ad aiutarvi nelle situazioni o esperienze che scorrono in quel momento nella vostra vita. A me è successo leggendo questo libro scritto da Stefania Consigliere che si propone di analizzare la mancanza di felicità nella società occidentale. Mi ha attratta la promessa di un approfondimento sul piacere e sul dolore, quasi volessi trovare un antidoto o un attivatore da utilizzare in uno o nell’altro caso. Non si presenta come un testo di facile lettura, dal momento che l’autrice si serve di citazioni di scrittori, filosofi, pensatori di diverse epoche storiche il cui contributo può sfuggire al lettore privo di un ampio background culturale. Pur essendo così ricco di nomi altisonanti, di latinismi e termini per me inediti (nocicezione, appercezione..) quello che ho letto mi ha colpito per la lucidità con cui sono esposti concetti che tante volte sono balenati nella mia mente, ma ai quali non ho mai saputo dare un ordine che trasformasse le intuizioni in “saggezza” fruibile. Per esempio la considerazione sulla fisiologia del dolore/piacere per cui in entrambi i casi si tratta dello stesso tipo di segnale, ma, quando questo perviene al nostro cervello sia lo stesso cervello a discriminarne la differenza; il dolore ed il piacere visti come percezioni oppure come emozioni; le diverse forme in cui si declina il dolore = paura, solitudine, insicurezza, povertà, malattia, tortura, - e il piacere = salute, estasi, facoltà, verità, salvezza; il fatto che sia il linguaggio precostituito a connotare il dolore come esperienza negativa ed il piacere come qualcosa di positivo e quindi la conclusione che non è la sensazione a fondare la conoscenza, ma la conoscenza - il linguaggio comune- a dare un nome alle sensazioni. Le riflessioni della Consigliere incoraggiano a mettere “a nudo” e a guardare dalla giusta distanza questi due miti, questi due aspetti dominanti e apparentemente impenetrabili della nostra esperienza terrena. Anna Maria Falcetta

GIUSEPPE CULICCHIA

Brucia la città Mondadori, 2009

Il libro parla di un gruppo di trentenni della middle class amanti delle nuove tendenze musicali alcuni dei quali, tra questi il personaggio principale ed io narrante, fanno i disk jockey. A parte alcuni sporadici momenti, il libro corre leggero come quasi tutti i soggetti che man mano entrano a far parte della storia. Tutto ruota intorno a feste, locali e posti dove suonare. Qui il suonare non ha nulla a che vedere con la musica dal vivo, è il disc-jockey che suona e compone, mixando tutta la scelta di vinili che ha al seguito. Le priorità sono inseguire ogni ultima uscita, sperando di arrivar a metterci le mani sopra prima dell’amico, disk jockey pure lui, andare ad una certa festa per vedere come se la cava un collega di cui han sentito parlare ecc. Però più si va avanti con la lettura più ci si rende conto che in realtà non ci sono protagonisti e che la storia in sé è solo un modo per dar risalto al vero protagonista che è la città, è Torino, anche se la storia bene si adatta ad un buon numero di città del Centro nord. Altro protagonista indiscusso: la bamba o, se preferite, la coca. Tanta e spesso, in quasi tutte le situazioni. La cosa che più mi ha colpito è stato però l’aver reso protagonista del racconto una città, mettendo in risalto il fatto che i cambiamenti avvenuti successivamente alle Olimpiadi invernali 2006 le avessero dato nuovo splendore e nuova vita. La sensazione che lascia l’autore è che quanto da lui raccontato non sarebbe mai accaduto così, se Torino fosse rimasta quella di prima. Altro punto curioso è il tipo di vita che conduce la maggior parte dei personaggi: le preoccupazioni sono solo su cose superficiali (divertimenti, acquisto di quel capo limited edition): una realtà ben lontana dalla maggior parte della gente che si deve “sbattere” per cose concrete (casa, stipendio, conti da pagare, asilo, scuola.) e che un certo tipo di vita lo può solo sognare. Manuele Celotto


GIORGIO VASTA

GIANRICO CAROFIGLIO

Il tempo materiale

Né qui né altrove. Una notte Bari

1978: l’anno con tredici lune. L’anno dell’assassinio di Aldo Moro. L’anno dei Mondiali d’Argentina e del gol rocambolesco di Paolo Rossi alla Francia. A Palermo, un ragazzino di undici anni e due suoi coetanei giocano a fare i brigatisti. Ma il gioco, a un certo punto, diventa terribilmente serio. Inventandosi innanzitutto un nuovo linguaggio, a poco a poco si spogliano di loro stessi, si spersonalizzano per diventare “altro”: nuovi nomi, nuove sigle, un nemico da inventare, una cellula, un organismo che colpisce. La scuola è il loro Stato, incendiare l’auto del Preside è il loro attacco al cuore. Vasta vuole svelare il meccanismo che sta dietro ad un’adesione a qualcosa di totalitario, e poco importa se a metterlo in pratica sono dei ragazzini imberbi e a rimetterci la vita è un loro coetaneo che fa Morana, e non Moro, di cognome, rapito e poi ucciso come l’onorevole democristiano. Vissuto con gli occhi di un bambino (Vasta è nato nel 1970, perciò nel ‘78 aveva otto anni) e riletto con gli occhi di un adulto, quello è l’ultimo tempo del coraggio, anche di sbagliare. A far da colonna sonora al periodo è un motivetto di Renato Rascel che ancora oggi tutti saprebbero canticchiare: “Noi siamo piccoli, ma cresceremo… noi siamo piccoli ma dateci del Lei”. Per Vasta è la metafora dell’Italia, che non è mai all’altezza ma esige rispetto, che deve per forza tramutare ogni tragedia in farsa, e per questo non può, non sa, fare i conti col suo passato, prossimo o remoto che sia.

Il quarto romanzo del magistrato pugliese scorre dentro una Bari come mai l’abbiamo vista. Il protagonista, in una sera di dicembre 2007, si ritrova per caso nuovamente assieme agli amici degli anni dell’Università, Facoltà di legge: Giampiero affermato notaio in città, Paolo insegnante all’Università di Chicago. La città si dipana nel suo rotolo di vie piene di gente ai tavolini dei bar, di piazze e di angoli e si anima di una nuova vita. E’ attraverso gli occhi stupiti di Paolo, infatti, che la Bari di oggi l’ha conosciuta da oltreoceano e grazie ad internet, che il nostro protagonista vede la sua città come fosse per la prima volta, quasi come se anche lui fosse stato altrove e adesso, ritornato, la guardasse come uno spettatore esterno. La Bari che ripercorrono insieme i tre amici si intreccia con la Bari dei loro ricordi, con la Bari della loro infanzia, quella di fine anni ’70. Una città allora molto più buia e inospitale, priva di luoghi in cui andare la sera, fatta eccezione per i cinema, tanti e bellissimi che adesso sono stati sostituiti da Bingo o da multisale. In quella Bari c’erano locali notturni, circoli privati, discoteche fino a quando nel quartiere Libertà non erano sorti Il Maltese e l’Athaualpa, locali un po’ alternativi dove tutto sembrava possibile e tutto poteva accadere e per questo particolarmente cari al protagonista e alla sua sete di cose diverse, altre da tutto. Alla fine ne esce una fotografia in notturna di una città fatta di vie squadrate e perpendicolari che promettono ad ogni angolo facili vie di fuga verso l’infinito, verso quell’altrove ricco di speranze e prospettive che il protagonista ha vagheggiato, non sentendosi quindi mai, né qui né altrove, a casa.

Andrea Picco

Daniela Leucci

Laterza, 2008

Minimum Fax, 2008

L'intervista

Non basta dire “verde”

Viaggio alle origini dei consumi assieme a Fred Pearce, noto giornalista ambientale inglese di Elisa Cozzarini “Confessioni di un eco-peccatore”, l’ultimo libro del giornalista inglese Fred Pearce, è un viaggio alla ricerca delle origini delle cose che compriamo e consumiamo. Quali sono le conseguenze ambientali e sociali di azioni quotidiane, come bere un caffè? O di acquisti speciali come una fede nuziale? Il tutto misurato su scala globale. Pearce scrive di ambiente da oltre vent’anni e collabora, tra gli altri, con il Guardian e l’Internazionale. Fred Pearce, lei afferma che siamo tutti eco-peccatori, ma potremmo esserlo un po’ meno? “Certo. Prima di tutto ciascuno dovrebbe cercare di prendere meno l’aereo. Questo si tradurrebbe in una riduzione notevole di emissioni di anidride carbonica, responsabili dei cambiamenti climatici. Bisognerebbe anche limitare l’uso dell’automobile, accendere meno l’aria condizionata e il riscaldamento. Già

così faremmo molto per il clima. Ma è importante valutare anche l’impatto ‘sociale’ delle cose, ad esempio, quanto viene pagata la manodopera. Come cittadini, e come giornalisti, abbiamo il dovere di pretendere che i datori di lavoro garantiscano giuste e trasparenti condizioni di lavoro ai dipendenti in tutto il mondo. Infine, se disponibili, dovremmo comprare prodotti del commercio equo e solidale”. Ma è sempre buono il commercio equo e solidale? “Sì, anche se non tutto il guadagno supplementare va ai produttori. Una parte, però, arriva. Sono andato a vedere da dove viene il caffè che bevo a casa mia. Ho verificato che gli agricoltori vengono pagati di più, ma restano molto poveri perché il prezzo del caffè sul mercato globale è crollato negli ultimi anni. E così, anche se più alto, il prezzo del caffè equo-solidale è comunque più

basso di quanto costava il caffè alcuni anni fa”. Acquistare prodotti locali fa bene all’ambiente, perché si tagliano le emissioni di CO2 dei trasporti. Ma a volte possiamo chiudere un occhio? “In Kenya ho incontrato i piccoli produttori dei fagioli verdi in scatola che mangio a Londra. Ciascuno ha un buon guadagno. Noi ricchi abitanti della Gran Bretagna sbaglieremmo se, per essere più ‘verdi’, boicottassimo quei fagioli verdi solo perché arrivano in aereo. L’impatto ambientale del produttore keniota è comunque più basso di quello del consumatore britannico, che può cercare altri modi per emettere meno anidride carbonica. In molti altri casi la produzione di cibo per il mondo occidentale ha effetti devastanti sull’ambiente e sull’economia del Sud del mondo. Le multinazionali si prendono aree enormi per coltivare cotone,

tè, canna da zucchero, etc. Ma gli agricoltori, anche in paesi molto poveri, possono ritagliarsi spazi per produrre sia per sé stessi sia per vendere, anche all’estero. Questo è positivo”. Ci fa un esempio di “greenwashing”, cioè il far passare per ecologici prodotti che non lo sono affatto? “Anche se, da giornalista, non dovrei stupirmi più di nulla, resto shockato che anche le associazioni ambientaliste a volte sostengano prodotti che non hanno nulla di verde. In Gran Bretagna si vende carta ‘a impatto zero’. Peccato che poi si scopra che non lo è per nulla: si ricava dalle piantagioni di eucalipto in Brasile, contraddistinte da un marchio ecologico sostenuto anche da associazioni come il Wwf. In Brasile, però, ci sono forti proteste contro queste piantagioni, che stanno distruggendo l’ambiente e rubando terra ai contadini”.


PINO ROVEREDO

Attenti alle rose Bompiani, 2009

Ci sono rose di tutti i toni: dalle classiche rosse a gambo lungo color amore, a quelle bianche color purezza o quelle gialle color gelosia; poi quelle rosa chiaro color delicatezza, quelle arancio con sfumature gialle color allegria o quelle bianche dai bordi rosa pesca color freschezza; perfino quelle fuchsia color audacia e addirittura quelle blu, color mare....Alcune, dal gambo lungo, altre, a mezza via e altre ancora, più esili, ma tutte, hanno le spine....In questa stagione le vendono in tutti gli angoli della città, ma

Un branco di giovani di Massimiliano Santarossa Il racconto, inedito, anticipa i temi del nuovo libro “Gioventù d’asfalto”, in uscita a settembre per le Edizioni Biblioteca dell’Im­ magine. Con questo racconto, il giovane autore pordenonese ha vinto il Premio Letterario Na­ zionale Parole Contro 2008. In anteprima e per gentile conces­ sione dello stesso Santarossa, ne pubblichiamo un estratto, quello cioè che parla anche di noi Ragazzi della Panchina di via Montereale.

Inizio duro, di un pomeriggio duro. Il cielo di piombo non buttava giù acqua. Anzi. Gli enormi palazzoni popolari “Case Rosse” stavano sotto un sole giallo fuoco, fermo in mezzo al cielo da ore. Caldo da spaccare le ossa. E in questa periferia post-moderna si aggirava un branco di ragazzi. Ore 14:30 Cinque sbarbati di sedici anni percorrevano via Pirandello a bordo dei loro ferri arrugginiti, cinque scassate Bmx. Petto in fuori e pedalata convinta, cattiva, erano partiti alla scoperta del mondo. Avanti e indietro per via Pirandello. Potevano resistere ore. Ma cambiarono meta. «Raga andiamo, veloci. Via dritti in Sala Giochi!», urlò fiero Mighe. Subito girarono le Bmx verso la “Perseo”, e a furia di impennate planarono nel grande parcheggio. Sudati come bestie entrarono nel locale, di corsa, tra spintoni e urla, pronti a sfidarsi a colpi di joystick. «Se sei bravo con centolire smanetti per mezzeore a space invaders», era la profezia di Max. Negli anni Novanta i pomeriggi degli adolescenti trascorrevano sempre così, sempre alla stessa maniera. Sempre assieme. Sempre allo stesso posto. La sala giochi, le chiacchiere in libertà, il cannone, il giro in Bmx, qualche bicchiere di rosso… Ma ’ste robe ormai annoiavano. Adrenalina zero. Ma quel giorno arrivò Pino. Pino il Drago. (…) In quegli istanti Pino si sentiva un vero maestro di vita ad aver combinato un casino del genere. Alla sua tenera età già dava fuoco ai cassonetti, chissà tra un po’ di anni dove sarebbe potuto arrivare. Invece da quel giorno nessuno l’ha più visto. Né in osteria, né in sala giochi. Pino il Drago sparì nel nulla. Come una meteora era sceso giù, aveva incendiato la nostra periferia, e poi era tornato su nel nulla… Ma non era sparito.

solo pochi azzardano ancora il gesto eroico di regalarle all’amata, forse perché poco attenti, poco “Attenti alle rose”....Le rose di Pino Roveredo invece non si possono ignorare; sono rose che profumano, dai colori inebrianti, ma soprattutto sono rose che sollecitano l’attenzione; si posano delicate nello sguardo come piume nelle mani, ma se non curate adeguatamente, invece di schiudere i petali dolcemente in attesa di ricevere una carezza vellutata, uno sguardo amorevole, un alito di vita, trafiggono il cuore come aghi avvelenati dal rancore e dall’odio lasciandone in ricordo anche una sola spina capace di trasformare un magico incontro negli anni in un duello all’ultimo sangue, dove a volte, uno perde e uno vince, ma può anche succedere che ne escano sconfitti entrambi, ognuno a modo suo....

Perciò, state attenti a non ingannare il tempo con l’abitudine, a ricambiare una dolcezza con la superficialità di un “chissà quale astuzia le gira per la testa stavolta” o a sbrigare un’intimità con il disincanto di due imprecazioni e quattro bestemmie. Non permettete che la fretta scelga per fidato alleato lo stupido orgoglio di un pensiero che gira per le vie con la furia della bora ed il rischio che spenga anche l’ultima scintilla di desiderio. E se per mistero scopriste un giorno il vostro giardino pullulare di rose, non calpestatele con il passo dell’ingratitudine, ma accoglietele con la mano premurosa del giardiniere che con il suo divino tocco riesce a trasformare ogni lacrima in una goccia di rugiada dall’abito fresco e scintillante dell’amore... Chantal M. Fornasier

L’ho ritrovato in via Montereale, a due passi dall’Ospedale, un giorno di alcuni anni fa. Pino stava raggomitolato sulle panchine, tutto sporco e dimagrito, abbracciato ai soliti tossici. Implorava qualche soldo per farsi. Mi sedetti lì al suo fianco, in silenzio, sopra una panchina ormai famosa nei giornali e in Tv, ma sconosciuta alle persone perbene. Pino alzò gli occhi spenti, mi riconobbe. E come una cascata di emozioni iniziò a sputare la sua vita difficile. «Anni crudi quelli miei, senza padre né madre, senza storia alle spalle, senza radici da afferrare quando cadevo giù. Parcheggiato dentro una casa che non era casa. La chiamano casa famiglia, ma suona come orfanotrofio. Ho esagerato di brutto nella vita, e solo dopo ho capito che era un modo per fuggire, per non vivere davvero. La paura e la solitudine portano a sbagliare… Ma la vita mi ha restituito tutto. Sai, gli errori si rivoltano sempre, è il destino, le cattiverie le fai e poi ti ritornano, come una capriola. Sì, proprio come una capriola cattiva. Comunque vai tranquillo, domani farò richiesta di entrare in comunità, Massimiliano te lo giuro, farò richiesta. Ma adesso mi presti due spiccioli?». Stanotte è tornata a farmi visita questa storia. Ha riportato alla luce le scorribande esagerate di quel gruppo di ragazzini che si allenavano a diventare uomini, a modo loro. Non so se Pino è entrato in comunità di recupero. Forse oggi sta bene, o forse no. Ma una cosa ce la insegna la sua vita. Ci insegna la tenerezza verso «… quelli che non chiedono nessuna chance, che non chiedono niente di niente, che chiedono solo un posto dove sedere tranquilli ad aspettare che il sole si muova obliquo lungo il muro e che la pace di una pioggia leggera ricopra tutto quanto»; come scrive Charles Bukowski. Certe vite, se le guardi a fondo, insegnano a non giudicare.

IL VISIONARIO: Misteriosa morte di un cybernauta Un cybernauta dall’apparente età di 33 anni è stato trovato ieri notte privo di vita nella sua posta­ zione internet LI8R1.L’uomo, che non chattava ormai da giorni, gia­ ceva sul suo letto virtuale riverso su un fianco, gli occhi spalancati in un’espressione di tragico, ultimo stupore. Si seguono numerose piste, in uno spettro che va dal delitto passionale al consumo di sostanze tossiche. I vicini di sito, infatti, pare abbiano riferito alle autorità competenti di strane frequentazioni dell’uomo avvenute negli ultimi tempi, tanto da ipotizzare che fosse entrato nel tunnel della lettura.

Ad un primo esame tossicologico, tracce di libri sono state rinvenute nel suo microchip interiore. Se confermata, la presenza di frammenti di “Delitto e castigo”, “Guerra e pace” e “I fratelli Karamazov” testimonierebbe di un uso massiccio di sostanze pesanti. Gli inquirenti ipotizzano che, in forte stato di depressione, l’uomo si sarebbe rivolto al mercato nero per avere una copia del “Ulisse” di Joyce, forse per compiere un estremo gesto. Aperto il volume, si sarebbe invece ritrovato a leggere le prime frasi di “La mia prigione”, autobiografia di Fabrizio Corona. Il suo cuore, a quel punto, non avrebbe retto.


la città tranquillamente, la microcriminalità sembra non esistere (peculia­ rità dei luoghi con assenza di democrazia), ma ho la consapevolezza di trovarmi in un paese dove diritti e doveri non sono così chiari e condivisi, e dove la dilagante corruzione e la pesantissima burocrazia di questa “nuova” repubblica potrebbe farmi piombare, per un qualsiasi incidente e mio malgrado, in una situazione kafkiana senza fine. Tra le altre cose, nel Tajikistan non esiste un’ambasciata italiana. Il pane locale, che si presenta sotto forma di una grande piadina, viene venduto ai lati delle strade adagiato su una cassetta rovesciata e passa di mano in mano senza involucro di protezione.

INVIATI NEL MONDO

OLTRE IL MIO MONDO di Claudio Pasin

segue dalla prima pagina

Non si capisce bene dove bisogna stare, cosa fare, aspettiamo circa un'ora e nel frattempo osservo guardie simil-russe (le avevo viste solo alla televisione) con le loro divise pretenziose ma prive di computer decenti. Arrivano i bagagli, ammassati sul cassone di un camion di fabbricazione russa che avrà cinquant'anni. Alle 5,30 siamo in strada su una Lada-Niva in avanzato stato di "decomposizione”. La città è semibuia e semideserta, gli spazi sono ampi e poco sfruttati, gli edifici, perlopiù palazzi stile impero russo, hanno bisogno di manutenzione e anche in centro ci sono un sacco di "bidonville". Sono qui da poche ore e la desolazione mi assale marcatamente. Ho accettato con entusiasmo la proposta di partecipare a questa avventura (sono qui per contribuire alla costruzione di una madrassa voluta dall’Aga Khan) e lo spirito con cui mi accingo ad affrontare questi tre mesi in Tajikistan è totalmente romantico. Tuttavia ci metto poco a rendermi conto della povertà diffusa, delle condizioni sanitarie pessime, dell'ignoranza dilagante, dell'assenza di tecnologia, della mancanza di regole condivise che di fatto fa muovere la gente in un clima quasi anarchico, cosa che da un lato mi affascina e dall'altro mi disorienta. La gente, pur ospitale, è triste, seria, tutta vestita di nero e non potrebbe essere altrimenti: la condizione generale è di povertà. D'altronde il Tajikistan era la più povera e la meno industrializzata tra le 15 repubbliche dell'Unione Sovietica, anche per l'asprezza del suo territorio inospitale, dove l'altezza media è di 3000 metri, le aree coltivabili sono solo il 7% del suolo nazionale e a seguito delle politiche di urbanizzazione praticate in settant'anni dai sovietici c'è pure scarsità di legname. Alcuni volontari di una delle numerose ong presenti a Dushanbe mi raccontano che la vita al di fuori della capitale è ancora più difficile, data la condizione di arretratezza rurale e la persistenza di usanze e regole retaggio di un passato che è lungi dall’essere superato; ovviamente donne, vecchi e bambini sono le vittime designate. Se si dovesse immaginariamente invertire la condizione della donna con quella dell’uomo, quest’ultimo si estinguerebbe. È la donna l’eroe di questo mondo. Anche perché la popolazione maschile tagika è decisamente indolente. Di origine persiana, il popolo tagiko si bea di essere un popolo di poeti e cantori che non ha un buon rapporto con il lavoro e preferisce che sia la donna ad assolverlo. Le prime settimane volano: un'iperbole di emozioni e scoperte curiose mi lasciano stupefatto. Giro

Sono rari i distributori di benzina e il servizio è fornito da camion autocisterna provvisti di imbuto, taniche e bottiglie. Tutto funziona ad energia elettrica (il gas non viene distribuito da più di dieci anni), ma non c'è la “messa a terra” e la fornitura subisce continue interruzioni. I filobus sono obsoleti, le colonnine telefoniche prive di telefono, non esiste servizio di posta, c’è un’invasione di prodotti cinesi scadentissimi, quando piove per più di due giorni dai rubinetti esce acqua marrone. Per le strade di Dushanbe guidano tutti come se stessero precipitandosi a spegnere un incendio. Le macchine sono quelle che sono, le regole che gestiscono il traffico non arrivano a cinque e il concetto di assicurazione auto è inesistente. Sino a qualche anno fa nella capitale si girava ancora su carretti trainati da asini, ma ora il traffico è sostenuto e il 40% degli automezzi sono SUV delle marche più prestigiose. Il motivo di questo cambiamento è evidente di per se stesso, si chiama traffico di eroina. Questa regione dell'Asia centrale è infatti strategica non solo per le sue grandi riserve petrolifere, ma anche per la produzione dei tre quarti dell'oppio mondiale. Quando l'Unione Sovietica si disgregò, Mosca perse il controllo di quasi 5.000 km di ex confini sovietici in Asia Centrale e nel Caucaso e ci fu un massiccio aumento del traffico di droga. Nel 1993, le guardie di confine russe ritornarono in Tajikistan nel tentativo di contenere il flusso di oppio dall'Afghanistan. Nel solo 2002 intercettarono 6,7 tonnellate di droga, metà della quale eroina. Nel 2005 però il presidente tagiko, sperando di ottenere aiuti finanziari dagli USA, chiese alle guardie di confine russe di partire, sostenendo di essere in grado di assumersene i compiti. Entro pochi mesi dal ritiro, il narcotraffico attraverso il confine aumentò di molte volte. Per verificare la bontà di quanto vedo e sento, mi procuro vari rapporti ed analisi geopolitiche su questa parte del mondo. Li accomuna la preoccupazione per la crisi politico/economica, oramai ad uno stato avanzato. Mi colpisce in particolare “Tajikistan: inquietanti se­ gnali di instabilità”, il dettagliato rapporto di Filippo De Danieli (analista ed esperto ricercatore di ARGO, osservatorio italiano dell’area orientale) del luglio 2008. De Danieli ricorda la storia recente, la guerra civile durata cinque lunghi anni (1992-1997) e scoppiata solo dopo pochi mesi dall’indipendenza, quando i sussidi di Mosca sono venuti a mancare e l’intero sistema economico è crollato. Contestualizza la figura del presidente (Rakhmonov), uno sconosciuto dirigente locale del partito che ha gradualmente concentrato il potere politico e quello economico nelle proprie mani con il benestare della comunità internazionale. Analizza l’economia del paese, con il 65% della popolazione sotto la soglia di povertà e la sopravvivenza della popolazione ed il funzionamento delle istituzioni dipendenti da ingenti aiuti internazionali e dalle rimesse degli emigranti. Osserva come l’economia basata sulla coltivazione del cotone e la lavorazione dell’alluminio stia in piedi solo grazie agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale, che ha denunciato il governo tagiko per aver falsificato documenti riguardanti prestiti ricevuti per ottenere maggiori finanziamenti. E come il tribunale di Londra, che ha giurisdizione sul mercato globale dei metalli, abbia accusato il governo di distrarre l’ 80-90% dei profitti derivanti dalla commercializzazione dell’ alluminio in una società con sede in un paradiso fiscale. Infine, ricordandoci che la posizione strategica è la maggiore risorsa di questo paese, conclude con le parole di un diplomatico occidentale di stanza a Dushanbe : “Noi governi occidentali abbiamo tutto l’interesse di rimanere in Tajikistan perché non si trasformi in un failed state. Questa non è una di quelle aree del mondo dove ci si possa permettere di aver un paese allo sfascio.” Scopro così che nella realtà del paese non c’è niente di romantico, ma un concentrato di problematiche complesse che rende il suo cammino democratico ed il suo benessere di là a venire.


nessuno può dire che la vita non ha senso Nel 1995 Andrea Zanzotto per primo credette nei Ragazzi della Panchina. Storia di un’amicizia che non sente il passare del tempo la nostra redazione “L’uomo di fronte ai fatti estremi”. Questo il titolo scelto da lui stesso per l’incontro pubblico dell’ottobre 1995 al ridotto del teatro Verdi di Pordenone. Andrea Zanzotto, il Poeta, che incontra i Ragazzi della Panchina: in quel momento storico sembrava una burla, una colossale provocazione. Cosa volete che abbiano mai da dirsi uno dei massimi poeti viventi e un gruppo di “sbandati”? Quella sera Zanzotto lesse alcune sue poesie sulla morte. Da quel momento in poi nacque un rapporto che a distanza di quasi quindici anni non si è ancora interrotto. Sempre presente, in forma discreta. Talvolta fisicamente, come in occasione della presentazione del “Diario della Panchina” nel settembre 1996 o nell’intervista rilasciata per il film “Casella postale 121”; in altre occasioni attraverso i suoi scritti, come la postfazione a “Karica vitale” di Gigi Dal Bon o la splendida lettera che inviò al gruppo in occasione della prima messa in scena di “Le fa male qui?” di Pino Roveredo, nel giugno del 2000. “Un esempio di impegno morale e civile”, così il poeta di Pieve di Soligo definiva il gruppo in quelle righe vergate a mano, a testimoniare la sua vicinanza e il suo costante interesse per lo sviluppo dell’esperienza nel corso degli anni. Chi di noi ha avuto la fortuna di incontrarlo, serberà dentro di sé la certezza di aver conosciuto un uomo speciale, di una rettitudine morale fuori dal comune, in possesso di una cultura mai didascalica, sempre al servizio della comprensione del mondo. Sempre in anticipo sui tempi, quasi che la sua sensibilità di poeta l’avesse dotato delle doti di un aruspice. Fu tra i primi a porsi il problema, ad esempio, della distruzione del paesaggio dovuta alla “desertificazione industriale”. Non ora, negli anni settanta. Quella sera dell’ ottobre ’95 si trovò di fronte ad altre sensibilità, le nostre di un gruppo di persone in quel momento storico

La fede nella poesia

Nel suo ultimo libro, “In questo progresso scorsoio. Conversazioni con Marzio Breda”, Andrea Zanzotto ha voluto inserire un ricordo di quell’incontro a Pordenone, collocandolo in una parte dedicata alle meditazioni sulla morte, i suoi “pensieri penultimi”. Parole che rivelano la sua umanità, dietro il paesaggio della sua straordinaria opera poetica. Mi verrebbe da chiamarli pensieri penultimi. Vanno e vengono, senza ossessionarmi, incanalati in quel rapporto primario che esiste tra poesia e morte: nel vincerla, almeno in parte, attraverso la scrittura ma anche nel suscitare nell’animo forze in grado

alla deriva. Fu, come ha scritto Gigi Dal Bon nel suo libro, “capace di raccontare una storia di quotidiana disperazione in un modo quasi intimo, con immagini fortemente presenti nel suo cuore: la poesia sa lanciare bagliori di luce sulla realtà più dura”. Il legame che si creò in quell’occasione continua ancora immutato. Lettere, inviti al gruppo a partecipare ad eventi importanti come il conferimento della cittadinanza onoraria da parte della città di Padova o la festa per i suoi 50 anni di poesia , incontri privati a casa sua: un’amicizia vera, sincera. A me, in particolare, capitò l’onore di accompagnarlo da Pieve di Soligo a Conegliano, per una visita medica. Un regalo che mi fece il dottor Alessandro Zamai, che gli aveva combinato un appuntamento con uno specialista. Successe in un primo pomeriggio di un caldo venerdì di luglio di alcuni anni fa. Complice un’interruzione della viabilità e la sua idiosincrasia all’aria condizionata, passiamo più di un’ora in una Clio rovente. Senza dare alcun cenno d’insofferenza mi racconta che la rete stradale veneta è ferma ai tempi dei Romani, che la Serenissima Repubblica di Venezia considerava il dissesto delle vie in terraferma la migliore difesa della città dagli attacchi nemici, che solo Napoleone aveva poi fatto qualcosa per migliorare la situazione. “Oggi io e te ne paghiamo le conseguenze”, mi dice con la sua solita ironia. Poi spazia: collega letteratura, politica, storia, medicina, neuroscienza, in un discorso che non conosce cedimenti, pause o imbarazzi. Imparo più cose in quell’ora che nel resto della mia vita. Arriviamo finalmente alla clinica e gli si fa incontro il medico specialista. “È un onore per me incontrarla, professor Zanotto”, lo accolse. Sbaglia il cognome, l’ignorante, e io mi vergogno per lui. Un fisiatra saprà tutto del nostro corpo, penso tra me, ma ignora tutto ciò che lo nutre.

di farci guardare in faccia quel “sole nero” e di sopportarne l’irrompere senza smarrirci completamente… Una decina d’anni fa ebbi degli incontri con dei giovani tossicodipendenti di Pordenone in gran parte malati di Aids e perciò in continua agonia. Era stata una giovane contagiata e già morta, Dina, a indicare il mio nome e i miei versi. “I ragazzi della panchina” li chiamavano, perché si ritrovavano davanti a una panchina nei pressi dell’ospedale e quando li conobbi la malattia ne aveva già falciati quindici in un mese e mezzo. Mi avevano invitato a recitare i miei versi sul tema della morte e a leg-

gere i loro, carichi di sofferenza, di sentimenti aspri e di speranze ( a quel tempo ancora vaghe) nella medicina e, appunto, nella poesia, alla quale guardavano quasi come un salvacondotto per sparire con dignità e come un modo per non farsi dimenticare. Lessi alcuni passi delle loro Ballate del dolore, come questo: “Potete tendere oh voi, una mano/ a chi chiedeva aiuto / pur da lontano… / E ora, bastardi / non piangete sul latte versato / Ormai, lui se n’è andato”. Ripensare a quei colloqui mi dà ancora una stretta al cuore, per la fede nella poe­sia che dimostravano i ragazzi.


"Dieci anni che non passavo un pomeriggio così" Il pretesto è stato portargli il nostro giornale. Il racconto del nostro ultimo incontro con il Poeta in un dialogo tra chi c'era e chi, purtroppo, no di Francesco Mio Bertolo e Andrea Picco

Perché non sei venuto da Zanzotto? Ero in ferie, in Croazia, Cesco. Mi è dispiaciuto tantissimo. Com’è andata? Dieci anni che non passavo un pomeriggio così, Andrea. Dieci anni. Addirittura.. Chi eravate? Io, Massimo, Gigi, la Ada, Zamai, poi c’era Roberto il fotografo, Ginetto. Diego e poi là c’era anche la Milena. Un pochi di noi dai… Ci siamo trovati in sede verso le tre. Siamo andati fin su a Pieve di Soligo, siamo stati là un’oretta e mezza e poi siamo andati a mangiare. Grigliata e poi soddisfatti di nuovo a casa. Un pomeriggio coi fiocchi.

E come sta Zanzotto? Dio, l’ho trovato un po’ invecchiato. Quand’era l’ultima volta che siamo stati a casa sua? Sarà stato dieci anni fa… Ormai?!? Comunque Zamai diceva che l’ha trovato meglio rispetto all’ultima volta che l’aveva visto. Te sa, i ani i passa par tuti.. Ha quasi novant’anni.. Fa fatica a muoversi, ma la testa viaggia che fai fatica a stargli dietro. Quante robe che ’l sa, quell’omo lì, Andrea.. E po’ te sa ‘na roba? Umile. Parlava come se se parlasse mi e ti. Di cosa avete parlato? Ha parlato lui, noi tutti zitti ad ascoltarlo. Solo Gino all’inizio di-

ceva qualcosa, poi non volava più una mosca. Potresti star là giorni a sentirlo raccontare. Ha detto che il più grande di tutti è Leopardi, ma te sa che mi no so de ste robe… Poi ci ha parlato del suo amico Nino, e di quella volta che è venuta la Regina d’Inghilterra, la Regina Madre, ad Asolo per premiare una poetessa e questo Nino è partito da Pieve di Soligo perché la Regina non poteva andar via dall’Italia senza assaggiare il vino che lui produceva. Anzi no il vino, il vino era quello che facevano gli altri. Il suo era il néttare. E poi di quella volta che l’uomo è andato nello spazio e Nino diceva che, anche se i russi i sconde tut, la navetta andava a aria condizionata… Ci ha talmente in-

curiosito che io e Gigi volevamo anche comprare il libro su di lui, perché Zanzotto ha scritto un libro su Nino. Fantastico.. E sai cosa ha detto del giornale? Ha detto: “ questo qua lo scrivete voi? Beh, mi pare che sia un bel risultato!”. Da andar fieri! Poi è arrivata sua moglie, ci ha offerto qualcosa da bere, e poi siamo andati via. Stavamo già salendo in macchina, ma prima di andare via una roba volevo dirgliela. Ero stato muto fin a quel momento! Son tornato indietro fin sul cancello e gli ho detto “Professore, ma ’sto Nino doveva essere proprio un amico!” “Un grande amico”, mi ha risposto con gli occhi lucidi, “Un grande amico.”


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L'ANGOLO DELLA FRANCA

QUANDO SOTTO I PIEDI LA TERRA TREMA È in condizioni tragiche che si capisce quanto valga la vita di Franca Merlo “Nel mondo non esiste nulla di completamente sbagliato, figlia mia”, le aveva detto il padre, indicando l’orologio. “Persino un orologio fermo riesce ad indicare l’ora esatta due volte al giorno.” [da Brida di Paulo Coelho] Conosco via web un ragazzo sardo di circa 35 anni, che si firma “drogamaro”. Ogni tanto, di passaggio, lascia qualche commento sul mio blog. Qualche tempo fa mi ha scritto: “Uno non comincia ad apprezzare le cose semplici ma essenziali, fino a quando non sente la terra che gli trema sotto i piedi. Purtroppo conosco quella sensazione… ma del resto come fai ad aprirti con persone che si sentono forti, che poi non si rendono conto di essere solo tasselli di un sistema che ti ha convinto che sia il tuo, e quello che veramente tu vuoi, ma è solo un modo per stare nella società e ci facciamo spesso trascinare da tutte queste situazioni che ci girano intorno. Chissà, forse il mistero della vita è stato fatto apposta per lasciarci insicuri e nello stesso tempo uniti nelle cose anche più insignificanti e banali; ma certo che un tassello di questa vita è stato messo al contrario in questo immenso puzzle misterioso, e dopo il grande artista è morto come tutti i grandi pittori che scopri famosi solo quando spariscono…e così Dio…” Caro amico, proprio tu che hai sentito “la terra che trema sotto i piedi” hai molto da dire in questa nostra società. E’ vero, spesso solo in condizioni tragiche si capisce cos’è che vale veramente. Si capisce che il mistero della vita, come tu dici, invita a sentirci uniti. E invece, piccoli e sperduti nel grande oceano dell’esistenza, spesso incapaci di accettarci per quel-

lo che siamo, abbiamo paura. Allora giochiamo a fare i forti e a volte ci facciamo del male. Ricordo Bob Dylan in Blowing in the wind: “Quante strade deve percorrere un uomo - prima che possiate chiamarlo uomo?”. E’ difficile per tutti, sai, diventare donne e uomini veri. E’ una lunga strada da percorrere, dove non ci sono piste già tracciate ma ognuno deve tracciare la propria. E dove spesso il bene e il male si presentano con facce diverse da quelle che ci aspettiamo. Tu, proprio dalla tua malattia hai saputo trarre la forza di VIVERE; scrivi e fai video su You tube, non ti abbatti e soprattutto hai imparato a pensare e riflettere, a godere le piccole gioie della vita, a guardare dentro di te; non sei un pupazzo in balia delle mode e dell’ipocrisia, combatti tutti i giorni la tua battaglia. Non pensi che dal tuo male ne sia uscito un UOMO migliore? E’ stato davvero, il tuo, un tassello messo al contrario? Ti invito, caro amico, a leggere una pagina scritta anni fa da uno simile a te, che si definiva “uomo guerriero”. Ascolta. Devo molto all’aids (dal libro “I ragazzi della panchina” curato da Letterio Scopelliti, Videe, Pordenone 1996, pp.124-125) Pordenone, 21 marzo 1995. Morire a 28 anni, Luca è spirato domenica sera. Ma la battaglia continua (…). Una battaglia che aveva cominciato nel 1993, con la dichiarazione di Aids conclamato. Nel momento della morte, Luca ha deciso anche di uscire dall’anonimato in cui generalmente vengono protetti coloro che sono colpiti dalla malattia. Così ha messo a disposizione i suoi scritti. Luca si autodefiniva “uomo guerriero”, cosciente di dover perdere la guerra, ma deciso a combattere fino in fondo. Il suo testamento comporta da un lato una lucida coscienza di che cosa gli è capitato e, dall’altro, il desiderio che la sua battaglia continui anche dopo la morte. “Giungo alla conclusione - scriveva ancora nel 1993 - di dover molto all’Aids in quanto malattia. L’imposizione di donargli la mia salute, il mio corpo e quindi la mia vita è stata prepotente. Ma altresì prepotente è stata la crescita interiore, cioè spirituale, che ne ho ricavato. Scambio favorevole per me, che ho avuto e sto avendo tuttora la possibilità di confrontare la mia capacità, seppur modesta, di crescere attraverso il dolore. Credo che difficilmente in una vita normale e piacevole si sarebbe verificata questa opportunità da me ricercata inconsciamente da tempo”. Che quel tassello messo al contrario, andasse proprio messo così?

EL CANTON DE GUERI

ALE’ UDIN

- Da quant’elo che i soga? - Pena cominciada - Vara quanta sente che lè qua - Trovete na carega dai - Fame posto. Ma che maie gali? Quei che iè i nostri?- Quei che i core manco In una sala gremita all’inverosimile il colpo d’occhio non era male: una moltitudine di facce tutte puntate verso la tv ben in vista appena sotto il soffitto. Due donne sedute in disparte guardavano divertite da quell’inusuale spettacolo, mai visti tanti uomini così seri tutti insieme, avevano persino smesso di parlare e questo già dice tutto. Dal banco del bar, el sior Felice paron era pronto allo scatto per servire le ordinazioni. Più in alto dietro di lui, un cartello troneggiava con un filosofico: “el saggio sa nient, l’inteligente sa poc, el mona sa tut” Con aria soddisfatta si gustava la buona giornata di lavoro. Felice di nome e di fatto.

- Felice porteme un gelato - De quei vutu? - De quei che te vol, basta che vinsi l’Udinese - OCIO OCIO, VARA CHE I CIAPA EL GOL.. MANCO MAL CHE L’È ANDADA FORA. MA COSSA FALI? DORMELI? – - Ou Gigi, ma no erelo infortunà quel li? O me sbaglio co quel de la cordenonese? - Cossa? Ti me par che te à bisogno de un bon caffè forte - No no peta, Felice fame un spris co la sambuca va, meteghe anca un fià de aperol e un fià de cinar, tanto pa copar el dolce - E basta? Ta un bicer? No elo meio ta na carafa? Scolteme mi - E ociu la e! Chisà po cosa che lè

par do robe messe insieme - Ou gavemo un nobile dai gusti rafinai qua, in Inghiltera i te varia sa baroneto de sicuro - Tento tento.. noo! Vara che speasada chel ghe ha dat, butelo fora quel li arbitro!! - VARA? NEANCA MONIO, SE L’ERA DE LA JUVE AL GHE DAVA RIGOR FORA AREA - Tento tento eco eco.. eee no lè rivà pa un pel - Sempri pa un pel! Chel li a nol riva sempri pa un pel, a lè un broc chel li - Ma cossa che i fa adess? Perché che noi la buta via quela bala? - E ti? Ti perché no te buta via la tua?- E ormai ghe son fesionà -

- NOO.. NO L’ERA FUORIGIOCOO.. FASIOL DE ARBITRO, CORNUTO!- Ou ara che lè sul giornal, no l’ha gnanche la morosa - NO M’PORTA, L’ARBITRO LÈ SEMPRE CORNUTO INSTESS - Dai dai dai.. Ma noo.. Perché se galo fermà? El doveva andarghe drio al sogo no?! - Ee Bepi, no ghi n’aveva pi - Si si al se gà taià i cavei ma nol core instess. Ma eli tuti cusì? - OU ARA CHI CHE LÈ RIVÀ, III EL VIEN QUA ANCA, ARA DA STAR BON ADES SATU?! CHE GHE SÉ LA PARTIA -

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A

come Amicizia

I futuri campioni del calcio protagonisti in Provincia al 12° Torneo Giovanile Internazionale dell'Amicizia, categoria Allievi. Il sogno? La serie A. Non solo per loro di Andrea Picco A vederli dalle tribune, un occhio distratto penserebbe di avere di fronte i protagonisti delle domeniche degli italiani. Movenze, determinazione, esultanze rabbiose dopo un goal: in tutto e per tutto la copia è conforme all’originale. Stiamo parlando dei sedicenni di belle speranze dei club calcistici più in vista d’Italia e d’Europa, presenti a Pordenone e San Giorgio della Richinvelda per il Trofeo dell’Amicizia, giunto quest’anno alla 12^ edizione. Ajax Genoa Siviglia Lazio Udinese Atalanta Triestina Milan Eintracht Francoforte Parma e persino i giapponesi del Funabashi, a contendersi il titolo con le formazioni locali del Pordenone e del Gravis. Ma come sono questi ragazzi?, cosa sognano? Proprio a margine di Parma-Pordenone (7 a 0, ndr) abbiamo l’opportunità di chiederlo all’allenatore degli emiliani Fausto Pizzi, sinistro naturale di grande eleganza , giova ricordarlo, nella sua lunga carriera il calcio che conta l’ha conosciuto eccome, prendendosi la soddisfazione di alzare una coppa uefa (inter) e una coppa delle coppe (parma). Fausto Pizzi, incrociando questi ragazzi all’uscita dal campo si ha l’impressione di aver a che fare con giocatori fisicamente già pronti per il grande salto. Differenze rispetto ai tuoi sedici anni? In effetti molte cose sono cambiate da questo punto di vista. Il calcio è molto più fisico e già a quest’età è normale trovare ragazzi in corpi di adulti. Ma restano sempre ragazzi. Per loro sei una figura di riferimento. Cosa ti trasmettono e cosa trasmetti tu a loro? Grande entusiasmo, grande passione. Mi fanno restare giovane… Allenare i ragazzi implica anche questo aspetto educativo, trasmettere loro dei valori che contribuiranno a farli crescere come uomini, prima che come calciatori. Un aspetto sul quale qui a Parma si insiste molto.

EL CANTON DE GUERI segue da pagina 17

- Me pare lè mort 38 ani fa sa? - SI LO SO TE LO DISI SEMPRE - lè mort a 51 ani - SI SO ANCA QUEL, E SCOMETO CHE L’ERA DEL 20 - Come fatu a saverlo? - MAH CUSÌ, GO TIRÀ A INDOVINAR - Però là fat la guera - A BE ALORA..- Bon bon, Felice.. fame un vlady mary flambè on the rox co na fetina de cipola va -

- COSSA? QUESTA BISOGNA CHE TE ME LA SPIEGHI EH.. - Ou baroneto, semo impressionai da tanta classe - E SI, NON SE POL DIR CHE LA SUA SIA ACQUA - Ma cosa!! Perché alo fiscià ades? Lasa sogar no sborà de pimpinela - El porta pegola chel fasiol de arbitro li - Atu vist i mericani col presidente novo? Un nero, Osama la.. come se ciamelo? - BOH, CHEL SIA QUEL FAMOSO BIN LADEN?- Sarà si, tant iè sempre quei chei

Sembrano dei Buffon, dei Cannavaro.. L’imitazione dei campioni per loro è un modo di esprimere la loro personalità. Adesso con la televisione che trasmette ogni giorno partite su partite quest’aspetto si è particolarmente sviluppato. I ragazzi studiano i numeri, ma anche gli atteggiamenti dei campioni in campo e poi li ripropongono per sentirsi grandi. Nella rosa a tua disposizione hai elementi provenienti da tutta Italia.. Ho anche qualche straniero, il Parma ha un’organizzazione capillare che permette di selezionare ragazzi in quasi tutto il mondo. Sono seguiti anche molto bene, sia dal punto di vista umano con una rete di famiglie a Parma che è coinvolta nella gestione, sia dal punto di vista scolastico con un tutor che segue il loro percorso di studi. Ovviamente le difficoltà per loro ci sono. Andare via di casa, o dal tuo paese a quindici anni non è facile per nessuno. Alla loro età tu cosa sognavi? Sognavo come loro la serie A. Abbiamo la fortuna di allenarci a Collecchio nel campo a fianco a quello della prima squadra. Ad ogni allenamento nei loro sguardi si legge il sogno di essere un giorno dalla altra parte della rete che divide i due campi. Tra loro c’è qualche sinistro come il tuo? Il nostro numero 7 direi che ha un sinistro notevole. Un’ultima domanda. E il tuo, di sogno, ora? Sono 4 annui che alleno e, facendo un passo alla volta, mi piacerebbe un giorno allenare in serie A. Proprio come loro.. Son proprio rimasto giovane!

gira - EE L’È TUTA NA MAGNADORA TRA DE LORI - Ma te piaselo a ti quel presidente li?- A MI? A MI ME PIASE ADRIANO CELENTANO - Tento tento.. ma noo, vara do che i la gà butada, a che rassa de brochi, a pore Udinese. - Atu vist che paca che l’ha ciapà el nero? - BE ALMANCO NO GHE VIEN FORA LA BOTA - Lasciai la banda di debosciati alla loro partita e il caso volle che più tardi ripassassi davanti

al bar proprio mentre si svuotava in strada. - Ou e lora com’ela andada? - Vint 3 a 1- Peroo.. bravi! - Eee l’ho dita subito mi che i gera forti Ecco, siamo alle solite. Questa è l’Italia. Tutti sanno tutto e il contrario di tutto. Nel calcio poi.. - Bon se vedemo mercoledì par la coppa – - ou ma alora erelo infortunà quel la o me sbaglio co quel de la cordenonese? -ti va adormir almanco fin mercole .


Hanno collaborato a questo numero —————————————— Guerrino Faggiani Rinasce nel maggio 2006 all’ospedale di Udine. Da lì in poi è blogger (www.iragazzidellapanchina.it/ gueriblog ), attore, ciclista.. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche davanti al computer. “Cosa? Tagliare?!? Piuttosto non sta neanche metterlo..”

—————————————— Ada Moznich Fan di beautiful, dati i suoi frequenti viaggi è costretta a comprarsi telepiù per stare al passo coi matrimoni della famiglia Forrester. È l'unica tifosa della Juve che non si è opposta al ritorno di Cannavaro.

—————————————— Pino Roveredo "Attenti alle rose" è il suo ultimo regalo letterario. Capriole in salita, Caracreatura: nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. Porterà in turnèe la Compagnia Instabile a Napoli e Milano: eroico!

—————————————— Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. perchè si è ripresa la vita (www. milenabidinost.blogspot.com) e oggi, come un trionfo, il direttore " vive, parla, ride, si arrabbia, commuove, annoia, risveglia…"

LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

—————————————— Claudio Pasin È appena tornato dal Tajikistan, dove ha costruito la più grande scuola coranica del paese su commissione del pazzo dittatore che lo regge. Perchè non si pensi che è solo il marito della Ada, che comunque è già un lavoro non da poco..

—————————————— Felice Zuardi “Far parte del vostro progetto mi fa sentire al settimo cielo, non ci sono parole per descrivere lo stato d'animo che ho provato quando ho realizzato che mi state chiedendo una cosa così importante, una sensazione che forse nessuna droga mi aveva dato fino ad ora”

Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Andrea Picco, Felice Zuardi, Franca Merlo, Claudio Pasin, Lara Palú, Gigi Dal Bon, Ada Moznich, Alessandro Zamai, Giovanna Orefice, Vittorio Agate, Laura Serra, Gino Dain, Elisa Cozzarini, Manuele Celotto, Francesco Mio Bertolo, Marta Bottos, Tiziana De Piero. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto Stampa La Grafoteca Via Lino Zanussi 2 33170 Pordenone Le fotografie in questo numero, ove non specificato, sono di Roberto Gnesutta.

—————————————— Manuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Memorabili le sue performance nel ruolo del carcerato, con tanto di lancio della canotta al pubblico e pettorali in bella mostra. Per un po’ di tempo, purtroppo, si è dimenticato di uscire dalla parte.

—————————————— Maurizio Poletto Creava già da giovane, con la maglia numero 7 sulle spalle, e si sa che un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia. E da lì vedi anche un uomo. Ha un unico neo: sullo zigomo, proprio sotto l’occhio destro.

—————————————— Francesco Mio Bertolo in un’altra vita è stato l’unico uomo al mondo ad aver mangiato in un’ora due vassoi di frittelle con la crema. Adesso è un altro. L’unica cosa che è rimasta di quel Cesco lì è la fede. Bianconera.

—————————————— Gigi Dal Bon Uno di quelli a cui i Ragazzi della Panchina devono tutto. Ramarro militante, ha scritto un libro, Karica vitale, che è il ritratto di una generazione. Chi entra in sede chiede: C’è Gigi? e Gigi c’è, sempre.

—————————————— Marta Bottos e Tiziana De Piero Pur di disegnare in esclusiva con il nostro giornale hanno rinunciato a un faraonico contratto con la Disney. Dato l’ingaggio di LdP, per sopravvivere si dedicano alla creazione di fumetti per la diffusione del friulano nelle scuole.

—————————————— Elisa Cozzarini È riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. Insomma, Freelance Amstrong

—————————————— Franca Merlo O Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia. ilcannocchiale.it

—————————————— Laura Serra All’istituto d’arte ricordano la sua cresta arancione. Nel blog si è scannata con una sedicente Ribelle e non ha mollato un metro. Non lasciatevi ingannare dai suoi occhi azzurri: la ragazza è tosta.

—————————————— Gino Dain Un medico un giorno gli ha detto: se continui cosi non duri più di sei mesi. era il 1980. da allora per scaramanzia non è cambiato di una virgola. é la dimostrazione vivente che la medicina non è una scienza esatta

Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo della Fondazazione CRUP attraverso il Comune di Pordenone Si ringrazia la famiglia Guidolin per l'ospitalità offerta alla redazione. Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Tel. 0434 363217 email: info@iragazzidellapanchina.it www.iragazzidellapanchina.it La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00

—————————————— Vittorio Agate Più magro di Gino, a meno di trent’anni ha vissuto almeno cinque vite. Ha un romanzo nel cassetto, ma ha perso la chiave per aprirlo. Se la ritrova, avremo il nostro Guerra e pace.

—————————————— Andrea Picco Su facebook si definisce integralista juventino. Già viveva una vita in 4D: Daniela, Demetra, Drugo e … Del Piero. Ora che la Juve gli ha comprato anche Diego ha raggiunto dimensioni che noi umani nemmeno ci sogniamo.


non dimenticare tuo figlio davanti alLA TELEVISIONE I ragazzi della panchina campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale del comune di pordenone -20-


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