Ldp 03 2013 issuu

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APPROFONDIMENTO

ALTRE STRADE

Libertá di Parola 3/2013 ——

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

A giugno Pordenone ha ospitato il primo Forum internazionale sul contrasto del consumo di sostanze psicoattive. Unico nel suo genere il progetto si intitolava “Come costruire Altre Strade: la rete dei servizi informali” ed è stato promosso dall’associazione “I Ragazzi della Panchina”, il Dipartimento FISPPA dell’Università degli Studi di Padova e il Dipartimento delle Dipendenze dell’Azienda Sanitaria Ass6. a pagina 9

PANKA NEWS

Nuova tesi di laurea sui Rdp L'associazione vista dal territorio a pagina 2

INVIATI NEL MONDO

Marocco, una terra di fascino unico e di gente ospitale a pagina 14

PANKA ROCK

Springsteen infiamma la folla dello stadio Euganeo di Padova a pagina 15

NON SOLO SPORT

PORDENONELEGGE.IT, DAL 18 AL 22 SETTEMBRE Interviste agli autori e recensioni dei libri in programma di Milena Bidinost Siamo a settembre e la città di Pordenone anche quest’anno si tinge di giallo, il colore della Festa del libro con gli autori, e apre le porte a scrittori, editori, giornalisti, filosofi, sociologi, artisti, scienziati. Da mercoledì 18 a domenica 22, nel centro storico cittadino e nell’ambito di una trentina di location, oltre 250 saranno i protagonisti italiani e stranieri della quattordicesima edizione di pordenonelegge.it, una delle più prestigiose fiere del libro del panorama italiano. Curata come sempre da Gian Mario Villalta (Diretto-

re Artistico), Alberto Garlini e Valentina Gasparet, promossa dalla Camera di Commercio I.A.A. di Pordenone attraverso la propria Azienda Speciale ConCentro e la Fondazione pordenonelegge.it, e sostenuta da Regione Friuli Venezia Giulia, Provincia di Pordenone, Comune di Pordenone, Fondazione CRUP, Pordenone Fiere, Banca Popolare FriulAdria e Cinemazero, la manifestazione ha tenuto a battesimo, nel 2009, la prima uscita del nostro periodico “Libertà di Parola”. Da allora, ogni settembre diventa per noi l’occa-

sione per leggere, intervistare e recensire. Spulciando nel programma della manifestazione, i nostri ragazzi sono stati liberi di scegliere i titoli da recensire e si sono cimentati con entusiasmo nel ruolo di redattori, finendo per sentirsi così parte di questo grande evento. In particolare, la maggior parte delle recensioni sono state scritte da persone seguite dal Dipartimento per le Dipendenze dell’Azienda sanitaria Friuli Occidentale. Le altre dagli amici dell’associazione. a pag. 2

Eurosporting: 35 anni di grande tennis e non solo a pagina 16

IL PERSONAGGIO

Bobby Fischer, quando l'America battè la Russia a scacchi a pag. 18


pordenonelegge.it

VIAGGIO LUNGO LE LIBERE ACQUE DEL PO E’ un binomio d’autore tutto dedicato al fiume Po quello che verrà presentato al pubblico nell’ambito del festival pordenonese del libro. Si tratta di un libro appunto, “Morimondo” (Feltrinelli, 2013), e di un film documentario, “Il risveglio del fiume segreto”, il tutto per raccontare un viaggio lungo il nostro fiume Po, ma soprattutto attraverso un’Italia vista da un’altra prospettiva, quella dell’acqua. Il documentario è stato presentato anche all’ultimo Festival del Cinema di Venezia. Su entrambi i lavori la firma è quella di Paolo Rumiz, giornalista e scrittore triestino, già inviato speciale per “Il Piccolo” di Trieste e oggi editorialista per “Repubblica”. Rumiz dalla metà degli anni Ottanta segue da vicino gli eventi nell’area balcanica e danubiana. Durante la guerra di dissolu-

Rumiz nel suo “Morimondo” osserva la “crisi di nervi” della terra ferma in un libro che è anche un documentario di Fabio Passador zione jugoslava raccontò il conflitto prima in Croazia e poi in Bosnia-Erzegovina, per il quale nel 1993 ricevette il Premio Hemingway. Nel 2001 fu inviato anche dal fronte afghano. Per il suo impegno giornalistico nei fronti di guerra nel 2006 fu insignito anche del Premio Lucchetta nella sua Trieste. Rumiz, dopo tanta cronaca dal fronte e tanti racconti di viaggi, perché scrivere un libro e girarne un filmato dedicato ad un fiume? Perché mi mancava un racconto d’acqua ed un racconto di fiume nei viaggi fatti per Repubblica. E poi perché il viaggio fluviale è forse quello più perfetto che ci sia, perché

il fiume ha una logicità di percorso che è sconvolgente, ti porta sempre dove lui vuole andare: è lui a decidere la strada e non tu. Questo lasciarsi portare è qualcosa di unico, nessuno altro tipo di viaggio ti consente questo lusso. Nei suoi numerosi libri, il viaggio è un elemento predominante. Dove ci vuole portare con “Morimondo”? Anzitutto attraverso un grande fiume italiano pieno di leggenda. Volevo che in qualche modo si rompesse quella cortina di silenzio che c’è intorno a questo fiume perché se ne parla tanto ma in realtà non lo conosce nessuno. Perché gli italiani gli voltano le

Genitori e figli dopo dopo il tramonto del padre La fine dei ruoli famigliari nel libro di Massimo Recalcati. Ricordando la storia di Ulisse di Sonia Il libro illustra il rapporto tra padre e figlio citando gli insegnamenti del primo al secondo su come poter gestire la propria vita. Ricchi e complessi i riferimenti proposti dall’autore, tra questi il complesso di Edipo, il film “Salò” di Pasolini finendo con il ricordo del ’68, periodo di rivoluzione culturale e sociale. Recalcati propone riflessioni su come un padre può guidare il proprio figlio in un oggi privo di valori che induce i giovani allo sbaraglio. Fra i tanti

temi proposti l’autore fa due denunce alla genitorialità paterna che mi hanno colpito: la confusione dei ruoli che troppo spesso oggi caratterizza l’educazione famigliare e il senso di possesso che induce il padre a esercitare un potere assoluto sui propri figli, negando loro la libertà di sviluppare la propria natura. L’autore fa riferimenti anche all’Odissea, in particolare alla figura di Telemaco, figlio di Ulisse, che ha aspettato per vent’anni un papà eroico, coraggioso per le gesta, ricco di

valori uno fra tutti la famiglia, protetta nella lotta contro i Proci. Un Ulisse ricordato affettuoso anche nella “carezza”, un gesto pieno di significati e oggi quasi dimenticato. Un racconto, quello dell’Odissea, che mi ha sempre affascinato per la morale salda, la fermezza dimostrata da Ulisse nel mettere ognuno al proprio posto. La lettura mi ha suscitato parecchie emozioni, in particolare il ricordo di mio padre, mancato troppo presto. Una figura presente, accogliente, dai tanti insegnamenti morali che custodisco con gelosia tutt’ora che di anni ne ho sessantacinque. Sempre una parola buona,

spalle, non gli si avvicinano, lo ignorano e questo nonostante sia uno dei luoghi più belli d’Italia, uno dei più selvaggi: perché la cosa pazzesca del Po è che è il cuore del territorio più abitato, più industriale, più adulterato d’Italia ma allo stesso tempo conserva una naturalità sconvolgente. Per cui diciamo che è assolutamente incredibile che milioni di italiani si mettano in colonna per raggiungere le spiagge ed ignorino le centinaia e centinaia di rive magnifiche e deserte e spesso sabbiose che il fiume offre, in libertà assoluta. Le sue origini triestine la legano naturalmente all’elemento acqua. E’ affascinante un concetto che lei esprime durante questo suo viaggio riguardo al fiume come luogo libertario, sencon una grande capacità di ascolto e grande sensibilità. Dispiaciuto che dovessi iniziare a lavorare prestissimo, credeva nella cultura e nell’importanza che i figli avessero un’istruzione. Nel suo libro l’autore evidenzia come nei tempi d’oggi sia tutto uno scambio di ruoli: vi è una confusione anche dovuta alla frenesia del quotidiano, divisi fra mille attività, forse troppe. La lettura mi suscita questa domanda: quanto il tempo dedicato per riflettere con i figli? Un’asimmetria necessaria quella fra padre e figlio dove l’ascolto diventa centrale, esso stesso un momento essenziale dell’insegnamento. Come per Telemaco Ulisse è stato di esempio, sia nel racconto delle sue peripezie del lungo viaggio sia nella lotta affrontata per difendere la sua famiglia dai Proci, anche per me è fondamentale riflettere sull’esempio di noi adulti e la valorizzazione delle nostre esperienze come guida per i nostri figli.


za confini, che attira verso sé personaggi liberi e anarchici. Sembra un luogo differente a quelli che lei raccontava nei suoi libri ambientati nei Balcani, dove spesso i fiumi sono i confini naturali tra gli Stati dell’ex Jugoslavia. Quali analogie e quali differenze ha trovato? Io cerco di ignorare i confini politici. Facendo così trovo che il mondo danubiano, che coincide spesso con quello balcanico, e quello padano si assomiglino enormemente, perché in entrambi i casi abbiamo un grande fiume che va verso oriente. E’ il centro di una federazione, parlando in senso lato, di diversità, di paesi, di lingue, spesso di religioni che ne fa qualcosa di stupefacente. La cosa bella del fiume è che non appiattisce le diversità, pur essendo per tre quarti del suo percorso un fiume di pianura, e il Danubio fa la stessa cosa. Quindi pur attraversando territori che soffrono più degli altri l’attacco della globalizzazione, esso rimane un luogo dove le diversità coesistono molto bene: ogni paese ha il suo dialetto, i suoi cibi, i suoi detti ed ognuno il suo modo di chiamare il fiume. E’ stupefacente come questo grande canale consenta il miracolo di questa diversità in un tempo in cui tutto si appiattisce.

libertà che è il fiume noi potessimo verificare con chiarezza lo stato di crisi di nervi della terraferma stessa. Vedevamo la follia della Padania con molta più lucidità che se l’avessimo percorsa via terra. Perché l’acqua è un elemento così libertario, così puro, che ti svincola dalle logiche e guardare questo teatrino da fuori ti provoca da una parte una profonda tristezza e da l’altra una gran voglia di ridere. Qual è la sensazione che ha provato il suo gruppo di viaggio nel discendere con lentezza un fiume che attraversa la pianura più frenetica d’Europa? Esistono delle esperienze “altre” che grazie al fiume resistono al modello padano di “terraferma”? Ma sì, diciamo che nel mondo di terra hai un modello molto più omologato, mentre più ti avvicini all’acqua ed hai un assembramento di personaggi molto speciali, come se il fiume accettasse solo questo tipo di persone, le più originali. E poi è un fiume dove permane un forte senso del racconto e dell’oralità; è anche un fiume musicale: nell’Italia in cui nessuno canta più, sulle sponde del Po si suona, perché tutta la bassa è permeata di nebbia e di musica. Personaggi come il

pittore Ligabue sono concepibili solo lungo l’argine. La barca, anzi le barche che avete utilizzato per questo viaggio rappresentano un mezzo ormai “alternativo”, come la bicicletta oppure il treno. Nel suo libro lei si definisce un alieno che arriva dall’acqua ma non sono forse coloro che rimangono imbottigliati in ore di traffico, magari diretti al mare, i veri alienati? Ero chiaramente alieno per gli alieni, un ribaltamento di tutto. Infatti quando parlo della storia del naufragio, cioè di quando normalmente si assiste da terra ai naufragi nell’acqua, noi invece guardavamo dall’acqua un naufragio che avveniva in terraferma. Era incredibile come in un elemento di grande

Attraverso i suoi libri, il suo orizzonte è sempre rivolto ad est, tanto che quest’avventura si spinge fin oltre alle foci del Po. Dove ci porta la sua corrente? Io credevo di conoscere il mare ma ho potuto dire di conoscerlo davvero soltanto dopo esserci arrivato al termine di un fiume come questo. Perché una cosa è montare in una barca dalla casa in riva al mare, un’altra cosa è spingersi in un’avventura in mezzo alla terra ferma. Lì il senso del mare è come uno sperdimento finale, come metafora della morte in senso buono, non pauroso, nel senso dell’uomo che ritorna a far parte del tutto. L’arrivo del delta è qualcosa di incredibile. Il viaggio senza il mare non sarebbe stato completo e quindi siamo andati oltre.

una visita alla figlia scopre che nel frattempo è diventa anche nonna: sua nipote è Melina, bellissima, interessata alla lussuria e alla bella vita, cosciente anche lei di poter avere tutti gli uomini che vuole. Questo è per Iris un altro duro colpo, tale da farla cadere in una sorta di depressione. E’ però all’età di 79 anni che qualcosa cambia davvero. Incontra Carlo, psichiatra, al quale confida tutto il suo passato e i suoi tormenti. Da uomo intelligente le consiglia di scrivere sempre su dei foglietti le sue sofferenze. E’ per Iris una terapia potente e la vicinanza

di Carlo l’occasione di sentirsi nuovamente viva. Arriva così l’ultima parte del racconto, che non svelo ma che raccomando di leggere fino all’ultima riga. Quando l’ho fatto io, erano quasi le quattro del mattino quando chiusi il romanzo. Struggente il finale. “Piangi pure” è un romanzo che ho letteralmente divorato tra la commozione. Vorrei scrivere tutte le emozioni che mi ha suscitato leggendolo passo per passo, ma sarebbero troppe. Troppe le sfumature di Iris che mi hanno ricordato le mie. Non posso giudicare lei per avere abbandonato la propria figlia, ma posso comprenderne il percorso. Per un periodo l’ho fatto anche io, seppure senza allontanarmi fisicamente, bensì cadendo nel vortice della dipendenza. Riprendermi il ruolo di madre è stato un percorso sofferto. Il ricordo di una vita agiata rovinata per amore ha ancora dentro di me segni indelebili. Ma questa è tutta un’altra storia.

“Piangi Pure”, storia di una donna La vita di Iris, gli errori, i rimpianti e l’occasione di rimediare attesa per una vita di Taty Iris è una donna sposata con un uomo, Antonio, che non ama, dalla cui unione nasce una figlia non voluta, Alice. Donna bellissima, narcisista, amante della lussuria e della libertà. Lascia la famiglia e per un periodo di riflessione fugge in un’isola pensando di poter riprendersela. Dopo anni sente la necessità di ricontattare Alice. A causa di un inganno di Antonio, Iris rientra a Roma. Qui ritrova Alice in buona salute, ma scontrosa e piena di rabbia. Antonio

le mente per amore. Ma le loro strade restano divise: Iris infatti s’innamora di un altro uomo. Questa volta è lui che non ama, guardando di lei la solo bellezza esteriore e esibendola come un oggetto di possesso per poi abbandonarla. Da qui Iris inizia un periodo di riflessione sui suoi errori e sui numerosi rimpianti del passato, con una costante paura della morte. Trovandosi costretta a vendere la nuda proprietà della sua casa sente inoltre di aver messo un’ipoteca sulla propria vita. In


pordenonelegge.it

Con nel cuore il Sahara La storia di un tuareg rifugiato politico in Italia La Festa del libro terrà a battesimo “Il deserto negli occhi”, scritto da Ibrahim Kane Annour e Elisa Cozzarini di Milena Bidinost “Ibrahim, tu sei uno imuhar, un uomo libero. Dio ti chiama ad affrontare le difficoltà della vita nel deserto. Ragazzo, noi imuhar viaggiamo con il dromedario perché seguiamo il nostro destino di nomadi. La natura ci insegna tante cose, anche a soffrire. Ma ricordati: questa è la nostra ricchezza. Uno imuhar non conosce la povertà.” Così lo zio Haidara dall’alto del suo dromedario parlava al piccolo Ibrahim Kane Annour, nel suo primo giorno di cammino tra le dune del Sahara. Così si legge tra le pagine de “Il deserto negli occhi”, scritto da un Ibrahim divenuto uomo e Elisa Cozzarini per le edizioni “Nuova dimensione”. E’ una storia vera, raccontata a quattro mani, che verrà svelata per la prima volta venerdì 20 settembre alle 19 al chiostro della biblioteca di Pordenone e in caso di pioggia all’auditorium della Regione. Il lancio del libro avverrà nell’ambito di pordenonelegge.it. Lui,

Ibrahim, è un tuareg nato in Niger: faceva la guida turistica nel deserto del Sahara finché nel 2007 non fu costretto a fuggire e chiedere lo stato di rifugiato politico in Italia. Lei, Elisa, è giornalista pubblicista: scrive di immigrazione ed ambiente ed è pordenonese. Due paesi distanti e molto diversi i loro che a Pordenone si sono incontrati grazie a Mondo Tuareg, l’unica comunità tuareg d’Italia. Elisa, perché un libro su un uomo e il suo deserto? Com’è nato il progetto? Ho conosciuto Ibrahim nel 2007, appena è arrivato in Italia. All'inizio era convinto di poter rientrare nel suo paese e riprendersi la sua vita. Quando ha capito che non sarebbe stato possibile, mi ha chiesto di aiutarlo a raccontare la sua storia in un libro, era un po' continuare il suo lavoro di guida turistica, in cui accompagnava e faceva conoscere la sua terra agli occidentali.

Io ho accettato e abbiamo iniziato a incontrarci nei ritagli di tempo, lui parlava e io scrivevo. Ci puoi anticipare qualcosa su cosa leggeremo in “Il deserto negli occhi”? Il libro è diviso in tre parti: nella prima Ibrahim ricorda la sua infanzia e gioventù in Niger, nella piccola oasi di Azzel, punto di riferimento per le carovane, ad Arlit, con le sue miniere di uranio, e ad Agadez, la città rossa. Conosciamo la sua famiglia, ascoltiamo le storie di nonna Fatimata e facciamo assieme a lui l'esperienza dello spazio infinito, dei riti e feste tradizionali del popolo tuareg. Nella seconda parte Ibrahim trova la sua strada come guida turistica e nella terza racconta i motivi della fuga in Italia, le difficoltà di ricostruirsi una vita. Ibrahim e il deserto. Ibrahim e la città di Pordenone. Cosa si è portato in Italia di

Tu scrivi da anni di immigrazione. Questa esperienza cosa ti ha fatto comprendere di nuovo, che ancora non sapevi e che aiuti il lettore a vedere con occhi consape-

tica e l’ambiente. Già il titolo confrontato con la situazione attuale in cui viviamo mi scaturì d’istinto sentimenti di rabbia e, proprio come suggerisce esso stesso, “indignazione”. Più leggevo e più aumentava la mia contrarietà nello scoprire questo sistema finanziario sul quale poggia la nostra società come mala-

to dalle fondamenta stesse. Un sistema fondato più sul denaro, non tenente conto dei diritti del cittadino ma utile solo a portare benefici ad un esiguo numero di popolazione mondiale a discapito del resto. L’autore propone un cambiamento radicale di rotta, necessario per questo tuttavia diventa il prendere coscienza della reale entità del danno che ci stiamo autoinfliggendo. L’autore definisce alcune soluzioni possibili, ma rileva anche come coloro i quali dovrebbero prenderne atto e avviare possibili movimenti di cambiamento non agiscano. Dalle pagine evinco che se la politica non fa il suo corso spetta ai cittadini la possibili-

FINANZA PER INDIGNATI Un’inchiesta di Andrea Baranes sul nostro sistema finanziario malato e corrotto, dove non mancano proposte per cambiare rotta di O.M. L’autore è Andrea Baranes, presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica, della rete di Banca Etica. Impegnato attivamente nel giornalismo economico e della sostenibilità,

oltre che in varie iniziative promuoventi un’eticità del consumo. I “Finanza per indignati” propone un’inchiesta piuttosto impegnativa che approfondisce i problemi riguardanti l’economia, la poli-

quel mondo e come riesce a mantenerlo vivo nel Nord Est industrializzato? Non è un caso che Ibrahim sia arrivato a Pordenone: qui vive l'unica comunità tuareg d'Italia. Ci sono persone che lui conosce da quando era piccolo, che vengono dal suo stesso villaggio. È solo ritagliandosi degli spazi insieme che gli uomini e le donne del deserto riescono a sopravvivere alla nostalgia della loro terra, dove lo scorrere del tempo si legge sulla sabbia. Ibrahim e tutti i tuareg tengono alla loro cultura e vogliono che i loro figli sappiano da dove sono venuti. Allo stesso tempo, la natura nomade permette di adattarsi al luogo in cui stanno, dialogare e conoscere molti italiani e altri stranieri a Pordenone.


voli l’integrazione tra popoli diversi? Scrivere questo libro è stata una ricerca continua di comprensione reciproca, un dialogo lungo quattro anni. È stata una grande sfida, cercare di comprendere e tradurre la vita di un'altra persona, così diversa. Spero che questo lavoro possa servire a guardare il mondo dell'immigrazione con curiosità, più che con paura, al di là delle ideologie. La comunità tuareg di Pordenone porta con sé tradizioni, usi e costumi di un fascino unico. Il vostro libro è un omaggio anche al Sahara e al suo popolo? Una delle prime cose che mi ha detto Ibrahim è che un tuareg lascia la propria terra solo se è costretto. Questo libro nasce dal suo attaccamento al deserto, racconta un popolo che con fatica resiste, ma rischia di scomparire per le condizioni di vita sempre più difficili, l'instabilità politica della regione per gli interessi legati all'uranio e la minaccia islamista dal vicino Mali. Il libro ha l'ambizione di far conoscere il destino dei tuareg e di lanciare un messaggio più ampio, per la difesa del diritto di ciascun popolo di vivere nella sua terra.

tà di difendere la democrazia, avviando una economia sostenibile, attuando scelte etiche nell’immediato e quotidiano, impegnandosi in prima persona per far si che la finanza non sia uno dei maggiori problemi ma uno strumento per poterli risolvere. Fra tutte le questioni mi ha colpito di più quella dell’ambiente con gli stati emergenti che vendono le quote dell’inquinamento a stati sovrani più industrializzati. Nemmeno l’ambiente pare essere di tutti. Suggerisco la lettura di questo libro a chi ama riflettere sui problemi e le questioni sociali, prendendo atto che è una lettura della realtà fatta dal punto di vista dell’autore.

Scritta in tre mesi, conquista addirittura Einaudi

LA RECENSIONE

Atletico minaccia football club Einaudi 2013

Frizzante, giovane e di belle speranze. E’ l’opera prima di Marco Marsullo di Sara Rocutto “Atletico minaccia Football Club” è una di quelle storie che ti vien da dire: «Allora vale la pena crederci». E’ per questo che, una volta letto, ho mandato all’autore, Marco Marsullo, una manciata di domande per saperne di più. Nonostante la spiaggia e l'imminente Ferragosto ha gentilmente risposto. A settembre sarà tra gli autori di pordenonelegge. Il tuo è un libro da cui traspare la tua grande passione calcistica. A noi puoi dirlo: in campo sei più simile al cannoniere Sogliola, al panchinaro Baffoni Jr o ti ritrovi meglio nei panni dello stratega Cascione? In campo sono Trauma Zarrillo, quei difensori vecchio stampo coi piedi di lamiera. Prima di rompermi il crociato, però. Ovviamente, giocando a calcio. Ora non so quando potrò tornare in campo, stiamo a vedere. Tu scrivi che “La stagione più bella è sempre quella che verrà dopo. Nel calcio c’è spazio per la speranza.” Esiste ancora la speranza o ci crede solo l'allenatore Vanni Cascione? Io ci credo fortemente. Senza il mio modo carico di speranza di vedere il mondo non sarei mai arrivato a pubblicare con Einaudi. La verità, per me, è

che chiunque si costruisce la sua fortuna. Nella tua storia affidi a Chiara (il mio personaggio preferito), la quattordicenne figlia di Cascione e a Nino, coi suoi 17 anni, piccoli compiti, ma fondamentali alle sorti del racconto. E' una coincidenza? Volevo dare a una ragazzina, il personaggio più improbabile parlando di calcio, la chiave di volta per la soluzione del problema. Perché spesso è così: sono le persone da cui ti aspetti meno ad avere il colpo risolutore in canna. Da qualche parte si dice che questo libro l'hai scritto in tre mesi: esiste davvero il raptus creativo? Le storie le trovi o sono loro a cercare te? Questo sì, l'ho scritto in poco più di tre mesi. Di norma sono abbastanza veloce a scrivere, perché il processo più lungo è immaginare la storia, conviverci per un periodo lungo mentre è ancora embrionale. Dopo, quando comincio a scrivere, bene o male è già tutta scritta nella mia testa. Quale suggerimento daresti ai ragazzi che oggi hanno un sogno in testa? Sembra scontato: non arrendersi. È questo quello che fa la differenza alla fine. La testardaggine conta più del talento.

Io di calcio non ne capisco niente. O meglio, ne capisco poco. Ma non occorre saperne un granché per prendere in mano “Atletico Minaccia Football Club” di Marco Marsullo (ed. Einaudi). Perché qui c'è sì di mezzo il calcio, ma anche un sacco di altre cose: la famiglia, la squadra, la strategia e un mix di sfiga, fortuna e fantasia. E tutto è condito in un modo delizioso, allegro quanto basta a far sorridere senza scadere nel banale, leggero come serve a far scivolare via le pagine anche ad agosto, quando fuori battono 40 gradi. C'è Vanni Cascione, l'allenatore, c'è una squadra che arriva in fondo al campionato forse anche grazie alle massime del suo coach. La prima regola del calcio secondo Cascione è: «La squadra gira se gira l’allenatore. I calciatori sono solo pedine di un gioco più grande di loro». Ci sono gli ostacoli di un campionato giocato in Campania, ci sono i tifosi che non mancano di far trovare al mister il caffè pagato al bar. C'è una moglie stanca delle sconfitte e una figlia quattordicenne un po' magica e adorata dal padre. E poi c'è Murinho, la stella polare di Vanni Cascione, il mito, il modello a cui affidarsi nei momenti di difficoltà. Momenti che ci sono eccome quando in squadra occorre gestire un attaccante che ha paura del pallone e il portiere è un meccanico. «Ma il cervello, in certi momenti di calcio, è solo una succursale del cuore», insegna il mister. Una regola che è da tenere a mente anche fuori dal campo.Questo è anche un libro con una bella storia. L'autore, classe 1985, racconta nel suo blog (http://marcomarsullo. com/site/) di averla scritta in tre mesi, di averla spedita a varie case editrici e che poi la sua vita è cambiata con una telefonata di Einaudi Editore.


Ho conosciuto la “Panchina” molti anni fa, ma all’inizio la vivevo in modo molto diverso rispetto ad ora. Avevo altre cose per la testa e voglio essere sincero, le altre cose erano le sostanze e quando si hanno in testa queste tutto il resto diventa relativo. Pensandoci ora però, mi rendo conto di quanto fossero importanti le cose che al tempo ritenevo “relative”. Ad esempio avevo un pessimo rapporto con mia mamma, persona cui voglio un mondo di bene, non avevo casa, vivevo da amici ed ho vissuto anche in strada. Per uno che non aveva più niente in tutti i sensi, la sede diventava un posto dove passare le ore del pomeriggio in maniera diversa. Ho vissuto poi un’altra carcerazione di poco più di un anno, che è stata la molla che mi ha fatto scattare in testa il pensiero di cambiare ciò che fino a quel momento era diventato il mio unico modo di passare la giornata. Decisi cioè di non spacciare più, perché vedevo che finivo in carcere sempre per quello stesso motivo ed ero veramente stufo di sprecare cosi la mia vita. Sono uscito e ho ricominciato a frequentare la sede, ma questa volta con un altro spirito. Dopo l’ultima “scimmia”, ho detto basta anche alle sostanze e, con la voglia di cambiare, ho trovato sia negli operatori e ragazzi che incontravo in sede, sia nella dottoressa che mi seguiva, le persone che mi appoggiavano nella mia scelta. Da lì ho chiuso con eroina e cocaina ed è stata una svolta epocale. In sede mi sentivo appoggiato e supportato nelle mie scelte, questo l’ho notato soprattutto nei rapporti con le persone che diventavano sempre più

LA MIA STORIA CON I RAGAZZI DELLA PANCHINA «All’inizio la sede era un luogo dove ammazzare il tempo. Oggi è per me l’occasione di apprezzare la gente e migliorare me stesso» di M.M. profondi e veri, non mi sentivo più un tossico che andava lì ad ammazzare il tempo. Ho ricominciato ad avere un rapporto con mia mamma, la persona a cui tengo di più: lei con il passare del tempo si è convinta che questa volta poteva essere la volta buona e così ha ricominciato poco a poco a darmi fiducia. Vedeva che non mancavo mai e constatava che mi stavo impegnando. Ora ho di nuovo un buon rapporto con lei, non vorrei mai che cambias-

se e visto che so che dipende da me, non voglio tradire la sua fiducia e ricadere. Le voglio tanto bene e rendendomi conto di quanto mi aiuta ed è importante per me so che non voglio perderla mai più. Anche in sede ho trovato persone che mi hanno dato fiducia e ho fatto il possibile per non deludere nemmeno loro. Mi sono impegnato in attività alle quali prima avevo sempre detto di no e dicendo sì mi sono messo in gioco a 360 gradi: uscite in

montagna, castagnate organizzate per il quartiere, prove settimanali per l’attività di teatro (che mi piace molto) sono state e continuano ad essere occasioni per vivere e condividere esperienze con gli altri. In particolare ho molto a cuore il legame che si è creato con il gruppo di Napoli tramite il teatro. Questo gemellaggio mi ha arricchito di nuove amicizie e storie di vita. Il progetto “Legati ma liberi” mi ha permesso di fare l’esperienza di una scalata indoor e molte altre uscite montanare da ricordare. Attualmente ho una piccola casa, è un piccolo appartamento popolare ma è il mio nido e sono contento di averlo. Mi sento diverso come persona, mi interessa molto di più il mondo che mi sta attorno e uso il tempo per viverlo, cosa che non avevo mai fatto prima. Per sentirmi veramente completo mi manca solo un lavoro, anche part-time, perché tante altre cose le ho trovate e sono belle, anzi bellissime! Lo stare con le persone in maniera diversa, pulita, il fare le cose in gruppo, trovare il bello nelle uscite che facciamo. Ora lo stare in sede non lo vivo più come prima quando forse facevo solo scorrere il tempo. Ora trovo bello confrontarmi con le persone, anche il solo gioco assieme lo vivo in maniera diversa. Insomma la sede per me è diventata un punto d’incontro bello, di crescita e sinceramente l’anno scorso che è stata chiusa mi è mancata molto. Ora è riaperta, cambia solo la via, sono stato contento di ridipingerla quando siamo entrati e mi sento parte di questo posto che per certi versi è insostituibile. Ho ritrovato me stesso. Ragazzi, vi voglio bene.

“DUE FIRMETTE: E’ PER LA PRIVACY” Una legge la sancisce, ma la protezione dei dati personali è di fatto una chimera

Tom Murphy

di Ferdinando Parigi L’articolo 1 della cosiddetta legge sulla privacy recita: “Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano”. Seguono circa trentacinquemila paro-

le, senza contare gli allegati. Il Libro dell’Apocalisse consta di circa 11mila parole in tutto. Ne consegue che la legge sulla privacy è qualcosa di molto più che apocalittico: il

Decreto legislativo 30 giugno 2003 n° 196, in buona sostanza, è un’immensa “sega” legislativa: 35mila parole per sancire un diritto di tutti che, nella realtà quotidiana,

nessuno riesce ad esercitare. Ad esempio, sapevate che “ai sensi dell’art. 7, comma 2, lettera d, noi tutti abbiamo il diritto di ottenere l’indicazione degli estremi identificativi


L'ANGOLO DELLA FRANCA

Crescere in umanità si può e ad ogni età della vita Il racconto di una piccola storia vera in tre tempi di Franca Merlo Vicino a casa mia c’è un prato a cui si accede attraverso un vecchio cancello; quel giorno il cancello era spalancato e un uomo, forse coreano o vietnamita, vestito poveramente, entra nel prato all’inseguimento di un gatto. Si sa che i gatti non hanno la nozione di proprietà privata e vanno dove vogliono, e l’orientale dietro, di corsa! Il proprietario si avvicina e gli chiede che cosa ci faccia lì. «Seguo gatto» risponde quello. «E perché lo insegui?». «Io mangio», dice l’orientale con assoluto candore. Il proprietario lo caccia via borbottando qualcosa che non odo bene. Siccome abbiamo una certa confidenza come vicini di casa, mi avvicino e gli chiedo che cosa volesse quel signore. «Quale signore?- ribatte lui - Io non ho visto signori qui». «Quello che è appena andato via», aggiungo. «Ah – risponde lui – quello secondo lei era un signore?». Non continuo il discorso, vista la piega che ha preso. Ma dopo un po’ è lui stesso a riprendere. «Com’è in Inghilterra?». Lui sa che vivo a Londra da due anni, qui mi vede raramente. «Là non c’è problema, tutti sono signori allo stes-

so modo, inglesi o immigrati, anche extracomunitari – gli faccio così sapere-. Per le strade si vedono persone di tutte le razze agghindate nei modi più impensati, vi sono coppie miste, figli ibridi. Là è normale. Il Regno Unito ha ricevuto molto dall’immigrazione, per loro è stata una risorsa». Rimane pensoso, ci salutiamo e via. Ci rivediamo qualche giorno dopo e mi parla di fiabe che lui inventa per il nipotino. Me ne racconta qualcuna e rimango ammirata dalla costruzione fantastica, dalla trama che si snoda con naturalezza e mi affascina, anche se da un pezzo non ho più l’età delle fiabe. Mi colpisce soprattutto l’attenzione al mondo dei diversi e degli svantaggiati. Abbiano per protagonisti animali o sassolini parlanti, quelle fiabe portano in scena esseri che vivono avventure straordinarie pur essendo fuori dalle righe. Vivono incomprensioni e difficoltà, ma alla fine rivelano delle potenzialità che nessuno prima aveva loro riconosciuto, trovano la loro strada, il loro posto nel mondo. Rifletto sul fatto che quest’uomo ha una figlia down. La segue con grande

del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’art. 5, comma 2”? Ecco, adesso che lo sapete, esercitatelo, questo sacrosanto diritto! Neanche Dio in persona riuscirebbe a capire qualcosa, in tutto ‘sto casino. Credo che non esista un solo cittadino italiano in grado di sapere di che cosa stiamo parlando. E’ una cosa surreale. E’ una presa in giro. Con tutti i problemi di sopravvivenza di cui stiamo soffrendo, il Parlamento della Repubblica Italiana (Camera più Senato: in tutto 945 teste) trova il tempo di partorire una simile idiozia. Vi invito a confrontare tutto ciò con la realtà quotidiana. Mi riferisco in particolare ad internet. Secondo un calco-

lo approssimativo basato su dati Istat, nel 2012 più del 50 per cento delle famiglie italiane possedeva un pc connesso al web: circa 30 milioni di persone hanno accesso a dati della più varia natura, riguardanti milioni di altre persone. Chiunque sappia navigare nel web, con un po’ di intuito riesce ad ottenere indirizzi fisici, numeri di cellulare, reddito, curriculum, data di nascita, luogo di residenza, codice fiscale eccetera, di tantissime altre persone. Tanto per fare un esempio che mi riguarda, incrociando alcune coordinate reperite sul web, sono riuscito a conoscere l’indirizzo dell’abitazione, l’indirizzo email personale e i numeri telefonici della segreteria personale e dell’appar-

attenzione ed affetto, l’ha del tutto accettata nella sua diversità e capisco che vorrebbe trasmettere anche agli altri qualcosa di grande e bello, il succo della sua esperienza e del suo mondo interiore. Allora mi domando: come mai quest’uomo non riesce a fare l’equazione e comprendere che anche gli stranieri qui, i clandestini, i poveracci all’apparenza così poco “signori”, anche loro sono dei diversi che bisogna cercar di capire piuttosto che disprezzare? Poi giorni fa il terzo atto della storia. Attualmente sull’esterno di casa mia lavorano due imprese. Il mio vicino vede scarti di lamiera e polistirolo sparsi nel cortile e dice a mio figlio: «Guarda che devi dire a quei romeni di pulire, mica devi pulire tu!». E mio figlio: «Guarda che è stata l’impresa degli italiani, non l’altra». L’uomo rimane perplesso, come in pausa meditativa, finché se ne esce con una frase che ci

lascia di stucco: «Eh, che cos’è il pregiudizio! Ho sbagliato, ecco, ho proprio sbagliato». Una persona così mi verrebbe da abbracciarla. Fossimo tutti capaci di riconoscere senza scuse i nostri errori, di imparare dalla vita. Un vero signore, bisogna dirlo! E allora penso alle vie misteriose della Provvidenza, che rispettando i nostri tempi e le nostre possibilità di comprendere ci fa attraversare esperienze a volte dolorose, ma ricche di significato e di bellezza, se accogliamo la vita per quello che è, rinunciando agli schemi prestabiliti. Forse quel padre sta cominciando a fare l’equazione. E’ sempre la Vita a condurci passo dopo passo, esperienza dopo esperienza, verso una consapevolezza e un’umanità sempre maggiori. Non c’è nulla di totalmente negativo, anche le esperienze più tremende possono nascondere qualcosa di positivo, a nostro favore.

tamento del Vicario generale di Sua Santità (il vice del vice di Cristo in Terra, in altre parole). Non è una balla, è la pura e semplice verità. L’ho fatto per esercizio, e per rendermi conto che grazie a una banalissima connessione e usando un cellulare potrei svegliare nel cuore della notte l’Eminentissimo e Reverendissimo Cardinal XY, annunciandogli, in veste di comandante della Guardia Svizzera, l’improvvisa morte di Papa Francesco. Ma sarebbe veramente il classico “scherzo da prete”. Evito. Non è tutto: ogni nostro sms, ogni email ed ogni esplorazione del web è soggetta a un filtraggio sistematico da parte dei gestori di telefonia mobile e degli internet pro-

vider, a scopo commerciale, per bene che vada. E non parlo degli arcinoti cookies del web, che sono dichiarati e ammessi. Se in un’e-mail di contenuto ultra-personale spiego ad un amico che il peso eccessivo mi dà dei problemi, pochi minuti dopo, navigando nel web mi ritrovo la pubblicità di diete miracolose, pancia piatta, eccetera. Lo stesso discorso si può applicare a qualsiasi altro argomento. Invito tutti a provare per credere. I social network (Facebook registrava oltre 1 miliardo di utenti al dicembre 2012), ormai sono specializzati nel trafficare coi dati personali altrui. Ma allora, perché tutti insistono con ‘sta storia della privacy? Semplice: perché non esiste!


La mia grande sete d’amore che mai si sazia «Elemosino affetto da quando sono nata, perché mai nessuno mi ha insegnato come si ama» di Tina Vorrei sapere cosa si prova ad essere amati, vorrei riempire quel vuoto immenso che da sempre mi porto dentro, vorrei vivere sicura come gli altri perché a qualcuno importa di me. Io dono sempre tutta me stessa agli altri, ma in cambio ricevo sempre un pugno di mosche. Amavo i miei genitori ma a cinque anni mi hanno abbandonato perché per loro l'eroina era più importante di me e da grande, quando finalmente li ho ritrovati, me l'hanno con-

fermato. Mio padre è morto un mese dopo il nostro incontro, di overdose; mia madre invece mi ha sputato in faccia che, all’epoca, voleva abortire e che ci ha provato prendendosi a pugni la pancia e ingoiando svariati farmaci. I miei genitori adottivi erano convinti che riempirmi di soldi e vestiti costosi fosse il modo per dimostrarmi il loro amore, senza mai però allungarmi un bacio, una carezza. Poi, quando a quindici anni ho avuto un'overdose, loro

EL CANTON DE GUERI

Incontri pericolosi - E l’ora nane, atu ciapà la giornata ogi? - No tant ma un piat de minestra lo go ciapà, ho fat un lavoret pa la Rinela Ciprian e l’ora par ogi son a posto, e ti cosa combinitu?- Mi son sta qua de le ragasse del dispensario. E l’ora prima de andar a casa go dita: peta che vado in osteria a bagnarme el bec, e così son vignuo a farme n’ombra. Ti invece me par che te son qua da un toc drio l’ocio baio che te ga. - E si, ma ades l’è ora che vadi a casa. - Vegno co ti che son de strada, bon giorno a tutti, oste segna. Andemo Nane. Ocio a le machine stemo sul marcia pie, spetemo el verde par attraversar. E l’ora no, ghe disevo a le ragasse del dispensario, che l’è tutta na magnadora tra de lori politici. Welfare i lo ciama, la distribusion dei beni, ma no se sa ben a chi però che i vien distribui. E intanto lori i gira co le auto blu e i se taia anca i cavei gratis, e noi lasemo debito in osteria. Ma l’è poc che te fae finta de capir Nane tanto no ghe crede nissun. Ades ti te capisi sol che el let - No no go capio invece. Prima qua e la, dopo coi va al governo iè come tuti i altri. - Bravo, compagni de merende te digo. Ara che intant che

l’era al governo, el ministro de le finanse Trecimedilavaredo el se ga fato la casa coi nostri schei. - Coi nostri schei?? - - Si caro. - Ma che stamberga se alo fat? - Ti no sta preocuparte che’l sa lu come che se fa, te credi de insegnarghe ti. - Be magari qualcosa su le case. - Cio Nane ara ch’el semaforo più verde de cusì nol diventa, andemo. - Pronti pronti, Gigi vara la sul marciapie, un capel, te servelo? - Cosa nane? Gatu le le travegole? Quel li no l’è un capel, l’è na merda no te vedi? - Ma cosa ditu su? Vara che te sbagli, l’è un capel tipo quei militari. - Nane no sta dir monae, varda ben, come falo a eser un capel? - Eppure son sicuro de quel che digo.- Ben e l’ora satu cosa che faso? Tanto go già capio che finchè che no savemo no andemo via, la assagio così vedemo subito cosa che l’è. - Ma statu schersando?- No no laseme far..“-slurp slurp-“ E no Nane, no l’è un capel, ho rason mi. - Ma no ghe credo no pol esser. - Alora assagela anca ti mo

diedero la colpa al mio Dna bastardo e mi dissero che per loro ero morta. Ho passato la vita a donare amore a chiunque mi facesse sentire un po' importante, elemosinavo così un po' di affetto. Ma quelle che ricevevo in cambio erano tutte prese in giro, perché poi mi hanno sempre abbandonata tutti. Persino mia figlia preferisce i "nonni" a me e mio marito la sua moto, i suoi fottuti amici. Guardo le coppie che si amano, che assieme ridono o si confortano, anche se litigano non superano mai il limite di umiliare l' altro, e le

famiglie dei miei amici dove ci si può confidare e aiutare a vicenda. Li guado e mi sento sempre più sola, sola e vuota come una ruota bucata, abbandonata tra quei rifiuti che nessun vuole più.

che te vedi. - No me pare na roba tanto ben fata, ma se l’è per saver, per la siensa.. “-slurp slurp-“ E si cio, no l’è dubi, l’è proprio merda. - Te avevo dita. E pensa Nane, pensa che se stava per pestarla. - Ocio ocio che ghe giremo intorno… oh mi scusi signora se ghe sono venuto adoso, ho fato per scansare la m.. - Ma insomma ma stia attento no!? Mi ha pestato anche un piede!. - Mi dispiace tanto mi perdoni signora non l’ho fato aposta. - Signorina prego, professoressa Boncompagni. - Alora permetta che mi presenti anch’io vero: Celemprin Giovanni, Nane per gli amici, ripetente cronico. Piacere di conoscerla. - Non posso dire altrettanto. - Sapesse quanto mi dispiace, aspetti che l’aiuto a sistemarsi.. - Ma cosa fa metta giù le mani ma come si permette ma è impazzito??!! - Sono mortificato non so come sia potuto sucedere, non l’ho proprio vista, stavo scansando la m.. - Sii non l’ho vista non l’ho vista.. ma non mi faccia parlare va! Mi pare che lei in questo momento vede poche cose! - Poche ma doppie vero. - Ecco appunto, e allora vada a casa con buona pace di tutti e si faccia un caffè come si deve, così avremo il piace-

re di riaverla tra noi in condizioni più presentabili. - Ero dei granatieri signorina, terzo reggimento quinto battaglione matricola 12 65 1 sempre ai suoi ordini. Anche se a vedermi adesso così un po’ ben messo non si direbbe, ai miei tempi avevo una certa portansa vero. Ma so ancora come ci si comporta con le donne. -“Come ci si comporta con le donne”, ma la smetta, lei non sa neanche di cosa sta parlando. E non mi penda così vicino che ha un alito terribile! - Mi scusi tanto devo aver mangiato qualcosa che non andava. - Vada a casa invece di ciondolarsi per le strade e si sistemi un po’. E la prossima volta cerchi di stare più attento. - Perché porco mondo, ha intenzione di ripassare? - Stia tranquillo che se la vedo cambio strada. - Ma prego allora che le faccio strada io, si accomodi pure, passi in sicuressa. Gigi spostete fa pasar la signora. Attenta alla merda vero, che poi magari se non la avviso pensa pure male di me. - Per questo è troppo tardi. - Ecco fatto signorina adesso non c’è più pericolo, prego vada pure, è stato un piacere conoscerla vero, e mi scusi tanto ancora signorina Bonamici. - Boncompagni prego. - Eee.. boncompagni-bonamici, ma che pignola che è!


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di Cristiana Ferri e Valeria Gennuso. Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA)

Lo scorso 7 giugno, a Pordenone, si è tenuto il convegno “Come costruire Altre Strade: la rete dei servizi informali”, primo Forum internazionale sul contrasto del consumo di sostanze psicoattive. Il progetto, unico nel suo genere, è stato promosso grazie alla collaborazione tra l’associazione “I Ragazzi della Panchina”. il Dipartimento FISPPA dell’Università degli Studi di Padova e il Dipartimento delle Dipendenze dell’Azienda Sanitaria Ass6, Friuli Venezia Giulia Occidentale. I lavori si sono svolti all’ex convento San Francesco di Pordenone. L’obiettivo del convegno è stato quello di accreditare i servizi per il contrasto al consumo sia in termini di efficacia che in termini di interazione fra gli stessi, il territorio e i servizi formali/istituzionali, arrivando alla condivisione di alcune linee guida per il contrasto al consumo. L’evento ha visto la partecipazione di associazioni e Ong sia nazionali che internazionali che nelle loro attività collaborano con enti pubblici e privati: il Ser.t di Casavatore (Napoli Nord); la Cooperativa Parsec (Roma); il Proyecto Vida y Esperanza (Bolivia) e l’associazione Alborada (Spagna). Il Convegno è iniziato con i saluti da parte delle autorità: il presidente della Provincia di Pordenone, Alessandro Ciriani; il direttore generale Ass6, Giuseppe Tonutti; la direttrice del Dipartimento Dipendenze, Roberta Sabbion; il sindaco di Pordenone, Claudio Pedrotti. A seguire i saluti e il benvenuto da parte del presidente dell’associazione “I Ragazzi della Panchina”, Ada Moznich. I lavori sono proseguiti con l’intervento del professore Gian Piero Turchi dell’Università degli Studi di Padova, il quale ha sottolineato l’esigenza di modificare l’assetto dell’architettura dei servizi per rispondere alle richieste del territorio, in cui quest’ultima si inserisce. A seguire l’intervento dell’operatore Stefano Venuto in merito ai 18 anni di lavoro svolto dall’associazione “I Ragazzi della Panchina”. Il dott.

Vincenzo D’Auria e il dott. Pietro Scurti hanno presentato l’esperienza di lavoro del Ser.t di Casavatore (Napoli Nord): al loro intervento è seguita la presentazione della Cooperativa Parsec, per la quale, tuttavia, non è stata possibile la presenza di un rappresentante della stessa nella giornata del convegno. Successivamente al pranzo si è assistito allo spettacolo teatrale organizzato dal laboratorio teatrale de “I Ragazzi della Panchina” dal titolo “La legge è uguale per tutti?”. Lo spettacolo presentava in forma allegorica le incongruenze tra le esperienze vissute dai protagonisti e ciò che viene poi discusso in tribunale e come ciò incida sia sui “giudicati” che sui “giudicanti”. Infine si è ascoltata la presentazione del lavoro svolto in Bolivia dall’associazione Vida y Esperanza e quello in Spagna dall’associazione cittadina di lotta alla droga, programma Alborada. La prima a stretto contatto con la “strada” lavora giorno per giorno per il recupero dei giovani dalle strade di Cochabamba; la seconda articolata in una serie di servizi e strutture terapeutiche, opera a contatto sia con le istituzioni del territorio che con i cittadini stessi. I lavori del Convegno si sono chiusi con una tavola rotonda aperta a tutti i partecipanti, attraverso cui ci si è potuti confrontare sui temi toccati nei singoli interventi ed in particolare sulla costituzione di una rete tra servizi nazionali e internazionali, che operano nell’ambito del contrasto al consumo di sostanze psicoattive illegali. Rete che diventa quanto mai necessaria per arrivare ad operare in modo concertato laddove le singole realtà non potrebbero inserirsi. Il convegno si è posto, dunque, come un’occasione di condivisione di prassi già messe in campo e di “altre” proposte, in un ottica di promozione della salute e si riproporrà con scadenza biennale con l’obiettivo di porre delle linee guida per il contrasto al consumo delle sostanze psicoattive illegali.


RE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRAD RADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTR STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE ST RADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTR STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE ST RADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTR STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE RADE ALTRE STRADE STRADE ALTRE STRADE STRADE ALT . Cure e prevenzione RADESPAGNA ALTRE STRADE STRADE ALTRE STRADE STRADE wA partono dal territorio STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE wALTRE STRADE In 30 anni Alborada è passata ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE ST da comunità terapeutica a rete centri multidisciplinari RADEdiALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTR STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE ST RADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTR BOLIVIA. ALTRE Alternative alla ALTRE STRADE ALTRE STRADE STRADE STRADE strada per i giovani ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE ST Lavoro, sport, pet therapy e RADEservizio ALTREmilitare STRADE tra gli ALTRE strumen- STRADE STRADE ALTRE STRA usati da Vida y Esperanza RADEti RE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE S RADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTR STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE ST RADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTR STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE di Jesús Cancelo Martínez, Psicologo Clinico Responsabile Aclad Alborada L’Associazione Cittadina di lotta contro la droga Alborada è un’organizzazione non governativa che da anni lavora per il governo della Spagna e della Galizia, realizzando

un lavoro di prevenzione, assistenza e integrazione sociale della tossicodipendenza. Nel 1980, a causa di una serie di cambiamenti sociali e politici, la droga, principalmente

l’eroina, si diffuse in Spagna, provocando una serie di gravi problemi di salute (decessi per overdose, malattie infettive, ecc.), sociali (disgregazione della famiglia, dropout, disoccupazione, ecc.) e penali (insicurezza, furti, ecc.). Questo fenomeno colse di sorpresa le istituzioni pubbliche, e furono la società civile e un gruppo di cittadini, che si organizzarono in modo altruistico, ad affrontare il problema per primi. Visto il successo di questa iniziativa, lo Stato decise di lasciare alle organizzazioni, come Alborada, il compito di affrontare la tossicodipendenza, sovvenzionando tutti i progetti, in modo che l'attenzione potesse essere universale, libera e di qualità. La scommessa di Alborada è offrire questo tipo di assistenza a gruppi di persone spesso caratterizzati da bassi livelli di reddito, disoccupazione, doppia diagnosi, Aids, disabilità e situazioni sociali gravi. Dal 1982 Alborada è cresciuta, passando dall’essere una piccola comunità terapeutica ad una rete di centri (Unità di assistenza, Centro Diurno, programma di prevenzione e il Centro Giovanile, con quasi 60 professionisti), formando così una squadra multidisciplinare. Nel corso di questi 30 anni abbiamo visto la creazione di piani nazionali e regionali per la pianificazione e il coordinamento delle risorse, la nascita e la successiva

epidemia dell’Aids, il cambiamento delle modalità di somministrazione dei farmaci, il trattamento con sostanze da sostituzione come il metadone e lo sviluppo di programmi di riduzione del danno, il calo del consumo di eroina e l'infezione da Hiv, l'aumento dei casi di doppia patologia e di emergenza sociale, l'aumento del consumo di altre sostanze come cocaina, droghe sintetiche e alcol negli spazi urbani, e una crisi economica che ha peggiorato ancora di più la grave disoccupazione tra i nostri utenti. Ma il fenomeno che deve essere sottolineato è soprattutto il cambiamento nel modo di intendere e di lavorare nella tossicodipendenza, che ci ha permesso di avvicinare gli utenti al centro, la standardizzazione delle cure da parte della società, la sensibilizzazione e l'adesione al trattamento di un numero maggiore di pazienti. Gli obiettivi sono stati classificati e diversificati, in modo che tutti i casi abbiano un posto e tutti possano migliorare attraverso questo nuovo modo di intendere l'intervento. I motivi principali per cui le organizzazioni come Alborada sono sopravvissute, hanno a che fare con i seguenti principi: facile accessibilità per i pazienti, efficacia nella risoluzione dei problemi, l'efficienza nella gestione delle risorse, il coordinamento con le altre entità, continuità nel tratta-

ducazione sanitaria e della sociologia. La metodologia utilizzata dall'organizzazione può essere inquadrata in un approccio multidisciplinare che si può raggruppare in aree di azione: Psicologia; Formazione Educativa; Giuridico Legale; Etico-morale. L’organizzazione lavora con

fasce di popolazioni diverse: da un lato con 45 bambini e adolescenti (studenti) che variano tra i 6-16 anni, che frequentano l'Unità Educativa. Si lavora nell’ambito della prevenzione in materia di consumo di droga, essendo una fascia di popolazione vulnerabile, sia nei rapporti

di Valeria Gennuso e Magali Torres Reyes, Psicologa Asociación Vida y Esperanza

L’organizzazione Vida y Esperanza è un centro civile senza scopo di lucro, in cui lavorano e partecipano persone e professionisti che hanno un fine comune, migliorare la qualità della vita dei cittadini di Cochabamba (Bolivia). La missione dell’organizzazione è di sviluppare

azioni di prevenzione sanitaria integrata, formando un team multidisciplinare che lavora con le fasce di popolazione più vulnerabili. L’obiettivo primario è quello di fornire assistenza completa attraverso la prevenzione, la diagnosi e l’attuazione di interventi nel campo dell'e-


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economici che sociali, provenendo per lo più da famiglie con basso reddito. Inoltre si lavora con 40 ragazzi di età compresa tra 8-18 anni, ex inalanti oppure in fase di riabilitazione. Il team di lavoro è multidisciplinare composto da professionisti, psicologi, giuristi ed educatori, che permettono di tenere conto dei tre livelli di prevenzione. L'organizzazione sostiene il lavoro svolto dai ragazzi in strada, dando loro gli strumenti di lavoro, come ad esempio i ragazzi che puliscono le automobili in strada. Infine con gli adolescenti che si trovano in fase di riabilitazione, si utilizza la terapia occupazionale, in particolare si lavora con gli animali; si utilizzano ad esempio i cavalli come risorsa, ciò permette di avvicinarli al mondo dello sport; risulta utile anche il servizio militare che permette agli adolescenti di acquisire il senso del rispetto e della norma.

di Luca Scopetti, Assistente Sociale Cooperativa Parsec La Cooperativa Parsec, fin dalla sua costituzione (1996), ha sviluppato un ventaglio di servizi e progetti rivolti a persone con problemi di dipendenze patologiche e ai loro familiari. Tra i principali c’è il C.D. Scalo San Lorenzo, servizio di accoglienza diurno a bassa soglia (dal 2000), finanziato dall’Agenzia Capitolina sulle Tossicodipendenze, e il C.A.D. Scarpanto, servizio di accoglienza diurno a bassa soglia (dal 1994), finanziato dalla Regione Lazio attraverso il F.N.L.D. Dall’esperienza avuta si è delineato un modello di intervento basato su tre punti-obiettivi: la cura della persona, del territorio e l’integrazione sociale del consumatore. La cura del-

la persona è raggiungibile attraverso, pensieri, azioni e buone prassi, considerando la persona e la dipendenza un microcosmo parte di un macrocosmo, superando logiche e processi assistenziali, offrendo un ventaglio di servizi che non si limiti all’accoglienza, all’ascolto e al sostegno ma che possano stimolare all’emancipazione o ad un uso consapevole delle sostanze. Si è adottato come strategia di intervento la riduzione del danno, un approccio né etichettante né discriminante e libero da ogni forma di pre-giudizio. Un sistema volto a migliorare la qualità di vita dell’utente, realizzabile soprattutto grazie al coinvolgimento coopera-

tivo di servizi socio-sanitari. Promuovere maggiori conoscenze e competenze al gruppo di utenti, facilitando lo scambio di informazioni tra essi. Identificare e formare un peer (educatore alla pari), per un maggior scambio di informazioni che spesso si tramutano in competenze e poi in buone prassi. Integrare la RDD con la prevenzione, facilitare l’empowerment personale scovando e sviluppando il potenziale e le risorse di ognuno. Per quanto concerne la cura del territorio e di conseguenza la relazione tra quartiere, tossicodipendente e cittadinanza è bene inizialmente identificare una piccola porzione di territorio ed iniziare a comprenderne risorse e criticità. Una delle principali criticità, riscontrate nei “nostri” territori (Roma centro/ nord), è sull’uso di sostanze nei cortili e la presenza di un gruppo di consumatori nelle aree adiacenti alle scuole. Si è ritenuto opportuno fin da subito coinvolgere in una tavola rotonda le associazioni di quartiere e le istituzioni scolastiche nel tentativo di circostanziare il fenomeno e analizzarlo; ne è nato un intervento di prevenzione rivolto agli studenti e alla creazione di figure peer nel gruppo di consumatori. Inoltre si è identificata insieme, una nuova area dove poter trovare la giusta privacy nell’atto del consumo, un ambiente pulito perché “gestito” dagli stessi utenti coadiuvati dagli operatori, un area non isolata e adiacente al centro cosi da favorire lo scambio di materiale sanitario sterile ed i riporti dell’usato. Il terzo obiettivo è l’integrazione sociale del consumatore nel territorio. Nonostante tagli e riduzioni, l’integrazione sociolavorativa rimane ancora l’obiettivo ultimo di un progetto teso all’emancipazione dalle sostanze. Progetti raggiungibili solo attraverso investimenti mirati e specifici ed in grado, nel medio tempo, di portare ad un risparmio collettivo in termini economici e di costi sociali. Non solo sussidi sociali o social card ma anche progetti di inserimento lavorativi; un tirocinio o una borsa lavoro, ben pensata e strutturata secondo le esigenze dell’utente, avviata in sinergia tra Municipio, Sert ed il Centro diurno può essere la risposta più efficace al bisogno economico e di integrazione del consumatore.


ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRA DE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE S Il ruolo della comunità nel STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALT contrasto al consumo TRE Proposta STRADEoperativa ALTREperSTRADE i servizi ALTRE STRADE ALTRE STRAD che STRADE si occupano del contrasto ALTRE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRA al consumo di sostanze psicoattive illegali. ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE S DE ALTRE STRADE Un'alternativa a quella vigente STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALT TRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRAD ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRA DE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE S STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALT TRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRAD ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRA DE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE S STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE STRADE ALTRE ST TRE STRADE STRADE ALTRE STRADE STRADE ALTRE STRA TRE STRADE STRADE ALTRE STRADE STRADE ALTRE STRA STRADE STRADE ALTRE STRADE STRADE ALTRE STRADE R STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALT TRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRAD ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRA DE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE S STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALT TRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRAD ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRA DE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE STRADE ALTRE S di Gian Piero Turchi, Università degli Studi di Padova,Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA) L’attuale rete dei servizi per il contrasto al consumo di sostanze psicoattive illegali si basa sul costrutto di “tossicodipendenza” che viene considerato alla stregua di una patologia organica: si cerca di individuare le cause organiche e sociali della sua insorgenza. Il termine “tossicodipendenza” è costituito da due parti, “tossico” e “dipendenza” che appartengono a due piani conoscitivi diversi. Il primo deriva dal latino e indica il “veleno”, ovvero una sostanza che produce degli effetti sull’organismo. Tale termine ha fondamento scientifico in quanto ha il suo riferimento su basi organiche, trattando del “corpo che viene avvelenato”. Il secondo termine, “dipendenza”, assume, invece, il senso del: “ trarre origine, essere causato”, “essere sottoposto all’autorità, al potere altrui”. Trattare la “dipendenza” alla stregua di un fatto “organico” non ha fondamento scientifico, in quanto non vi è l'attestazione di un legame di causa-effetto “empirico” tra l'assunzione della sostanza illegale e la “conseguente dipendenza da essa”. Il lavoro sulla “dipendenza” ha comportato la sostituzione della sostanza illegale con farmaci antagonisti, in virtù della focalizzazione sul “veleno” e sulla situazione di “potere” della sostanza sulla persona: dunque se si è “soggetti” alla sostanza serve sostituirla. Ciò in termini operativi non cambia la realtà del “consumo” in quanto non cambia la posizione del consumatore rispetto alla sostanza. Proprio in virtù di questa ambivalenza, tale termine ha assunto nel corso del tempo definizioni diverse passando da “uno stato di intossicazione” a “uno stato di dipendenza fisica e psichica”, mettendo l’accento talvolta sull’“intossicazione”

e dunque sulla “sostanza”, e talvolta sulla “dipendenza” e dunque sul soggetto che assume la sostanza illegale. In particolare la “dipendenza” viene ad essere configurata come una caratteristica intrinseca del “soggetto/consumatore”. Il manuale “DSMIV” la definisce, infatti, come un “pattern maladattattivo di uso di sostanze che porta ad un deterioramento clinicamente significativo o angoscia”. In questa definizione ci si concentra sui concetti di “tolleranza” e di “astinenza”; il primo legato all’adattabilità dell’organismo alla sostanza psicoattiva illegale; il secondo invece agli effetti “fisici” ma anche “psichici” della non assunzione della sostanza psicoattiva illegale. Sulla “crisi di astinenza” si sono costruiti interventi finalizzati alla riduzione della stessa, attraverso l’assunzione di farmaci “atti a compensare la mancanza della sostanza nell’organismo”. Il termine “dipendenza” viene dunque usato in modo scientificamente inappropriato per “spiegare la sindrome di astinenza”, anch'essa una dicitura che non trova fondamento scientifico, in quanto non sussiste un collegamento diretto tra la “sindrome di astinenza” (chiamata “sindrome” proprio a fronte del fatto che non se ne conoscono le “cause”, come nel caso della sindrome neoplasica), e il corpo che ne sarebbe “soggetto”. La definizione scientifica del suddetto processo risulta essere “il normale smaltimento metabolico del livello di tossicità della sostanza”. Il concentrarsi sulla “sostanza”, sulla sua assunzione o meno e sui suoi effetti, nonché il sostituire con un farmaco l’assunzione della sostanza illegale, ha contribuito a mantenere uguale a se stessa la configurazione del “consumatore di sostan-

ze”, siano esse legali o illegali, ovvero non si è riusciti a produrre uno scarto rispetto all’ “essere” , all’identificarsi come un consumatore etichettabile come “tossico” o “ex-tossico” (di per sé la particella “ex” nulla toglie alla forza dell’etichetta stessa). Questo passaggio ha fornito al consumatore la possibilità di continuare a consumare (“Sono un tossico, sono dipendente, soffro della sindrome di astinenza e quindi mi serve la sostanza”). Tale commistione ha portato la ricerca scientifica a focalizzarsi sulle sostanze sostitutive della sostanza illegale, piuttosto che a lavorare rispetto a come aiutare l'organismo a smaltire la sostanza. Porre l'attenzione della comunità scientifica rispetto alle modalità di smaltimento della sostanza renderebbe il consumatore non più “vittima” della “dipendenza”, bensì parte attiva della comunità, persona responsabile delle proprie scelte e non “in balia” di un processo che non può controllare. Tutto ciò si è generato all’interno di una concezione nomotetica della salute, dove la salute (intesa come benessere globale della persona) viene inglobata dalla sanità (intesa come benessere meramente fisico), e ci si concentra sugli aspetti della “tolleranza” e dell’” astinenza” legati alle reazioni del corpo. Sorge l’esigenza di passare ad una concezione dialogica della salute, dove è la sanità ad essere sussunta dalla salute. A tale fine la proposta è quella di passare dall’assunzione di cornici conoscitive per cui ci si riferisce ad un ente e a legami causa-effetto ai processi dialogici e dunque alle produzioni discorsive della comunità. Ciò permette il passaggio da una Architettura dei Servizi Nomotetica (AdSN) ad una Architettura dei Servizi Generativa (AdSG); nella prima l’utente viene preso in carico in quanto “malato” o “disturbato” e viene riconosciuto attraverso un’etichetta; l'obiettivo è la prevenzione ovvero il controllo delle variabili per evitare l’eventomalattia (es. si forniscono farmaci in sostituzione della

sostanza illegale); l’intervento è subordinato alla volontarietà dell’utente, infatti è quest’ultimo che si dirige verso il servizio; l’esperto stabilisce la normalità e la patologia; si individuano delle procedure. Al contrario in una AdSG il focus dell’intervento è la comunità-paese, ovvero tutte le voci dei cittadini che concorrono a mantenere inalterato il riferimento all’etichetta “tossico”; in virtù di quanto detto precedentemente si propone l’abbandono del termine “tossicodipendente” in favore di “consumatore di sostanze”; ci si concentra sulla promozione della salute, dunque la sanità diventa una delle possibilità della salute e ciò implica che, laddove non vi è “sanità” vi può essere salute e la si può promuovere. E’ il servizio che va all’utente e si condividono prassi comuni, si mira al lavoro di rete nella comunità come strategia per raggiungere l’obiettivo del cambiamento della biografia della persona. L’adozione di una AdSG permette l’incremento dell’efficacia degli interventi, il focus non è sull’estinzione di uno stato patologico che solo l’esperto può attuare, bensì sul cambiamento biografico, ovvero il cambiamento delle produzioni discorsive che concorrono a generare la realtà “tossico”. E’ l’utente stesso il primo esperto di questo cambiamento, e ciò implica un incremento dell’efficienza nella gestione, trattandosi di una gestione condivisa dei processi in atto; è il servizio ad andare dall’utente e non il contrario. Non si parla più di “presa in carico”, ovvero l’utente non deve essere portato altrove e “curato”, al contrario si punta al mantenimento e al lavoro di rete sul e nel territorio stesso che porta dunque all’abbattimento dei costi dei servizi e all’incremento dei benefici per l’utente e per il territorio. A fronte di quanto argomentato diventa utile, all'interno della cornice di un'Architettura dei Servizi Generativa, la costituzione di agenzie e di realtà informali, come l'associazione I Ragazzi della Panchina: operando direttamente nel e sul territorio, il loro intervento ha rilevanza scientifica e assurge ad uno status che fino ad oggi non è stato erroneamente riconosciuto. Ecco che assumono importanza iniziative come quella del Convegno Altre Strade che, favorendo la promozione della rete informale, risulta utile per i consumatori di sostanze psicoattive e assume rilevanza scientifica dando un apporto innovativo alla comunità stessa.


ADE ALTRE STRASTRADE ALTRE TRE STRADE ALDE ALTRE STRADE ADE ALTRE STRASTRADE ALTRE TRE STRADE ALDE ALTRE STRADE LA MIA TESI DI LAUREA ADE ALTRE STRARAGAZZI DELLA PANKA STRADE ALTRE SUI Parte da una raccolta di TRE STRADE AL-interviste il lavoro di un educatore sul rapporto tra associazioDE ALTRE STRADEne e città. Tra i protagonisti istiADE ALTRE STRA-tuzioni, servizi e cittadini STRADE ALTRE TRADE STRADE ALADE STRADE ALADE STRADE ALTRE RE STRADE ALTRE TRE STRADE ALDE ALTRE STRADE ADE ALTRE STRASTRADE ALTRE TRE STRADE ALDE ALTRE STRADE ADE ALTRE STRASTRADE ALTRE PANKA NEWS

Penso non si arrivi mai a caso alla “Panchina”. Chi per necessità, chi per conoscere altre persone, chi per ricercare se stesso: decine e decine di “chi” tutti con motivazioni diverse convergono in questo posto e lo riempiono di colori e sfumature. Dietro ogni persona c’è un perché, che la muove e la porta a mescolarsi con il via vai di vite e di esperienze che ogni giorno varcano la soglia della sede dell’associazione “I Ragazzi della Panchina” e costituiscono la vera essenza del gruppo. Il personale mio “perché” sono stati la formazione e lo studio. Sono uno studente al terzo anno di Educazione Professionale e ho scelto di svolgere il mio tirocinio finale qui, all'associazione “I Ragazzi della Panchina”. Sono stato mosso dal voler capire come funziona questa realtà che si classifica come anomala nelle modalità di contrasto al consumo di sostanze, ma soprattutto volevo cogliere quale valore ha per il territorio di Pordenone la presenza dei Rdp. Questo stesso interrogativo mi ha spinto anche nel percorso di tesi e ho cercato la risposta sul territorio stesso: spesso gli sguardi dall’esterno sono i più ricchi di spunti e riflessioni utili per mettere in gioco noi stessi e migliorarci. Partendo da questo assunto, ho tentato di “dare voce” a Pordenone, intervistando delle figure chiave in termini di responsabilità decisionale come il sindaco Claudio Pedrotti, il vice presidente della Regione Sergio Bolzonello, ex sindaco della città, il presidente del Tribunale Francesco Pedoja e il primario del Dipartimento per le Dipendenze di Pordenone Roberta Sabbion. Il dialogo dei RDP con questi enti e servizi è fondamentale per condividere un fine e allacciare due mondi talvolta distanti come

di Andrea Lenardon

istituzioni e strada, pubblico e privato. Per valorizzare la storia del gruppo ho intervistato persone presenti fin dal 2001 e testimoni dell’evoluzione dell’associazione dall’esterno come Graziella Zambon, vicina dell’ex sede di viale Grigoletti, ed Enza Santo, coordinatrice degli infermieri dell’ambulatorio del Ser.T. Inoltre mi sono rivolto a chi opera quotidianamente in città, come la Cooperativa Sociale Itaca nella persona di Samantha Marcon (responsabile di ambito minori), l’educatrice Elisa Cozzarini per la Cooperativa “Nuove Tecniche”, Michele Tonus vice presidente dell’associazione “La

Festa in Piassa”, Matteo Bozzer presidente associazione San Vincenzo De Paoli, Don Luca Bernardello responsabile dell’oratorio Don Bosco e Vittorio Cereser e Claudio Lazzarini, poliziotti di quartiere nell’area dei Rdp. Il risultato di tutto questo lavoro è uno sguardo comprensivo di molti punti di vista che arricchiscono la “valutazione” su “I Ragazzi della Panchina” e sul loro operato. Dalle interviste si evince in primo luogo una grossa modifica strutturale interna dell’associazione avvenuta durante i suoi 18 anni di vita. Per dirla con le parole di Enza Santo: «Il maggiore cambiamento è stato il partire da un gruppo di ragazzi consumatori di sostanze per diventare associazione strutturata». Si è delineata così, secondo il sindaco Pedrotti, «una struttura capace di adeguarsi in itinere in base ai tempi, con l’attenzione ai modi di porsi e ai nuovi mezzi di comunicazione con i quali si può raggiungere il territorio anche non fisicamente». Per Michele Tonus infine «le iniziative che questo gruppo ha realizzato in questi anni sono il miglior monitor per dare testimonianza di come l’associazione sta vivendo, sta crescendo e si sta ampliando». Oltre ad indaga-

re la percezione della crescita interna dei Rdp, ho posto diversi quesiti riguardanti il rapporto tra l’associazione ed il territorio e i fattori che l'hanno influenzato positivamente e negativamente. Una riflessione importante riguarda il fattore negativo del pregiudizio, della paura dell’ignoto, del diverso. Questo elemento è stato evidenziato da ogni soggetto intervistato e si pone come dimensione di grande importanza sulla quale agire e sulla quale i Rdp si stanno già adoperando da diverso tempo. Di questo ne danno testimonianza le parole di Roberta Sabbion: «Ciò che sta ostacolando di più è il pregiudizio, su questo Ser.T e Rdp insieme. Stiamo lavorando in maniera capillare. E’ infatti nell’esperienza diretta con piccoli gruppi che il pregiudizio si supera». Ancor di più è significativa l’esperienza della pordenonese Graziella Zambon, inizialmente ferma oppositrice all’insediamento dell’associazione sul territorio. Attraverso la conoscenza diretta della “Panka” ha mutato totalmente opinione, fino a definire idilliaco il rapporto costruito con loro e identificando l’ignoranza come il peggior ostacolo all’integrazione. Tra i fattori che hanno

favorito la relazione Rdp-Pordenone sono emerse l’aperta mentalità pordenonese verso l’associazionismo, la capacità dell’associazione di porsi come interlocutore che lavora in sinergia con gli altri e il mettere in atto attività e proposte condivisibili dal punto di vista culturale come il giornale, le varie rappresentazioni teatrali, i convegni e i momenti pubblici. Quanto alle prospettive future del sodalizio è stata sottolineata la necessità di investire sempre maggiori risorse ed energie per incontrare le esigenze dei nostri giovani. Concludo ringraziando chi si è prestato per questo lavoro e riporto una frase secondo me significativa della mentalità dei RDP: «Incontrare le persone è ancora la droga più potente».


INVIATI NEL MONDO

COSÌ INCONTRAI IL MAROCCO Tre settimane zaino in spalle e una tappa speciale nella quotidianità di una famiglia di Casablanca di Cristina Colautti Viaggiare, scoprire, perdermi in luoghi a me sconosciuti, mi ha sempre regalato emozioni uniche, mi ha sempre fatto sentire viva e libera. Per questo, ogni volta che mi è possibile, prendo e parto, le quattro cose indispensabili con me, minima organizzazione e tanta voglia di divertirmi, sperimentarmi ed incon-

biamo attraversato la frontiera di quello Stato, al limitare tra Africa ed Europa, che ci avrebbe ospitati per tre settimane. Nulla di pianificato in anticipo, sia chiaro, l’avventura è il nostro pane quotidiano e l’equilibrio nel gruppo il difficile e talvolta mancante companatico. Abbiamo attraversato questa terra da nord

trare nuove realtà. Nell’estate 2007, la mia destinazione fu il Marocco. Sei amici, zaino in spalla e tanto entusiasmo: furono gli ingredienti di questo viaggio che porto ancora dentro di me come se fosse ieri. Siamo partiti da Bergamo, prima tappa Siviglia, e da lì abbiamo proseguito fino alla costa per imbarcarci nel traghetto che ci ha condotti in Marocco. Quindi a Ceuta, documenti alla mano, ab-

a sud, passando per l’azzurra Chefchaouen, visitando le città imperiali di Fes e Meknes, e poi giù fino a Marrakech. Deviazione condivisa nel gruppo: un piccolo tour tra le dune del Erg Chebbi, la lingua di deserto, che fa da confine tra Marocco ed Algeria. Indimenticabile l’escursione a dorso di cammello, che ci ha condotti in un accampamento berbero dove, dopo aver riposato sotto un tappeto di stelle, abbiamo atteso il sorgere del sole tra le dune. Il nostro itinerario ci ha quindi portati a Marrakech, una città a mio avviso magica; un brulicare di persone, suoni e colori, che si confondono e ti confondono. Il labirinto della Medina, dove contrattare il prezzo di qualunque oggetto è obbligo e divertimento, le luci ed gli odori che invadono piazza Jemaa el fna al calar del sole, quando questa si riempie di tavoli e bancarelle assiepati di turisti e locali che si apprestano ad assaporare i piatti più tipici, questi tra gli spaccati

più incantevoli al mio sguardo. Lì a Marrakech, a farci da guida, Omar, un amico e compaesano, che ogni estate ritorna nella sua terra per trascorrere un po’ di tempo con la sua famiglia, un ragazzo che ha scelto, per studiare e lavorare, la vita dell’immigrato e tutte le difficoltà che questa comporta. Insieme a lui, abbiamo così proseguito una piccola parte del nostro viaggio in Marocco, per poi dividerci e rincontrarci in seguito: lui ha raggiunto la famiglia a Casablanca, noi abbiamo trascorso alcuni giorni tra Essaouira ed El Jadida. In queste località, lambite dall’oceano, ci siamo beatamente rilassati in spiaggia e la sottoscritta, incurante del sole tropicale, si è anche procurata una bella scottatura. Ultima tappa del viaggio: Casablanca, dove Omar e la sua famiglia ci hanno ospitati nella loro casa. Siamo stati trattati davvero in modo splendido. La madre del nostro amico ci ha, infatti, accolto offrendoci il thè alla menta, accompagnato da diversi dolci tipici, per poi rimpinzarci a cena con vassoi colmi di cous cous e carne ed infine metterci a disposizione la sua casa per poter comodamente riposare la notte precedente alla nostra partenza. L’occasione di poter entrare nella casa di questa famiglia e poter condividere, anche se per poco, i suoi spazi e tempi è stato, per me, uno dei momenti più significativi di questo viaggio. Ho avuto modo di osservare quasi “dal di dentro” una realtà per diversi aspetti lontana dalla mia e scoprire alcune caratteristiche di un quotidiano, invece, piuttosto similare. L’ospitalità della famiglia di Omar, congiuntamente alla gentilezza ed alla disponibilità riscontrate nelle persone in molte altre situazioni, mi

hanno fatto riflettere rispetto a come non sempre le persone, ed io per prima, siano in grado di accogliere con tranquillità e naturalezza l’altro, chiunque esso sia. Forse a maggior ragione l’altro più diverso da noi per colore della pelle, per usi e costumi, per il modo di vestire e comportarsi e, perché no, per il modo di pensare. Un altro talmente vicino nel quotidiano, da non accorgercene. L’incontro con l’Altro come primo significato del viaggio, del mio viaggio. L’incontro e scontro con i miei compagni d’avventura, che forse proprio in quella esperienza ho potuto conoscere un po’ meglio, l’incontro con la famiglia e gli amici di Omar, l’incontro con tutti coloro con cui ci siamo fermati a scambiare qualche parola, l’incontro con mille volti e mille sguardi. Un’incontro con loro, possibile specchio in cui osservare e comprendere meglio me stessa e i miei limiti di essere umano, un incontro che migliora. Un’incontro quotidiano che spero non abbia mai fine, come la mia voglia di viaggiare e scoprire il mondo e chi lo popola.


PANKA ROCK Quando un’amica ti chiede di andare a vedere un concerto di Bruce Springsteen, non puoi non prendere in seria considerazione tale proposta. E così sono andato a comprarmi i biglietti, sicuro di aver scelto il concerto più importante dell’anno. Nonostante il tempo inclemente, che però ha solo bagnato leggermente il manto dello stadio Euganeo di Padova, siamo lì insieme a quarantamila persone con d’avanti un colpo d’occhio straordinario. Si tratta del “Boss”, è più che doveroso essere in tanti. Ci dicono che abbia suonato alcuni brani appena arrivato allo stadio per omaggiare i numerosi fans già presenti in prima fila e questo la dice lunga sullo spessore umano del rocker americano. Ma le soprese non finiscono qui. Ci stiamo bevendo tranquillamente una birra, quando all’improvviso compare sul palco Springsteen in persona: compagnia della sua chitarra acustica inizia sulle note intense di “The gost of Tom Joad”, al termine della quale entra tutta la band ed è lì che comincia ufficialmente il concerto. Succede sulle note di “Long walk home”, un brano di recente uscita che è una sorta di confessione dell’autore sul sapore magico del ritorno a casa dopo tanto tempo passato in giro per il mondo. L’atmosfera è caldissima, il Boss è

voro “Wreckin’ Ball”, ma il numeroso pubblico si esalta letteralmente all’annuncio che tutti speravano: in un perfetto italiano il Boss ci dice che stasera verranno suonati tutti i brani dell’album “Born to run”, una pietra miliare della storia della musica rock. Per un’ora, seguendo una rigorosa scaletta pari al disco, si susseguono i meravigliosi otto brani più

amati dai suoi fans, conclusi con una indimenticabile versione di “Jungleland”. Non siamo lì per partecipare ad un concerto preconfezionato di una qualunque rockstar : siamo nel pieno di una festa tra amici. Sul palco, insieme alla band, all’orchestra ed al padrone di casa assoluto, si susseguono semplici appassionati invitati dallo stesso Springsteen a cantare con lui: il primo è un bimbo dalla perfetta pronuncia inglese e dall’ottima intonazione, con il quale duetta sulle note di “Waiting for a sunny day”, strappando numerosi applausi dal pubblico. Poi sale un personaggio davvero insolito, con se porta il suo strumento artigianale (forse in acciaio) simile ad un pezzo di lavandino, che si mette a suonare con due cucchiai accompagnando la band in una elettrizzante “Pay me my money down”. La festa si conclude con i migliori cavalli i battaglia tra cui “Born in the Usa” e “Dancing in the dark”, che infiamma un pubblico tutt’altro che stanco e che ben ha sopportato la leggera pioggia caduta dal cielo di Padova. La sensazione che ti accompagna, mentre saluti la band in un interminabile applauso, è quella di aver partecipato a qualcosa di memorabile e che giova all’umore per un bel paio di giorni, quasi terapeutico.

pulsanti e segnali luminosi, cuffie stile “lascia o raddoppia”. Qui i partecipanti si sono cimentati nel rispondere ad una batteria di domande di cultura generale ed anche specifiche su alcol e sostanze. Si scontravano due alla volta, chi si prenotava per primo poteva dare la risposta e se corretta si aggiudicava un punto. Chi, alla fine delle venti domande, totalizzava il punteggio maggiore, continuava la rincorsa verso la vittoria. Il vincitore della serata guada-

gnava un bonus per panino e bibita analcolica. Insomma, si è proposto un momento ludico di altissimo livello, ma si è realizzata anche una straordinaria opera preventiva, di promozione alla salute e di riduzione del rischio rispetto al consumo di alcol e sostanze psicotrope. Qualche dato per chiudere: 79 questionari realizzati, 98 alcol test effettuati, 400 profilattici distribuiti, 100 giornali e volantini informativi divulgati, 12 tornei “..Ma quante ne sai?” portati a termine.

luiginter

Tre ore di festa in compagnia del Boss In scena allo stadio Euganeo di Padova lo spettacolo di “Born to run”. Bruce Springsteen infiamma la folla di Fabio Passador in una forma smagliante, da fare invidia a qualche giovane d’oggi, e la scaletta musicale continua all’insegna del buon rock e delle richieste che Springsteen raccoglie dai cartelli nelle prime file. La prima è una meravigliosa “Something in the night”, sulle calde note che escono dal piano di Roy Bittan. C’è spazio anche per alcune canzoni dell’ultimo la-

PANKA NEWS

Quarta Festa in Piassa per Rdp Ad agosto l’associazione era presente con due stand ai festeggiamenti di Villanova di Stefano Venuto Anche in questo 2013 si è rinnovata, per il quarto anno consecutivo, la collaborazione tra I Ragazzi della Panchina e gli organizzatori della Festa in Piassa di Villanova di Pordenone. Assieme agli educatori dell’associazione ci sono stati anche quelli del Dipartimento per le Dipendenze della provincia di Pordenone. Abbiamo allestito due stand all’interno dell’area giovani della festa (Skate Park), il primo di carattere informativo, dove erano a disposizione per

chiunque ed in forma assolutamente gratuita, giornali Libertà di Parola, libri, volantini informativi riguardanti alcol, sostanze psicotrope, malattie sessualmente trasmissibili, nonché profilattici, alcol test monouso. Davamo inoltre anche la possibilità di misurare il proprio tasso alcolemico attraverso strumenti di misurazione professionali. Nel secondo stand a disposizione abbiamo allestito una scenografia per dare vita al torneo “… Ma quante ne sai?”. Con tanto di


NON SOLO SPORT

NON SOLO TENNIS NEL CUORE DI EDI RAFFIN Per il padre dell'Eurosporting lo sport era una filosofia di vita di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon Nel 1978, a Cordenons, nasceva l’Eurotennis Club. Tutto ebbe inizio da un match tra Il torneo "Atp Challenger Friuladria Crèdite Agricole tennis cup - internazionali del Friuli Venezia Giulia" è l'evento di punta dell'Eurosporting. Ogni anno diversi atleti provenienti da tutto il mondo si incontrano a Cordenons per dare vita a questo splendido torneo: il tutto si svolge in otto giorni di tennis intenso ad ottimi livelli. La competizione si suddivide in torneo di qualificazione e torneo ufficiale, globalmente partecipano circa una settantina di tennisti, 28 dei quali sono già iscritti per diritto di classifica al tabellone principale. Tutti gli altri si giocano i quattro posti in palio nel torneo di qualificazione. Parallelamente al torneo di singolo si svolge anche il doppio con un tabellone formato da 16 coppie. L'organizzazione di un evento del genere è sempre molto complesso, quest’anno però, dopo la scomparsa di Edi Raffin, è stata ancor più impegnativa e la figlia Serena insieme al resto dello staff hanno dovuto spendere ogni grammo di energia, lavorando intensamente perché questo evento al quale Edi teneva molto potesse avere luogo. Claudio ci dice che è per rispettare un’idea, l'idea che Edi aveva del torneo come momento culminante della stagione, un evento

due mostri sacri del tennis come Borg e McEnroe trasmesso alla tv. Tra i molti spet-

tatori da casa c’era Edi Aldo Raffin. Quel giorno rimase letteralmente folgorato dai due campioni e si innamorò del tennis. La grande passione per questo sport lo portò a chiedere al padre i terreni vicino a casa al fine di costruire dei campi da gioco. Il tempo e la dedizione totale verso il tennis fecero il resto e ora, a trentacinque anni di distanza, anche se Edi non è più tra noi, il suo spirito e la sua forza vivono con l’Eurosporting. E’ questa la società figlia dell’Eurotennis club, che porta avanti quella che è una filosofia sportiva, ma soprattutto una mentalità a 360 gradi, aperta a tutti, senza distinzioni preconcette di etichetta o ruolo. In fondo così era Edi Raffin, un uomo di valore capace di premiare l’impegno e il duro lavoro a prescindere dallo stato sociale, dal passato o dalle difficoltà della persona. Durante la nostra intervista con la figlia di Edi,

« Allenarsi sempre, fare ciò che dice l’allenatore e non mollare mai» La ricetta del campione Gianluca Quinzi, reduce dalla vittoria al Torneo di Wimbledon Junior. Ad agosto in gara per Atp Challenger di Andrea Lenardon importante, bello, organizzato al meglio perché fosse il fiore all'occhiello della società. «Lo facciamo soprattutto per lui – dice Serena - per dare continuità alla sua idea». Ebbene quest’anno, dal 10 al 18 agosto, tra i partecipanti c’era anche Gianluigi Quinzi, giovane talento reduce dalla vittoria di Wimbledon Junior. Grazie all’Eurosporting che ci ha messo in contatto con lui, abbiamo potuto intervistare questa giovane promessa del tennis italiano.

Come ti sei avvicinato al mondo del tennis? Inizialmente ho fatto altri sport: go-kart, ma soprattutto sci, perché mia mamma è stata una campionessa di questa disciplina. Successivamente, a causa della pericolosità dello sci, abbiamo deciso di cambiare. La mia famiglia ha un circolo tennistico, passato dalle mani di mio nonno a quelle di mio padre, quando avevo cinque anni mio padre mi ha dato in mano una racchetta, da lì,

Serena Raffin, e con Claudio Bortoletto, maestro e direttore della scuola tennis, abbiamo notato con piacere una similitudine di pensiero nell’approcciarsi alle persone tra Edi e “I ragazzi della Panchina”. Gli intervistati, parlandoci del fondatore, ci hanno raccontato della sua disponibilità dimostrata più di una volta in passato e senza pregiudizi ad accogliere nella sua struttura dei ragazzi consumatori di sostanze, guardando e valorizzando il lavoro da loro svolto. Prima dell’intervista abbiamo avuto la possibilità di visitare tutto il complesso dell’Eursporting e siamo ri-

si sono resi conto che giocavo bene, che “la mettevo di là della rete”. Così ho iniziato a giocare. Cosa ti piace di più del gioco del tennis? Mi piace molto l’adrenalina, amo stare in campo, giocare le partite, sono un buon competitore. Allenarsi è importante, ma preferisco molto di più giocare le partite, mi piace l’atmosfera che c’è in tutti i grandi tornei, l’incitamento del pubblico che ti applaude e ti supporta. Che consigli daresti ai ragazzi che hanno iniziato da poco a giocare a tennis? Dare il massimo, anche se perdi qualche partita devi stare sempre lì, non mollare, bisogna crederci sempre, allenarsi ogni giorno con intensità e non contestare mai l’allenatore, accettare con umiltà gli insegnamenti e le fatiche giorno dopo giorno, alla fine i frutti vengono. Cosa hai provato quando hai vinto Wimbledon Junior? Ho provato un’emozione grandissima, sono stato molto contento. Non mi ricordo più nulla perché l’emozione è stata molto forte. Mi ricordo solo di quando ho vinto, all’ultimo punto l’avversario ha tirato


masti colpiti dalla molteplicità degli impianti e dall’attenzione nel rendere accessibile la struttura ad ogni tipo di disabilità. Questo non è scontato e conferma ancora una volta la sensibilità verso l’esterno. L’Eurosporting si propone sul territorio di Cordenons con un approccio multidisciplinare, puntando in primis sul tennis, ma mantenendosi comunque aperto verso gli altri sport. Durante tutta l’estate vengono organizzati dei campi sportivi, dove i bambini dai sei ai tredici anni hanno la possibilità di provare diverse discipline: tennis, calcetto, basket, pallavolo, ping pong, squash. Possono inoltre divertirsi con giochi, disegni e piscina. I camp sono un’ottima occasione per sperimentarsi nei vari ambiti e cercare lo sport più adatto. L’associazione di viale del Benessere a Cordenons ha capito l’importanza fondamentale dell’attività fisica e dello sport, è per questo che riteniamo che l’azione da loro svolta sia molto preziosa per il territorio. Durante il nostro incontro, rispondendo alla domanda su quali prospettive future ab-

un dritto sotto la rete. In quel momento ho capito che avevo vinto e mi è sembrato un sogno. Sogni di vincere gli U.S Open e il tuo idolo indiscusso è Rafa Nadal. Ma quanto a te, qual è il tipo di gioco che più ti piace e più ti si addice? Mi piace molto giocare sul cemento, gioco meglio sulle superfici veloci e preferisco il gioco tecnico rispetto a quello fisico. Com’è la vita da atleta? Inizialmente è stata molto dura, quando ero piccolo mi

35 anni di storia bia il nostro tennis nazionale, Serena e Claudio ci hanno illustrato una panoramica positiva e in via di sviluppo del tennis giovanile. Infatti i migliori risultati stanno arrivando proprio dall’under18, nella quale abbiamo due italiani tra i primi cinque del mondo. Anche per quanto riguarda strutture e impianti l’Italia primeggia e questo porta diversi atleti stranieri ad allenarsi da noi, aumentando la visibilità e l’adesione a questa disciplina. L’Eurosporting ha ricevuto la certificazione di qualità dell’insegnamento dagli ispettori della Federazione Italiana Tennis, è stata riconosciuta quindi come una scuola di alta qualità dell’insegnamento. Claudio ci ha spiegato che

mancava molto la famiglia e piangevo perché sentivo la mancanza dei miei cari. Adesso sto bene, mi sono abituato alla distanza e ai sacrifici, dopo diversi anni di attività ti puoi godere veramente questo sport. E’ da tanto che non vado ad una festa, per fortuna qualche volta riesco ad uscire con gli amici, ma comunque il coprifuoco è al massimo a mezzanotte, perché il giorno dopo ci si deve allenare. In cosa può migliorarsi l’Italia, per competere ancor meglio con i campioni degli altri stati?

la il momento propedeutico per iniziare a giocare a tennis va dai quattro ai cinque anni e la pratica avviene in maniera graduale, le attrezzature, il campo, le situazioni di insegnamento crescono proporzionalmente al fisico e alla tecnica del bambino. Da parte nostra, speriamo che la partecipazione a questo splendido sport possa crescere sempre di più e siamo sicuri che le proposte dell’associazione per i più giovani arricchiscono le nostre zone, abituando a un sano modo di stare insieme e ritrovando il piacere dell’attività all’aria aperta. Per concludere vogliamo rendere omaggio a Edi attraverso una frase a lui cara: “Fiero di essere folpo!”. L’Italia e la Federazione Italiana Tennis mi hanno dato tanto e mi stanno aiutando molto. Sto bene in questo paese e mi sto allenando cercando di fare tutti i giusti passaggi. Penso che ognuno debba trovare la sua strada, ascoltare il suo allenatore, fare quello che dice lui. Ogni giocatore ha i suoi tempi. L’Italia è un buon paese per il tennis dal punto di vista delle strutture e della scuola tennistica, infatti ci sono molti buoni giocatori. Chi è diventato un campione non ha fatto niente di particolare, non è stato aiutato da nessuno, si è allenato, allenato e allenato, ha ascoltato il suo team e ha fatto tanti sacrifici. Grazie Gianluigi, mi piacerebbe tu potessi dire qualcosa a un caro amico che sta passando un momento difficile a causa di una malattia. Certo, le malattie non sono mai belle, io stesso ho avuto un tumore benigno da piccolo e sono stato fortunato perché è andato tutto bene. Anche se non è facile bisognerebbe evitare di focalizzarsi sullo stare male e pensare che si può stare bene. Come nello sport bisogna avere tenacia, non mollare mai, per il resto un grande in bocca al lupo!

La realtà dell'Eurosporting affonda le sue radici nel 1978 quando Edi Aldo Raffin fonda l'Eurotennis Club, situato a Cordenons in via Primo Maggio. Dopo 25 anni di storia l'Eurotennis si amplia e si trasferisce in Viale del Benessere prendendo il nome di Eurosporting. Attualmente la società è dotata di impianti e attrezzature all'avanguardia e propone una lunga serie di attività sportive che valorizzano il territorio di Cordenons. L'approccio dell'Eurosporting non si ferma solo al tennis, ma si espande ad altre discipline puntando sull'importanza dello sport e sul benessere della persona. La struttura dispone di 15 campi da tennis, 8 al coperto, 2 in erba sintetica e 5 in terra rossa tra i quali vi è il campo centrale dotato di tribune della capacità di 2500 persone. Vi sono inoltre 2 campi per lo squash, 4 campi di calcetto indoor e 2 outdoor, per il relax e l’esercizio fisico si possono trovare: piscina con giochi d’acqua, area fitness e wellness attrezzate in maniera completa per una totale cura della persona. Dal 2009 la società ha aperto i suoi orizzonti prendendo in gestione lo storico tennis club di Treviso e, nel 2011, aprendo un parco acrobatico forestale ad Auronzo di Cadore.

Gregoire Burquier Vincitore Toreneo 2013


IL PERSONAGGIO

Bobby Fischer, il geniale e schivo re degli scacchi Di origini umili, arrivò alla fama nel 1972 strappando ai russi il dominio nella disciplina. Morì in Islanda, all’età di 64 anni di Manuele Celotto Siamo nel 1972, l'Islanda e la sua capitale Reykjavik sono al centro dell'interesse; si gioca il campionato mondiale di scacchi. Ma facciamo un salto indietro nel tempo per capire meglio quel momento. Il mondo era diviso in due blocchi: comunismo e capitalismo, Usa -Urss. C'era il muro di Berlino e la guerra in Vietnam, l'Ue era solo un'idea vaga e lontana, avevamo l'inflazione al 12 per cento, le televisioni erano in bianco e nero con un paio di canali. Nel cacio dominava l'Ajax di Crujff. Erano tempi in cui idee e divisioni erano più nette, il lavoro non mancava, il sindacato era forte ed unito e “precario” era una parola sconosciuta ai più. In estate si vedevano tante api, lucertole, lucciole e rondini. Si, era tuttunaltromondo! C'era la Guerra Fredda, le due superpotenze cercavano di superarsi in nuove sfide (conquista dello spazio, record sportivi, medagliere olimpico), adesso, nel 1972, a Reykjavik, anche la “sfida del secolo” a scacchi.

A contendersi il titolo il campione ci sono Boris Spasskji e lo sfidante Bobby Fischer, americano di nascita. I russi avevano un dominio incontrastato negli scacchi (unico “intruso” era Bent Larsen), disponevano di fondi illimitati ed in patria avevano una vita agiata, erano famosi e benvoluti come un calciatore da noi. Ben diversa la realtà per B.F. Cresce senza padre, la madre deve fare due lavori per mantenere lui e la sorella, viene da un quartiere povero e si trova a riempire i suoi momenti di solitudine con gli scacchi; l'interesse per gli scacchi in poco tempo diventa una passione-ossessione. B.F. non coltiva interessi al di fuori della scacchiera e sembra neanche desiderarli; diventa campione Usa a 15 anni ed è dominatore incontrastato in patria (otto volte campione nazionale). Nei diciotto mesi che precedono la sfida, vince vari tornei e sconfigge i maestri russi, tra cui l'ex campione del mondo Petrosian arrivando a venti

vittorie di seguito. Diventa famoso per il suo gioco brillante e fantasioso, ma anche per la sua “capacità” di mollare tutto di colpo e per i motivi più futili. B. F. con il suo carattere e le sue richieste (il premio vittoria, la misura delle caselle della scacchiera, ecc) mise a dura prova gli organizzatori della sfida, che restò in dubbio fino all'ultimo. Sembra che per convincerlo ad andare a “rappresentare il mondo libero” gli telefonò l'allora segretario di stato Usa H. Kissinger. Il campionato inizia; le partite vengono trasmesse in diretta e molti paesi seguono il confronto. La prima partita sembra una patta, ma B.F. per un'ingenuità la perde. Alla seconda partita minaccia di abbandonare tutto perché le telecamere gli impedivano la giusta concentrazione; alla fine non si presenta ed è partita persa. Ormai sullo 0-2 sembra impossibile che B.F. possa vincere la sfida, invece vince la terza partita e non si ferma più diventando campione del mondo; la vittoria lo rende “famoso quanto Gesù Cristo” e per lui, solitario e amante della privacy, è quasi una dannazione. La vittoria ha anche un risvolto propagandistico in quel clima di Guerra Fredda. Torna in patria accolto da eroe, ma non ama la folla ed il suo carattere schivo e difficile lo porta a fare una vita ritirata. Si isola, non rilascia interviste e non gioca più partite ufficiali, quasi temesse di “sporcare” la bellezza del titolo vinto. Dopo tre anni deve difendere il titolo contro lo sfidante russo A. Karpov, ma dopo aver fatto ammattire gli organizzatori con un lungo tira molla di richieste non si presenta e perde il titolo. Sembra l'ultimo atto di una persona che si vuole eclissare, persa tra dubbi interiori e paranoie

varie. Invece B.F. torna a far parlare di sé nel 1992 quando, dietro lauto compenso (era rimasto senza soldi), viene organizzata la rivincita contro B. Spasskji La sfida è solo un lontano ricordo della loro grandezza scacchistica. Si gioca in Jugoslavia, paese sottoposto ad embargo Onu e questo costa a B.F. la revoca del passaporto Usa, il rischio estradizione e confisca dei beni. Dopo di che è un mesto vagare in incognito tra vari stati, finché a Tokio non viene fermato perché in possesso di passaporto scaduto. Gli viene in soccorso la piccola Islanda che gli offre la cittadinanza e lo accoglie con tutti gli onori come se il tempo non fosse mai passato. Ma nel giro di poco tempo muoiono sia la madre che la sorella e lui, solo e malato, si spegne pochi mesi dopo. Persona geniale con gran talento per gli scacchi, ma dal carattere eccentrico e difficile, scacchista amato e riconosciuto come il più grande di tutti i tempi, a lui ed alla sfida che giocò con Spasskji è dovuta la popolarità che raggiunsero gli scacchi. Muore a Reyykjavik a 64 anni e, ironia della sorte, visse tanti anni quanti le caselle della scacchiera.


Hanno collaborato a questo numero

LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost

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Pino Roveredo Penna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. Toscano, non di origine ma fedele compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.

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Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli

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Fabio Passador Attualmente panchinaro di lusso! Come ogni giocatore di calcio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di testa, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist

Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Andrea Picco, Franca Merlo, Tina, Ferdinando Parigi, Manuele Celotto, Ada Moznich, Andrea Lenardon, Max Moras, Alain Saciolotto, Gian Piero Turchi, Cristiana Ferri, Valeria Gennuso, Jesús Cancelo Martinez, Magali Torres Reyes, Luca Scopetti, Cristina Colautti, Fabio Passador, Stefano Venuto, Sara Rocutto, Sonia,Taty. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone

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Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”

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Stefano Venuto Mimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!

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Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia

Creazione grafica Maurizio Poletto mpaginazione Ada Moznich Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 6 e 15 da sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pagina 5 Elisa Cozzarini Foto a pagina 14 Cristina Colautti Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo del Comune di Pordenone

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Andrea Lenardon Tirocinante, educatore, psicologo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.

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Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!

Manuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili

—————————————— Gian Piero Turchi

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Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.

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Ferdinando Parigi Voce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si trovano raramente, la nostra nuova penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800

Ha introdotto nel gruppo lo scarto di paradigma, tanto che per un po’ in sede, dove l'unico scarto conosciuto è quello di briscola, ci si salutava chiedendo: come sta il tuo paradigma? Dicono abbia studiato a Palo Alto. Chiedetegli come va, dovrebbe rispondere Cosmico!

Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00


La filosofia insegna ad agire, non a parlare seneca

I ragazzi della panchina campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA CON IL PATROCINIO del comune di pordenone


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