APPROFONDIMENTO
Codice a s-barre
Libertá di Parola 4/2013 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
Dopo il gruppo di teatro, la nostra associazione ha lanciato un nuovo progetto in carcere. “Codice a s-barre” è la prima redazione all'interno della Casa circondariale di Pordenone: è nata pochi mesi fa ed è già entrata a far parte di diritto di Ldp. Uno spazio che sarà gestito dai detenuti, sotto la guida di Guerrino Faggiani e Cristina Colautti, anelli di congiunzione tra loro e chi sta fuori. In questo numero presentiamo i primi scritti. Dal 2014 “Codice a s-barre” sarà una presenza fissa del nostro giornale. a pagina 9
L'EVENTO
Hiv Day, non solo il 1° dicembre A Pordenone, la prima edizione Rete di enti e associazioni sul campo a pagina 8
INVIATI NEL MONDO
Nei campi di Mauthausen dove risuonano le grida dei morti a pagina 13
PANKAKULTURA
Rennett Stowe
Gambling, giochi pericolosi di Elena Caccamo Nel 2013 in Italia l'industria del gioco d'azzardo ha messo a segno un business da oltre 100miliardi di euro. Queste sono le previsioni di entrata secondo i dati forniti dall’AGiCoS, l'unico ente che è stato in grado di fotografare il fenomeno. Una cifra da capogiro, che si traduce solo per un 1,35 % del totale in un introito per le casse dello Stato. Tutto il resto è profitto per l'industria del gioco, frutto di un marketing studiato nei minimi dettagli che ha fatto sì che il nostro paese sia diventato nel giro di un decennio un paese tristemente da record: siamo il primo mercato al mondo nel Gratta e vinci; pur rappresentando l’1% della popolazione mondiale, abbiamo il 23% del gioco mondiale online; il
Battiston e Testa, in scena l'emigrazione di ieri e di oggi a pagina 14
IL PERSONAGGIO 42% degli Italiani tra i 15 e i 64 anni (17 milioni di persone) ha giocato almeno una volta nell’ultimo anno e la spesa pro capite di ogni italiano maggiorenne è di 1703 euro. Come ci siamo arrivati? L’industria dell’azzardo in Italia investe in pubblicità circa mezzo miliardo di euro l’anno: in questo modo ha trasformato il mercato. Fino agli anni Ottanta e Novanta era infatti un lusso per professionisti stressati o piccoli imprenditori amanti del rischio. Oggi da un mercato d'élite è diventato "gioco d'azzardo industriale di massa". Si è passati dal prendere molto da pochi, al sottrarre poco da molti. Grazie a questi meccanismi l’industria del gioco d’azzardo in Italia è diventata la terza industria
dopo Eni e Fiat, con 120.000 addetti. Nel 2012 ha fatto giocare d’azzardo un po’ meno di 24 milioni di italiani. Giornali, televisioni, siti e pubblicità su internet, radio, poster, manifesti: la promozione sul gioco d’azzardo non conosce confini e il gioco è diventato parte della quotidianità. Eppure con tutti i giochi d’azzardo, l’unico modo di vincere è tenersi i soldi. Perché vince sempre il banco, non il giocatore. Solo una su 622 milioni di giocate è la probabilità di fare 6 al Superenalotto. Inoltre l’industria del gioco d’azzardo dovrebbe svelarvi che le amate e diffusissime slot machine sono costruite con suoni e colori accattivanti per attrarre i giocatori e continua a pagina 3
De Gasperi, il padre della Repubblica italiana a pag. 16
NON SOLO SPORT
Cifre da capogiro ai calciatori, da fame agli operai a pag. 18
na perde il controllo sul gioco, inizia a chiedere prestiti, a fare debiti e a raccontare bugie ai familiari per potere continuare a giocare .L’ultima fase detta “cruciale” è quella in cui il giocatore chiede aiuto perché la situazione debitoria e familiare è diventata critica.
Graeme Main
Gioco d’azzardo, l'identikit di una dipendenza È un'attività lecita e socialmente accettata che a lungo andare segna pesantemente la vita sociale e familiare del giocatore di Dott.ssa Carla Bristot, referente dell'èquipe Gap di Pordenone Quando parliamo di gioco d’azzardo patologico facciamo riferimento ad una dipendenza che ha come oggetto non una sostanza, ma un comportamento o un’attività lecita e socialmente accettata. Il gioco d’azzardo comprende tutti quei giochi (gratta vinci, slot machines,bingo ecc) che hanno una certa attrattiva, poiché danno delle vincite in denaro e il risultato del gioco è affidato al caso. Quando il gioco d’azzardo diventa dipendenza coinvolge tutte le sfere funzionali della persona da quelle psicologiche a quelle familiari ed economiche. Il decorso patologico legato al gioco d’azzardo si sviluppa per fasi. LE FASI La prima fase viene definita “vincente”, perché
il giocatore sopravvaluta le vincite e sviluppa la convinzione di essere molto abile e capace di controllare il gioco ed evitare, secondo le sue percezioni erronee, le perdite. Questo comportamento che ha una durata dai 3 ai 5 anni può stimolare in alcune persone la continuazione del gioco che viene vissuto come un divertimento e un modo per affrontare i momenti di noia. Successivamente abbiamo la fase “perdente” in cui il giocatore ha bisogno di giocare sempre di più per recuperare il denaro perso, quindi passa sempre più tempo nei locali da gioco, il suo pensiero principale è legato al gioco e ogni perdita rappresenta una grave ferita alla sua autostima. Nella fase della “disperazione” la perso-
A Pordenone e Sacile gruppi di mutuo aiuto per non sentirsi i soli Per portare la propria esperienza, per confrontarsi alla pari e senza giudizio, per prendere consapevolezza di un problema, per dare e ricevere supporto nell'affrontalo, per superare insieme la solitudine, la paura, il silenzio, la vergogna. Questi i benefici e gli scopi del Gruppo di auto mutuo aiuto sulle dipendenze da gioco che da tre anni è attivo all'in-
terno della Casa Ama Auto Mutuo Aiuto di via De Paoli a Pordenone. Nel 2013 il gruppo si è sdoppiato e ne è nato un altro, che oggi si riunisce nella palestra dell'ospedale di Sacile, in via Ettoreo. “Come per tutti gli altri nati sulle più svariate problematiche – spiega Sandra Conte, presidente di Casa Ama – non si tratta di un gruppo terapeutico, ma di sostegno alla pari. Il primo
I SEGNALI I segnali e i sintomi della dipendenza da gioco sono il forte desiderio di giocare, l’impossibilità di resistere al gioco (craving), l’insorgenza di sentimenti di inquietudine quando non si può giocare (astinenza), la necessità di giocare con maggiore frequenza per riprodurre il medesimo grado di euforia e gratificazione (tolleranza). Nel giocatore prevale un pensiero cognitivo distorto definito “magico” supportato da un insieme di convinzioni che si manifestano con comportamenti ritualizzati, con la ricerca continua di strategie efficaci per aumentare le possibilità’ di vincita, come studiare statistiche sul comportamento della pallina nella roulette. I giochi d’azzardo non sono giochi di abilità non necessitano di capacità fisiche o mentali particolari e il risultato del gioco è casuale. I DANNI I danni causati da una dipendenza da gioco non si limitano alla persona, ma a tutto il sistema sociale e familiare. Le conseguenze sulla persona si manifestano con stress psicofisico, disturbi dell’umore, ansia, depressione, sonno disturbato. Dal punto di vista socio-ambientale è frequente nel giocatore la presenza di problemi sul lavoro come l’assenteismo, il calo delle prestazioni lavorative fino alla perdita dell'occupazione. I problemi familiari sono caratterizzati da conflitti interpersonali e difficoltà economiche fino ad arrivare a gravi indebitamenti. nacque sulla scia di quello terapeutico istituito all'interno del Dipartimento per le Dipendenze dell'Azienda sanitaria locale. Esso infatti è il naturale proseguo del percorso che là si svolge, ma è aperto a tutti coloro che condividono la dipendenza dal gioco, anche a chi cioè per il Sert non ci è passato”. Ciascun gruppo ha un suo facilitatore, che guida il dialogo tra i presenti, e una regola: ciò che viene detto durante gli incontri non deve essere rivelato al di fuori del gruppo. Il rispetto della privacy è infatti una condizione essenziale per consentire ai par-
All'Ass6 un'equipe per aiutare a smettere Nel 2009 al Dipartimento delle Dipendenze dell'Azienda sanitaria n°6 Friuli Occidentale di Pordenone è stata istituita un’equipe composta da una psicologa, da un medico, da un’assistente sociale e da un'infermiera professionale dedicata al gioco d’azzardo patologico (Gap). L’esigenza di creare un tale gruppo nacque dalle continue richieste che pervenivano dal territorio per affrontare tale dipendenza. Gli operatori che lavorano nell'equipe in questi anni si sono formati e continuano a formarsi partecipando a corsi e convegni in tutta l’Italia. L’attività del Gap si svolge presso il Dipartimento delle Dipendenze e comprende colloqui di accoglienza con il giocatore e il famigliare, gruppo informativo, gruppo educativo, gruppo psicoterapeutici, terapie farmacologiche, psicoterapie individuali e monitoraggio economico. Sul territorio di Sacile e Pordenone sono stati inoltre creati due gruppi di auto-muto-aiuto per giocatori patologici. L'equipe Gioco d’Azzardo Patologico è composta dal medico specialista, Andrea Fiore Andrea, dalla psicologa Carla Bristot, dall'assistente sociale Sara Sut, dall'educatrice Katharina De Noni e dall'infermiera Elena Caccamo Elena. Per informazioni ci si può rivolgere alla sede del Dipartimento delle Dipendenza, in via Interna 5 a Pordenone, o telefonando al numero 0434.373111.
tecipanti di superare il muro della vergogna. “E’ infatti difficile – spiega Conte - rompere i tabù che portano le persone con problemi di ludopatia a non accettare di buon grado di avere bisogno di aiuto e di supporto emotivo”. A Pordenone gli incontri, per giocatori o ex e per i loro famigliari, si tengono ogni giovedì dalle 17.30 alle 19; a Sacile lo stesso giorno dalle 20.30 alle 22. Per informazioni si rimanda al sito www.casadelvolontariatopn. org e ai facilitatori, a Pietro per Pordenone (cell. 340.5245576) e a Paolo per Sacile (cell. 3337416536).
Quelle bugie che ti rendono schiavo Fiducia che si perde, liti in famiglia, soldi che non bastano. Paolo, «Ma liberarsi dalla dipendenza si può» testimonianza raccolta da Milena Bidinost «Sono trascorsi 9 mesi, 40 settimane, 280 giorni, 6720 ore. Questi non sono numeri da giocare al Superenalotto, al lotto o in combinazioni che lo Stato ha studiato per rovinare le famiglie. Sono i numeri della mia “astinenza” dal gioco, il tempo che mi è servito per riprendermi la mia libertà e guarire da una malattia che era iniziata 10 anni fa a causa delle macchinette mangiasoldi». Scriveva più o meno così Paolo nel 2009, al termine del suo percorso terapeutico al Sert di Maniago, il primo che si è formato in provincia sulla ludopatia e che si è poi trasferito a Pordenone. Pensionato, marito e padre di due figli, oggi Paolo è orgoglioso di sé, ma consapevole che le ricadute possono essere dietro l'angolo. La sua
mente però è di nuovo “libera” e sa che in quel circolo di inganni, liti in famiglia, sfide costantemente perse con la fortuna non ci si sta per niente bene. «L'ho capito – spiega – solo quando ho toccato il fondo. Il giocatore d'azzardo è un bugiardo: giustifica i soldi che sono sempre di meno, il tempo che dedica al gioco, l'ansia di tornare davanti alla
Downtowngal
Vincere la vergogna è il primo passo per chiedere aiuto La testimonianza di Pietro: «Non è vero che si può smettere quando si vuole, perchè farlo da soli è difficile» testimonianza raccolta da Milena Bidinost Accanto alla bugia c'è la vergogna di ammettere di avere un problema. E' con questa che il giocatore d'azzardo deve fare i conti. «Tutti siamo stati almeno una volta nella vita dei giocatori e abbiamo pensato che avremmo potuto smettere in ogni momento» è l'assunto da cui parte la testimonianza di Pietro, ex giocatore e oggi facilitatore del gruppo di mutuo aiuto di Pordenone. Chi infatti non ha mai comperato un gratta e vinci? Il problema nasce però quando non se ne può più fare a meno e allora smettere quando si vuole non è così
slot per sfidarla, poiché vive nell'errata convinzione che alla fine vincerà lui. Invece la verità è che l'unico modo per vincere è non giocare affatto». Prima di arrivare al Sert, aveva provato anche con delle sedute private da un terapeuta. «Accontentavo mia moglie – spiega – che è stata la prima ad accorgersi del problema e che mi avrebbe lasciato immediatamente se non fosse stato per i figli. Quelle però furono sedute inutili, non ero convinto. Finché un giorno sentii che stavo perdendo tutto e mi rivolsi da solo al Sert». La moglie lo ha accompagnato negli incontri, aiutandolo anche a casa a seguire le regole imposte dall'equipe terapeutica. Grazie a quelle regole di comportamento Paolo ha ritrovato il senso del denaro e ora si può bere un caffè al bar senza sentire il richiamo di quelle
facile. «A quel punto entri nel tunnel – prosegue – e non ti accorgi che non sei più tu a controllare il gioco. E' lì che cominci a vergognarti di avere un problema e ti è più facile continuare a giocare». La vergogna, unita alla scarsa consapevolezza, impedisce a molte persone di chiedere aiuto. Il gruppo di Pordenone è frequentato da una ventina di coppie, formate cioè dal giocatore o ex giocatore e da un suo familiare, ma questo numero è niente rispetto al fenomeno che cresce anche da noi. A partecipare agli incontri sono per lo più uomini,
anche se le donne sono in crescita, pochissimi i giovanissimi. Eppure il gioco d'azzardo minaccia anche loro, via internet. «Quando giocavo – afferma Pietro – ho rischiato di perdere il rapporto con i miei figli, perché completamente assorbito dalle macchinette. Ho seguito il percorso al Sert, tutt'ora lo continuo all'interno del gruppo di mutuo aiuto, e ho capito che per combattere questa dipendenza bisogna parlarne apertamente, anche quando ad avere il problema è tuo figlio». Dire però ad un giocatore di smettere è del tutto inutile. «Bisogna portalo a comprendere quanto gli sta accadendo – suggerisce Pietro – responsabilizzandolo nella scelta di chiedere aiuto. Perché è impossibile pensare che un giocatore patologico possa smettere da solo”. Non basta cioè spegnere l'ultima sigaretta: nel gioco la dipendenza è più subdola e mina le basi delle famiglie. «Gli stessi familiari – aggiunge Pietro – hanno bisogno di un supporto». Il primo passo è parlarne di più, sdoganando il problema. Per questo Pietro ha in progetto di promuove all'interno di Casa Ama il primo sportello informativo sul gioco d'azzardo in provincia.
macchinette. Aveva cominciato da giovane a giocare, ma la dipendenza arrivò con l'arrivo nel mercato delle slot machine. Non ha mai fatto debiti, ma ha perso tutti i risparmi, compresa la liquidazione di fine lavoro: un totale di circa 200mila euro. «I soldi in casa erano sempre pochi – racconta – e anche i miei figli hanno dovuto rinunciare a molto. Le liti con mia moglie erano all'ordine del giorno: lei ci vedeva bene, mentre io non mi accorgevo che stavo perdendo la sua fiducia». Proprio quella fiducia è la spina nel cuore di Paolo. «Oggi abbiamo recuperato un dialogo e una serenità in famiglia – dice – ed io torno a casa tranquillo perché non ho più bugie da inventarmi. Ma so che la fiducia è cosa difficile da riconquistare e quindi il mio percorso continua». Dopo il Sert Paolo ha continuato nel gruppo di mutuo aiuto di Pordenone e pochi mesi fa ha lui stesso fondato quello di Sacile dove fa da facilitatore. «Da soli non ce la si può fare – è l'appello che lancia - . Servono convinzione e motivazione per uscire dalla dipendenza, ma c'è bisogno anche di un aiuto terapeutico prima e di un gruppo alla pari poi che ci sostengano contro ogni possibile ricaduta». continua dalla prima pagina
che molte piccole vincite sono più probabili di una somma grossa proprio per indurre chi vince a non incassare, ma a giocare nuovamente. Dovrebbe informavi anche che le slot restituiscono in vincite circa il 75% di ciò che hanno incassato nell’arco di 140mila partite, pari a sei giorni e mezzo di gioco ininterrotto, e che non è mai prevedibile quando pagheranno. Dei mitici Gratta e vinci sarebbe utile sapere che ne sono stampati 30 milioni ogni settimana e solo cinque di questi fanno vincere premi al di sopra di 100 mila euro. Dei 30 milioni, solo undici milioni sono vincenti e solo nove su dieci di questi “grattini” restituiscono cifre pari a 5-10 euro. Un solo biglietto ogni 950 mila ha la probabilità di far vincere 50 mila euro. C'è poi lo stratagemma grafico della “quasi vincita”. I Gratta e vinci infatti sono stampati facendo in modo che il 56% di numeri “perdenti” sia molto vicino ai numeri vincenti. Perché, se il numero vincente è il 45 e io trovo il 46, sarò portato a pensare: «Accidenti! Per un pelo non ho vinto, oggi sono fortunato, ne compro un altro». In una spirale infinita che conduce alla dipendenza.
L’EMARGINAZIONE AI TEMPI DELL’APPARIRE Sono un ragazzo Hiv positivo e pago le conseguenze dei mie errori, ma anche quelle dei pregiudizi di troppa gente di Mauro Paludetto
Benross814
Voglio raccontare a tutti un fatto che mi è successo un pomeriggio dello scorso giugno. Sono andato a fare un viaggetto di pochi chilometri in treno con un mio amico, e fin qui niente di particolare, tutto nella norma. Siamo partiti da Mestre con destinazione Pordenone. Appena saliti sul treno ci siamo imbattuti in una folla enorme che cercava posto a sedere e gli spazi liberi erano veramente pochi. Continuando a cercare di vagone in vagone abbiamo trovato due posti liberi e ci siamo immediatamente seduti. Gli occupanti dei sedili di fronte ai nostri, dopo un paio di minuti passati a guardarci a parlottare tra loro, si sono alzati e se ne sono andati, ma non perché fossimo in prossimità di una stazione. Un’altra coppia che era rimasta in piedi, vedendo i sedili liberi si sono
seduti. Anche loro però, dopo qualche minuto, hanno cambiato posto. A noi, increduli ed amareggiati, non restava altra magra consolazione che quella di fare il viaggio verso Pordenone senza vicini di posto. Questo episodio mi ha fatto pensare a come nel 2013 “l’abito” faccia ancora incredibilmente “il monaco”. Mi lasciano sempre a bocca aperta le reazioni di questi perbenisti, che magari fanno vedere di loro la bella facciata, facendo beneficenza, iscrivendosi alle associazioni, parlando o straparlando di argomenti che non conoscono affatto e poi, trovandosi di fronte a persone che come me possono avere determinate sfighe, si svelano per quelle che in realtà sono: portatori sani di pregiudizi e paure disinformate. Sono una persona Hiv positiva e sicuramente non me la passo bene,
Quando si tratta di parlare di omosessualità, tutti hanno il terrore di sembrare insensibili, ignoranti, non al passo coi tempi. Tutti hanno paura di passare per omofobi. In realtà esistono casi, isolati e fortemente stigmatizzati da noi tutti, di violenta ostilità verso chi è gay. Ma, dal mio punto di vista, non si può parlare dell’omofobia come se fosse un fenomeno dilagante nella società italiana. Il mio primo confronto con una persona omosessuale fu quando avevo sei anni: un mio compagno di classe era manifestamente gay. Agli scrutini di seconda elementare, due commissari esterni lo torturarono con domande del tipo: «Preferisci giocare con le pistole o con le bambole?» e «Ti piacciono più le bambine o i maschi?». Quei “bastardi”, mi si conceda il termine non gentile, sono stati gli unici omofobi veri che ho conosciuto negli ultimi 44 anni. La scena dell’interrogatorio mi fece soffrire e ancora oggi il ricordo di quell’episodio mi mette tristezza e rabbia. Oggi siamo passati a quella che io amo definire “omolatria”, ov-
Italia omofoba, il nuovo pregudizio
ho le mie problematiche familiari da dover affrontare ogni giorno, un disagio sociale che mi accompagna da decenni. Sicuramente non sono un fiore fresco e porto nel fisico ed in faccia i segni dei miei errori e delle mie difficoltà, ma non per questo sono meritevole di essere scartato, di essere lasciato “solo” in un uno scompartimento di treno perché contagioso, pericoloso o brutto da vedere. Dove sta la normalità? Chi è normale in questo mondo? Quante mani si stringono nel vestito buono della domenica, chiedendo e dando “pace”, mentre le proprie coscienze urlano lo scempio di azioni che non si possono raccontare? E’ molto più normale essere capaci di nascondere piuttosto che essere? Potrei raccontare mille episodi di condanna sociale capitatemi. Come quando,
Una lettura diversa del fenomeno. I "privilegi" della comunità gay di Ferdinando Parigi vero all’ammirazione di chi appartiene al “mondo” gay. Chi gode dello status di gay è praticamente intoccabile, e fa tendenza: da Ibiza a Berlino, da Londra a Miami, ovunque esista vita notturna, movida, divertimento (miliardi di euro in Europa, più miliardi di dollari negli States), comandano incontrastati i gay. Ci sono code chilometriche di eterosessuali, fuori dai locali in cui si svolgono eventi gay. I gay sono padroni del mondo della moda, quindi del mercato che ruota intorno alla stessa, e anche qui ci sono interessi miliardari. In campo artistico, in particolare del cinema e dell’intrattenimento, la presenza gay è
decisamente massiccia. Una parte importante della cltura, oggi, è gay. Nel mondo della comunicazione, un comunissimo, ordinario eterosessuale a volte fa più fatica ad avere successo di un omosessuale. Guai grossi per chi cerca di rivendicare un’identità, una cultura eterosessuale: il magnate della pasta, la Barilla, che si è permesso di essere “padrone in casa propria”, sostenendo che la tipica famiglia del Mulino Bianco doveva assolutamente essere fatta di mamma di sesso femminile e papà maschio con relativa prole nata dall’unione dei due. Alla fine ha dovito chiedere scusa al popolo degli omosessuali,
in un bar del centro di Pordenone nel quale sono entrato con un mio amico per bere un semplice caffè, come fanno tutte le persone normali, il barista ha avuto la brillantissima idea, dopo averci servito e noi consumato, di gettare nell’immondizia la tazzina. Questo gesto è nato per il fatto che il barista, conoscendo la mia sieropositività, ha pensato che era meglio buttare la tazzina “infetta”. Non mi interessa, da parte della gente, la comprensione a 360° del mio problema, sarebbe onestamente chiedere troppo; mi schifa l’idea della compassione. Ma mi piacerebbe “semplicemente” potermi sentire una persona libera: libera di esistere e libera di pagare le conseguenze delle mie azioni, senza la condanna di dover pagare anche le conseguenze dei pregiudizi altrui. in un video autoprodotto che campeggia nell’homepage del sito della sua azienda. Come la gran parte delle persone, non ho antipatia verso chi ha gusti sessuali diversi dai miei, anzi tendo per mia natura a solidarizzare con chi si trova in minoranza, o è in qualche modo è svantaggiato. Come persona che ha pregressi di abuso di sostanze, so cosa vuol dire essere additati al pubblico ludibrio per avere una tendenza diversa dalla maggioranza degli altri, delle cosiddette persone normali. Però trovo intollerabile, e a questo mi ribello, che i gay si costituiscano in un gruppo di potere universale, fatto di persone che si sentono superiori, più sensibili, più intelligenti di chi è eterosessuale (vedere in proposito il sito www.gay.it). Non mi va di sentirmi uno scemo, un bigotto, un poveretto a causa dei miei gusti sessuali, che sono quelli della maggioranza delle persone. Infine, voglio dedicare la più sincera solidarietà ai bambini costretti a crescere con due papà o due mamme: io non lo accetto, perché lo ritengo il trionfo di un egoismo adulto e cieco.
ALLA MENTE NON SI METTONO CATENE Quando gli arresti domiciliari danno la possibilità di essere se stessi di Tina «Sono ai domiciliari, sono libero. Le barriere sono nella vostra testa, io sono libero, non vedete che sono libero?». Così disse Charles Manson, il pluriomicida americano, a dei giornalisti successivamente all'arresto. Ebbene, anch’io sono ai domiciliari e nonostante questo mi sento libera. Ogni piccola cosa mi emoziona, piango tutte le volte che
guardo E.T. in tv e trovo meravigliosi gli animali e i bambini, così istintivi e naturali: loro sono sempre se stessi, non conoscono finzione e un po' li invidio. (Vorrei anch'io essere meno costruita, poter dire a un cravattaro «Cazzo quanto sei ridicolo con quel pezzo di stoffa appeso al collo» o agli sbirri «Mi fate schifo, burattini servi dei servi»). Io ai domici-
liari non mi sento prigioniera, non vedo mura nella mia casa. Ci sto bene invece tra i poster dei miei idoli, i disegni fatti da me e, a lato del comodino, una parete con tante farfalle adesive che, ogni volta che le guardo, trovo meravigliose. Qui ho trovato il tempo per imparare a stare bene con me stessa e questa è ciò che mi fa sentire più libera. Non sono nemmeno più costretta ad uscire a fare la spesa o qualsiasi altra commissione che mi obblighi a stare in mezzo a tante persone tra le quali non manca mai lo stronzo di turno: quello che ti passa davanti al super-
mercato, la vecchina in posta che ci impiega due ore per pagare le bollette, la signora in panificio davanti alla fila che chiacchiera dei cavoli suoi col panettiere. Io posso non farmi la doccia per giorni e non devo truccarmi né usare vestiti scomodi e scarpe col tacco. Magari tu lettore ora stai pensando: «Io però posso andare dove voglio e quando voglio». Ma io ti rispondo che io pure, con la mente, posso fluttuare nello spazio infinito anche solo leggendo un libro. Non vado a piedi in centro, ma con la fantasia sono dentro mille altri mondi. Allora, chi è più libero tra me e te?
guardia e valorizzazione del territorio; cominciare a chiedersi dove e come costruiamo perchè una casa eco sostenibile vuol dire minor consumo energetico, bollette più leggere e meno emissioni Co2 (l'80% del fabbisogno energetico dobbiamo importarlo). Disincentivare l'uso di auto dato che siamo il paese Ue col rapporto più alto aut/ abitanti e siamo agli ultimi posti per qualità dell'aria. Dovremmo aumentare il trasporto pubblico ed incentivare le piste ciclabili per avere città più vivibili oltre che una
le valorizzano per rendervi conto! Dovremmo fermare le grandi opere, tipo Tavor o ponte sullo stretto, perchè adesso che ci sono pochi soldi è il caso di investire nella sicurezza del territorio, che per i due terzi è a rischio idrogeologico: spendere per sanare dopo alluvioni e fanghi costa il triplo e lascia il problema aperto. Abbiamo una varietà di territorio, paesaggio e "arte culinaria" che sono unici e che non valorizziamo a sufficienza, anzi, spesso andiamo verso cementificazione e lottizzazione selvaggia, abusivismo edilizio e devastazione delle coste. La nostra richezza ed il nostro petrolio si chiamano territorio e su quello dovremmo puntare. Una seria lotta all'evasione fiscale, che ormai supera i 150 mld di euro, dove l'evasore venga considerato un criminale e come tale vada trattato, ma la stessa ricetta andrebbe applicata a chi fa abusivismi e devastazioni ambientali. Ma più in generale invece di piangere per la crisi dovremmo guardarla come un'occasione per prendere strade nuove e cambiare approccio mentale, vivere in un'ottica di minor spreco e consumo e più in generale un maggior rispetto e solidarietà tra individui. Più in generale serve un approccio che esuli dallo sfruttamento e dal consumismo usa e getta, fermare l'uso dissennato di risorse e territorio rendendoci conto del fatto che per un po' di secoli questo è l'unico mondo dove vivremo e dovremmo quindi trattarlo meglio.
celox
Stop all'uso dissennato di risorse e territorio “La ricchezza dell'italia si chiama arte, tradizioni e natura. Su queste dovremmo investire se vogliamo cambiare” di Emanuele Celotto Il tempo passa e la crisi continua ad occupare il "centro del ring"; se dati e statistiche sono poco incoraggianti, la realtà è anche peggio. Di positivo c'è che i conti (a prezzo di grandi sacrifici perchè fatti troppo tardi) sono più o meno sistemati, ma gli effettti positivi li vedremo più avanti. Intanto le aziende chiudono e la produzione cala, lasciando quasi invariato il rapporto Pil-debito pubblico (il 3% che vincola l'Ue) e togliendo gran parte degli spazi di manovra. Di nostro abbiamo un'economia malata che per troppo tempo ha fatto leva sul binomio export-lira debole e non si è adeguata ai tempi: chi ha fatto profitti non ha reinvestito nell'azienda. I rimedi per ripartire sono le solite ricette vecchie e stantie: manovre spot tipo la presa in giro dell'Imu o il rilancio del mattone, che come ricetta aveva una sua validità un bel po' di anni fa, ma adesso è fuori luogo. Credo sia arrivato il momen-
to di tentare strade diverse, se vogliamo risultati che portano lontano e non guardino solo all'immediato. Dovremmo cominciare a puntare sulla green economy, sulle rinnovabili (la Germania con metà giornate di sole dell'Italia ricava quasi il doppio di energia dal sole), su recupero, salva-
minore spesa sanitaria (aria + sana = meno malattie da inquinamento). Siamo il paese con il più grande patrimonio storico-artistico del mondo e siamo al quinto posto tra i paesi più visitati; al primo la Francia, che avrà si e no un ottavo delle nostre richezze, ma andate e vedete come
L'Agolo della franca
«Ho vissuto della rosa» Un fiore, un abbraccio: a volte si ha bisogno di gesti che tocchino l'anima per ricordarci che siamo persone di Franca Merlo
dopodomani, e così per alcuni giorni. L’uomo era preoccupato, si domandava se per caso lui l’avesse ferita, o se stesse male; e poi, come poteva vivere senza la quotidiana elemosina? La rivide una settimana dopo, al solito posto, con il sorriso di sempre e allora le chiese: «Ma di che è vissuta, in tutti questi giorni?». Lei sorrise ancora: «Ma… della rosa !». A volte abbiamo proprio bisogno di un fiore per ricordarci che siamo importanti e non ci basta avere da mangiare e dormire, abbiamo bisogno del profumo di un’amicizia o anche solo di uno sguardo non superficiale, di un gesto significativo,
Ricordo per sommi capi un aneddoto che lessi molti anni fa. Non ricordo l’autore, so che narrava un fatto veramente accadutogli: una di quelle cose piccole e gentili che la televisione e i giornali non raccontano, ma a volte succedono davvero. Lo scrittore parlava di una donna che incontrava ogni giorno recandosi al lavoro; un lavoro importante, forse presso un ministero o un giornale. La donna invece era un’anziana mendicante. Lui l’aveva vista un giorno a un lato della via, in disparte, discreta, quasi timorosa di farsi notare. Eppure, chissà da quanti anni faceva quella vita e campava con le monetine dei passanti. Aveva conservato un’incredibile freschezza di spirito e così successe che ogni giorno, quando passava, lui dava la
monetina, lei dava semplicemente uno sguardo: ma di tale limpidezza e profondità, così penetrante dritto in fondo all’anima, che l’uomo ne rimaneva vitalizzato. Nel tempo, allo sguardo si aggiunsero poche parole: semplici, positive, un balsamo per l’anima. Ad un certo punto l’uomo si accorse di non poter più fare a meno della forza interiore di quella donna. Si accorse anche di non sapere quasi nulla di lei, se non che aveva molto sofferto nella vita e ciò nonostante aveva l’animo colmo di gioia. E un giorno, anziché la solita elemosina, le regalò una rosa. Lei lo guardò stupita, le tremava il labbro. Prese la rosa, lo guardò negli occhi, se ne andò senza dire nulla. L’indomani, al solito posto lungo la via, lei non c’era. Non venne neanche il
Un po’ di tempo fa mi è stato proposto di raccontare la mia esperienza di vita in alcune classi di scuola superiore, all’interno del progetto scuole de “I Ragazzi della Panchina”. L’idea mi ha subito allettato e allo stesso tempo mi ha fatto provare una sensazione di rifiuto. Mi ha affascinato perché mi viene naturale confrontarmi con i giovani e al tempo stesso riesco a mantenere le dovute distanze. Inoltre ho un carattere solare, cerco di sdrammatizzare e rendere più allegro tutto quello che la vita mi può offrire. Il senso di rifiuto, invece, derivava dal fatto che mi sarei dovuto presentare a quei giovani come persona coinvolta con “I Ragazzi della Panchina”. Penso che a condizionarmi un po’ siano stati anche i giudizi, o forse paure, nei confronti della sede. Qui vivevo situazioni pesanti e molto spesso non condividevo, né accettavo, i metodi utilizzati per affrontarle. In questo periodo, però, mi sono fermato diverse volte a parlare, a chiarirmi e a capire, anche
«Torno a scuola per raccontare la droga ai giovani»
Blunkie
La prima volta da “testimone” di un ragazzo della Panchina di G. B. con toni accesi, con Ada, Stefano, Chiara e Cristina, quattro educatori che mi ricordano un po’ i “Fantastici quattro”. Stefano “l’uomo di gomma” che, con la sua indole pacata e acuta, sa giostrarsi nelle varie situazioni con un sorriso e una battuta, senza dimenticare mai il suo ruolo. Ada, “la donna invisibile”, assorta davanti al computer, impegnata a portare avanti la baracca; al momento giusto scatena i suoi poteri per sistemare ogni
qualcosa che tocchi il nostro mondo interiore. Ebbene, questo episodio mi è tornato alla mente quando anch’io, qualche tempo fa, ho fatto un incontro inaspettato, che aveva lo stesso fresco profumo di quella rosa. La mia “rosa” me l’ha regalata un anonimo abbracciatore a Trafalgar Square, nel cuore di Londra. E’ una piazza colorata, giovane, piena di gente (anche perché vi si affaccia la National Gallery) e io a volte ci vado solo per gironzolare, osservando piacevolmente gli artisti di strada. Sono musicisti, giocolieri o acrobati improvvisati, mimi, suonatori di Scottish pipes, gente che disegna
problema, anche con modi severi, che talvolta rivedo in me. Chiara, “fiamma”, già dal primo impatto appare molto seriosa, orgogliosa, coerente ed anche parecchio infiammabile. Quando ci sono questioni riesce a fare terra bruciata. Quando c’è tranquillità, è molto okay! Il quarto elemento è Cristina, “la cosa”. Il primo giorno che l’ho vista mi sembrava uscita da un quadro naif! Da Haidi si trasforma in un attimo in “la cosa”: un
potenziale di forza comunicativa, ascolto e capacità di trovare il modo giusto di darti una mano o tirarti merda, con il sorriso. Questi continui scambi di vedute tra me e i quattro, mi hanno portato guardare la situazione in modo diverso: sentivo la loro fiducia e disponibilità nei miei confronti. Ciò ha fatto sì che cominciassi a dar fiducia anche io a loro e quando possibile, nel mio piccolo, la mia disponibilità. Per me è stato importante: ho cominciato ad abbassare un po’ le mie difese, ad ascoltare, a valutare altre idee e a mettermi in discussione. Veniamo al dunque: il 26 settembre ho tenuto la mia prima testimonianza a scuola. Ci siamo incontrati in sede io e Chiara. La scena aveva un che di comico. Chiara si asciugava i capelli perché aveva avuto un corto circuito a casa e nel mentre si sentiva un po’ di tensione, c’era poco tempo ed io cominciavo ad avere i primi sintomi di “panico da palcoscenico”. Una volta a scuola, Chiara era
per terra col gesso. Così quel giorno, tra una folla di tutte le nazionalità e di tutte le razze, ad un certo punto ho visto questi ragazzi, gli abbracciatori, gente che dedica una parte del suo tempo ad offrire un semplice gesto che a molti sembrerà generico, ma può racchiudere la magia di un momento diverso, nuovo, fuori dalla routine. «Sono troppo vecchia – pensavo - un giovane mi abbraccerebbe con riluttanza». Ma si è avvicinato lui, mi ha abbracciato con enfasi ed io ho ricambiato e sono rimasta per un po’ tra quelle braccia robuste e accoglienti, per le quali non ero una vecchia ma una persona. Sentivo che quel ragazzo amava la gente e regalava qualcosa di sé: era evidente. Allora mi sono lanciata nel mio inglese stentato e gli ho chiesto un’informazione. Ci siamo scambiati due parole: lui era italiano come me, si trovava a Londra da circa un anno per studio. Ci siamo sentiti per un momento come tra vecchi amici e ci siamo salutati con un sorriso che veniva su dal cuore. A volte abbiamo proprio bisogno di una rosa, qualcosa di delicato effimero e gentile, che butti all’aria i vecchiumi e ci permetta di aprire la porta segreta del nostro io, per scambiarci la gioia e il profumo e la novità di un incontro.
Io, cronista di una realtà straordinaria: il Comitato paralimpico italiano
luce del sole, spiegando anche le conseguenze che in generale si possono avere. Le mie incertezze ed emozioni si facevano in questo modo sentire di meno e la mia faccia tosta mi ha permesso anche di scherzare con i ragazzi. Le altre due ore le ho sentite un po’ più pesanti forse per la loro ripetitività. Nel secondo incontro con le classi c’eravamo io, Stefano e Gloria. Qui ho visto l’approccio diverso di Stefano: mi ha fatto sentire, da subito, poca tensione e la disponibilità immediata a confrontarmi con i ragazzi; in modo un po’ più leggero, ma arrivando sempre ai punti previsti: situazioni a rischio, cause e conseguenze. Il terzo giorno con Chiara è stato ancora una volta diverso: dopo avermi presentato, mi ha lasciato praticamente da solo a gestire la situazione. Ero un po’ spiazzato al momento, non sapendo come iniziare, ma dopo poco è stato normale ed i ragazzi mi hanno fatto tante domande. Attraverso quest’esperienza, pur trovan-
domi in certi momenti davanti a delle difficoltà, ho avuto il piacere di vivermi una crescita personale. Mi sono reso conto dell'esistenza di altre dipendenze, ho sentito raccontare di che cosa usano i ragazzi oggi per “sballare” e mi sono reso conto di come la nuova generazione stia venendo sù. Non si può dire “la mia era meglio” o “questa è meglio”. Una ci ha dato delle cose, l’altra delle altre. Bisognerebbe trovare una via di mezzo, un equilibrio nella comunicazione, sia reale, che virtuale. Prima poca, ora troppa! Fondamentalmente i problemi dei giovani di ieri sono gli stessi dei giovani di oggi, solo che in quest'ultimo caso sono più amplificati. Testimonianze come la mia sono molto positive: si possono trasmettere ai ragazzi emozioni e spunti di riflessione su alcune scelte di vita ed inoltre servono come strumento di prevenzione ed informazione sulle conseguenze fisiche e legali a cui può portare la tossicodipendenza.
«Mi reclutarono nel 2008. Quattro anni passati a raccontare le fatiche di atleti per cui lo sport è sinonimo di integrazione» di Paolo Facchin Mi pescarono dal cilindro, sempre troppo intasato, delle persone svantaggiate. «Vuoi lavorare per il Cip», mi chiesero. Risposi: «Solo se Ciop non si offende!». Pur essendo da più di sei lustri persona disabile, non avevo mai sentito parlare di questo Cip, acronimo di Comitato paralimpico italiano. E' l'organismo sportivo che coordina le attività degli atleti disabili in ambito regionale, nazionale ed internazionale. L'equivalente del Coni per chi da handicap è accompagnato. Mi sono così trovato a gestire il sito web regionale del Comitato Regionale Cip Friuli Venezia Giulia. Era un maggio già afoso, quello del 2008. A fine agosto andavano in scena le Paralimpiadi di Pechino. E sapevo poco di tennistavolo, basket in car-
Ronlin2
sciolta con i ragazzi, io invece avevo i primi campanellini d’allarme: i loro sguardi, l’ambiente della scuola, ormai dimenticato da anni, i ricordi del “Collegio Don Bosco”. Non ero così tranquillo come pensavo e davo a vedere. Arrivata Ada mi sono sentito un po’ più tranquillo: ora erano due le persone al mio fianco. Dentro la mia testa però continuavo a chiedermi cosa sarebbe successo; se sarei riuscito a non imbarazzarmi e
rozzina, vela. Discipline in cui erano impegnati diversi atleti friulani. Il primo di una serie di pianti emotivi fu quando Pamela Pezzutto, di Maron di Brugnera, vinse la medaglia d'argento nel singolo del tennistavolo in carrozzina. Meno male che avevo un'ampia scorta di fazzoletti perché Pamela, pochi giorni dopo, si ripeté, nel torneo a squadre. Altro argento e altre lacrime. Nei quattro anni successivi ebbi la fortuna di raccontare, fra gli altri, la scalata del ranking mondiale di Pamela, seconda sola ad una atleta cinese. E, per rendere l'idea: le atlete cinesi stanno al tennistavolo come Maradona sta al calcio. Quelle notti pechinesi furono un mix di gioia e senso di inadeguatezza: mi sentivo inesperto nel raccontarle e nel fare passare
il giusto grado d'emozione, attraverso i brevi articoli, che esse meritavano. Quattro anni dopo, passati fianco a fianco a Marinella Ambrosio, presidente regionale Cip, e raccontate le fatiche di molti atleti locali, la musica è cambiata. Ora so che Cip sta per: “una realtà straordinaria”. Cinque atleti e un arbitro friulani partirono per la paralimpiade di Londra a fine agosto 2012. In mezzo alle paralimpiadi però, cioè nel periodo mediatico non in onda, molte trame vengono tessute, paralleli d'un mondo collegati. Gli appuntamenti delle tre Gocce, simbolo del paralimpismo, a rappresentare coraggio, determinazione, uguaglianza,sono solo la punta, bella e gloriosa, di un iceberg la cui ampiezza di volume si solidifica col lavoro quotidiano. Attività sportiva agonistica, ma anche solo, per molti, attività fisica la cui medaglia d'oro è l'inclusione di persone che altrimenti sarebbero confinate a casa. E il benessere ci guadagna, specie laddove fisico e mente sono colpite da burrasche accidentali della vita. Un doppio binario dove treni viaggiano in parallelo ma che il macchinista Cip sa scambiare col risultato di farli confluire in un unico binario e agganciarli in un solo lungo treno dell'integrazione, dapprima lento, quindi con tempo e abnegazione rapido Eurostar, lanciato ormai per essere Freccia Rossa scoccante.
a rispondere nel modo giusto e più semplice alle domande che mi sarebbero state verranno poste. Dopo i preamboli, Ada ha preso in mano la situazione, cominciando a parlare in maniera soft ai ragazzi, soffermandosi su alcuni punti, riportati poi in uno schema alla lavagna e sui quali i ragazzi cominciarono a fare le loro domande. Abbiamo raccontato loro due modi di vivere la tossicodipendenza: quella nascosta e quella alla
panka news
HIVDAY
non solo il 1° dicembre
Lo scorso 2 dicembre, all'indomani cioè della Giornata mondiale per la lotta all'Hiv, a Pordenone si è svolta la prima edizione dell'evento “Non solo il 1° dicembre”. La scelta della data non è stata un caso. La manifestazione infatti, realizzata sotto l'egida della nostra associazione “I Ragazzi della Panchina”, aveva lo scopo di promuovere il messaggio che l'Hiv non può essere considerato un problema solo di un giorno, ma di tutti i giorni. Da diversi anni la nostra associazione fa parte della Consulta Nazionale per la lotta all’Hiv e di Nps Italia, Network nazionale per Persone Sieropositive. Questo ci permette di essere al centro di una serie di azioni e progetti miranti il contrasto della diffusione del virus. Consapevoli dell’importanza di fornire alla cittadinanza una informazio-
ne corretta, non pregiudizievole o giudicante, ma aperta e consapevole, abbiamo deciso di realizzare questo evento per contribuire ad aumentare la consapevolezza di quanto accade in merito alla diffusione del virus e conseguentemente di ciò che è necessario mettere mettere in atto per proteggere se stessi e gli altri. E' stata l'occasione così per fare rete con diverse realtà territoriali che hanno collaborato alla ottima riuscita dell'iniziativa: Comune di Pordenone, Azienda sanitaria del Friuli Occidentale n.6, Cooperativa Sociale Itaca, Associazione Sounds Like, Progetto Top, Cinemazero, I Tecknicolor, Side Motion Crew, Nps Italia Onlus. Lunedì 2 dicembre la giornata è incominciata fin dal mattino, al Cinemazero:
qui è stata proposta alle classi degli istituti superiori cittadini la visione del film-documentario “+ o – il sesso confuso” . Sei le classi presenti, per circa 120 ragazzi seduti in sala. Nel pomeriggio, dalle 16, l'evento si è poi spostato al chiostro della Biblioteca civica di Pordenone, in piazza XX Settembre e ha aperto le porte alla cittadinanza e alle scuole stesse. Diversi sono stati in questo caso i momenti culturali organizzati per capire e parlare di Hiv: Dj Set e Bloody Happy Hour; Distribuzione preservativi e informazioni per test hiv gratuito; Parkour by Side Motion Crew; Cose d’impatto by “I Tecknicolor”; Fumetti e disegni live. In associazione ave-
vamo preparato tutti i gadget e gli allestimenti per l’evento, con la partecipazione fattiva di quasi tutti i ragazzi che di volta in volta varcavano la porta della sede. Sono state realizzate delle lettere giganti, alte quasi due metri, utilizzate poi in loco per ricomporre la scritta Hiv. Su queste stesse lettere fatte in polistirolo, durante il pomeriggio dell'evento, sono state quindi apposte decine di fiocchi rossi firmati, simbolo della lotta al virus e dell’impegno di ognuno nella prevenzione della sua diffusione. Lunedì 2 dicembre, a Pordenone, tutti insieme abbiamo discusso, ci siamo confrontati e abbiamo cercato di capire e far capire la natura del problema Hiv. Abbiamo cioè alzato la voce perché “non solo il 1° dicembre” c’è bisogno della collaborazione dei tutti.
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
Tony Hisgett
CODICE A S-BARRE di Guerrino Faggiani
Rieccoci di nuovo a rincorrere un nuovo progetto in carcere. Non più con il teatro come abbiamo fatto nel 2011 con l'amico e scrittore Pino Roveredo, iniziativa fortunata che è piaciuta a tanti, ma questa volta per far parlare e scrivere i detenuti della Casa circondariale di Pordenone. “Codice a s-barre” è una redazione, in altre parole, che si tiene all'interno del carecere e che va a braccetto con quella che da anni lavora nella sede dell'associazione “I Ragazzi della Panchina”. Un gruppo di collaboratori in più, quindi, per il nostro giornale “Libertà di Parola”. E' questo un obiettivo che da questo numero ci siamo posti, accattivante certo e, sulla carta, dal grande potenziale, ma - diciamocelo pure sotto il lato pratico impegnativo e dall’esito incerto. Il contatto con i detenuti era la prima cosa in cui dovevamo cimentarci. Il rapporto con uomini e ragazzi cresciuti presto che vivono una simile condizione non può essere banale, quindi dovevamo mostrarci sintonizzati non solo con il nostro, ma anche con il loro mondo. Questo aspetto innanzitutto incideva sul buon esito di tutto il progetto. In più la nostra speranza era di riuscire a far dimenticare ai detenuti il fatto che, dopo le tante belle parole dei nostri incontri, noi ce ne tornavamo a casa alla nostra bella vita, mentre loro tornavano alle loro celle. Dovevamo fare in modo che lo facessero con qualcosa di nuovo in mano. Portare la nostra idea della loro valutazione era per noi come affrontare un esame di maturità: non sapevamo se eravamo nel giusto a credere che per i detenuti avere la possibilità di far sentire la propria voce tramite il nostro giornale e tramite la pubblicazione finale di un libro, che raggrupperà tutto il materiale prodotto dall’attività, era un’opportunità da valutare e non da scartare a priori. Scrivere non è facile per tutti, alcuni sia pur con basi solide non ne vogliono proprio sapere. Forse intimoriti dal fatto che così facendo svelano la propria personalità e modo di pensare, o magari li attanaglia la paura di dire stupidaggini, oppure semplicemente perché pensano di non avere niente da dire. Mentre in realtà non è così,
tutti noi parliamo, e lo scrivere non è altro che il parlare espresso in altro modo. Sono stati questi dei timori però che, alla prova dei fatti, non hanno nemmeno sfiorato gli aspiranti scrittori. Loro hanno deciso di venire a vedere di cosa si trattava e noi, mentre i detenuti ascoltavano i nostri primi approcci non vedevamo in loro muri da abbattere ma piuttosto occhi che chiedevano di essere convinti. Dopo un primo: «Boh.. vediamo», si sono buttati e sono partiti con i primi scritti. Molte le storie personali provenienti da culture diverse, che sono stati ottimi presupposti per scrivere cose interessanti. Poi anche il contesto in cui vivono non è di tutti i giorni. Anche quest'ultimo aspetto ha avuto un peso nella loro decisione di aderire al progetto, ovvero che non servivano storie eclatanti, ma bastava raccontare la loro quotidianità: essa risultava già di per sé giornalisticamente valida in quanto sconosciuta ai più: «Per raccontare a chi non lo sa quel che è solo normalità», per citare Paolo Conte. Poi lungi da noi l’idea ben chiarita sin dall’inizio di fare gli avvocati del diavolo: il nostro intento era e sempre sarà quello di aiutarli a cimentarsi nello scrivere senza altri scopi, solo per il semplice piacere di farlo, e chi trova godimento da tale semplice concetto è dei nostri, spazio indistintamente a chiunque. Con una penna in mano non ci sono buoni o cattivi, galantuomini o quaquaraquà, siamo tutti solo gente che si esprime. In cambio noi offriamo loro la nostra “ingiudicabilità”, che per chi vuol intendere è un tesoro. Il giudizio è una cosa molto complessa, che non può basarsi su semplici concetti tratti dalla superficie delle ragioni. Bisogna andare molto a fondo solo perché abbia un minimo di legittimità. Ho sentito dire dal compianto poeta Andrea Zanzotto, che «chi non ha capito tutto non ha capito niente» e lui, come è facile intuire visto lo spessore del personaggio, si collocava tra quelli che non avevano capito niente. Sicuramente a molti di noi è capitato di vedere soprattutto nei bar di paese, quel simpatico cartello in cui c’è scritto: «L’intelligente sa poc, el saggio sa nient, el mona sa tut».
Pensieri sospesi su una tela di ragno «Codice a s-barre dà voce a noi detenuti, ma io di storie da raccantare conosco solo la mia» di Adriano E’ di venerdì che ho conosciuto “I Ragazzi della Panchina”. Sono venuti in carcere a Pordenone a presentarci il progetto chiamato: “Codice a s-barre”. Dà la possibilità di dare voce ad un detenuto direttamente dal carcere, per raccontare e raccontarsi. L’idea mi è parsa buona e mi sembrava di avere anche delle cose da dire! Ma ora…! Non so!... Rifletto, penso, non trovo un filo conduttore, una storia. I sentimenti sono sospesi ad una tela di ragno, è pericoloso toccarla. Credo che alla fine non scriverò, non ho titoli di studio, non mi sento in grado di trovare cose interessanti. Penso. Mi perdo. La mente scivola via. Ho sempre amato il venerdì, un ex artigiano come me è sempre occupatissimo e senza festivi ma, con gli anni, ho imparato a staccare e a concedermi dello sport e la passione per la montagna. Il venerdì sera pianificavo le uscite, sentivo gli amici. E’ strano ora qui, gli amici sono lontani; è strana anche questa lontananza, si vive in sospensione, in attesa. Si attende una lettera, un messaggio, un qualche cosa che confermi che nonostante tutto qualcuno ti aspetta. Ne
hai bisogno all’inizio, ma poi sempre meno. Sai che con la colpa, l’arresto, i giornali, tutti faranno un passo indietro e si allontaneranno. E’ normale, devono proteggere l’immagine propria e della famiglia, ma penso che poi un giorno si ricorderanno ancora di te, non per il reato commesso e per i giornali, ma per le ore, le giornate, i progetti fatti insieme. E allora aspetti e inizi a dare al valore temporale di questa attesa un valore di sentimento di colpa e di vergogna: rimangono così solo dolore e nostalgia. Dopo qualche tempo speri addirittura che nessuno ti scriva più. Non sai più dove trovare le forze ed il coraggio per vincere l’imbarazzo e rispondere. Scossa da questi pensieri la tela di ragno vibra pericolosamente, mi devo distrarre, non posso pensare troppo, i ricordi agitano e rimestano le emozioni. Sono pur sempre padre. Sono pur sempre figlio. Sono pur sempre marito. Vorrei comunque poter sostenere la famiglia, ma qui… La mente scivola via, si riparte sempre, in un circolo senza soluzione, ad aggiungere un altro filo alla tela di ragno!
L’alcol l’ho conosciuto in giovane età, all’incirca quando avevo 14 anni e ne ho fatto esperienza frequentando le discoteche. Il sabato sera e la domenica pomeriggio non tardavo a presenziare in questi locali, per me il ballo era l’unico divertimento. Da li ho cominciato “l’avventura” con l’alcol: bevevo fino a non reggermi in piedi e molte volte mi svegliavo già a casa. L’alcol purtroppo è stata una causa di molti miei problemi, tra quali anche quello di essere qui in carcere. L’alcol tira fuori un mio lato molto cattivo, divento molto impulsivo e non accetto nessun discorso, commento, consiglio dagli altri perché, quando sono sotto il suo effetto, ritengo di aver ragione su qualsiasi cosa. Questo problema, purtroppo, me lo porto dietro dall’età di 14 anni ed ora ne ho ormai 38. Non ho mai trovato nessun riferimento per affrontare e combattere questo problema perché fino a poco tempo fa non lo ritenevo tale e in questo modo “alzavo le spalle”. Da questa carcerazione, cioè già da 9 mesi circa mi sono rivolto al Sert, in particolare alla dottoressa Savoini, che una volta alla settimana viene qui in carcere. Ho sostenuto un colloquio con lei e le ho spiegato il mio problema, poi, assieme a lei ho fatto un test per capire com’era la
«In carcere ho mia battaglia c
Il percorso di consapev dalla dipendenza di un ritrovata con moglie e fi di Emanuele Garbin mia situazione. Mi sono così reso conto che la mia era grave, perché ciò che non era positivo, i miei problemi li nascondevo nell’alcol; pensavo di risolverli perché l’alcol mi rilassava e non mi faceva pensare, ma in realtà non li affrontavo affatto. Dopo questo momento la dottoressa mi ha incoraggiato a frequentare le riunioni che si tengono qui all’interno con il don e con Mario, due persone che tengono gli incontri anche all’esterno per tutti coloro che hanno il mio stesso problema. Ho iniziato così la mia lotta contro l’alcol. Per prima cosa ho smesso di comprare il vino per berlo qui in cella, poi ho parlato con gli altri ragazzi, con cui condivido il mio spazio qui, perché mi dessero una mano ed evitassero di comprarlo anche loro. Mi trovo in cella con 9 persone,
Pensieri in parole
CONSIDERO VALORE Da una poesia di Erri De Luca alcune riflessioni nate nel laboratorio della redazione di Severino Peter Antonio Guzman Considero valore tutte le ferite, perché da esse si imparano tante cose e non si rifanno più certi errori. Ma le ferite guariscono con il tempo mentre le cicatrici no. Credo che a cia-
scuna ferita diamo un valore in base a quanto grande o piccola è. Io sono stato tante volte ferito, da alcune sono guarito da altre no. E non c'è ferita più grave di quella che
non si vede, quella che porti dentro di te e che cerchi in tutti i modi di non far vedere, di nascondere, dalla quale guarire da solo.Ecco, considero valore tutte le ferite, anche il pianto di un bimbo, anche le lacrime di una mamma, il sorriso di uno sconosciuto. Penso che già di per sè la vita sia una ferita, che noi giorno dopo giorno cerchiamo di risanare, di alleggerire e di portare avanti nel nostro piccolo.
di Nadir Considero e do grande valore alle ferite della vita. Ti fanno
crescere molto. Io ad esempio sono uno che ha subito tante ferite, prima da parte della mia famiglia e poi per la perdita della persona che amavo con tutto me stesso, e queste cose mi hanno fatto crescere tanto. Poi le delusioni degli amici, perché quando entri in un posto del genere capisci quali sono i tuoi veri amici. Diciamo che riconosci le persone che ti vogliono bene veramente per quello che sei e non per quello che hai. Quando sei fuori e hai una vita, diciamo, con denaro macchine e via dicendo puoi avere tante persone finte vicino a te. Infatti io ora sono
o iniziato la contro l'alcol»
volezza e redenzione n detenuto e l'armonia figli compreso me, e 6 di questi, d’accordo con me, non comprano alcolici. Purtroppo non si può pretendere che tutti siano dello stesso parere. Ora ho cominciato con una terapia che mi è stata consigliata dalla dottoressa e adesso mi trovo bene. La volontà e soprattutto la voglia di uscire da questo problema in me è grandissima soprattutto per due motivi. Il primo è che con mia moglie ho trovato un dialogo, mentre prima questo non c’era ed inoltre ascolto molto volentieri i suoi consigli. Il secondo motivo è che mi sento molto bene con me stesso sia di salute, sia moralmente. La mia paura ora è per il domani fuori di qui, perché qui dentro l’alcol lo combatti bene, basta poco, mentre fuori è tutta un'altra cosa. Fuori, infatti, lo trovi ovunque e sei portato a consumarlo con molta facili-
diffidente su tutto. Ho capito anche qui dentro tante cose. Quando ho fatto otto mesi di isolamento è stata una esperienza un po’ toccante e anche troppo. L’unica cosa ora che vale per me è la sincerità e la fiducia e sinceramente vorrei scrivere più dettagli ma mi servirebbe più tempo.
di Rafael “Considero valore quello che domani non vale più niente.. e quello che oggi vale ancora poco” Per molto tempo ho considerato davvero un valore, dare tanta importan-
L'utopia delle certezze e il silenzio delle istituzioni
tà. Ho iniziato qui in carcere a combattere la mia guerra contro l’alcol e più convinto che mai la continuerò anche fuori, andando avanti per questa strada. Per me l’importante sarà trovare una struttura e soprattutto la mia famiglia a cui far riferimento, solo così mi sentirò più sicuro. Io so però che mia moglie ed i miei figli ci saranno per me, perché ne abbiamo parlato molto quando ci vediamo a colloquio. Loro sono d’accordo e mi sosterranno nel continuare a frequentare il Ser.t anche quando sarò fuori. Prima loro erano soggetti ai miei scatti d’ira, quando ero bevuto me la prendevo con loro ogni volta che cercavano di dialogare con me. Ora mia figlia, che ha 17 anni, vedendomi cosi sereno e disposto al dialogo, mi dice sempre «quant’è bello vederti così». Anche per questo, una volta fuori, continuerò il mio percorso assieme alla mia famiglia, decisa a combattere l’alcol con me. Voglio finire questo mio scritto dicendovi che piano piano, con passi da formica, senza accorgerti riesci a fare passi da elefante. L’unica cosa che conta nella vita è riuscire ad uscire dai problemi che tutti i giorni affrontiamo nel migliore dei modi, senza buttarsi in situazioni che te la possono rovinare, come nascondersi dietro un bicchiere di vino.
Oggi tutto sta crollando sotto il peso della crisi occupazionale e morale “Casa, lavoro, vita”. Queste tre parole rappresentano quanto di più importante si possa desiderare in questo periodo: una propria casa, un lavoro sicuro, una vita serena. Ma per molti queste cose ormai non esistono più, sono un'utopia, e i traguardi di sicurezza che si pensavano certi sono stati messi tutti in discussione. In seguito a questi problemi poi possiamo affiancarne altri di carattere familiare, gli affetti e i legami possono venire a mancare. Per ognuno di noi allora saranno necessarie tutte le energie possibili per riuscire ad affrontare l'insieme di queste difficoltà. Oggi più che mai ci troviamo ad affrontare tantissimi problemi e tantissime privazioni che, se solo qualche anno fa qualcuno c'è ne avesse parlato, gli avremmo dato del matto. Ma purtroppo nella vita non c'è nulla di sicuro e quelle certezze che noi non avremmo mai messo in discussione, casa lavoro e vita, ora non ci sono più. Si sono creati nuovi poveri, molti nuclei familiari hanno perso il lavoro e di conseguenza la casa. Alcuni addirittura hanno conosciuto
il dramma del divorzio e si sono distrutte tante famiglie. Quello poi che più di tutto è disarmante è la totale assenza delle istituzioni, quelle che dovrebbero essere delle certezze dei punti fermi e un rifugio per tutti. Continuamente si apprende di suicidi da parte di imprenditori e commercianti, persone che credevano nel loro lavoro e in quello dei loro dipendenti, ma che sono stati abbandonati a loro stessi con problemi più grandi di loro. Bisognerebbe fare tesoro della storia, dove in momenti estremi come questi ci si affidava a rimedi estremi. Gli antichi romani ad esempio, con l’impero in preda alla corruzione a invasioni barbariche e ribellioni varie, nel quinto secolo a.c. richiamarono a Roma e per ben due volte un ex comandante ritiratosi a coltivare la propria terra. Era Lucio Quinzio Cincinnato, figura emblematica e al di fuori di ogni corrente politica: lo nominarono dittatore a tempo, per ripulire Roma e ripartire così con nuova linfa. Chissà forse prima o poi ne arriverà uno anche da noi. Ne avremmo davvero bisogno.
za alle cose futili, e nel frattempo quelle importanti mi passavano accanto senza che io me ne rendessi minimamente conto. Adesso col senno di poi.. mi è facile individuare quali sono le "futili" e quali le "importanti".. Forse lo era anche allora. Ma ero così concentrato su me stesso, ed egoista allo stesso tempo, da non vedere il risultato negativo delle mie azioni. Parlo della mia dipendenza con le sostanze, di tutto quello che era "male", per me stesso e per chi mi stava vicino! Questo pensiero mi riporta al titolo sopra.. Se considero un valore "quello che domani
non varrà più niente.." Purtroppo quando si ha a che fare con sostanze, non sempre la risposta è scontata, e nel mio caso in specifico non so ancora quale risposta dare. O forse è solo paura, paura di dare quella sbagliata!
Così cresciamo e impariamo ad apprezzare ciò che in passato magari abbiamo avuto, ma ignorato nella sua vera importanza. La vita ci insegna sempre chi siamo e che cosa ci occorre per stare bene, bisogna amarla e dare il giusto valore a tutto ciò che ci circonda come l’amore, la libertà, che quando la perdiamo ci accorgiamo di quanto sia preziosa, e anche le piccole cose, le più banali, che hanno un valore davvero speciale se impariamo ad apprezzarle. La vita è bella e le sofferenze ci fanno capire il suo inestimabile valore. Viva la vita.
di L. D.
di Marcel Cotet Considero valore tutte le ferite, perché ci insegnano la vita, le debolezze e cosa sia giusto. I veri valori si capiscono solamente scoprendone il prezzo, come quando perdiamo qualcuno che amiamo o facciamo degli sbagli.
In attesa della libertà «Dopo le sbarre: pizza, Coca.cola e un bacio a mia madre» di Rafael Un giorno quei cancelli si apriranno, non so quando e nemmeno come, ma questo accadrà. Un attimo dopo aver realizzato che la tanto sognata libertà sarà tra le mie mani, credo che mi metterò a correre fino a quando rimarrò senza fiato. Correrò, non per allontanarmi dal carcere, che comunque nel bene e nel male mi lascerà sempre qualcosa, ma per sentire l’aria accarezzarmi il viso, sarà
un’aria diversa, l’aria della libertà! Quando l’adrenalina comincerà a placarsi mi renderò conto di avere di nuovo la facoltà di andare dove voglio senza che nessuno mi dica cosa fare: un sollievo! Il secondo pensiero forse sarà quello di scegliere un locale, uno qualsiasi, dove poter mangiare un bel “trancio” di pizza con una Coca Cola fredda. Forse una cosa di poco conto, ma che mi man-
Qui il tempo per l'amore si è fermato «Spero che mio padre mi aspetti» di Marino Casa libertà amore: sono tre parole bellissime, ma per il momento qui in carcere non valgono niente. Io sogno spesso di essere a casa con mio padre e i mie fratelli e sogno anche quella libertà che oggi come oggi si dimostra molto importante. Adesso che sono al castello mi accorgo che mi manca molto e soffro la lontananza da casa come
ogni volta che si parte per un qualsiasi posto e che si ha come punto fermo il ritorno, e tante volte divento triste. La mia paura è quella di non rivedere più mio padre, di non poter più dargli un bacio, una carezza, di non sentire più la sua pelle ruvida da novantenne che mi sfiora il viso. Mi manca la conversazione con lui, passavamo giorni seduti
Orgoglioso di essere un poliziotto penitenziario Baschi azzurri per garantire speranza ai detenuti Testimonianza anonima Il Corpo di polizia penitenziaria - e questa è la parte del tutto più semplice da esporre - è nato nel 1990 dalle ceneri del Corpo degli agenti di custodia, a seguito di una più vasta ed epocale riforma che ha cambiato il sistema carcerario italiano. Polizia penitenziaria non è solo però “Corpo di polizia dello Stato militarmente organizzato”, i cui compiti ed interventi si esauriscono alla mera vigilanza degli istituti di pena,
ma gli stessi sono mirati anche, ed oggi più che in passato, alla rieducazione e reinserimento nella società del condannato. Il motto che sta a pie’ dello stemma araldico del corpo recita “Despondere spem munus nostrum”: ovvero il nostro compito è garantire la speranza. Esso già da sé racconta quanto veramente debba essere incisiva la partecipazione del poliziotto penitenziario nel pianeta carcere, il quale assieme alle
ca tanto. Quando una persona esce dal carcere, che la sua detenzione sia stata lunga o breve, gli sembra tutto diverso: i gusti, gli odori, i colori, le cose più banali a cui prima non dava importanza, all’improvviso si trasformano; sono sempre le stesse, ma viste da una prospettiva diversa, hanno tutto un altro sapore. Non vedo l’ora poi di arrivare a casa mia, anche, per fare una cosa che desidero da un bel po’ di tempo: baciare la donna più importante per me ora, mia madre. Lo farò per nostalgia, per riconoscenza, per scusarmi e per ringraziarla di tutto quello che ha fatto e continua a fare per me, aspettandosi ben poco in cambio. Tante volte le parole non sono sufficienti per esprimere tutto ciò che si vuo-
le; spero con questo piccolo gesto di riuscire a dirle più cose possibili. Può sembrare il discorso di un “mammone”, ma credetemi è solo riconoscenza. Le mie fidanzate sono arrivate e se ne sono andate, potrei dire la stessa cosa degli amici, che nel momento della “festa” non mancavano mai, neanche uno. Ora, più il tempo passa, più percepisco che attorno a me ci sono pochissime persone su cui posso contare, anche solo per una parola, una lettera o un saluto, cose che a volte possono valere tanto, pur essendo piccole e gratuite. Infatti, la lezione che vorrei che mi rimanesse impressa da quest’esperienza di reclusione è quella di avere un po’ più di umiltà, riuscendo a dare senza aspettarmi qualcosa in cambio.
a parlare della sua gioventù, della guerra e della fame che ha patito dopo che era finita. Anche per noi, famiglia numerosa di sette fratelli, non è stato facile e questo distacco da casa l'ho già vissuto da bambino, quando stavo in collegio. Fu un'esperienza traumatica, vissuta non positivamente, ma obbligatoria, dato che avevo un problema al braccio sinistro a seguito di una poliomielite avuta da piccolissimo e solo così potevo avere le cure speciali che mi servivano. Eravamo in tanti in famiglia e i soldi erano pochi, per cui il collegio per me e per un altro dei miei fratelli è stata la soluzione migliore. Almeno oltre alle cure avevamo un pezzo di pane ed una minestra tutti i giorni e tutto senza vergogna per la mia
famiglia e le sue difficoltà. Per quanto riguarda l'amore decisamente non so veramente cosa sia, se parliamo di un amore familiare sì, so cos'è, ma se parliamo di un amore fisico tra due persone, alla mia avanzata età di 52 anni, non so veramente cosa sia. Non ho mai avuto una esperienza vera. Si sono stato con una ragazza per circa quattro anni, ma non ho mai sentito quell'amore di cui si parla tanto, tipo colpo di fulmine o di quando la tua squadra del cuore fa gol in una finale di coppa del mondo. Chissà forse non è troppo tardi per sapere cosa sia questo amore, si dice che c’è sempre tempo. Ma per ora no, sono qui e per il momento il tempo è fermo, per l'amore per la casa e per la famiglia
altre figure professionali operanti si attiva e si dedica al trattamento penitenziario rivolto al detenuto. E' un lavoro che è una scelta: oltre alle leggi e ai regolamenti che ne stabiliscono organizzazione, compiti, qualifiche e funzioni, è infatti anche un modo di essere. Un “basco azzurro” ha un non comune “senso di appartenenza”, che è un po’ come un “virus” che entra lentamente nella tua parte essenziale, dalla quale trae nutrimento e, può sembrare assurdo, evolvendosi si stabilisce nell’animo e nella persona, rilasciando la forza ed energia per portare a termine la nostra missione. Perché di missione si tratta. Sfido chiunque infatti ad auto infliggersi un ergastolo. Non è facile! E’ un cammino, a volte iniziato casualmente o per necessità, che però ti proponi ogni giorno di proseguire, con fierezza,
perché non puoi fare a meno di ciò, anche nella consapevolezza che durerà anni, una vita, spesso svolta per intero in “galera” in prima linea, in trincea gomito a gomito con il collega che nel momento critico, difficile, ti ritrovi al fianco. Anzi, in quel momento hai proprio la sensazione di essere in tanti, tutti in quella bella uniforme blu. Diversi anni fa, appena arruolato, sentivo parlare, tra colleghi anziani e che di tempo in galera ne avevano trascorso tanto, di “carcerite”, come fosse una malattia degenerativa che intacca il poliziotto penitenziario e lo porta ad ingrigirsi ed intorpidendolo, a non riconoscersi in alcun ruolo. Poi ho scoperto che l’appellativo, così crudo, non era altro che quel virus che sarebbe, con il tempo, diventato parte di me. Firmato, un poliziotto penitenziario orgoglioso di esserlo,
INVIATI NEL MONDO
Nei campi di sterminio dove non esiste perdono Sotto quelle torrette, fin dentro alle camere a gas riecheggiano ancora le grida dei carnefici, la paura e l'orrore di un'umanità umiliata e annientata di Guerrino Faggiani Mauthausen, sulle guide turistiche si potrebbe leggere: ridente località dell'Oberdonau nell’alta Austria, a 25 km ad est di Linz ai piedi di dolci colline sulle rive del Danubio. Ma sarebbe tutto inutile perché gli stranieri passerebbero di là comunque per ben altro motivo. Come abbiamo fatto noi, ad esempio, compagnia di italiani in viaggio, che prima di dedicarci alla ricerca del famoso campo, ci siamo concessi una pausa in un bar con l’idea di un caffè all’italiana. Abbiamo preso posto in un locale carino, proprio davanti al Danubio. A parte il caffè tutto bene, avventori affabili verso noi visitatori, e i gestori: moglie e marito in buona età, davanti a tutti calati nella parte dei rappresentanti locali cortesi e gentili. Prima di andarcene abbiamo pensato di chiedere informazioni sulla strada da prendere, e per tagliare corto vista la diversità di lingua, siamo andati da loro con un iPad in mano aperto sul portale del campo di concentramento. La signora, non appena ha messo a fuoco l’immagine, si è gelata. Con un’occhiata al marito rimasto in disparte gli ha detto: “lager”. Non c’è proprio speranza per il loro bel paesino, sarà associato per sempre a quello che è successo nel campo. Per sempre perché quello che ammutolisce e rimane impresso non è nemmeno tanto il numero delle persone che vi hanno trovato la morte (si
fa per dire) che può anche impressionare, ma come altre ecatombe nella storia, quanto la crudeltà unica con cui sono state perpetrate le soppressioni. E questo al di là di qualsiasi numero annichilisce tanto da non poter essere dimenticato. Una visita al lager è una esperienza forte e totalitaria che lascia segni indelebili. Mai ci saremmo aspettati una cosa simile mentre salivamo una strada tra le colline in cerca del campo, ad ogni curva si aprivano panorami da cartolina tra boschi freschi e prati verdi illuminati dal sole. Era una bellissima giornata d’estate e in macchina regnava quasi uno spirito da pullman parrocchiale in cui si canta “O bella ciao”. Fino a quando, da dietro ad una duna, è spuntata una delle torri di guardia. E li l’umore è cambiato, una brutta sensazione di disagio mescolata a insicurezza ci ha percorso ed accompagnato fino a sotto il portone d’ingresso. Con gli occhi sempre incollati sulle possenti mura di cinta in blocchi di granito, protette alla sommità da filo spinato allora percorso dall’alta tensione. Le
lugubri e famigerate torrette di guardia che troneggiano la fortezza, che ancora oggi a guardarle incutono angoscia, le si vedrà sempre, in ogni angolo del campo c’è una torretta che ti guarda. Fa male a immaginarle con dentro caschi scuri di soldati scuri, mitragliatrici con il colpo in canna che spuntano dalle finestre puntate verso il basso. Ed i potenti fari che usavano loro quando scendeva la notte, con cui rincorrevano i muri di cinta ed ogni piccolo rumore. Ti immagini cani rigorosamente pastore tedesco, predatori al guinza-
glio di guardie armate che pattugliano con le torce. Male male a immaginarlo proprio davanti ai propri occhi dove è successo veramente. Così come appena oltrepassato il portone d’ingresso che dà al primo cortile, dove sul “muro del pianto” venivano schierati i nuovi arrivati. Nello spiazzo pare di sentire ancora urla in tedesco sputate da militari con stivali lucidi e teschi sulle divise. E poi, dopo il secondo portone, la “Porta mongola”. Si entra con i propri occhi ove tante anime dannate hanno sofferto. Le docce, le latrine, i forni crematori davanti ai quali non si trovano parole. C’era un fiore poggiato da una pietosa mano su una delle barelle di ferro su cui venivano bruciati i corpi, un fiore delicato contro il forno per uomini. Nelle buie camere a gas sotterranee con le piastrelle sui muri come nei mattatoi, immagini persone nude mentre rinchiuse come topi sentono i primi soffi di gas uscire dai rubinetti sul soffitto, senti la paura e le urla delle donne, quelle più fine dei bambini, il gas.. Le porte sono basse e bisogna chinarsi per entrare, ma fa niente, tanto nessuno ci va là dentro, si fa solo capolino con la testa, fino a quando satollo di orrore te ne vai in punta di piedi con la testa mozzata di netto. Alla fine si lascia il campo tramortiti da tanto impietoso incalzare di atrocità, bisognosi di tornare alla vita nostra, quella fuori da quel maledetto contenitore di cose inenarrabili. Dimenticare? No non è possibile. Perdonare? Ho sentito una reduce dire che non si può e non si deve perdonare. Primo perché nessun carnefice lo ha chiesto, poi perché il perdono renderebbe tutto ammissibile e legittimo, e infine perché non si può farlo senza chiederlo a chi non c’è più.
PANKAKULTURA “Pane di casa e latte appena munto/Dicea: "Bimbina, state al fuoco: nieva!/Nieva!" E qui Beppe soggiungea compunto/"Poor Molly! Qui non trovi il pai con fleva!"” (Giovanni Pascoli) L'avrete forse imparata alle scuole medie, qualche strofa, portata magari agli esami di maturità, odiata e poi dimenticata. Eppure “Italy” di Giovanni Pascoli, scritta nel 1904, ispirata ad una storia vera, alla storia dell'emigrazione italiana tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, è una poesia che oggi riempie i teatri e fa uscire il pubblico con il magone in gola. A Pordenone è successo il 29 ottobre, a poche settimane dalla tragedia di Lampedusa: Giuseppe Battiston ha portato sul palcoscenico del Teatro Verdi la poesia di Giovanni Pascoli, Gian Mario Testa lo ha accompagnato con le sue canzoni, in un matrimonio perfetto capace di far arrivare la poesia, la storia, l'oggi. Prima che gli artisti si mettessero all'opera abbiamo avuto il piacere di incontrarli nei loro camerini in compagnia di un bicchiere di Refosco per capire qualcosa in più di loro e del loro lavorare assieme. E così scopriamo che si sceglie di portare in scena uno spettacolo come “Italy” perché non basta indignarsi a parole, che abbiamo bisogno di meno semplicismo e che Battiston non ama affatto essere toccato. Giovanni Battiston e Gian Maria Testa di nuovo insieme per un nuovo lavoro: il precedente è stato fortunato? B: Si, anche questo! Ogni sera si crea un legame con il pubblico molto forte. Mentre eravamo in tournè con “18000 giorni” viaggiavamo molto e ci confrontavamo con quello che accadeva. Era il periodo in cui ci sono stati i respingimenti verso la Libia da parte del nostro Governo e ci siamo domandati: quest'Italia è già difficile vederla come un paese che accoglie, adesso è diventata un paese che nemmeno raccoglie? Volevamo manifestare a nostro modo il nostro dissenso: volevamo dire che queste cose non possono accadere a nostro nome, non a nome delle persone per bene. Abbiamo scelto di far parlare chi non si ascolta più: i poeti, un poeta in particolare, Pascoli, per ricordare che la storia si
L'Italy di Battiston e Testa, migranti di ieri e di oggi Il duo di nuovo sul palcoscenico per raccontare l'Italia. A Pordenone la poesia e le parole di Pascoli lette da Battiston e la musica e la chitarra di Testa di Sara Rocutto
ripete e dobbiamo imparare dalla storia. T: Questo poemetto di Pascoli non lo conoscevo, avevo il pregiudizio di studente, mi ero fermato a “La cavallina storna”. Ho capito fino in fondo “Italy” sentendolo leggere da Giuseppe: letto da lui ho capito che è bellissimo. Le canzoni hanno solo il compito di alleggerimento, perché la musica è “parole con le ali”. Il connubio che abbiamo creato fa si che la gente riempia i teatri e stia lì a sentire un poemetto di Pascoli del 1904. Ogni volta usciamo stupiti. Stupiti che arrivi, che si emozionino gli altri come ci emozioniamo noi: esco convinto che se questo accade una speranza di cambiamento c'è. Testa è vero che lei cerca di togliere, scarnificare il suo linguaggio? T: Si, ci provo. Lavorando con uno come Giuseppe, che leggendo una poesia dà ad ogni parola significato e significante, ti fa rendere conto che la tendenza dev'essere quella non al semplicismo, ma alla semplicità. Si usa spesso il lin-
guaggio tecnico per escludere gli altri, ogni piccola comunità utilizza il suo linguaggio per escludere. La poesia fa il contrario, a patto che qualcuna te la insegni. Lavorare con Giuseppe mi ha insegnato questo, a semplificare ancora di più. Battiston: ora la gente la riconosce? B: Sono io che non riconosco la gente e il mio primo riflesso quando mi guardano è “ma cosa vuole?”. Non guardo e non tocco il prossimo, ma il prossimo si sente autorizzato a darmi delle grandi pacche sulle spalle. So che fa parte del mio lavoro il rapporto con il pubblico, il rapporto però, non il contatto. Testa in “Forse qualcuno domani” lei canta “perché un nome è perduto per sempre se nessuno lo chiama”. Quanto conta dare alle cose il giusto nome? T: Quando gli italiani arrivavano a Ellis Island se avevano un cognome un po' complicato glielo americanizzavano subito, come noi continuiamo a chiamare
Mohamed chiunque immaginiamo arrivi dal Marocco o dalla Tunisia: magari si chiama Yosef o ha qualche altro meraviglioso nome che noi non chiamiamo. Lì comincia la spersonalizzazione: perdere il nome significa perdere tutti quello che sei. B: Rimani un numero finché non hai il mondo a darti un significato. In un epoca in cui i nostri m
Curricula d'artista Giuseppe Battiston è nato a Udine nel 1968, lavora per il teatro e per il cinema. Dal 1990 ad oggi ha preso parte a più di 40 film. In questi mesi lo troviamo nelle sale con due film in contemporanea: “Zoran”, il mio nipote scemo di Matteo Oleotto e “La prima neve” di Andrea Segre, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2013. Tra i vari riconoscimenti conferitigli ci sono tre Premi Donatello come miglior attore non protagonista e il Premio Ubu per l'interpretazione nello spettacolo teatrale Orson Welles' roast, un monologo dove ripercorre la vita del grande attore americano. Nel 2011 con “18Mila giorni. Il pitone” inizia la collaborazione teatrale con
Gianmario Testa, classe 1958, è nato a Cavallermaggiore, in provincia di Cuneo, è chitarrista e cantautore. Più noto al pubblico straniero che a quello italiano pubblica il primo album nel 1995 con un etichetta francese. Ha registrato da allora altri sei album. Nel 2006 vince il Premio Tenco con “Da questa parte del mare”, un lavoro completamente dedicato alle migrazioni. Il suo genere non è classificabile: note jazz e folk si mescolano accompagnate da testi di grande poeticità. Ha all'attivo più di 2000 concerti in tutto il mondo: preferendo il palcoscenico del teatro a quello della televisione, il suo riconoscimento in Italia rimane marginale rispetto agli apprezzamenti conquistati
PANKA LIBRI
"Morire di democrazia", la fotografia di un'era Un saggio tutt'altro che banale sulle falle dell'era contemporanea recensione di Fabrizio Sala “E’ difficile immaginare che questa vecchia e azzoppata democrazia possa,nelle sue forme attuali,sopravvivere al proprio declino senza rinnovare le sue istituzioni e senza sterilizzare la grande piaga della corruzione. Se questo non accadrà la società europea finirà per soccombere”. Questo in sintesi il pensiero dell’autore di “Morire di democrazia”, Sergio Romano. Il noto giornalista vicentino, con collaborazioni con “La Stampa” e il “Corriere della sera”, ci presenta il saggio cercando di far luce sul presente italiano e mondiale del “sistema malato”,come lui stesso definisce, alterato dalla percezione errata del termine democrazia. Democrazia deriva dalle due parole greche démos (popolo) e cràtos (potere), Letteralmente significa "governo del popolo",un sistema
di governo in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dall'insieme di persone e più precisamente riguarda il modo in cui vengono prese le decisioni all’interno di un qualsiasi gruppo . Partendo dall’esempio italiano, toccando sia la “luccicante” America che la “splendente” Unione Europea, l’autore ci mette in evidenza le falle del principale mezzo di democrazia, le elezioni. Avvalora ciò ponendoci quesiti sull’utilità di queste ultime, sul fatto di passare continuamente da uno scrutinio all’altro trovando sempre le stesse persone al comando, capaci di cambiar bandiera come una banderuola che cambia la sua posizione spinta da venti più forti. Dopo un inizio incentrato sulla questione italiana, l’autore passa a parlare del sistema globale, sui costi malati della politica e sull’oscuro mondo
della finanza, anch’esso infettato dalla finta democrazia che aleggia sulle testa dei dirigenti. Non banale il pensiero che l’autore ha di democrazia e potere. Secondo Romano, queste hanno ripercussioni e manifestazioni su tutto, infatti evidenzia come la rete e la successiva globalizzazione, siano ormai diventati i garanti dello Stato creato da poteri più forti: “siamo prigionieri della rete, governati dai signori del denaro e soffocati da una finta trasparenza globalizzata”. In mezzo a quello che può sembrare un baratro senza fondo, l’autore ci porta a scorgere alcuni evidenti spiragli di luce, enunciando anche alcune possibili soluzioni e cure per un sistemata corrotto e ammalato che necessita di cure appropriate e repentine. L’esempio svizzero è solo uno dei punti cardini da cui ripar-
tire. Raggiungere l’aggregazione e la comunione dei 26 cantoni svizzeri per l’Europa resterà solo un miraggio? Un saggio attuale, riflessivo e convincente. Sergio Romano, pur parlando di temi apparentemente scontati ma mai fin in fondo approfonditi, incuriosisce il lettore e gli apre gli occhi davanti all’attuale situazione mondiale, dove la parola democrazia è utilizzata più dai media o dai potenti che dalle vere e proprie istituzioni. Il tutto sottolineando come questa crisi ricordi per molti aspetti quella che precedette la Grande Guerra, che sfociò poi con la nascita degli Stati autoritari e totalitari.
Quando leggere è una passione che porta a riflettere Nelle pagine di “La colomba dalle ali spezzate” due storie parallele unite dalla stessa droga recensione di Edda In un momento in cui sto cercando di ricostruire la mia vita dopo che l’alcol l’ha devastata, la lettura, mia grande passione, mi aiuta molto e ho scelto di leggere questo romanzo, non sapendo che avrebbe trattato di dipendenze. In “La colomba dalle ali spezzate” di Sally Beauman ci sono due storie che scorrono parallele. La prima è quella di giovani ragazze adolescenti che scoprono, partecipando ai rave, questa potente e nuovissima droga, la “waithe dove”. Una di loro perderà la vita e l’altra sarà usata da un personaggio dai comportamenti loschi e misteriosi che la immette sul mercato. Queste due ragazze fanno parte dell’Inghilterra perbenista, i loro genitori le vedono come se fossero ancora le loro “bambine” studiose
che mai potrebbero frequentare persone così “sbandate”. Come risultato della cecità e del non dialogo tra genitori e figli, le due ragazze si ritrovano in balia di questa droga così potente. L’altra storia descritta nel libro si svolge principalmente nel mondo della moda dove l’uso di sostanze è abituale per le modelle come per gli stilisti. Anche in questo ambiente si inizia ad utilizzare la “waithe dove” come sostanza, non di iniziazione come era stato per le due ragazze, ma come droga per esaltare ed accentuare i ritmi pazzeschi dell’ambiente mondano. Tre giornalisti di una famosa testata di moda cercano di risalire alla fonte: lo spacciatore della “waithe dove” sta facendo troppi morti attorno a sè. Anche in questo contesto
però loro tre hanno, in misura diversa, avuto un contatto con la sostanza, non personale ma nell’ambito famigliare. Una giornalista stimata ha il padre in una clinica per “alcolizzati”, ad un altro collega è stata uccisa la ragazza da un rapinatore alterato dalla sostanza, l’ultima, una fotografa di grido inviata speciale nei conflitti di vari paesi, si rende conto che questa contro la sostanza e chi la spaccia è una guerra. Insieme, con molta fatica, arriveranno alla persona che ha causato la morte dell’adolescente e di una stimata stilista. L’epilogo con la sua morte consoliderà l’amicizia tra i tre. Più che un romanzo rilassante è stato un thriller che mi ha impegnato la lettura fino alla fine. Forti sono state le emozioni di alcu-
ni passaggi dove ho potuto riscontrare delle similitudini alla mia dipendenza da alcol. All’inizio pensavo che il mio rapporto con l’alcol fosse una “sbandata”. Agli occhi di chi mi stava accanto anch’io ero una “alcolizzata”. Complesso è stato far capire che non siamo “alcolizzati” ma persone con problemi di alcol. Abusando, cercavo di sopprimere emozioni più forti di me ed il lavoro che sto facendo su me stessa e di riflesso con chi mi è rimasto vicino mi aiuta a saper gestire le emozioni, ma anche a godere di quello che queste persone mi trasmettono e che non pensavo di meritarmi.
IL PERSONAGGIO
Alcide De Gasperi, il padre fondatore della Repubblica italiana Visse la guerra e fu protagonista della ricostruzione economica e politica del paese. Uomo dalle scelte forti e dal fare concreto di Emanuele Celotto Il 3 aprile 1881 nasce nell'allora impero austro-ungarico, Alcide De Gasperi che sarà considerato uno dei politici di maggior rilievo dell'Italia moderna, padre fondatore della Repubblica Italiana e molto altro ancora. Di famiglia povera e cattolica si laurea a Vienna in quella che è considerata una delle migliori università europee. De Gasperi si appassiona alla politica fin da giovane; viene eletto parlamentare per la contea del Tirolo nel Partito Popolare trentino e rimane in carica fino allo scoppio della prima Guerra mondiale. Durante la grande guerra è nominato segretario per profughi e rifugiati della Boemia della Moravia e dell'alta Austria. Al termine della stessa aderisce al Partito Popolare Italiano fondato da don Luigi Sturzo e nel 1921 è eletto deputato, nel'25 segretario. Seguiranno gli anni del fascismo e saranno per lui un periodo difficile. Vessato dal regime viene arrestato alla stazione di Firenze nell'aprile del '27; è condannato a 4 anni di carcere con una pesante multa. La detenzione, poi la clinica per problemi di salute infine la grazia per interessamento del vescovo di Trento monsignor Celestino Endrici. Ma sarà una libertà effimera; dopo la detenzione De Gasperi continua ad essere spiato e pedinato con l'impossibilità di lavorare. Amici e conoscenti lo evitano, vive una sorta di limbo poi, sempre grazie al vescovo di Trento, trova lavoro nella biblioteca vaticana. In quel clima di quiete, isolamento e riflessione nasce “Le idee ricostruttive della democrazia italiana”, opera che pubblicherà nel '43 sotto pseudonimo. Ma è alla fine del conflitto mondiale che verrà fuori la parte più interessante ed impegnativa della vita politica di quest'uomo. Per capire me-
glio la grandezza e la portata di quel che fece dobbiamo fare un quadro ricostruttivo del momento. La guerra appena finita ha lasciato l'Italia in ginocchio; l'80 per cento di ponti e ferrovie è fuori uso, la metà delle strade è da rifare, l'industria pesante, prevalentemente bellica, è da riconvertire, la campagna è semi abbandonata con calo della produzione agricola ed un latifondismo diffuso al sud, disoccupazione, povertà generale, inflazione che cresceva ogni giorno, paese diviso tra Monarchia e Repubblica. Un Parlamento e una classe politica da ricostruire, una costituzione da scrivere. In questo clima doveva anche presentarsi alla Conferenza di pace a Parigi per firmare le condizioni del trattato di resa. Al Palais de Luxembourg, viene accolto con freddezza; è visto inizialmente come la continuazione del fascismo e non come una vittima. De Gasperi nel suo intervento mira a separare il popolo italiano dalle responsabilità del regime fascista; ammette con molta onestà che le condizioni richieste sono insostenibili per il nostro popolo e attuar-
le vorrebbe dire gettarlo nel caos. Anche se il trattato impone condizioni di estrema durezza riuscirà a farlo ratificare (con parecchie difficoltà) dal Parlamento, convinto di riuscire a cambiare quelle condizioni proibitive. Alla fine riesce ad ottenere che le detratte alimentari vengano aumentate, che siano dati all'Italia dei finanziamenti in dollari e che certe richieste siano “dimenticate” in quanto non praticabili. Nel gennaio '47 è invitato negli Usa. Sarà una visita di prestigio oltre che proficua; verrà ricevuto con tutti gli onori, invitato al Congresso ed accolto da applausi. Gli verranno accordati 100 milioni di dollari e l'assicurazione dell'Unrra (poi divenuto piano Marshall) che cereali e materie prime verranno regolarmente inviati. Ma il momento non è semplice in Italia; oltre che con la crisi di governo, De Gasperi deve confrontarsi con un paese in seria difficoltà a ripartire e con la “questione Trieste” appena aperta. In questo periodo come Primo ministro accorda il diritto di voto alle donne e rende il voto obbligatorio. Seguirà la stesura
della Costituzione attuale e poi le elezioni vinte dalla Democrazia Cristiana dove sarà il Primo ministro (carica che ricoprirà per 5 volte) della nuova Repubblica poi il referendum per scegliere Monarchia o Repubblica. L'inizio della Guerra Fredda ha inasprito i rapporti col Partito Comunista; disordini e scioperi sono all'ordine del giorno ed alla fine De Gasperi si dimette. Ma nessuno è in grado o vuole prendere il suo posto e viene richiamato; nel rimpasto di governo troverà le condizioni per fare le riforme ed iniziare il rilancio economico dell'Italia e fare la riforma agraria per rilanciare i piccoli agricoltori. Parecchio contestata è l'adesione al piano Marshall (eccessivo servilismo verso gli Usa) che consentirà all'Italia di ricevere aiuti fondamentali per ripartire. Tra le altre De Gasperi sarà segretario della Democrazia Cristiana, incarico che lascerà per i troppi impegni. Assieme a Shumman ed Adenauer sarà tra i fondatori della Unione Europea di cui verrà eletto presidente ed acclamato a gran voce dall'assemblea. Persona mite e di profonda fede cattolica, educato e rispettoso dei suoi avversari politici, aveva un eloquio semplice e diretto ma molto comunicativo. Poco amante di giornali, tv, e radio, poche volte fu ripreso o intervistato. Non amava fare demagogia o promesse “farlocche”: era uomo da pochi fronzoli e molta concretezza, convinto che ogni Democrazia, pur mantenendosi profondamente laica, deve basarsi sugli stessi valori del cattolicesimo. “Voi costituite un partito, una parte della Nazione ma questa parte, non è accampata nella Nazione per dominarla o per dividerla, ma è collocata in mezzo ad essa per servirla”, parola di Alcide De Gasperi .
PANKA STORIA
Il dramma dimenticato degli italiani di Tito Il racconto di quegli anni fatto da un esule, Silvano Varin, che oggi è presidente dell’associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia di Ferdinando Parigi Nessuno ha più diritto di avere libertà di parola di chi è stato imbavagliato per 60 anni. Il nostro giornale mantiene la promessa che è nel suo nome, e qui provo a raccontarvi i fatti, senza giudizio, ma per onore di cronaca. Silvano Varin, 78 anni, mi racconta la “storia” per come lui l’ha vissuta, insieme ad altri 300.000, di cui 15.000 sono morti. Varin è il vice-presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia per Pordenone. I fatti di cui parliamo riguardano il periodo dal settembre 1943 all’ottobre 1954. Parliamo di terre che persino a detta di Dante (Varin cita il verso della Divina Commedia) da sempre appartenevano all’Italia. Dopo l’8 settembre del 1943 (caduta del Governo di Mussolini), a causa dello sbandamento del nostro Esercito, i partigiani slavi di Tito avvalendosi della collaborazione di partigiani comunisti italiani invasero l’Istria, Dalmazia e parte della Venezia Giulia e iniziarono
una sistematica persecuzione verso i nostri connazionali che lì abitavano da secoli, e ciò è testimoniato anche da un censimento ufficiale austriaco del 1919 in cui risulta non esistere una sola unità slava in tutta la popolazione di quelle terre. La “pulizia etnica” dei Titini subì un arresto solo al ritorno delle truppe tedesche in nostro appoggio e l’immediato ritiro dei partigiani nei boschi, il che consentì ai nostri di riprendere una vita relativamente normale, considerato che la guerra continuava. Nel 1945, a guerra finita, ripresero le persecuzioni, ma stavolta molto più sanguinose a causa del rancore accumulato dai partigiani. Tito ordinò di “fare tutto quanto necessario per allontanare gli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia”, come testualmente confermato dal suo numero due, Milovan Gilas. Per gli italiani la vita lì diventò impossibile. La crudeltà degli slavi fu inimmaginabile: ma nei sussidiari delle elementa-
ri ai testi universitari, silenzio assoluto. Silenzio da parte dei nostri politici, degli scrittori, dei cineasti, degli storici dei giornalisti, salvo casi eccezionali considerati casi di pura follia e ignorati in quanto tali dalle Istituzioni della nostra Repubblica. In realtà, secondo le fonti dell’unica Associazione di Esuli ufficialmente riconosciuta, quella di cui Silvano Varin fa parte, 15.000 uomini e donne di ogni età, a prescindere dal fatto che fossero fascisti, quindi nemici, o semplicemente italiani, vennero assassinati barbaramente. Molti di loro furono gettati ancora vivi nelle malfamatissime foibe, “cavità naturali spesso molto profonde, tipiche del territorio montano Dalmata, Istriano e Giuliano”, come le definisce con impudenza ancor oggi l’Enciclopedia Treccani online, così, asetticamente, senza alcun riferimento al dramma umano che la parola “foiba” evoca in molti. Sarebbe come chiamare le Fosse Ardeatine “ampie grotte tipiche del Lazio”, tanto per capirsi. Tornando al racconto di Silvano Varin, a fine guerra noi perdemmo quasi tutta la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia, ad eccezione del cosiddetto Territorio Libero di Trieste (Tlt), che però venne diviso in zona A e zona B. Il 5 ottobre del ’54 il Trattato di Osimo sancì che la zona A, cioè quella di Trieste-Muggia tornava all’Italia, mentre tutto il resto veniva ceduto alla Jugoslavia. Ciò fu duro da accettare per i 300.000 che furono privati del diritto di abitare in casa propria. A partire dal ’54 si intensificò così l’esodo italiano anche da questa parte di Istria. Il rientro degli esuli
– siamo alla pagina conclusiva e molto amara di questo dramma-, cioè il modo in cui essi furono accolti nel loro Esilio in Patria non fa molto onore agli altri italiani di allora, infatti anche questo ultimo capitolo è stato accuratamente occultato. Gli esuli furono spesso trattati come appestati, cioè come “sporchi fascisti” o chiamati sprezzantemente “gli slavi”, malgrado non fossero né una cosa né l’altra. Un episodio increscioso, penoso e vergognoso tra i tanti riguarda l’“accoglienza” che i ferrovieri della stazione di Bologna riservarono a questi sfortunati connazionali, negandogli un po’ d’acqua e un po’ di cibo dopo un viaggio estenuante in condizioni inumane. Una pagina ingloriosa della nostra Repubblica, scritta in un tempo che sarebbe dovuto essere “tempo di pace” da un bel po’ di anni. Questa, che ho riportato in sintesi estrema e sicuramente con molte omissioni, è la storia raccontata da un protagonista, da uno di quelli che sono sopravvissuti. Soprattutto a nome dei tanti che l’hanno vissuta, e di quanti sono morti in modo orrendo, voglio ringraziare “Libertà di Parola” una volta ancora per aver dato voce a chi avrebbe meritato di averla e invece se l’è sempre vista negare.
NON SOLO SPORT
CALCIO MERCATO, QUANDO LA CRISI NON SI FA SENTIRE 17 milioni di euro per Ronaldo, 16milioni per Messi. Questi sono gli stipendi medi annui sul rettangolo verde. In Italia, invece, un operaio ne guadagna 15mila di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon Di questi tempi è frequente sentire parlare di crisi, di austerity e di spending review o almeno lo è per noi comuni mortali evidentemente. Il calcio mercato estivo, per contro, si è concluso con i fuochi d'artificio: i primi di settembre il Real Madrid ufficializza l'acquisto dal Tottenham del calciatore Gareth Bale per una cifra astronomica che si aggira intorno ai 100 milioni di euro. Alla faccia della crisi! Guardando al mondo del calcio moderno verrebbe da chiedersi se delle volte si stia parlando di un altro pianeta e se dalla terra in qualche modo possiamo contattarli con la famosa frase "Houston...abbiamo un problema!". Premettendo che chi scrive è un grande appassionato e ritiene il calcio in sé come il gioco più bello del mondo, fa male vedere l'inquinamento, la corruzione, la sfoggio di ricchezza che lo rovinano. Tanto più di questi tempi. E' necessario mettere sul banco degli imputati l'odierna realtà calcistica. Mentre il fenomeno della disoccupazione giovanile colpisce il 40 per cento dei giovani italiani e quelli che trovano lavoro molte volte devono lottare con contratti a termine e precarietà, nel calcio c'è chi come il brasiliano Neymar, classe '92, guadagna 7 milioni all'anno. Altri "poveri" giovani calciatori come Balotelli (classe '90), Pogba ('93) e Icardi ('93), devono accontentarsi rispettivamente di 5, 2, 1 milioni annui. In Italia come nel resto del mondo, ci sono indubbiamente degli ottimi calciatori, il loro è un lavoro a tutti gli effetti e quindi merita di essere adeguatamente retribuito. Il problema nasce perché quell'adeguatamente non è per niente adeguato: ingaggi stellari,
milioni come fossero noccioline e trattamenti privilegiati quasi fossero divinità scese in terra. Parlando dei calciatori più giovani, spesso si tratta di ragazzi che dall'oggi al domani, grazie alle loro capacità, si trovano a dover amministrare una barca di denaro e soprattutto la fama, la visibilità e i vizi di un mondo che rischia di inghiottirli nei vortici del successo, intraprendendo così "brutte strade" quali l'uso di alcol, droghe, donne facili e via dicendo. E' difficile non montarsi la testa quando una squadra come il Milan regala un'Audi a ogni giocatore compresi i giovanissimi. La stessa Udinese, realtà a noi più vicina, in passato ha regalato delle
Ford Fiesta ai suoi calciatori, compresi i più giovani della prima squadra. Ci chiediamo quando e come abbia fatto il mondo del calcio a diventare così sporco, lordato dal denaro e costretto a interessi che non girano intorno al semplice valore gioioso di correre dietro a un pallone. Il calcio odierno deve soddisfare i capricci di sceicchi e multimiliardari che usano le squadre come aziende, ecco allora spiegati i 100 milioni per Bale, i 93 per cristiano Ronaldo e gli ingaggi da capogiro attorno ai 16 milioni l'anno. Delle stime matematiche spiegano che Cristiano Ronaldo con i suoi 17 milioni annui, percepisce 32 euro al minuto, poco meno Messi che
con 16 milioni all'anno arriva ai 30 euro al minuto. Stiamo parlando dei due giocatori più forti al mondo, ma c'è da vergognarsi pensando che un lavoratore dipendente guadagna in media 30 euro solo dopo quattro ore di lavoro. Le cifre spropositate, oltre ai giocatori, riguardano anche gli allenatori. Nel loro caso gli stipendi sono generalmente più contenuti, ma rimangono comunque spesso nell'ordine dei milioni. In Italia quest'anno le mensilità degli allenatori sono aumentate del 26 per cento; Inter, Juventus e Napoli sono le più "spendaccione" su questo versante e pagano 3 milioni l'anno i loro condottieri. In Europa le super potenze possono permettersi molto di più, ad esempio il ritorno di Mourinho al Chelsea del magnate russo Abramovic, farà guadagnare allo Special One circa 45 milioni di euro in quattro anni, ovvero 30 mila euro al giorno e 20 al minuto. Fortunatamente, ci sono anche alcuni segnali positivi di razionalità. Le spese in serie A si stanno tendenzialmente abbassando, la serie B ha imposto un tetto sugli ingaggi pari a 300mila euro annui e in Italia, inoltre, la tassazione sui soldi privati degli ingaggi ai calciatori permette una buona entrata per lo Stato. Si tratta di piccoli passi nella direzione giusta che però non pareggiano ancora i conti tra mondo delle favole e realtà. Un'ultima considerazione riguarda il calcio dilettantistico, il quale risente maggiormente della crisi e che, negli ultimi anni, ha visto una diminuzione consistente del giro economico che lo interessava. Nei confronti degli altri sport, il calcio rimane l'unico dove anche a livelli relativamente bassi, i giocatori percepiscono del denaro. Fa sorridere il fatto che esistano delle società paesane che, a volte anche in terza categoria (la serie minore dei dilettanti), tentino di emulare il professionismo e paghino i loro giocatori dando luogo a un vero e proprio calcio mercato dei dilettanti. "Il calcio è un mondo bellissimo e anche strano, una specie di pianeta in una galassia remota, piena di contrasti, privilegi e trappole. In questo pianeta circola gente strana, che cerca di sfruttare il calciatore senza curarsi minimamente di lui come persona (Alex Del Piero).
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost
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Pino Roveredo Penna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. Toscano, non di origine ma fedele compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.
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Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli
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Sara Racutto IInformatica ma soprattutto collegata, in rete ma mai nel sacco! Nonostante le infinite ore passate davanti allo schermo, trova sempre il tempo per delle belle uscite culturali, perché tra esser impegnata ed impegnarsi, passa una bella differenza.
Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Franca Merlo, Tina, Ferdinando Parigi, Emanuele Celotto, Ada Moznich, Andrea Lenardon, Carla Bristol, Elena Caccamo, Mauro Paludetto, G.B., Edda, Sara Rocutto, Fabrizio Sala, Paolo Facchin, D.L., Adriano, Severino Peter Antonio Guzman, Marino, Rafael, Marcel Cotet, Nadir, Emanuele Garbin. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone
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Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”
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Mauro Paludetto Durante qualche giornata afosa, nel tentativo di un refrigerio si tuffa con tanto di carpiatura, ma non c’è acqua ad attenderlo… Per lo stile voto 8, ingresso in acqua 2, punti totali (in fronte) 10! Disponibile con tutti e tutti disponibili alla sua disponibilità, resta in credito finanziario all’infinito, ma con il sorriso stampato guarda al domani, e via..
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Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia
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Manuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili
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Andrea Lenardon Tirocinante, educatore, psicologo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.
Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!
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Stefano Venuto Mimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!
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Ferdinando Parigi Voce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si trovano raramente, la nostra nuova penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800
Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.
Creazione grafica Maurizio Poletto mpaginazione Ada Moznich Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 1,2,3,4,6,7 e 9 da sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pagina 13 Guerrino Faggiani Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00
un vincitore e' solo un sognatore che non si e' arreso nelson mandela
I ragazzi della panchina campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA CON IL PATROCINIO del comune di pordenone