LDP 3/2012

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APPROFONDIMENTO

Padri distanti

Libertá di Parola 3/2012 ——

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

L' EDItoriale

Il diritto di essere genitore di Pino Roveredo Nel tragitto della vita, per dare senso e movimento all’esistenza, s’imboccano

strade, si tracciano percorsi, costruiscono storie. Percorsi felici, infelici, sofferti, entusiasti, e dentro nascono storie importanti, racconti dispiaciuti, ricordi innamorati, e a volte epiloghi che muoiono dentro lo sbadiglio, dove non c’è più niente da dire, dare, fare. E’ capitato anche a me e alla mia sposa che, dopo un matrimonio lungo trent’anni,

Alex

Ci sono padri distanti perché indifferenti e ci sono padri distanti perché costretti a rinunciare ad essere dei buoni padri. Per colpa delle mogli e di un sistema giudiziario che, in Italia, ancora oggi fatica a riconoscere i diritti della paternità. E’ l’altra faccia delle separazioni, dove a farla da padroni sono le donne - madri e dove la giustizia sottrare agli uomini denaro, energia e l’affetto dei propri figli. Viaggio in una paternità sofferta.

dove abbiamo vissuto e convissuto sopra l’altalena della fatica e dell’orgoglio, ci siamo ritrovati davanti all’apatia di quel muro che rompe gli abbracci e ammazza la parola, così, per non distruggerci col peso faticoso o magari rancoroso di una consuetudine, abbiamo messo un “punto” sul nostro racconto e chiuso la storia. Oggi, dietro a quella storia rimane la bellezza di tre figli, creature che per fortuna hanno vissuto il distacco con una ragione maggiorenne. Loro, senza una sentenza che stabilisca la condanna di un orario e una visita, possono frequentare la libertà di vedere, incontrare e vivere, entrambi i genitori. Ecco, nonostante la scossa imposta alla vita, alla fine ritengo di essere un genitore fortunato, un genitore che può godersi il diritto degli affetti senza dover sottostare all’ottusità di un’imposizione. Purtroppo questa serenità non vale per molti altri genitori, soprattutto padri che, nella separazione coniugale, spesso sono costretti a pagare un conto assurdo, e per niente umano. Quanti ne ho visti, quanti ne ho incontrati di quei padri, e quante disperazioni ho dovuto raccogliere con la parte angosciata del sapere. Ho visto padri che, in nome di una Giustizia ingiusta, hanno perso l’abitudine del domicilio e si sono dovuti adattare ai pernottamenti umilianti di dormitori pubblici, macchine rottamate, vagoni del treno. Ho visto padri stracciarsi il cuore e contare il tempo, perché la loro vita gira solo in quelle due ore a settimana, che un giudice senza occhi gli ha concesso per sfogare continua a pagina 11

IL TEMA

LdP in distribuzione a Pordenonelegge a pagina 2

l'evento

Teatro e carcere, continua il laboratorio dei Ragazzi a pagina 4

inviati nel mondo

Austria, il paradiso a due passi da casa a pagina 13

ANIMALI

Gatti randagi che inteneriscono il cuore a pagina 14

pankalibri

Tina Merlin, biografia di una donna contro a pagina 17

NON SOLO SPORT

A scuola di Judo al centro estivo a pagina 18


pordenonelegge.it

A SETTEMBRE PORDENONELEGGE LIBERTÀ DI PAROLA In occasione del festival del libro, il giornale è in distribuzione gratuita nei distributori del centro di Milena Bidinost Perché, qualcuno si chiederà, c’è un giornale come “Libertà di Parola” distribuito in giro per le vie del centro città, a ridosso dei principali luoghi in cui si svolge, da mercoledì 19 a domenica 23 settembre, una manifestazione di grande prestigio ed eco com’è da tredici anni Pordenonelegge.it, festival del libro organizzato dalla Camera di Commercio in partnership con numerosi altri attori? Per affezione e stima al tempo stesso. E soprattutto perché Pordenonelegge ha tenuto a battesimo, oramai quattro anni fa esatti, proprio Ldp, il giornale dell’associazione I Ragazzi della Panchina e a quanto pare gli ha portato fortuna. La prima volta de I Ragazzi della Panchina al festival è stata proprio quella. Era giovedì 17 settembre 2009, ore 18.30 presso la vecchia tipografia Savio, in via Torricella, in pieno centro cittadino e sul palco assieme alla neonata redazione c’era Pino Roveredo, scrittore caro alla manifestazione e direttore editoriale del giornale. Il terzo numero del trimestrale, tra i pochi free press della città, interamente ideato, prodotto e pubblicato dall’associazione che dal 2000 si affianca al Servizio per le tossicodipen-

denze della locale Azienda sanitaria nel recupero dei tossicodipendenti e non solo, era stato pensato proprio ad hoc con un approfondimento a quattro pagine in giallo come i colori del festival e con all’interno tante recensioni e interviste agli autori presenti in quell’edizione, rigorosamente firmate dai ragazzi. Penne non d’autore, ma sincere sempre, che all’epoca hanno trovato una ragione in più per buttarsi a capofitto nella lettura e tradurre sensazioni e pensieri in parole scritte. Perché Pordenonelegge porta a fare anche questo. Nel 2009 fu importante esserci dietro a questa vetrina di livello internazionale per portare a conoscenza del

grande pubblico la storia, ma soprattutto l’impegno di questa associazione di Pordenone, presieduta da Ada Moznich, che fin dal suo nascere ha sempre trovato ostacoli sulla sua strada e per questo ha raggiunto successi dal valore doppio. Fu importante sperimentare l’integrazione tra disagio e città condotta sul filo della cultura, com’è nello stile del gruppo. Eravamo a settembre e I Ragazzi della Panchina avevano già scritto nella loro agenda 2009 due date di quelle che hanno poi finito per segnare la storia del sodalizio. La prima era quella di novembre con la rappresentazione dell’opera teatrale di Pino Roveredo “La Panka” a Napoli, prima trasferta fuori regione e da attori di un gruppo di ragazzi ed operatori dell’associazione in tournée con la Compagnia instabile di Roveredo e con la commedia che ne ricostruisce fedelmente la storia, dalla panchina di via Montereale a Pordenone dove tutto iniziò. L’altra data era il 31 dicembre, termine ultimo prima dello sfratto dalla storica sede di viale Grigoletti. Davanti c’era l’incognita del dove andare. Passò un anno e la permanenza nella casa fu prorogata. Passò poi un altro anno ancora. Nel 2011 di nuovo la possibilità, grazie all’ospitalità concessa a I Ragazzi della Panchina dai curatori della manifestazione, Gian Mario Villalta, Valentina Gasparet e Alberto Garlini, di parlare alla gente di Pordenonelegge. L’anno scorso il palco fu quello ancora più prestigioso del ridotto del teatro Verdi. L’argomento invece fu la nuova commedia scritta e diretta sempre dall’amico Pino Roveredo dal titolo “La legge è uguale per tutti”, un affondo obbiettivo e non polemico nei meandri della giustizia italiana vista da ambo i lati, dalla parte del giudice e del detenuto. Quella stessa commedia ad ottobre

di quest’anno sarà il motivo per cui l’associazione pordenonese riprenderà il volo per Napoli. Questa volta la nuova compagnia diretta da Guerrino Faggiani la rappresenterà addirittura all’interno del carcere di Poggioreale e nel quartiere di Scampia, centro europeo dello spaccio e della malavita. Una sfida che è conquista per un’associazione che dà voce al disagio sociale. Un anno fa, tuttavia, sembrò che la storia si ripetesse come due anni prima, questa volta però sulla sede non ci fu proroga e il 14 dicembre lo sfatto divenne esecutivo. Oggi I Ragazzi della Panchina sono più instabili che mai, accampati provvisoriamente in una stanza della Cooperativa Itaca di Pordenone in attesa di una sede provvisoria dal Comune che tarda ad arrivare e con l’unica certezza d’avanti: primavera 2014 fine dei lavori della nuova sede definitiva a fianco del Ser.T. Oggi, mentre la città si riempie di case editrici, incontri con l’autore, dibattiti, e quanto più ogni anno il programma del festival made Pordenone sa offrire, I Ragazzi della Panchina non ci sono nel fitto programma di eventi targati Pordenonelegge. Ma ci sono nonostante tutto. E c’è soprattutto “Libertà di Parola”.

Redazione LDP Il giornale esce a marzo, giugno, settembre e dicembre. Tutti possono partecipare agli incontri che si tengono ogni settimana a Pordenone o scrivere alla redazione per mandare il proprio contributo. In Ldp si scrive di tutto, purchè con toni educati. E' un giornale che dà la parola a vecchi e giovani, ricchi e poveri, di ogni sesso ed etnia. Per info www.iragazzidellapanchina.it, info@iragazzidellapanchina.it. Nel blog tutti i numeri del giornale.


SUL RING DOVE LA FANTASIA E L’IMPROVVISAZIONE SI FANNO GIOCO DELLA SCRITTURA Che fine faranno i quattro del Fight Writing, tra i 200 eventi del festival del libro? di Milena Bidinost Prendente quattro giovani scrittori per età e per fama provenienti da tutta Italia, metteteli in un ring e fate partire il tempo, lasciandolo che scorra. Aggiungeteci l’ingrediente iniziale uguale per tutti e quattro; mescolate l’impasto con abbondante dose di ironia affidandovi in questo a due chef d’eccezione come i comici pordenonesi Andrea Appi e Ramiro Besa, in arte I Papu. E durante tutta la prossima ora occhio agli ingredienti segreti che utilizzeranno questi scrittori per costruire in diretta un racconto: la fantasia e l’improvvisazione. E’ questa la formula collaudata di uno dei tanti eventi del calendario di Pordenonelegge, quello che più di altri si basa su un connubio accattivante fatto di parole, giochi, divertimento. Come in ogni “combattimento” che si rispetti alla fine c’è un vincitore, l’autore del brano che più accontenterà il gusto del pubblico. Come ogni competizione dopo la vittoria arriva la fama. Poco conosciuti al grande pubblico quando arrivano a Pordenone per finire, del tutto ignari di cosa succederà sul palco, sotto le “grinfie” de I Papu, chi sono questi scrittori e chi soprattutto diventano dopo Pordenonelegge? Esordienti al seguito di case editrici minori, trentaquarantenni che nella vita fanno altro (giornalismo, pic-

cola editoria e non solo) ma che nel romanzo si sperimentano spesso con interessanti risultati: tanti saliti nel Nord est per partecipare al festival dal centro e dal sud di Italia per sfida, divertimento e autopromozione. Non scrittori per caso, dato che più o meno tutti hanno continuato a scrivere, ma che in alcuni casi più di altri hanno avuto fortuna o determinazione, condita da bravura. La lista sarebbe lunga, consideriamo perciò le ultime edizioni di Pordenonelegge. Una certa notorietà ad esempio ce l’ha Giorgio Fontana, classe 1981, sbarcato da noi nel 2007 con in mano un contratto con la Mondadori per il suo primo romanzo “Buoni propositi per l’anno nuovo”. Sono usciti poi “Novalis” per la Marsiglio e “Babele 56” per Terre di Mezzo nel 2008 e “La velocità del buio” per zona nel 2011. Fontana in questi anni è stato autore prolifero, fino all’ultima fatica letteraria “Per legge superiore” (Sellerio 2011), romanzo sulla storia della crisi etica di un anziano magistrato giunto in un anno a tre edizioni, diritti acquistati in Germania, Francia e Olanda, Premio lo Straniero 2012, Premio Racalmare - Leonardo Sciascia 2012 e finalista al Premio Roma 2012. Massimiliano Virgilio, anche lui al Figth Writing nel 2007,

subito dopo divenne uno dei più promettenti scrittori napoletani: “Più male che altro” (Rizzoli) è il romanzo con cui ha esordito nel 2008, mentre “Porno ogni giorno. Viaggio nei corpi di Napoli” (Laterza) uscì l’anno successivo. In quell’anno il festival del libro annoverava tra i suoi anche Cristiano De Majo, anche lui napoletano, esordiente con il racconto lungo “Sistema elefante” (Punctum 2007). Nel 2008 ha pubblicato con Francesco Longo “Vita di Isaia Carter, avatar” (Laterza) e insieme a Fabio Viola( che sarà a Pordenone nel 2010) “Italia 2. Viaggio nel paese

che abbiamo inventato” (minimum fax). Nel 2010 è uscito il suo primo romanzo: “Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, il suo miglior amico” (Ponte alle Grazie). Con lui c’era anche Flavia Piccinni, classe 1986, con alle spalle la vittoria al prestigioso Premio Campiello nel 2005 e un romanzo uscito nel 2007 “Adesso Tienimi”. Nel 2011 la scrittrice è tornata in libreria con Rizzoli e con un romanzo, “Lo Sbaglio”, dove gli scacchi sono un modo per leggere e capire il nostro destino. E’ fresco di stampa invece “Sophia si veste sempre di nero” (minimum fax 2012) l’ultimo romanzo di Paolo Cognetti, autore di “Manuale per ragazze di successo” e “Una cosa piccola che sta per esplodere”, da noi sempre nel 2008. Nel 2009, nella quaterna c’era Matteo De Simone, piemontese, conosciuto ai seguaci del rock indipendente italiano come autore, cantante e bassista del trio rock “Nadàr Solo” e al tempo stesso scrittore, con nel 2007 il romanzo “Tasca di pietra (Zandegù)” e da ultimo, nel 2001 per Hacca, “Denti guasti”. E’ entrata quest’anno nella lista degli autori Mondadori invece la padovana Laura Sandi che in “Biscotti al malto Fiore per un mondo migliore” rievoca i sapori dell’infanzia. E così via. Del resto il punto su ogni autore, piccolo o grande che sia, che ha calcato le strade ed i palchi di Pordenonelegge in questi tredici anni ha un inizio, ma faticherebbe ad avere una fine. Intanto l’appuntamento con I Papu e il loro Fight Writing quest’anno è per domenica 23 settembre, alle 17 in piazza Cavour. Occhio questa volta a Silvia dai Pra’, Sacha Naspini, Alessio Torino e Francesco Targhetta.


laboratorio teatro

«Carcere e città sono espressione della stessa umanità» Cunial, magistrato di sorveglianza di Udine, allo spettacolo de I Ragazzi della Dott.ssa Mariangela Cunial La lettera di una detenuta, pubblicata sul n.3/11 di “Libertà di Parola”, mi ha offerto l’occasione per riflettere sulla reciproca percezione delle relazioni che intercorrono tra la società libera e la umanità detenuta. La donna raccontava i momenti seguenti al suo risveglio mattutino in cella, quando attenta a non disturbare il sonno delle compagne si affacciava alla finestra per far scendere lo sguardo in strada sulle persone passanti da cui percepiva di essere ignorata (“penso che per loro noi non esistiamo”), lei rinchiusa fra le mura del carcere e nascosta agli sguardi della società libera. Immagino quel-

la donna mentre sorseggia il suo caffè, la vedo così vera affacciare il viso tra le sbarre, e riconosco in lei la condizione di smarrimento, di solitudine tante volte nominatami dai detenuti, che si sentono non pensati e quindi abbandonati da chi sta fuori. Quelle poche righe mi hanno ricordato la mia condizione privilegiata, che mi consente di entrare ed uscire liberamente dagli istituti, di accedere a tutti i locali fino ad arrivare al cuore pulsante, le celle con i loro abitanti, e quindi di pensare i detenuti nella loro concreta condizione quotidiana di persone costrette dentro una cella, negli spazi comuni, nelle

giornate cadenzate dai ritmi temporali dettati dall’istituzione. Ma tempo fa, prima che la professione mi desse modo di conoscere il carcere come uno dei tanti luoghi sociali in cui gravita parte della nostra umanità, ed espressione della nostra società, non era questo il mio senso del carcere; era in tutto simile a quello che l’immaginario collettivo ci rappresenta e cioè un luogo sconosciuto, non accessibile ai più, pauroso.Pochi mesi fa ho partecipato ad una visita collettiva guidata ai carceri veneziani, maschile e femminile; si è trattata di una felice iniziativa aperta a tutti i giudici interessati indipendentemente dalle funzioni esercitate ed a cui si sono uniti anche giovani laureati in giurisprudenza e finalizzata a consentire una diretta conoscenza, altrimenti preclusa, del carcere e delle condizioni di vita interne, rese particolarmente penose dall’attuale condizione di sovraffollamento. Ebbene, attraverso gli sguardi sgomenti, intimiditi ed a volte timorosi dei visitatori, attraverso i loro commenti, le domande, i silenzi ho rivissuto le emozioni forti del mio primo ingresso in istituto da magistrato di sorveglianza, 16 anni fa. Il timore di un luogo sconosciuto, unitamente alle condizioni più o meno degradate degli interni, i rumori, gli odori, i colori di pavimenti e pareti, tutto aveva concorso nel rappresentarmi la crudezza, l’asperità del luogo, ma la vera sorpresa venne dall’incontro attraverso le sbarre con gli sguardi dei detenuti, chiusi nelle loro celle;

si trattava di uomini e donne, in tutto simili ai liberi, ma nascosti agli occhi della società, un’isola irraggiungibile e impensabile per la maggior parte dei liberi. Pur suggerendo l’idea di esclusione dalla nostra società, di assoluta separatezza, il carcere appartiene intimamente ad essa, né è espressione. E’ essenziale quindi che come cittadini ci appropriamo di una realistica concezione di questa istituzione, conoscendola sia nella sua realtà fattuale, che nelle attività che vi si svolgono e nelle finalità rieducative che vi si perseguono. Lo sforzo prodotto in questi anni dai tanti operatori che hanno lavorato per abbattere le mura ideali della Casa Circondariale di Pordenone ha prodotto ottimi risultati nel processo di integrazione del carcere con la città di Pordenone. Prova ne è l’affluenza alla serata di rappresentazione dello spettacolo “La legge è uguale per tutti” e la partecipazione calorosa e divertita riservata. Lo spettacolo teatrale era già stato realizzato all’interno dell’istituto e la sua esportazione sulla scena della Chiesa di San Francesco con la partecipazione di un detenuto ha avuto la duplice valenza, da un lato di consentire ai cittadini liberi di avvicinarsi alla realtà umana carceraria e quindi sentirla come parte della propria compagnie sociale, dall’altro di favorire nelle persone ristrette la percezione di essere pensate. Una serata quindi che ha avuto il pregio di divertire, colmando una distanza.

Stuleanec, sono di nazionalità rumena e dal 2000 vivo in Italia. Prima ho studiato poi ho sempre lavorato. Adesso ho 27 anni, da quattro sono recluso e può anche sembrare ridicolo dire che io abbia capito tante cose, ma è così, forse anche troppe per la mia giovane età. Le ho comprese

non solamente riguardo all’errore cruciale ed irreparabile che ho commesso, ma anche a proposito del genere umano: di noi umani che a volte non siamo degni di essere considerati tali. Potrei dilungarmi a lungo su questo mio pensiero, ma preferisco raccontarvi della mia esperienza

«Io, il detenuto che nel teatro si è rimesso in gioco» L’esperienza di Mihai Stuleanec all’interno della compagnia teatrale di Mihai Stuleanec Sono un detenuto del carcere di Pordenone e mi chiamo Mihai. Magari a molti di voi non importerà chi io sia, l’importante è che io ritorni il più tardi possibile in libertà. La libertà da cui chi la pensa così si sente libero di giudicare, come da uno “pulito”, senza conoscere la storia ed

il passato della persona che sta dietro alle sbarre per un errore commesso. Uno sbaglio però appartiene a chiunque: è come scivolare su una buccia di banana. Certo è anche che ci sono persone che entrano ed escono dalla galera, ma, lo dico subito, non è il mio caso. Io mi chiamo Mihai


La nostra prima volta da attrici, tra realtà e recitazione C. «Mi chiamo Caterina e sono stata invitata a far parte della compagnia da un caro amico che frequenta il Sert». F. «Io invece sono Floriana e lavoro presso il Servizio per le tossico dipendenze da circa due anni». 
C. e F. «Quando ci è stato proposto di partecipare alla manifestazione teatrale dell’associazione “I Ragazzi della Panchina”, ci abbiamo pensato molto. Avevamo molte perplessità al riguardo. Alla fine però, un po’ per curiosità, un po’ per metterci in gioco, abbiamo accettato. Fin da subito abbiamo capito di aver fatto una scelta giusta, perché da quel momento avremmo intrapreso un cammino nuovo e diverso dalla nostra solita quotidianità: un’esperienza tutta da scoprire, un percorso a gradini da intraprendere tutti insieme, uniti come una piccola famiglia. Abbiamo trovato un gruppo di lavoro meraviglioso, privo totalmente di maschere e questo nonostante i vissuti di ognuno. Questo legame particolare ci ha permesso quindi di collaborare come amici nella realizzazione dello spettacolo teatrale, anteponendo comunque sempre le persone,

dandoci modo di scambiare l’aiuto al bisogno e scoprendo che ognuno poteva imparare qualcosa dall’altro». C. « Nella commedia ho indossato i panni della madre di una minore violentata, una donna distrutta dal dolore ma anche incattivita dalle costanti malevoli “voci” dell’opinione pubblica. Un ruolo per me difficile da interpretare: una sfida, data la tragicità della storia. Quest’esperienza mi ha dato molto, il contatto con il pubblico mi ha resa più fiduciosa di me stessa, dandomi anche

l’opportunità di conoscere ed apprezzare un mondo a me estraneo com’è il teatro, attraverso il quale ho potuto “visitare” esperienze di vita che nel reale posso solo immaginare esistano. Attraverso la recitazione abbiamo sviscerato temi e problemi che la gente comune, può conoscere difficilmente in prima persona. Ciò ha fatto sì che io ora guardi gli avvenimenti negativi del mio prossimo con occhi diversi, chiedendomi cos’è accaduto prima di ciò che oggi appare. Perché dietro la storia di ognuno di noi c’è sempre un passato, e solamente se lo conosci, puoi davvero sperare di comprendere chi hai di fronte. Mi auguro che questa crescita interiore avvenga per tutti. So che è utopia, ma sarebbe l’unico modo per non sentire “diverso” chi fondamentalmente è solo uno di noi». F. « Io invece nella commedia ero il giudice, mai altro ruolo poteva essermi meno conge-

di detenuto e di attore insieme, uno degli attori improvvisati di “La legge è uguale per tutti”, opera e progetto che, grazie a I Ragazzi della Panchina, sono stati realizzati sia all’interno che fuori dal carcere in cui vivo. Farlo all’esterno delle mura è stato meglio perché in questo modo ho avuto la possibilità di uscire per prendere parte alle prove, respirando aria diversa di quella carica di tristezza e dolore che regna dietro alle sbarre. Non dico il dolore fisico, ma quello dell’anima, del cuore. La tristezza nell’animo è qualcosa che accomuna tutti, che si trova anche fuori, dove c’è la libertà. Penso a quella gente che ha una famiglia con bambini e in cui i genitori lavorano da sempre e che ad un tratto si ritrovano senza lavoro, senza la possibi-

lità di pagare il mutuo della casa o il finanziamento della macchina, di pagare i vestiti dei figli, la scuola e così le cose peggiorano. Ecco quelle persone hanno il cuore come una buona parte dei detenuti, hanno l’anima che piange e non sanno come fare per tirare avanti, e alcuni purtroppo prendono la strada della delinquenza. Rubare, truffare: alcuni non fanno niente, altri prendono una pistola e la fanno finita. E perché? Perché tutto o in parte dipende dagli altri, dai “grandi”, dalle persone che credono di essere migliori di un detenuto o di un operaio. Ma io mi rivolgo alle persone, a tutte quelle persone per bene e con potere di fare e disfare le regole e le leggi: voi volete davvero un mondo migliore per i figli di oggi e per quelli di domani?

Perché se così, signori, allora bisogna pensare alle famiglie di tutti, di tutti quelli che hanno figli e non sono dei privilegiati, di tutti coloro che sudano e che meritano di avere un posto nella società e nel mondo del lavoro. Spero di non esservi sembrato presuntuoso, sto semplicemente esprimendo il mio pensiero. A me da un po’ di tempo mi è stata data la possibilità di sfidare me stesso con il teatro, mettendomi in “gioco” di fronte a tante persone. Per uno come me molto timido e con poco piacere, anzi senza il piacere, di socializzare, è stata una sfida che ho affrontato con tutta la voglia ed il coraggio di cui c'era bisogno. Devo dire che ho fatto bene ad affrontare questa gioiosa e piacevole esperienza. Ho conosciuto delle belle persone, di quelle che

Il dietro le quinte dello spettacolo raccontato da due protagoniste di Caterina Traetta e Floriana Nardozi

niale! Sentirmi il potere tra le mani, dover decidere la sorte di persone che mi vengono presentate nelle loro vesti peggiori o peggio ancora, veder mistificare le loro malefatte! Ho sentito sulla mia pelle, per quanto fosse solo teatro, il peso, i dilemmi, la difficoltà di dover applicare una legge che non sempre è aderente alla personale opinione che ognuno di noi ha. Cos’è un giudice? Colui o colei che dispensa giustizia? Giustizia è fatta! Certo applicando le regole del codice, ma è davvero sempre giustizia? Questi dubbi mi sono rimasti dentro, e mi convincono sempre più che mai avrei potuto esercitare questo potere. Sono consapevole che ogni buon giudice ha dalla sua una profonda conoscenza della legge ed un’etica personale a sostenerla, ma dormirà sempre sonni tranquilli? Giudice e giudicato, non vorrei trovarmi nelle vesti di nessuno dei due, ed è per questo che averlo vissuto nel teatro, spero mi abbia resa più cosciente». C. e F. «Dopo appena un mese dal nostro debutto ci sono state comunicate le date dei nostri prossimi spettacoli, questo ci rende entrambe felici perché la nostalgia dei nostri incontri del giovedì sera si fa sentire prepotente, ci mancano quegli amici, compagni di viaggio per i quali proviamo un forte legame, che ha fatto di noi tutti, persone migliori! E per ciò, un grazie di cuore va a Guerrino, Chiara, Valentina e Giulia che ci hanno supportato con la loro bravura e pazienza». 
 ti danno quella gioia di vita senza chiederti “cosa” e “perché”, insomma senza giudicare ma che ti aiutano a capire tanto, o forse niente dipende tutto da te. È la seconda volta che “recito” e partecipo al teatro con I Ragazzi della Panchina. La prima nel 2011 per la rappresentazione della commedia all’interno del carcere con altri detenuti; la seconda quest’anno quando in qualità di rappresentante di “quel mondo” fuori dalle mura c’ero solo io nella compagnia del laboratorio teatrale de I Ragazzi della Panchina. Vi assicuro che non mi hanno fatto pesare questo fatto, eravamo una squadra in cui ognuno aveva il suo ruolo sul palco. Si scherzava e si rideva insieme senza emarginazioni individuali Eravamo semplicemente un gruppo di amici.


La cura che non cura Le aspettative deluse di un utente del Ser.T, nell’era delle nuove dipendenze di Gino Dain In vita mia ne ho viste abbastanza e credo di avere sufficiente esperienza per riconoscere le strutture che servono al cittadino/utente, distinguendole da altre che anziché aiutarlo, a vol-

te rischiano a mio parere di creargli ancora più difficoltà. Un esempio? Il Servizio per le tossicodipendenze delle Aziende sanitarie, utilizzando l’acronimo, i Ser.T. Li conosco bene, per esserne tutt’ora un

utente, e quella che racconto è di sicuro la mia esperienza, il mio punto di vista. Quando furono istituiti questi presidi per le persone che avevano problemi di dipendenza da varie sostanze, pareva che si fossero aperte le porte su un futuro più certo e migliore di cura e prevenzione del fenomeno. Ero presente a quel tempo e a guardare indietro oggi capisco, con rammarico, che le aspettative sono state deluse, o per lo meno le mie. Nel tempo infatti molte di quelle energie e potenzialità con cui era nato questo importante servizio sanitario pubblico si sono disperse, forse per logiche gestionali, forse per politica. C’è l’ho non con l’istituto del Ser.T, ma con alcune persone che lavorano in alcuni Ser.T, o che vi vengono messe dall’alto. Sono convinto che le persone giuste vadano messe nei posti giusti, in base alle loro competenze e capacità. Bisogna farlo soprattutto quando si lavora su salute e vita della gente, anche se si tratta di un “tossico”. Secondo me, invece, alle volte all’interno del Ser.T, che si tratti di dipendenza da droga

piuttosto che da alcool, l’utente non viene preso nel modo più giusto e questo rischia di creare ancora più danni. E’ così che un buon servizio sanitario, rischia di diventare un servizio che crea difficoltà. Credo che nel tempo abbia prevalso la politica della riduzione o del contenimento del danno, piuttosto che del recupero del paziente/utente. Oggi poi le cose sono molto diverse da quelle che si viveva la mia generazione. Oggi il ventaglio delle dipendenze possibili si è ampliato enormemente e forse – ma è sempre un mio pensiero – servirsi solo di protocolli medici non basta più. La mia è una denuncia, ma al tempo stesso un appello: al personale che lavora nei Ser.T da un lato e dall’altro anche a quei genitori che si ritrovano ad affrontare un problema di dipendenza in cui incappano i loro figli. Ve lo dice uno che ha esperienza: serve di più, soprattutto oggi, di fredde applicazioni di protocolli. Serve forse capire che la dipendenza non è una semplice malattia del corpo, da dover semplicemente curare.

cubo. La B.C.E. è intervenuta ed il fondo salva stati è stato parzialmente usato (219 mld) per coprire i buchi (acquisto di titoli) di alcuni stati ma non ha migliorato di molto la situazione. Gli stati virtuosi non sono contenti di accollarsi parte dei debiti degli “sfigati” (P.I.I.G.S.) ma sanno che salvare e rafforzare l’euro è necessario per avere stabilità ed a fronte di nuovi interventi B.C.E., chiedono controlli sul bilancio (tipo amministrazione controllata). La stretta creditizia si fa sentire sempre più e ovunque; le piccole e medie imprese, che hanno fatto la ricchezza di nord-est e Brianza, sono in difficoltà o chiudono. Molte aziende in generale sono in bilico e non sanno se riapriranno dopo le ferie perché senza finanziamenti non possono garantire il proseguo dell’attività. Completa il quadro il paradosso dell’ILVA, che da anni inquina il territorio ma non può

fermarsi perché troppi posti di lavoro vanno persi e la siderurgia italiana finirebbe k.o. La crisi, tanti stati e una ricetta sola: sacrifici, rigore, austerità, aumento dell’età pensionabile (che rallenta il già difficile inserimento dei giovani nel mercato del lavoro), un aumento delle ore lavorate in generale ed un netto taglio ai diritti dei lavoratori. Sembra di essere tornati a trenta o quaranta anni fa?? Proprio come il detto: “Chissà come mai, sempre in culo agli operai” Con questo vi lascio e vi auguro (per chi può e per chi non può) buone ferie e… abbasso lo spread!

celox

Vacanze estive al tempo della recessione globale Da 1954 sono un diritto dei lavoratori, ma quest’anno pochi hanno avuto le ferie pagate di Manuele Celotto Estate, caldo, sole, tempo di ferie. Si, le ferie pagate, che dal 1954 (allora erano due settimane) sono diventate un diritto dei lavoratori. Adesso invece le ferie sono un rovescio; più della metà degli italiani non andrà in ferie e per alcuni saranno giorni di dubbi ed incertezze perché l’azienda forse non riaprirà. L’Italia ha la disoccupazione all’11% complessivo (a cui vanno aggiunti esodati e “rassegnati”) ed è vicina al 35% per quella giovanile. L’euro e l’Europa in generale sono in sofferenza; in alcuni stati la disoccupazione è al 20% e più (media eurozona 10%), Spagna e Grecia si trovano con la disoccupazione giovanile oltre il 50%. Rigore e austerità sono il piatto quotidiano per molti stati. In Portogallo, in

base ai nuovi accordi “dettati dalla crisi” ci saranno: meno ferie, meno festività, più ore lavorate e nessun aumento di salario, drastica riduzione del welfare e tagli ai sussidi di disoccupazione. Non va meglio alla Spagna, che nel giro di pochi anni è passata da un’economia in crescita alla situazione attuale; perdita di posti di lavoro, perdita del potere di acquisto, tagli a Welfare e spesa pubblica; manifestazioni e proteste si susseguono e indicano un forte malcontento. L’Irlanda, che pochi anni fa era chiamata “tigre celtica”, da un’economia in crescita sta scivolando in recessione e così i consumi. La Grecia sta peggio di tutti perché ha i nostri stessi problemi (debito pubblico elevato, corruzione ed evasione fiscale) ma al


«Caro Coky, grazie a te sono diventata grande»

che eri stato chiuso a s s i e m e ai tuoi due fratellini dentro un sacco nero buttato in un cassonetto. Ma questo non mi spaventò, anzi, mi diede la forza di ribadire: «Voglio quello!». La signora sentì quell’autorità più grande di me imporsi, e si sentì probabilmente messa alle strette, non aveva altra scelta. Ancora prima che tu fossi mio già avevi fatto di me una bambina che in quella circostanza ha saputo tener testa a chi, ancora una volta, mi aveva creduta inadatta alla situazione. Ti mise tra le mie braccia, con un’espressione perplessa, anche perché detto tra noi, non eri proprio bello, eri più che altro un tipo! Sentivo il tuo cuore battere forte su di me, e in quel preciso istante

capii che eravamo diventati una cosa sola. Tra di noi non c’era un padrone, vivevamo l’uno dell’altra, e a me non interessava più se a scuola i bambini non giocavano con me, tanto io avevo te, che mi aspettavi ogni giorno, con quell’entusiasmo che solo tu riuscivi a trasmettermi, mi hai sempre fatta sentire importante. Siamo stati assieme 14 anni, siamo cresciuti assieme, mi hai insegnato ad amare, in ogni attimo della mia vita c’eri tu. Quando piangevo ti stendevi accanto a me e intrufolavi la tua testolina tra il cuscino e il mio viso. Forse lo facevi per condividere con me quel dolore, e quando sentivi che mi ero calmata balzavi giù dal letto, scodinzolavi e con quella faccetta buffa mi dicevi: «E’ ora di andare a giocare!». Tu sei stato la forza che probabilmente non avrei mai avuto, se non ti avessi incontrato. E così caro amico dell’uomo, ora mi ritrovo qui, quasi donna, ad impregnare questa pagina di te, salandola con le mie lacrime, lacrime a cui tu hai dato sapore. Caro Coky chissà come sarebbe stata la mia vita senza di te, questo non lo potrò mai sapere, so solo che nonostante la tua morte, continui a vivere dentro di me, e questo mi fa capire che non sarò mai sola. Grazie amico per avermi reso una persona migliore.

tempo dei miei sedici anni ero solo e disperato. Ero in mezzo al deserto. Colpa mia? Colpa di una società stanca e malata? Che ne so. Il mio problema era sopravvivere. Io non ho scelto di farmi di eroina, io ho dovuto farlo: o così, o avrei accumulato tre o quattro scatole di barbiturici e avrei fatto calare finalmente il sipario su una vicenda umana che non meritava di essere protratta. Quando non hai un goccio d’acqua, pur di sopravvivere bevi la tua urina. Quando non trovi pace, requie, riposo, serenità, sicurezza ed altro, sei bell’e pronto per farti di eroina. E così è andata. Quando ho fatto il primo tiro (io la inalavo, avendo scarso accesso venoso e il terrore degli aghi) ero perfettamente informato sui rischi cui andavo incontro. Ma nel mio caso i benefici superavano i costi. La roba mi dava la possibilità di provare sensazioni di intenso piacere (quelle che un giovane sano

e sereno trova nello sport), mi conferiva quel senso di sicurezza e di disinvoltura che un’infanzia “sbagliata” mi aveva precluso. La roba mi permetteva di bypassare un senso di inadeguatezza e di inferiorità dolorosissimo e invalidante. Con la roba avevo il coraggio di guardarmi allo specchio malgrado i miei chili di troppo. Nelle condizioni in cui versavo, che cosa altro avrei potuto fare, se non usare eroina? Avrei forse potuto ammirare la magia di un tramonto? Avrei forse potuto camminare a piedi nudi su un bel prato? O forse avrei dovuto trascorrere i miei pomeriggi tra libri di scuola e oratorio? Ho bevuto il mio piscio. Se fossi stato meno solo, se qualcuno mi avesse aiutato, non sarei mai arrivato a questo. “Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera”. Non è certo farina del mio sacco, ma ammettetelo: ci stava.

Dall’incontro tra due solitudini, un’amicizia durata 14 anni tra un cane e una bambina di Daniela Russo Scorgo dentro di me i ricordi più belli, e a capo di tutto ci sei tu caro amico di sempre, continui a persistere nonostante sia un anno che non ci sei più. Ti ricordi il giorno che ci siamo conosciuti? Io ero venuta in cerca di te a causa della mia solitudine, e da bimba di 10 anni che ero, avevo bisogno di un amico che condividesse con me le giornate diventate sempre più pesanti a causa delle prese in giro che subivo a scuola. Ma soprattutto, avevo bisogno di qualcuno che mi accettasse per quella che ero, senza fare caso ai miei chili di troppo, o a quei fanali che portavo sulla faccia. Così, accompagnata da mio padre, l’unico probabilmente ad intuire il mio disagio, arrivai davanti a quell’enorme cancello. L’abbaiare dei cani mi confondeva. Da quello che sentivo dovevano essere in molti, tutti senza un amico, quindi la mia sensibilità fu messa a dura prova.. avevano tutti bisogno di me! Quando aprirono il cancello non ero più così sicura di vo-

ler entrare, ma la mia voglia di incontrarti era tanta, così mi feci coraggio ed entrai. Fui travolta da un senso di angoscia, mi chiedevo se ti avrei mai trovato in mezzo a tutti, ma soprattutto come ti avrei riconosciuto? Con la signora attraversarsammo un corridoio lungo e grigio che sembrava si intonasse al mio stato d’animo. Mi presentò gli esemplari più vispi, che secondo lei erano più adatti ad una bimba della mia età. Ma cosa ne poteva sapere di me quella signora, non mi conosceva quindi come poteva sapere chi sarebbe stato giusto per me? Io non cercavo un giocattolo, io volevo un amico. Ma dopo aver sorpassato decine di box e centinaia di cuccioli bisognosi di affetto, è proprio lì che ti vidi, indifeso e tremante, arruffato su te stesso con lo sguardo vuoto, di chi non sa cosa l’aspetta. «Voglio quello!», esclamai con voce sicura, ma la signora mi disse che tu non eri adatto a me. Questo a causa della storia tragica che ti portavi dentro. Mi raccontò

Nel deserto dei miei sedici anni, l’eroina fu l’unica a dissetarmi

La “roba” mi regalava sensazioni di pace e serenità. Duravano poco, ma era meglio di niente di Ferdinando Parigi Nessuno consiglierebbe ad un altro di bere la propria urina, “nel quadro di una vita sana e di un’alimentazione corretta”. Eppure si dà il caso che, se ti trovi perso nel mezzo del deserto magari da solo e senza un goccio d’acqua, la tua urina ti torna utile, e il berla può aiutarti a portare a casa la pelle. A me è successo qualcosa di molto simile con l’eroina, e devo solo a lei il fatto di essere an-

cora, bene o male, al mondo. All’età di sedici anni, non conoscevo, letteralmente non conoscevo neanche in modo vago, il significato di parole come “serenità, sicurezza, calma, libertà, sollievo, pace”. Le persone normalmente fortunate, le persone che oggi sono persone adulte ed equilibrate, difficilmente potranno capirmi. Ma una spiegazione va pur data, la verità va pur detta. La verità è che al


L'aggiornamento

Rifiuti in Meduna, non hanno più scuse i bagnanti Da luglio a Cordenons sono arrivati i cassonetti per l’immondizia di Guerrino Faggiani Dopo che nell’ultimo numero del nostro giornale avevo puntato il dito sul lassismo che caratterizza molti “frequentatori della domenica” del fiume Meduna, a Cordenons, sulla loro poca educazione dimostrata con l’abbandonare rifiuti lungo il suo corso, e sulla constatazione del disinteresse dell’amministrazione comunale a combattere certi comportamenti a tutela di questo ambiente naturale, ecco ora invece una buona cosa da segnalare. Verso la fine di luglio infatti hanno per la prima volta fatto la loro comparsa in alcuni punti d’accesso al fiume, quelli cioè di maggior

affluenza da parte dei bagnanti, alcuni cassonetti per l'immondizia. Questa è una assoluta novità, ad oggi è la prima volta che in Meduna appaiono dei bidoni della spazzatura. Un bel gesto dettato dalle esigenze della nostra epoca che, oltre all’utilità in sé, evidenzia una volontà da parte dell’amministrazione territoriale competente di affrontare o quantomeno arginare il problema. Una bella e semplice iniziativa che costringe alla sensibilizzazione chiunque incroci un punto di raccolta dei rifiuti (a buon intenditor..) e per forza di cose non saranno pochi; gli “stra-

Ti ricordi amore la prima rosa? «Arrossii il giorno che ti conobbi. Fu l’inizio della felicità» Stavo mangiando è più volte ti sei avvicinata al mio tavolo per vedere se era tutto apposto, ed io non perdevo l'occasione di sorriderti. Erano i primi di marzo di quest'anno. Quel giorno ero in quel locale con mia madre e il suo compagno e mi ricordo di averle subito detto che eri una bella ragazza. Non sapevo però neanche il tuo nome. Fu una stupenda coincidenza che tu staccassi il turno di lavoro nel momento in cui io terminai di pranzare. Appena te ne uscisti dal locale, io con fare maldestro ho chiesto ad una cameriera come ti chiamavi. Mi rispose: «Si chiama Stefania». Rimasi fermo ed imbambolato, con un sorriso da ebete stampato in faccia come se mi aspettassi che mi dicesse un altro nome, che ne so!!!. Ora, ripensandoci, credo di essermi vergognato un pochino e a quel punto uscii anche io. Tu camminavi a testa bassa, guardando il cellulare, ed io

che ti seguivo con lo sguardo. Dentro di me speravo in un segno che mi facesse vincere la mia timidezza per venire a parlarti. Pochi istanti dopo, ti sei fermata per rispondere al telefono. A quel punto io – e giuro che non so ancora dove ho trovato il coraggio di farlo – ti raggiunsi e, con aria sicura, ti guardai negli occhi e ti dissi: «Piacere, mi chiamo luca». «Piacere io Stefania». A quel punto, lo confesso, mi sono

nieri” non endemici tutti, in quanto non in possesso della conoscenza del territorio, e costretti all’ammucchiata dei luoghi più frequentati ed immediati da raggiungere, ove fanno bella mostra i cassoni. E’ un’dea che meriterebbe fortuna anche negli altri versanti del fiume e non solo in quello cordenonense, a patto però che vengano regolarmente svuotati e non “dimenticati”. Il continuo deposito li trasformerebbe in montagne di rifiuti in decomposizione, la medicina si rivelerebbe peggio del male. Tutto questo per una forma di nostra civiltà e rispetto, e per l’ambiente in

cui viviamo, un po’ come tenere pulita casa propria. John Fitzgerald Kennedy e Benito Mussolini dicevano che era dovere di ognuno lasciare alle future generazioni il mondo come lo avevano trovato, un dovere che sulla carta non ha contrari, ma che purtroppo nella realtà, alla prova dei fatti, ci costringe al controllo e alla vigilanza per ottenere risultati solo parziale. E’ un dovere del resto, che se rispettato frenerebbe il nostro incalzante incedere verso l’autodistruzione che, ormai possiamo dirlo con certezza, è solo una questione di tempo, il tempo delle future generazioni.

sentito estremamente vulnerabile, perché se ti guardavo troppo a lungo mi sentivo male. Eri e sei stupenda. Con un altro sforzo titanico sono riuscito a dirti: «Mi piacerebbe molto uscire a bere una cosa assieme a te». Tu mi rispondesti: «Non saprei, non ti conosco nemmeno». A quella frase credo di aver fatto una faccia da cane bastonato, perché subito dopo tu mi hai invitato al tuo compleanno, che festeggiavi due giorni dopo in un locale ad Azzano Decimo. Accettai, felice. Quel giorno ero parecchio agitato e mi feci mille storielle in testa; pensavo e ripensavo a cosa dirti. Ovviamente, una volta alla festa, ti ho detto tutto tranne quello che realmente volevo dirti. La cosa più bella di tutta la serata e stata quando ti sei avvicinata

a me e mi hai chiesto se mi andava di fare una foto assieme. Ero così contento per questo tuo gesto ed il giorno dopo su Facebook l’ho trovata tra le altre e l’ho guardata per ore. Ero già innamorato di te. Un paio di giorni dopo siamo usciti assieme e mi sei piaciuta sempre di più. Siamo andati a Pordenone e mi ricordo che abbiamo parlato per ore e io non volevo più andarmene. Poi ci siamo avviati alla macchina e ti ho regalato una rosa, ricordi? Sei diventata tutta rossa e mi hai abbracciato. Nei giorni seguenti abbiamo continuato a vederci e siamo ritornati nel locale dove hai festeggiato il tuo compleanno. Lì ho incontrato una mia amica, la Elena, tu eri seduta sui divanetti e con la musica alta non sentivi quello che ci stavamo dicendo. Me lo chiedesti appena usciti dal locale. Io ti raccontai che la mia amica voleva sapere se uscivamo insieme. Io le avevo risposto di no. A quel punto, mi hai guardato con aria smarrita. Allora ho ricambiato il tuo sguardo e ti ho spiegato: «A lei ho detto che non uscivamo assieme, ma che sei la mia ragazza». E tu, con i tuoi occhioni nocciola, mi hai guardato e mi hai baciato. Era il 18 marzo la sera più importante della mia vita. (l.g.)


L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————

Padri distanti

mikebaird

di Milena Bidinost «Come riuscirò a sopportare la nostalgia, a non farmi uccidere dalla rabbia, ad evitare la solitudine e soprattutto a farmi capire dalla controparte?». Sono solo alcune delle domande con cui molti padri, anche nella nostra provincia, si addormentano la sera, magari da soli, in un letto che non condividono più con la moglie, in una casa in cui non vivono più con i loro figli. Non meno logoranti sono i punti di domanda che li accompagnano sulla gestione economica della famiglia, sulla divisione dei beni e degli spazi e soprattutto sull’educazione dei figli da portare avanti a distanza. Sono queste le domande di un padre separato che troppo spesso non sa dove “andare a sbattere la testa”. Il numero di padri tenuti lontani, loro malgrado, dai figli per libero arbitrio della madre aumenta proporzionalmente all’aumento delle separazioni, tanto più se giudiziali: in molti di questi casi a farne le spese è l’uomo. “E’ un fenomeno sociale - spiega Loredana Colosimo, presidente dell’associazione Genitori Separati LaDDeS Family F.V.G di Pordenone e mediatrice familiare – che anche da noi si sta definendo. La donna si è emancipata e non sempre risulta essere la parte debole della coppia, soprattutto se è madre ed usa i figli come arma di ricatto o di vendetta. Lo testimonia la storia stessa della nostra associazione: fondata da me nel 2000 come “Libera associazione donne divorziate e separate”, già nel 2001 alla luce del lavoro sul campo siamo intervenuti sullo statuto diventando un’associazione per la famiglia separata, rivolta quindi anche ai figli e ai loro padri”. LaDDeS Family Fvg è attualmente l’unica associazione del Pordenonese volta a dare consulenza e supporto alle coppie, sposate o di fatto, che si separano. Offre un punto di ascolto e consulenza legale gratuiti, un gruppo di aiuto, servizio di mediazione familiare (anche in collaborazione con i servizi sociali di Ambito) e interventi di aiuto alla genitorialità. In regione LaDDeS Family Fvg ha fatto da apri pista alle esperienze di Udine (associazione

Gesif, Genitori separati insieme per i figli) e di Trieste (associazione Mamme e papà separati) con cui collabora ospitando nella propria sede di via De Paoli, una filiale del gruppo friulano e a breve anche di quello triestino. Dal 2001 ad oggi sono stati più di un migliaio i contatti registrati alla LaDDes, di cui 600 sono le persone, uomini e donne, che sono state prese in carico dall’associazione. Una cinquantina in media all’anno. «I nostri utenti – spiega Colosimo – sono per lo più coppie che si possono rivolgere a noi prima, durante e anche dopo la fase di separazione. Non abbiamo ancora mai seguito nessuna coppia in cui entrambi i coniugi siano stranieri, ma in aumento sono quelle miste. Quanto invece all’età – aggiunge – se un tempo non c’erano distinzioni, negli ultimi anni sono per lo più coppie tra i 40 e i 50 anni». E’ aumentato soprattutto il numero di padri che, a seguito dell’approvazione della legge 54/2006 sull’affido condiviso, chiedono aiuto per rivedere le condizioni di separazione stabilite dai giudici e l’affidamento dei figli minori. In casi di elevata conflittualità con la moglie molti uomini arrivano alla LaDDes accusando i colpi della lontananza dai figli e delle conseguenze economiche della separazione. Se ogni separazione infatti dal punto di vista psicologico è un lutto, perché finisce un progetto di condivisione, dal punto di vista economico diventa anche causa di impoverimento. «Di punto in bianco – fa notare Colosimo – ci si ritrova a pagare da soli affitti, mutui e bollette di casa, a volte il mantenimento alla moglie, magari la babysitter per accudire i figli perché costretti entrambi a lavorare più di prima, senza nemmeno contare le spese legali, se la separazione non è consensuale”. Non sono questioni di poco conto, dato che contribuiscono a disorientare. Nel casi peggiori, il rapporto conflittuale con il coniuge, la perdita di contatto con i figli, le lungaggini del sistema giudiziario, le difficoltà economiche e di gestione del tutto finiscono per soffocare.


«Il papa’ non c’e’ per Figli orfani di cuore, fragili nella vita Nella guerra tra genitori a farne le spese sono loro, i bambini di Milena Bidinost Esistono diritti e doveri tra coniugi separati, alcuni durano fino al divorzio altri restano per sempre. Dura ad esempio per i successivi tre anni dalla sentenza il dovere di cura e di assistenza dell’altro in caso di bisogno; fino al loro 18anno di età il dovere di contribuire al mantenimento dei figli secondo le sostanze di ciascuno; mentre dura per sempre il diritto principale del figlio,

tanto più se minore, di vedere parimenti entrambi i genitori. Così a volte non accade. «E’ una questione di intelligenza del padre e della madre – commenta Loredana Colosimo, presidente della Laddes Family FVg di Pordenone – quella di capire che la priorità va data sempre e comunque ai figli. Ed è anche un dovere morale di legali, giudici, consulenti tecnici, servizi sociali,

Quel tempo insieme che troppe volte ci viene negato «Da anni cerco in aule di tribunale la tranquillità che mi serve per essere un buon padre» Fu per mia scelta che mi separai, ma pur a distanza di anni resta la sensazione di avere perso una parte di me, quel bambino che fino al giorno prima coccolavo perché si addormentasse e che poi, di punto in bianco, mi sono ritrovato a cercare, invano. Per mesi, all’inizio della mia storia di separazione, non riuscii nemmeno più a sentire la sua voce al telefono, perché mi veniva negato da parte di una madre che non capiva, né del resto lo sa fare ora, che questo modo di comportarsi fa male a lui. A nostro figlio. Ho provato ad andare a trovarlo a casa, ma l'unica cosa che trovavo erano ore di insulti da parte di lei, in alcuni casi anche schiaffi e percosse, tanto che per evitare il peggio ero costretto ad uscire di gran fretta da casa. Per proteggergli gli occhi e il cuore, ho così scelto di non vedere mio figlio fino a quando un

giudice non mi avesse dato degli orari di visita all’interno dei quali riuscire a fare il padre. Mio figlio oggi ha cinque anni. Io sono un papà separato, la mia ex moglie non è cambiata e, sebbene io stia un po’ meglio, sono ancora ben lontano dal trovare la serenità che cerco per me e il piccolo. La mia storia va avanti da anni, tra aule di tribunale, servizi sociali e ore e ore di discussione spesso inutili con mia moglie. L’ordinanza sulla quale tanto facevo affidamento è arrivata, dopo mesi. Fu una delusione. Mi è stato imposto dal giudice di fare un percorso di mediazione familiare, per il bene del bambino, ma dopo poche sedute mi sono reso conto che i servizi sociali cercavano solo di smontarmi il cervello. Mi sono sentito come carne da macello, sottoposto a continui ricordi, e vuoto perché nessuno mi capiva. Avrei voluto

mediatori familiari avere questo obbiettivo in mente. Perché se così non è a pagare – sottolinea –, e nel senso più doloroso del termine, saranno i figli». Esiste infatti una sindrome riconosciuta, la P.A.S. (Sindrome da alienazione genitoriale), dalla quale il minore va protetto, ma nella quale troppo spesso cade. La P.A.S. ha dei sintomi classificabili ed è la conseguenza di un “lavaggio del cervello” che il genitore, per lo più quello con l’affidamento esclusivo o principale, fa nei confronti del figlio per screditare l’altro genitore. “Succede spesso nelle separazioni giudiziali con grande conflittualità – spiega Colosimo – dove i genitori sono impegnati assieme ai loro avvocati a farsi la guerra, mentre i figli crescono senza uno dei due». L’affidamento esclusivo è tutto-

ra molto utilizzato nella realtà italiana: oltre il 90% degli affidamenti vanno alla madre ed il padre ha spesso la percezione di essere dalla parte del perdente di una causa persa. «Tuo padre non ti vuo-

incazzarmi e dire loro che l'unica cosa che mi interessava era di poter passare un po' di tempo con mio figlio. A volte piangi mentre pensi al tuo piccolo che è in una situazione difficile e che non riesci a proteggere perché ti viene negato, arbitrariamente da sua madre, anche il diritto di vederlo. Mi viene fatta una guerra continua e martellante: spesso non mi viene dato in visita il bambino, nemmeno appellandomi all’ordinanza del giudice. Sono continue le accuse, le bugie, le offese nei miei confronti: sensi di colpa che ogni tanto fanno ancora effetto. Perché al centro viene messo sempre lui, mio figlio. Troppe, troppo lunghe ed inutili in questi anni sono state le udienze di fronte al giudice, nella speranza di poter ottenere anche solo mezz'ora in più da dedicargli. Fossi stata io la madre, avrei sicuramente ottenuto più giustizia. Un padre, invece, per lo Stato è solo una macchina da soldi. Sono emotivamente molto stanco. Cerco continuamente soluzioni e vivo alla giornata perché dietro l'angolo i problemi mi vengono creati puntualmente, sul nulla. Alle volte anche il mio avvocato mi lascia l'amaro in bocca, perché sembra poter fare poco per risolvere i miei problemi. Tutta questa

situazione condiziona il poco tempo che sto con mio figlio, perché divento iperprotettivo per evitare che si faccia male, così da risparmiare a lui sofferenza e ad entrambi la solita scenata di sua madre sulla mia incapacità genitoriale. Ho bisogno di tranquillità per poter essere un buon padre, ma non sembra che sia arrivato questo tempo. Cerco così di vivermi i momenti assieme quasi senza respiro perché mi sembra di togliere tempo a lui. Ad ogni incontro è un ricominciare d’accapo, è un conoscerlo nei suoi piccoli progressi di vita come fosse la prima volta. Poi, dopo poche ore, proprio quando ci stiamo rilassando entrambi arriva il momento in cui lo devo riaccompagnare a casa. Il mio umore cambia, mi sento triste e comincio a sperare che la prossima volta mi venga dato in visita e che non ci sia piuttosto un’altra scusa banale ad impedirmelo. La mia ragione per andare avanti è il tempo insieme a lui. Per quanto poco, mi riempie sempre il cuore. Vederlo dormire al mio fianco, fargli il bagno, coccolarlo e stringerlo sino a fargli perdere il fiato, giocare con lui, mangiare insieme … mi fa sentire finalmente completo. Soprattutto quando mi guarda e mi dice «papi ti voglio bene». (c.s.)


r colpa della mamma» le, ci ha abbandonati, ci ha traditi, è un incapace …»: la lista delle “gocce” che cadono dentro la testolina di un bambino può essere lunghissima, tanto quanto lo sono gli anni di durata dei processi. «La responsabilità in questo caso è anche del nostro sistema giuridico – denuncia Colosimo –. Più si perde il tempo nelle aule di tribunale, più gli anni passano e i figli crescono in questa sorta di violenza psicologica, destinati a diventare adolescenti con un equilibrio precario e a rifiutare il genitore debole, che rischia così di perderli». Ecco perché alla LaDDes Family Fvg l’alternativa alle battaglie legali è la mediazione tra genitori. «E’ un percorso che può essere più o meno lungo e difficile – dice la presidente – ma che è l’unica alternativa possibile»

LaDDes Family Fvg Dove. In via De Paoli 19 a Pordenone, presso la Casa del Volontariato Socio-Sanitario. Come. Telefonando al n. 340.2765255 (consulenza psicologica) o al n. 349.0818956 (consulenza legale) o consultando il sito www.centromediazionefamiliare.it. Quando. Dal lunedì al venerdì, dalle 19 alle 20, per un primo contatto telefonico ai fini della individuazione dei servizi utili; ogni mercoledì sera in sede dalle 20.45 per partecipare al gruppo di aiuto. Perché. Per essere guidati da professionisti lungo un percorso volontario di risoluzione delle conflittualità in caso di separazione

Quando da soli non ce la si fa e la distanza da lui fa male La separazione, la solitudine, la depressione e la droga. Storia di un padre in difficoltà Mi chiamo Fabio ho 35 anni e un figlio di 7. Cinque anni fa, dopo altrettanti di convivenza, mi sono trovato in una situazione che non ho saputo affrontare nella maniera più corretta: la separazione. Mi sono ritrovato senza moglie, senza amici e senza mio figlio e soprattutto senza la libertà e la possibilità di vederlo ogni volta che ne avevo voglia. In altre parole da un giorno all’altro mi sono ritrovato da solo. Mia moglie ha fatto la sua scelta, ma per quanto riguarda gli “amici” dai quali mi sarei aspettato una mano ho ricevuto solo pugnalate alla schiena. A complicare le cose c’è anche la legge, che viene applicata a senso unico, cioè nella maggior parte dei casi il padre non conta niente, se non per pagare il mantenimento del figlio. Ti ritrovi cioè a fare il padre

part-time nonostante l’affidamento condiviso. Puoi vedere tuo figlio solo due fine settimana al mese e, se avanza tempo, qualche ora durante la settimana, sempre se la madre è d’accordo; diversamente le cose si complicano in quanto il bambino viene usato come merce di scambio. La frase più ricorrente che ti senti dire è: «Se non mi dai i soldi, non vedi tuo figlio”. Una frase che diventa emblematica nella situazione di mancanza di lavoro, cioè se sei disoccupato. Da quando la legge sulla separazione è stata modificata, non si paga più il mantenimento della moglie, ma del figlio. Ciò ha comportato la trasformazione del mancato pagamento in reato penale. La quota dell’assegno viene decisa da un giudice in base allo stipendio, ma senza tenere conto che il padre

l’amore urgente dei figli. Ho visto padri lavoratori che, per le pretese esagerate di una sentenza, devono muovere la loro fatica in cambio di uno stipendio senza incasso, e di conseguenza sono condannati a sopravvivere col residuo degli spiccioli. Ho visto padri lottare e ammalarsi dentro un’indifferenza, e den-

tro il castigo assurdo di un inferno, sospirare la salvezza di una “fine”. Ho visto il potere di certe assistenti sociali che, con l’arroganza potente di un giudizio, hanno stravolto il diritto di un affetto con la velocità di un assenso e di un dissenso. Ho visto angosce, disperazioni, lacrime e tragedie, posarsi sui piatti di una ragione, e infilarsi con la preghiera e la supplica nella speranza di una coscienza sociale, senza però riuscire a smuovere di un millimetro l’istinto naturale della pietà. Ho visto una generazione di bambini perdersi nello smarrimento di una in affettività, senza comprendere la colpa del distacco, e crescere poi col disturbo ossessionante di quel dubbio, e di tutte le ferite e cicatrici che segneranno il tragitto di una vita adulta.

deve pur vivere in quanto oltre al mantenimento del figlio ha altre spese per il suo mantenimento, quali: la casa, la macchina, le bollette, le assicurazioni e così via. Nel migliore dei casi ci si ritrova a tornare da mamma e papà. Ho letto sui giornali che proprio per questa situazione molti padri sono stati costretti a mangiare alla mensa dei poveri, perché salassati dall’assegno di mantenimento. Ritornando al mio vissuto, dopo un po’ dalla separazione sono entrato in depressione. Non vedevo più nessuno, non mangiavo e uscivo solo quando ero con mio figlio. Stavo tutto il tempo in casa a piangermi addosso, nonostante i miei genitori cercassero di aiutarmi. Tale aiuto lo vedevo solo come un fastidio e ciò mi allontanava sempre di più da loro. Vivevo alternando momenti di rabbia a depressione. Di lì a poco ho iniziato a usare eroina che fino a quel momento odiavo; l’ho usata per non provare più sentimenti. Per un po’ stavo bene, riuscivo a fare tutto senza pensare ai problemi, ma il conto da pagare ben presto si è presentato. Non è tardata la dipendenza dall’eroina, quindi la continua corsa per procurarmela facendo di tutto per avere soldi. Mio figlio

ha risentito parecchio sia per la separazione sia per il mio stato; ha iniziato ad avere problemi all’asilo; è diventato introverso; ha iniziato ad avere problemi di adattamento e alimentari, problemi di cui non mi rendevo conto, non mi accorgevo che a suo modo mi imitava. Ad un certo punto i rapporti con le persone cominciarono a ruotare solo intorno alla droga. Il processo di guarigione è iniziato quando mi sono reso conto dei problemi che causavo a me, a mio figlio e a chiunque mi stesse vicino. Pian pianino mi sono riavvicinato alla famiglia, che mi ha dato una mano portandomi al Sert, dove ho trovato persone competenti che mi hanno reso il percorso più semplice, proponendomi dei programmi adatti alla mia persona. Mi sono riavvicinato anche ad una amica che mi ha aiutato a recuperare rapporti con persone esterne ad un certo giro, fondamentale quando si cerca di fare un cambiamento del genere. Adesso sto cercando di recuperare il rapporto con mio figlio con non poche difficoltà, comunque ora gli stessi problemi non mi sembrano più insormontabili, ma li considero sfide che ogni giorno cerco di affrontare nel miglior modo possibile. (f.g.)

segue dalla prima pagina

L' EDItoriale

Il diritto di essere genitore di Pino Roveredo


Figli che non vengono ascoltati «Mamma, voglio andare a vivere con papà» Non sempre la legge sa giudicare ciò che è meglio per un figlio

Si dà spesso per scontato che, in una famiglia, quando i genitori si separano il figlio o addirittura i figli vadano ad abitare con la madre Molte volte lo si fa senza prendere in considerazione la volontà dei bambini perché reputati troppo piccoli per prendere una decisione e facilmente influenzabili. E’ successo così anche a me. Non me la sento di firmarmi con nome e cognome, per non fare torto a nessuno dei miei genitori, ma ho deciso ugualmente di raccontarvi la mia esperienza. I miei genitori hanno iniziato a litigare quando avevo all'incirca 5 o 6 anni e, pur non facendolo

Separati in casa, sotto il peso dei debiti

«Dopo 30 anni, caro papà, non hai la vita che desideri e mamma ti tiene ancora in pugno» Ciao papi, è da molto che non parliamo, perché la mamma ha deciso di non volermi più né vedere né sentire, obbligandoti a fare lo stesso. Tu, non potendo altrimenti, hai accettato le sue condizioni. Okay, siamo d’accordo, sono sempre stata una ragazzina ribelle, ma ho dovuto in qualche modo difendere la mia fragilità. Dopotutto non avrei mai immaginato, che dal momento che decisi di intraprendere la mia vita, mi avreste escluso totalmente dalla vostra, trattandomi come un’estranea che per un po’ ha vissuto sotto il vostro tetto. Poco tempo fa, parlando con mio fratello, sono venuta al corrente della vostra separazione. Un brivido mi ha attraversato la schiena, non ci potevo credere! La domanda poi sorse spontanea: «Perché hanno deciso di non dirmi niente?». Non mi sono meravigliata della vostra separazione, perché era abbastanza scontato che prima o poi sarebbe successo. È da quando ricordo di esistere che vi avrei voluto separati, perché i vostri modi di stare assieme mi procuravano stati di ansia. Ricordo che hai provato ad andare via tantissime volte, quasi non le

davanti a me, io ero consapevole di quello che sarebbe potuto succedere di li a poco. Infatti, compiuti 7 anni, i miei si separarono e ovviamente senza prendere in considerazione le mie volontà, perché molte volte si crede che un bambino non sia un essere pensante. Io avrei voluto rimanere con mio padre e non solo perché avevo tutti gli amici e gli interessi qui, ma perché avevo un bellissimo rapporto con lui. Come stabilito dalla legge, mio padre aveva il diritto di tenermi nei week end. Infatti, ogni venerdì veniva a prendermi, anche con la pioggia, la neve ed il traffico più intenso lui era li. All'età di 10 anni, ho dovuto farmi coraggio e guardare mia madre negli occhi, dicendole che volevo tornare con il mio papà. Per quanto volessi andarmene e stare con lui non è stato per niente facile dirlo a mia madre. Ora ho 23 anni e mia mamma, da quando sono tornato a stare in casa con mio papà, viene a trovarmi una volta al mese, se va bene, pur avendo anche lei lo stesso diritto di vedermi nei week end. Ormai non ne sento la mancanza, perché sono un ragazzo adulto, ma quand'ero più piccolo avevo bisogno di lei. Quindi, concludendo, mi viene da dire che bisognerebbe dar maggior fiducia ai padri e maggior voce in capitolo ai figli, perché questi tal volta con la loro innocenza riescono a giudicare meglio degli adulti. (l.g.) conto. Una di quelle è stata quando mio fratello stava per nascere o almeno così sostiene lei. Dice che eri con un’altra donna, a questo io non ho mai voluto credere, ma se era davvero così, mi chiedo: perché sei sempre tornato indietro, papà? A questa domanda realizzo solo ora la risposta: lei ti ha sempre tenuto in pugno, facendoti tornare indietro con ricatti quasi sempre buttati sul fattore economico. Sentendoti il peso della sconfitta e trovandoti con le mani legate, hai dovuto cedere e ritornare, altrimenti lei te l’avrebbe fatta pagare. Era troppo per le tue tasche quello che chiedeva, non ti avrebbe mai concesso il lusso di una vita dignitosa. Una delle ragioni a tutto quanto è successo, sono i debiti che tu hai fatto di nascosto da tutti noi, per non farci mancare niente, e poi, alla mamma piacciono le cose belle e tu per non negargliele hai consapevolmente sbagliato. Ricordo che hai sempre lavorato molto, in fabbrica durante la settimana, nelle mattine dei weekend come imbianchino e di sera con il tuo complesso davi sfogo alla tua passione, riuscendo anche a guadagnare qualcosa. Anche mamma ha sempre lavorato molto, solo che a differenza tua, ha sempre voluto sostenere un tenore di vita al di sopra delle nostre possibilità. E così è iniziato il vortice dei prestiti, e poi ancora prestiti, poi altri prestiti per coprire i prestiti, e quello che guadagnavi era gran parte della banca. Come stavi papà? Come passavi le tue notti? Riuscivi a dormire? Con il tempo i sacrifici hanno solcato il tuo viso indebolendo sempre di più il tuo cuore, che ora non ti permette più di lavorare. Ho saputo che la tua pensione basta appena per coprire le spese dei tuoi errori, e che a distanza di 30 anni non sei ancora riuscito ad avere la vita indipendente che tanto sognavi, e mamma ti tiene ancora in pugno. Separati si, ma sotto lo stesso tetto! (d.r.)

IL VISIONARIO Minori non accompagnati

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È un business in crescita, quello dei minori che viaggiano da soli in aereo. Negli aeroporti di tutto il mondo sono riconoscibili perché indossano una tracolla con la sigla UM (Unaccompained Minor). Fiducioso, il Signor T.V. si è rivolto ad una nota compagnia aerea per permettere ai suoi due figli di 13 e 9 anni, avuti da due precedenti relazioni, di raggiungere le rispettive madri a Parigi e a Londra, con scalo a Francoforte. Ma nella città tedesca qualcosa non deve essere andato per il verso giusto, per-

ché i due viaggiatori in erba sono stati sì consegnati a destinazione alle sue due ex compagne, ma non alle rispettive madri. “ This is not my son!” esclamò la prima. “Ce n’est pas mon fils!” le fece eco l’altra. Fu un rapido susseguirsi di urla, imbarazzo, tante scuse da parte della compagnia aerea e poi normalità ripristinata, entro le proverbiali 24 ore. E il povero padre? Le ha ovviamente sentite da entrambe le sue ex. “Fuck!”, “Merde!”. Quando si dice la lingua madre!!


INVIATI NEL MONDO

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A tre ore da casa, un altro modo di essere Cinque giorni di vacanza nella valle Rauris, nell’Austria dove ogni cosa è al suo posto e la gente è accogliente di Ferdinando Parigi Sapevo che l'Austria è un paese molto bello, ero stato a Vienna e mi era piaciuta. Non credevo però che esistessero al mondo paesaggi tanto incantevoli come quello che ho trovato visitando una zona snobbata dai più: la Raurisertal, o valle di Rauris, a sud-ovest di Salisburgo, in mezzo al parco nazionale di Hohe Tauern. Non sono mai stato in America, né in Asia, né in Africa, conosco abbastanza bene solo l'Europa, e vi posso garantire che non esistono nel nostro continente degli scenari maestosi e dolci come quelli dell'Austria. Ma soprattutto, credo che non esista al mondo un popolo tanto nobile come quello austriaco. Sapevo che la zona di Salisburgo è la più bella di tutte, e ho digitato "zimmer Salzburg" su Google. E' uscito un mare di opzioni. Ne ho scelta una e sono stato fortunato, cosa che mi capita molto raramente. Il mio budget era ovviamente limitato, quindi ho scelto una zimmer da 29 euro al giorno, colazione compresa. La "pension Schwab" di Taxenbach ha tanto di sito web con foto e tutto. Ho preparato le valigie, fatto il pieno di benzina e sono partito. La strada è facilissima: Udine, Tarvisio, Villach e poi dritto su verso Salzburg. In tre ore e mezza arrivo a destinazione, attraversando

un paesaggio disteso e suggestivo come pochi. La signora della zimmer non conosce una parola di inglese e mi accoglie parlando in tedesco, che per me è cemento. Alcuni ospiti austriaci che oziano all'ombra mi accolgono con grandi sorrisi e mi osservano compiaciuti, come se io fossi bello da vedere. Dalla mia camera il panorama è mozzafiato. Disfo le valigie e mi fiondo nel centro del paese di Taxenbach. Lì incrocio due bambine, biondissime e bellissime. Mi guardano incuriosite e mi salutano con un "hallo!". Di solito, in Italia, la mia corporatura e il mio aspetto generano timore nei più piccoli. Qui no, chissà perché. Entro nel primo bar che

trovo e anche qui mi accolgono sorridendo, con un saluto tipico del luogo. E' una parola brevissima, che non comprendo, ma rispondo con un "guten tag" (buongiorno). Ordino in modo improprio un "café normàl" e la ragazza del bar capisce che non voglio un espresso ma un caffè dei loro. E' evidente che questi austriaci sono tutto meno che "crucchi", come ci si aspetterebbe. Sono seduto fuori dal bar e in quella passa una ragazza molto graziosa. Mi guarda e, sorridendo, mi fa "tag!". Mi chiedo se sogno o son desto: in Italia le ragazze carine se la tirano da morire e ti ignorano, per bene che vada. Qui invece la gente è cordiale, persino le ragazze belle. Rientro in zimmer e mi accorgo di aver dimenticato a casa alcuni farmaci per me indispensabili. Panico. Mi informo su dove trovare un medico ma non ci capiamo, sicché esco quasi sconvolto e vado nella direzione che mi sembra essere quella giusta. Incappo in un posto di blocco della Polizei, mi fermano perché correvo, e ho una folgorazione: al poliziotto faccio, in inglese. «Ho bisogno di un medico subito! Dove posso trovarlo?». Qui accade l'incredibile. I due agenti decidono di mollare il posto di blocco e aiutarmi in ogni modo. Dopo un po' mi danno indirizzo e numero di telefono del medico, con ogni indicazione utile a trovarlo. Nella mia testa, la convinzione che questo è un popolo di “santi”, a partire dalla Polizei, che tutti mi avevano detto essere severissima ed implacabile. In Austria ho trovato un paese diverso dal nostro. Ho visto gli scoiattoli, i castori, ho visto la Wasserfalle, una cascata talmente alta e possente che ho avuto paura di lei e me ne sono andato; ho visto ragazzi cercatori d’oro sulla riva di un fiume, con

Andrew Bossi

Andrew Bossi

tanto di bacinella. Familiarizzare con i valligiani è facile e immediato, basta essere educati, rispettosi e socievoli. Io ho cercato di esserlo, e sono sempre stato largamente ricompensato. Qui il senso civico è altissimo: tutti rispettano i limiti di velocità, non ho visto un pezzo di carta volare sulla strada, né un mozzicone di sigaretta, né ho sentito suonare un clacson. Ciascuno rispetta l'ambiente come se fosse casa sua, non esiste sporcizia, non esiste segno di degrado, il patrimonio storico e quello naturale sono tutelati e valorizzati in ogni modo. Anche la casa più sperduta è provvista di strada asfaltata. In ogni dove c’è un bed&breakfast e si può star certi che i prezzi sono contenuti e adeguati all'offerta. Ogni casa di montagna, per quanto sperduta, ha un piccolo cartello verde che indica il nome della famiglia e la direzione da prendere per raggiungerla, ogni sentiero ha un cartello giallo che ne indica la lunghezza e il punto di arrivo. La burocrazia è ridotta all'osso. Nei locali pubblici, giovani e anziani bevono insieme. Non ho visto parcheggi a pagamento e non esiste la figura del vigile urbano: non ce n'è bisogno. Ma anche l'Austria ha i suoi difetti. Il "nero" è abbastanza diffuso, il patrimonio storico è un centesimo del nostro, uno sgradevole odore di cucina ristagna un po' dappertutto e manca la cultura del mangiare bene. Ovviamente qui non esiste l'elasticità mentale, non esiste la disinvoltura, non esiste l'arte di arrangiarsi che ci rende unici al mondo. Loro non hanno avuto Leonardo, né Galileo, né tanti altri, e quando noi avevamo Giulio Cesare loro erano sostanzialmente barbari. Ma questo è un altro discorso. Per me, comunque: Austria e austriaci 10 e lode.


La mia battaglia contro l'indifferenza degli uomini Così nasce una colonia di gatti. Il caso di via Cojazzi a Roveredo in Piano di Daniela Russo Un giorno di agosto, passando in macchina davanti al cantiere delle scuole elementari di via Cojazzi, a Roveredo in Piano, ad un certo punto vidi sbucare un gruppetto di gattini. Intenerita, mi fermai. Guardai oltre la rete di recinzione e mi accorsi che vi erano delle ciotole vuote: infilai il braccio e cominciai a batterle per attirare l’attenzione di quei mici, così da guardali più da vicino. Ne arrivarono tanti, di tutte le età, molti di più di quanti ne avevo visti passando. Fui quasi spaventata dalla fame che dimostravano di avere, così decisi di aspettare l’arrivo di qualcuno per chiedere spiegazioni. Dopo un po’ arrivò in effetti una signora con in mano diverse scatolette di cibo per gatti. Mi raccontò che in quella zona,

quattro anni, prima erano state abbandonate due gatte non sterilizzate e, dato che le istituzioni trascurarono il problema, successe che poco per volta il numero dei gatti aumentò. Ad oggi ne abbiamo contati 25. Rattristata e sconvolta, l’indomani su suggerimento della signora Franca, volontaria dell’associazione Dingo di Pordenone, avvisai i vigili del Comune di Roveredo in Piano. In un primo momento questo fatto sembrava non interessare. Non mi arresi e così mi rivolsi al responsabile dell’anagrafe canina, descrivendogli il disagio in cui vivevano questi gatti e facendo appello all’importanza di bloccare queste nascite continue. Alcuni dei mici erano ammalati e c’era anche il rischio che portassero infe-

Gatti e randagismo, problema di tutti riconosciuto da pochi Al Rifugio Dingo di Pordenone sono ancora pochi gli aiuti che arrivano dai Comuni di Daniela Russo Soprattutto nei mesi estivi, ai bordi delle strade che i vacanzieri percorrono alla ricerca del benessere e del divertimento, non è raro imbatterci in situazioni di abbandono, che compromettono la vita dei nostri animali domestici. I più fortunati vengono salvati e portati nei rifugi di accoglienza, come quello gestito dall’associazione Dingo di via Mameli a Cordenons, dove grazie all'impegno dei volontari, molti animali ritrovano la salvezza da un destino tragico, che sembrava aver ormai segnato la loro vita. I 180 gatti attualmente presenti al rifugio rappresentano la gran parte degli ospiti. Nel 2011 Dingo ne ha

accolti 134, provenienti da diversi comuni della provincia

zioni. Il responsabile mi mise davanti due soluzioni: o far emettere un ordine pubblico che impedisse alla gente di andare loro a portare del cibo, oppure fare riconoscere il gruppo come una colonia felina. Scelsi, naturalmente, la seconda strada. Inoltrai così una richiesta al servizio veterinario dell’Assl, affinché

di Pordenone. La spesa che l'associazione ha sostenuto per la gestione del ricovero, l'anno scorso, è stata di 27.535,06 euro. Di questi, quasi 7mila sono serviti ad acquistare cibo, sabbia per le lettiere e fieno per gli animali da cortile. Con 3.900 euro sono state coperte le spese veterinarie e lo smaltimento. Il pagamento delle bollette invece ha pesato sul bilancio dell’associazione per 1.562 euro e la gestione generale del rifugio è costata 15.106 euro. Sono le cifre di un gesto di amore nei confronti degli amici animali che i volontari della Dingo stanno portando

si prendesse in carico il problema e si occupasse delle sterilizzazioni usufruendo dei contributi che la Regione destina a tal fine. Dopo pochi giorni, mi incontrai con una veterinaria dell’Azienda sanitaria che mi rispiegò l’iter. Nel momento in cui scrivo sono ancora in attesa di una chiamata che mi annunci che si deve andare sul posto, catturare i gattini e portarli al distretto sanitario per la sterilizzazione. Spero avvenga presto. Nel frattempo da qualche giorno condivido la mia vita con Stuard, uno di quei tanti mici sfortunati, che sono riuscita ad avvicinare e a portare a casa. Fu lui, quel giorno di agosto, che attirò per primo la mia attenzione e che mi rese così motivata a portare avanti la mia battaglia contro l’indifferenza degli uomini.

avanti sul territorio da anni. Un gesto che costa denaro e che non tutti i Comuni interessati, sostengono con un loro contributo. I fondi che nel 2011 sono arrivati dalle amministrazioni comunali da cui questi animali abbandonati arrivavano hanno coprendo meno di un quarto del totale dei costi. In questo modo Dingo viene messa economicamente in difficoltà, sentendosi costretta a limitare le accoglienze. Spesso abbiamo sentito parlare di canili, che a differenza della Dingo ricevono sovvenzioni per ogni ospite entrante, considerando solo l'abbandono dei cani come rischio per la tutela dell'ambiente e della salute pubblica. Così nella realtà non è. L’appello della Dingo agli enti di competenza è infatti quello di considerare anche l'abbandono del gatto come problema di randagismo, riguardante tutti i cittadini, e di contribuire alle spese di mantenimento e custodia degli animali, come prevede anche la legge regionale 39/1990. Lo scopo è garantire la giusta dignità di esistenza ad ogni orfano che varca quel cancello, perché ogni vita, indistintamente da quale essa sia, è preziosa e va rispettata.


IL PERSONAGGIO

La sua scoperta non bastò per farsi accettare come omosessuale Alan Turing morì suicida nel 1954. Fu tra i grandi matematici del Novecento di Guerrino Faggiani Quando si dice l’ingratitudine. La storia di Alan Turing lascia un certo amaro in bocca, un senso di occasione mancata lo si avverte, con lui in primo luogo. Alan Mathison Turing era un inglese vissuto nello scorso secolo (Londra 1912 – Wilmslow 1954), dal carattere eccentrico, non molto brillante negli studi, ma con una grande passione per la matematica. Era bravo e questa materia gli “riusciva” benissimo. Quando la sua mamma, come ancora a quelli della mia generazione capitava, lo richiamava al dovere delle lezioni con il perentorio: «Prima i compiti poi a giocare», lui rispondeva all’ordine, ma una volta terminati, finalmente libero di divertirsi, si dedicava alla matematica. Dunque una passione fuori dal comune che crescendo gli divenne sempre più totalitaria. Niente di strano che la matematica gli fungesse anche

Enigma La macchina elettromeccanica Enigma fu messa a punto nel 1918 dall’ingegnere tedesco Arthur Scherbius (1878 – 1929). Aveva più o meno le dimensioni di una macchina da scrivere ma pesava 12 kg. Era dotata di due tastiere, una vera e propria, l’altra con i tasti sostituiti da lettere che si accendevano ad ogni battuta di tasto corrispondente. Il tutto era gestito da tre rotori interni, ovvero tre dischi che avevano in rilievo le 26 lettere dell’alfabeto tedesco. Dopo un tentativo fallito di commercializzazione, Arthur Scherbius nel 1926 trovò fortuna per la sua macchina nella marina militare tedesca, ed in seguito anche nell’esercito e tutto l’apparato nazista. Più volte perfezionata da Scherbius,

da veicolo per piaceri personali. Forse gli si dedicava così strenuamente perché aveva ben pochi altri modi per avere soddisfazioni dalla vita. Era omosessuale e ai suoi tempi non era facile esserlo, soprattutto nelle relazioni sociali. La matematica non chiedeva niente e neanche si faceva opinioni e lui ci mise l’anima ed il cuore. Si diplomò a stento, il latino e la religione non gli andavano a genio, ma i calcoli astronomici e la fisica erano la sua passione. Nel 1931 venne ammesso al King’s College dell’Università di Cambridge, dove finalmente poté rincorrere le sue voglie. Si laureò nel 1934 con il massimo dei voti, insignito anche del premio Smith che era ad appannaggio dei migliori studenti ricercatori di fisica e matematica. Continuò ancora gli studi alla Princeton University ottenendo un Ph.D, titolo accademico che rap-

presenta il più alto grado di istruzione universitaria. Durante la seconda guerra mondiale Alan Turing non esitò a mettere le proprie capacità al servizio del dipartimento delle comunicazioni inglese; assieme a Marian Rejewski pesò in modo determinante nell’esito del conflitto e grazie ad alcune nozioni di base pervenute dall’intelligence, e alla loro elaborazione con “la macchina di Turing” (lontana antesignana del computer), riuscirono a decriptare la allora considerata inattaccabile macchina Enigma, che i nazisti usavano per le loro comunicazioni, svelandone i segreti. Alan Turing, annoverato tra i più grandi matematici del XX secolo, logico, crittografo e comunemente definito il padre della scienza informatica e dell’intelligenza artificiale, è morto suicida nel 1954 dopo aver ingerito una mela avvelenata con cianu-

ro di potassio, inequivocabilmente spinto nel gesto dalle discriminazioni omofobe e persecutorie a lui riservate dal governo inglese. Solo molti anni dopo, il 10 settembre 2009, quasi costretto da una campagna internet, il governo inglese tramite il suo primo ministro Gordon Brown, presentò pubbliche scuse e gli riconobbe i giusti meriti. Ma il comunicato risultò più un atto d’ufficio che da vera ammenda, sfiorando un delirio demagogo sulla libertà dei popoli giusti che ricordava i tempi duri della guerra. La frase conclusiva basti per tutte: «Così, per conto del governo britannico, e di tutti coloro che vivono liberi grazie al lavoro di Alan, sono orgoglioso di dire: ci dispiace, avresti meritato di meglio». Neanche alle scuse ha abbassato la testa, ma alzata per il fiero gesto. A Padova dicono: “no go paroe”.

Enigma risultava veramente di inestricabile comprensione, tanto che nel 1931 Hans-Thilo Schmidt, impiegato tedesco che aveva accesso alla macchina, fornì ai francesi due prototipi di manuali d’istruzione, con i quali tentarono di sbrogliare il sistema della macchina. Ma il progetto si rivelò così complesso da indurli dopo poco ad abbandonare il tentativo. La Polonia vedendo lontano e sentendosi in pericolo, chiese ai francesi tutto il materiale su Enigma, e con i migliori accademici della nazione formò un gruppo guidato dal matematico Marian Rejewski. Che con una macchina da lui progettata chiamata Bomba, riuscì a penetrare Enigma, intuendo che i tre rotori erano impostati in base ad una chiave di regolazione. Le regolazioni cambiavano ogni giorno, ma la Germania fece l’errore

di programmarle e metterle in un calendario, quindi la vera chiave era quel calendario. In seguito la Germania migliorò Enigma aumentando le combinazioni possibili. Bomba non fu più in grado di supportare tale complessità e alla vigilia dell’invasione della Polonia, il progetto venne trasferito in Inghilterra. Dove a Bletchley Park, si riunirono i migliori matematici della nazione, che riuscirono a riprogettare Bomba aumentandone la capacità di elaborazione. Ma i tedeschi migliorarono ancora Enigma, e gli inglesi ancora a rincorrere. Si instaurò così tra i due servizi di intelligence militari, una vera e propria guerra fredda in una calda. Solo colui che è passato alla storia come Alan Turing il genio, riuscì a scoprire Enigma in ogni suo anfratto, svelando così anche migliaia di messaggi

del passato intercettati ma mai decriptati, scoprendo i segreti delle forze armate tedesche e dell’apparato nazista. Una vittoria straordinaria che ha fortemente ifluito sull’esito della guerra


PANKAMOVIE

alotofmillion

IO ADORO JOHNNY DEEP Il ragazzo ribelle che scoprì il cinema per caso. Attore eclettico dal fascino irresistibile di Luca Gaspardis Tutti hanno il proprio idolo. C'è chi ama un cantante in particolare o un campione del calcio o del basket. Io invece adoro Johnny Deep. E in assoluto il mio attore preferito e voglio raccontarvi cosa mi piace di lui e qualche curiosità che

magari non tutti sanno. Johnny Christopher Deep secondo è nato il 9 giugno 1963 nel Kentuchy ed è il più piccolo di quattro fratelli. Da bambino era molto attaccato al nonno, che mori poco dopo il suo settimo compleanno. Questo lutto

PANKAROCK

NEGRITA, LA CARICA DEL ROCK Tappa a Majano per la band toscana di Fabio Passador La ricca estate dei concerti live in Friuli Venezia Giulia non ha distratto i molti fans dei Negrita, la band aretina che da diciott'anni, dall'uscita del loro primo disco omonimo, è tra i migliori protagonisti della musica italiana. Era il 1994 e dalle radio echeggiava l'orecchiabile ritornello di Cambio il primo singolo ufficiale dei Negrita. Ed è proprio con il loro cavallo di battaglia che si accende lo show di una delle poche band che in Italia offre ancora un spettacolo rock degno di tale etichetta. Il tour invernale ha fatto registrare sold out per ogni data, ma anche gli spettacoli estivi come quello di Majano sono stati presi d'assalto da vecchi e nuovi ammiratori di Pau e compagni. D'altronde è proprio nelle esibizioni dal

vivo che danno il meglio di loro, regalando a chi li ascolta due ore di generoso rock dai taglienti riff di chitarra di Drigo e Cesare, all'inarrestabile balletto con il suo basso di “Ciccio” Li Causi e la possente presenza scenica di Pau. L'atmosfera si scalda subito sotto il palco con uno dei brani estratti dal nuovo album Dannato vivere intitolato Fuori controllo che descrive la rabbia dei giovani davanti all'incertezza del proprio futuro, così come nella successiva Il libro in una mano la bomba nell'altra, un vero testo di denuncia nei confronti del potere economico e politico che prende di mira soprattutto l'ipocrisia del clero e le sue ricchezze davanti a drammi come la guerra e la fame. Immobili, un'altra canzone

fece scattare qualcosa dentro di lui. Infatti dopo l’ennesimo trasloco con la famiglia, Johnny diventò un ragazzo scontroso e chiuso: allo studio finì per preferire la sperimentazione delle droghe. Più tardi infatti avrebbe dichiarato che all'età di 16 anni aveva già provato ogni tipo di droga non tanto per qualche forma di dipendenza, ma per curiosità. Nel 1984, dopo essersi separato dalla prima moglie, conobbe Nicolas Cage che riconobbe in lui una "faccia da attore" e lo incoraggiò ad intraprendere la carriera della recitazione. Poco tempo dopo Johnny riuscì ad ottenere un provino per l'horror "Nightmer on elm street" e gli fu data una parte da studiare in una notte. La mattina seguente al provino, l’ingaggio: fu così che la scena più incredibile del film ha proprio lui come protagonista. In seguito il grande Oliver Stone lo scelse per la parte di un soldato nel film "Platoon" del 1986 che vinse ben 4 premi Oscar. Grazie l'esperienza di Platoon ambientato nella jungla vietnamita, la passione di Johnny per il cinema crebbe a tal punto di diventare una scelta di vita. Inizia cosi ad avere molta fama e notorietà ed insieme ad esse arrivano i

soldi che Johnny usa per coltivare la sua passione che oltre alla recitazione e la musica. Infatti non dimentichiamoci che Johnny ha suonato come chitarrista in "Fade in out" degli Oasis, ed è membro della band "P" che vede la presenza del bassista "Flea" dei Red Hot Chili Peppers. Reciterà poi in molti altri film e tra quelli che preferisco sicuramente c'è "Edward mani di forbice" che lo vede come attore protagonista, e “Blow” dove interpreta la vita di George Jung, trafficante di droga degli anni ‘70 e protetto di Pablo Escobar. Oltre a questi film, tutti conoscono la grande versatilità di Jhonny che riesce a passare tranquillamente da un film in bianco e nero ed impegnato ad un personaggio simpatico come Jack Sparrow in "I Pirati Dei Caraibi". Oltre ad essere un grande attore è un personaggio che ad ogni presentazione dei film e ad ogni red carpet lascia tutti a bocca aperta con le sue apparizioni e la sua bellezza. Basti pensare che le sue fan vanno dai 12 ai 40 anni. Insomma tutte lo amano per il suo aspetto fisico e il suo modo di fare, ed io personalmente continuerò a seguirlo e ad amare i suoi film.

contenuta nel loro ultimo lavoro, sembra essere quasi la risposta che la band dà di sè e del resto della società davanti ad un mondo difficile da cambiare, dove speranza e lotta sembrano aver lasciato spazio a rassegnazione ed indifferenza. Oltre a dar spazio alle nuove canzoni come Brucerò per te e Un giorno di ordinaria magia nella scaletta trovano il loro posto pietre miliari della storia dei Negrita come Mama Maé, In ogni atomo che ci riportano ai primi successi dei nostri beniamini toscani, passando dalla carica rock di A modo mio e Transalcolico, invocata anche dal pubblico, al quale Pau si concede con un ballo tribale

all'ombra di uno spettacolo di luci coloratissime. Dall'intimismo femminile di Magnolia e Bambole all'autentico sound sudamericano che ha contagiato il gruppo negli ultimi lavori in studio come la rivisitata Rotolando verso Sud e Radio Conga, i Negrita ci regalano due ore abbondanti di intensità, balli, cori e perché no, anche degli spunti di riflessione su noi stessi ed il mondo che ci circonda. Nei vari bis concessi ai numerosi fans, la conclusione con i brani Ho imparato a sognare e l'inno finale Gioia infinita rappresentano una sorta di augurio ad un futuro migliore, senza rinunciare ai sogni, alla felicità ed al suo rumore.


PANKALIBRI

partigiana, nello stesso battaglione comandato dal fratello Toni, che morirà qualche giorno prima della Liberazione in un agguato dei nazisti. Questo episodio segnerà per sempre la vita di Tina: entrerà infatti nel Partito Comunista Italiano, ricoprendo incarichi importanti nella FGCI, nell'UDI, arrivando ad essere eletta consigliera provinciale a Belluno, ma per il suo carattere rigoroso e sincero, sarà amata ed altrettanto odiata da molti. Tina la comunista, ma soprattutto Tina e la sua vocazione per il giornalismo di inchiesta, vicino agli ultimi e contro le ingiustizie, nata per caso grazie ad alcuni articoli che scrisse su e giù per la valle per

“L'Unità”, che la giovane Tina insegue con passione, tanto da riuscire ad entrare ormai adulta nelle redazioni di Milano, Vicenza e Venezia. In “Quella del Vajont” Adriana Lotto traccia un ricordo più profondo ed intimo di quello che il regista Renzo Martinelli, nel suo “Vajont” del 2001, regalò al grande pubblico: Tina Merlin non fu solamente una figura isterica ed incompresa del giornalismo e della politica del Novecento, ma grazie a questo libro ci ritorna indietro anche la donna forte e tenera allo stesso tempo; altruista, tanto che la sua vita privata fu secondaria rispetto alle battaglie contro le ingiustizie del mondo. Un carattere, quello di Tina Merlin, vicino allo stereotipo della gente di montagna: ruvido ma schietto. L'imprescindibilità dei valori comunisti e cristiani allo stesso tempo nell'aiutare il prossimo, il diseredato, l'oppresso ne hanno fatto una persona combattiva ed altrettanto sensibile, la cui intimità è tutta da scoprire in questo libro completo, che ci regala il ritratto vero di una donna d'altri tempi.

abitato dall’anima che era, continua ad essere, lontano da ogni cultura secondo la quale bambini-donne-anziani dovrebbero essere visti e non sentiti (…) dove è possibile vivere una vita riempita dalla passione e informata dalla ragione (…) a evitare che precipitassi nel niente di una conformità accuratamente coltivata». Con linguaggio magico e suggestivo, che richiama le storie narrate intorno al fuoco, l’autrice ricorda: «Era alle feste di matrimonio che le anziane davano libero sfogo ai loro poteri di streghe buone, di incontenibili vecchie donne pericolose». La narrazione è spesso sul filo dell’umorismo e del paradosso: «E’ una vecchia tradizione. Quando una figlia si sposa, le anziane tentano di uccidere lo sposo prima che raggiunga il talamo nuziale. E come arma usano la danza. In quella particolare notte d’estate, di quel preciso matrimonio, cibo, danza e vino avevano raggiunto il culmine. La sala aveva il buon odore del sudore fresco di duecento cittadini naturalizzati e della prima generazione di figli nati in America». E fu allora che le quattro grandi madri … ma no, non vi tolgo il gusto della sorpresa, se voleste leggere il libro. Posso solo dire che

le quattro vecchie scatenate, attraverso le danze magiare “fecero fuori” ventiquattro baldi giovani, venticinque con lo sposo. Allora la più anziana si consultò con le altre, che annuirono e convocarono la sposa. «La ragazza era bellissima – scrive Pinkola Estés - come un centrino di merletto bianco bordato di perle. - “Dolce angioletto, questo stallone dunque è tuo marito? Avrà sempre energie per portarti a cavalcare. Lo abbiamo provato per te!” - Le anziane donne buttarono indietro la testa mostrando i denti d’oro, emisero un grido a quattro voci e per poco non cadevano dalla sedia. La sposa si illuminò e arrossì felice». Un libro adatto alle donne giovani e vecchie, che secondo l’autrice, dovrebbero essere in dialogo tra di loro, perché per essere se stesse al meglio hanno bisogno l’una dell’altra. Come nei miti e nelle fiabe, dove la vecchia indica la strada e dà l’amuleto o la formula magica. Un libro adatto anche agli uomini, perché «il compito fondamentale della grande madre non è che questo, e tutto qui: vivere la vita in tutta la sua pienezza. Non a metà. Non a tre quarti. Non un giorno da pecora e il giorno dopo da leone. Ma piena di vita, ogni giorno”.

Ritratto di una donna contro

L’altro volto di Tina Merilin, giornalista che lottò per la gente del Vajont recensione di Fabio Passador “Quella del Vajont” della Cierre edizioni è una biografia appassionata e documentata di “Tina Merlin, una donna contro” voluta e scritta da Adriana Lotto, docente universitario e presidente dell'associazione che a Belluno porta il nome della giornalista di Trichiana (Bl), e che esce ventuno anni dopo la sua morte. Tina Merlin (1926-1992), corrispondente e poi giornalista de “L’Unità”, morì a sessantacinque anni: il suo nome è rimasto legato nella memoria collettiva alla sua denuncia, iniziata nel 1956, contro i rischi che stavano correndo gli abitanti della valle del Vajont (Bl), a causa dei lavori di costruzione dell'omonima diga. Fu una battaglia che questa donna coraggiosa e solitaria continuò a combattere per

tutti gli anni della sua vita, vincendo le istanze presentate ai tribunali, ma senza riuscire ad evitare quella tragedia che, il 9 ottobre 1963, costò la vita a duemila persone e di cui il prossimo anno ricorre il cinquantesimo anniversario. Figlia di un padre emigrante e di una madre forte ma perennemente nostalgica e ultima di sei fratelli, il suo nome di battesimo era Clementina. Scorrendo le pagine della sua biografia la si conosce bambina e poi, appena sedicenne, la si segue a Milano dove fu costretta a trasferirsi con la sorella più grande Ida, per lavoro. Qui però Tina è insofferente per la mansione che deve svolgere, quella di servitù per una famiglia benestante. Due anni più tardi, dopo l'8 settembre, si unisce alla lotta

Donne che non temono di essere fuori moda Dall’autrice di “Donne che corrono coi lupi”, un'altra perla di vita sempre attuale di Franca Merlo La vicenda di Alex Schwazer, trovato positivo al doping alle recenti Olimpiadi, mi ha richiamato alla mente un libro. In quel fatto ho visto lo specchio della nostra società, ho letto la fragilità di tanti giovani che sono diventati dipendenti dalla propria immagine, costretti ad esibirsi sempre saldi e vincenti, finché non ce la fanno e cercano la scorciatoia, non ce la fanno e crollano. E’ difficile amarsi davvero, aver cura di sé e della propria vita, a costo di andare contro corrente. Per contrasto, la vicenda mi ha richiamato il libro di Clarissa Pinkola Estés, La danza delle grandi madri, che esalta la forza lenta e perenne di vecchie donne che non temono di essere fuori moda. Donne che sono rimaste “dei boschi” in una società che vuole tutti omolo-

gati e “civili”. Donne che non sono state fiaccate dalle difficoltà e dalle ferite della vita, ma hanno trovato in se stesse la forza di rinascere. Sono anziane profughe magiare disperse dall’Ungheria alla Russia dopo la seconda guerra mondiale e infine approdate nella grande famiglia di Clarissa, in America. L’autrice è quella psicologa iunghiana che anni fa ebbe un grande successo con Donne che corrono coi lupi. In questo successivo libro racconta l’irruzione di quattro anziane “divine e pericolose” nella sua vita di ragazzina condannata alla noia del conformismo. Pericolose perché trascinatrici: «Quando una vive pienamente, così fanno anche gli altri». Queste vecchie, come nelle fiabe, le hanno aperto una porta segreta «un luogo


non solo sport

A scuola di arti marziali in via Pontinia La nuova proposta di "Spazio X" per l’estate, lezioni di Judo e Nordic walking di Daniela Russo e Elisa Cozzarini - Che si fa questa sera? - Non so, non c'è mai niente da fare a Pordenone! Invece a volte qualcosa si può trovare, anche in periferia. Come nei mercoledì sera di luglio, nel quartiere di case Ater di via Pontinia, dove il Centro di aggregazione giovanile "Spazio X" del Comune di Pordenone, gestito dalla Nuove Tecniche società cooperativa, ha proposto una "Scuola di arti marziali" gratuita e aperta ai cittadini di ogni età. I quattro appuntamenti sono stati possibili grazie alla partecipazione volontaria degli atleti, con i genitori e i responsabili della Polisportiva Villanova, il tutto sotto la guida del maestro Edoardo Muzzin, più conosciuto in città

come Dudu. Il prato tra i palazzi Ater, vicino al centro polifunzionale, è stato ricoperto dai tatami, cioè i materassi sottili usati nel judo, su cui cadere, che servono anche per delimitare le aree di gara. Qui hanno combattuto e si sono esibiti gli atleti pordenonesi, disciplinati nei loro kimono bianchi, facendo provare qualche mossa anche ai giovani spettatori. Per gli adulti, la proposta è stata il Nordic walking, uno sport che si pratica all'aria aperta e, rispetto al camminare, mette in moto anche braccia e spalle, grazie all'uso di bastoncini. La "Scuola", aperta a tutta la cittadinanza, per la promozione dei sani valori dello sport e del volontariato, ha coinvolto soprattutto i residen-

ti del quartiere, che in queste quattro serate non hanno dovuto spostarsi in centro alla ricerca di qualche proposta estiva. Con curiosità, in molti si sono avvicinati ai tatami, per un piacevole momento di condivisione tra generazioni diverse, dai bambini agli anziani. Coinvolgente ed emozionante è stata soprattutto l'esibizione di "judo show", una performance innovativa, realizzata a ritmo di musica da un gruppo di atleti giovanissimi, che a due a due si fanno forza uno con l'altro per volteggiare su loro stessi, cadendo con leggerezza e coordinazione sorprendenti. In silenzio, gli occhi degli spettatori hanno seguito fissi e attenti i movimenti dei ragazzi, fino all'inchino finale. Da tradizione nelle arti marziali l'inchino è il saluto che si fa prima e dopo un incontro, con cui gli atleti dimostrano disciplina e rispetto reciproco. Subito dopo è scoppiato un fragoroso applauso, spontaneo, e gli atleti hanno spezzato le righe per correre orgogliosi dai genitori, che li aspettavano per abbracciarli e complimentarsi. La voce del maestro Dudu, che ha accompagnato le quattro serate con commenti

e spiegazioni sul judo e la filosofia delle arti marziali, ha concluso gli appuntamenti a via Pontinia con un invito a tutti a partecipare ai mondiali di judo, dal 20 al 23 settembre al Palazen di Pordenone. Un evento importantissimo, per la Polisportiva e per la città, in cui tra l'altro sono stati coinvolti, nel servizio d'ordine, anche i ragazzi del Centro di aggregazione "Spazio X". Lo sport ha creato così, in questa calda estate di crisi, un ponte tra due quartieri periferici della nostra città: è la dimostrazione che ogni tanto qualcosa da fare lo trovi anche a Pordenone. Basta saperlo cercare e, magari, proporre. Per info sulle attività sportive: polisportiva.villanova@gmail. com. Sul Centro di aggregazione giovanile: spaziox_pn@ yahoo.it

JUDO E IMPEGNO SOCIALE Alla base del judo c'è il principio jita kyoei, espressione che, tradotta dal giapponese, significa “tutti insieme per progredire”. Il judo, infatti, è un'arte marziale basata sul confronto e contatto fisico con l'altro, con cui si combatte nel massimo rispetto reciproco. In questa disciplina non si può imparare né migliorare allenandosi da soli: di fronte bisogna sempre avere un’altra persona, che combatte e cade a terra perché l'avversario possa imparare.Questa visione dello sport, basata sulla stretta relazione con l'altro, si presta naturalmente a una forte sinergia con l'impegno nel sociale. Succede da Pordenone a Napoli. In un territorio difficile come quello di Scampia, Gianni Maddaloni, padre di Pino Maddaloni, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Sidney 2000, ha una palestra che per molti ragazzi rappresenta l'unica àncora di salvezza, un baluardo di legalità. Il binomio sport e solidarietà anima da sempre anche

la Polisportiva Villanova, fondata nel 1979 a Pordenone dal maestro Edoardo Muzzin, assieme a un gruppo di amici. «Sin dall'inizio la regola è stata di far partecipare tutti, anche chi non poteva permettersi di pagare la retta mensile - afferma Muzzin - la sfida alla fine degli anni Settanta era creare una base per l'aggregazione nel quartiere di Villanova, dove al tempo non c'era nemmeno la chiesa, si rischiava che nascesse un ghetto, con tante famiglie ai margini». Oggi quella scommessa è stata vinta e la Polisportiva è cresciuta, arrivando a 400 atleti, ma lo spirito rimane quello di andare oltre alle attività sportive, creando momenti di aggregazione e condivisione. «Rispetto all'inizio, adesso è sempre più difficile coinvolgere gli atleti e le famiglie nel volontariato - continua Muzzin - tutti hanno vite frenetiche, sembra non ci sia il tempo di fermarsi a riflettere su dove stiamo andando». Ecco perché l'impegno continua.


Hanno collaborato a questo numero

LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009

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Pino Roveredo Penna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. Toscano, non di origine ma fedele compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.

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Daniela Russo Giovane Amica di vecchia data. Spirito etereo e garbato si è incendiata alla notiazia dello sfratto. Ma quando la rabbia diventa potenza, si è capaci di qualsiasi risultato. Lei si è sfogata con penna e foglio ed ora... non può più fermarsi!

Andrea Picco Sceglie di vivere anche lavorativamente la sua Gorizia perché, a pochi metri di distanza, la benzina costa molto meno! Se la storia è partenza e slancio verso il futuro, lui la rappresenta per questo luogo, indelebilmente

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Manuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili

Fabio Passador Attualmente panchinaro di lusso! Come ogni giocatore di calcio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di testa, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist

Elisa Cozzarini Bici gialla per passare inosservata, capello corto per non rischiare mai di non osservare. Fedelissima firma di LDP, presenza eterea in una fossa di leoni.

Redazione Dott.ssa Mariangela Cunial, Andrea Picco, Franca Merlo, Ada Moznich, Ferdinando Parigi, Manuele Celotto, Fabio Passador, Luca Gaspardis, Elisa Cozzarini, Daniela Russo, Caterina Traetta, Floriana Nardozi, Mihai Stuleanec, Gino Dain, Fabio Garofalo.

Impaginazione Ada Moznich

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Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”

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Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia

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Gino Dain Probabilmente l’unica persona al mondo capace di arrivare così vicino alla morte da poterla guardare in faccia per dirle: “..ci vediamo un’altra volta!”. Non basterebbe un libro per raccontare tutte le cose che ha combinato e che sta facendo, ma per noi resta Ginetto, finissimo rappresentante di una generazione di fenomeni

Luca Gaspardis E’ il più piccolo della compagnia ma non certo per l’altezza! Quando ci ha incontrati per la prima volta sembrava impaurito anche della sua ombra, adesso è diventato un fiume in piena! Siamo sicuri che abbia molte cose da dare, anche se per ora non ricorda dove le ha messe!

Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie Foto a pagina 1, 9/13, 15, 16 http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pagina 2 di Saa Raccutto Foto a pagina 3 di Gigi Cozzarin (dal sito di Pordenonelegge.it) Foto a pagina 4 e 5 Fabio Passador Foto a pagina 8 di Guerrini Faggiani Foto a pagina 14 di Milena Bidinost Foto a pagina 18 di Elisa Cozzarini Dove non citate cura della redazione Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo del Comune di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Tel. 0434 363217 email: info@iragazzidellapanchina.it www.iragazzidellapanchina.it Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina si trova temporaneamente presso la cooperativa Itaca, in vicolo Selvatico 16 a Pordenone. È aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14.00 alle 18.00

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Capo Redattore Guerrino Faggiani

Creazione grafica Maurizio Poletto

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Direttore Editoriale Pino Roveredo

Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone

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Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli

Direttore Responsabile Milena Bidinost

Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.

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Ferdinando Parigi Voce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si trovano raramente, la nostra nuova penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800


buona lettura, buona cultura I ragazzi della panchina campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale DEI RAGAZZI DELLA PANCHINA CON IL PATROCINIO del comune di pordenone


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