APPROFONDIMENTO
Pedala e vai
Libertá di Parola 4/2019 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
La prevenzione è una cosa seria e va fatta bene E' necessaria un'azione di comunità a più livelli di Giorgio Achino In pubblicità, un noto spot recitava: "Meglio prevenire che curare". Ma è davvero così semplice la questione? È cioè sufficiente, ad esempio, lavarsi i denti per estinguere il problema della carie o forse è anche, e soprattutto, una questione di cibo, di genetica e di stili di vita? Nella realtà la prevenzione è una cosa complessa. Progetti come
“Famiglie e minori, per una comunità in crescita” rivolti al benessere e alla prevenzione di comportamenti a rischio nell’età scolastica, di cui parleremo nel tema di questo numero di Ldp, stratificano il loro intervento in maniera trasversale promuovendo azioni di prevenzione, cura (presa in carico potenziale) e di riconoscimento del benes-
Insieme sulle due ruote al di là delle barriere. "Pedala e vai" è un progetto di cinque anni, la cui prima tappa è stata raggiunta lo scorso ottobre. E' stata il viaggio Venezia-Matera fatto in tandem da dodici persone con e senza disabilità, dipendenze ed esperienza. Sei erano di Mirano e Padova, altrettante di Pordenone. Hanno percorso 1050 chilometri in undici giorni e portato a casa straordinari benefici fisici ed umani. a pagina 7
sere. Sono azioni che difficilmente si riescono a consolidare sempre e tutte insieme. Nella nostra società, purtroppo, siamo sempre più indirizzati alla cura del sintomo, dimenticandoci addirittura della malattia. Un esempio sono i numeri delle vendite sempre più in crescita di Benzodiazepine (es. ansiolitici) in Italia, quando invece l’ansia è un sintomo di una situazione non per forza patologica e da sedare con la chimica, per scappare da essa. Prima di arrivare al trattamento farmacologico inoltre le strade dell’analisi/psicoterapia sarebbero molto più indicate ed efficaci. Purtroppo questo tipo di soluzioni deriva da un retaggio culturale errato e fuorviante, perché in realtà chi va dallo psicologo non è malato ma sta facendo un percorso di salute. L’augurio sarebbe dunque che la prevenzione possa lavorare, sempre più, con tutta la popolazione di una comunità, con gruppi e soggetti con il preciso compito di migliorare le condizioni ambientali e sociali delle persone; misurare e comprendere la dimensione dei problemi e misurare gli effetti delle proprie azioni professionali; contrastare le ineguaglianze nella distribuzione economica, di potere e delle risorse troppo concentrate in mano a pochi (fonte ufficio europeo OMS – 2014). Insomma la prevenzione è una questione antropologica, sociale ed economica molto complessa e una società avanzata come la nostra non può e non deve limitarsi ad attività di prevenzione mirate, per quanto efficaci, come quelle che andremo ad affrontare nel tema di questo numero.
CODICE A S-BARRE
Ritorna la redazione di Ldp in carcere, i detenuti si raccontano a pagina 4
INVIATI NEL MONDO
Transiberiana, luoghi ed incontri indimenticabili da Mosca fino a Pechino a pagina 11
PANKAKULTURA
"Pane e ferro", il Novecento tra Friuli e Veneto raccontato da Santarossa a pagina 12
IL RICORDO
Ciao Simone, avevi ancora tanta vita da scrivere a pagina 13
NON SOLO SPORT
A Claut il regno degli sport su ghiaccio a pagina 14
IL TEMA
“Famiglie e minori, per una comunità in crescita”, al via il progetto I Ragazzi della Panchina in rete con la Fondazione Friuli, Associazioni del territorio e Dipartimento delle Dipendenze e di Prevenzione dell’Asfo per interventi rivolti ai minori a rischio nell’area delle dipendenze di Monica Vanzella L’associazione I Ragazzi della Panchina, in collaborazione con il Dipartimento delle Dipendenze e di Prevenzione dell’Azienda Sanitaria Friuli Occidentale e con le Associazioni del territorio della provincia di Pordenone Centro di solidarietà (i compagni di Emmaus, AITSaM Pn, Adao Friuli, Senegalese Diapalante, Arte, Scienza, Benessere, Attivamente montagna, Nuovo Paradigma e l’associazione provinciale Amici del cuore “D. Zanuttini”) ha avviato per il 2019/2020 un progetto rivolto a minori in condizioni di disagio psico-sociale (in modo particolare legato all’attuazione di comportamenti a rischio nell’area delle dipendenze)
al fine di migliorarne lo stato di salute, attraverso interventi sia a livello sanitario, familiare, scolastico, che di comunità. Il progetto è finanziato dalla Fondazione Friuli, attraverso
Prevenzione e promozione della salute in classe Le attività in ambito scolastico del progetto "Famiglie e minori", per docenti, personale ATA e studenti di Marta Pozzi Tra le diverse attività del progetto “Famiglie e minori, per una comunità in crescita” quelle di riferimento all’area scolastica sono particolarmente importanti per le attività di prevenzione e promozione alla salute in quanto il contesto scolastico è considerato dalle ricerche scientifiche uno dei setting più indicati per proporre programmi di questo tipo rivolti ai minori. Rispetto all’anno scolastico 2019-2020 nell’ambito delle
scuole secondarie di primo e secondo grado del territorio del Friuli Occidentale, sono stati attivati progetti rivolti sia ai docenti e al personale ATA, sia agli studenti. Per quanto concerne i docenti e il personale ATA, in accordo e in collaborazione con i singoli dirigenti scolastici dei diversi istituti, vengono supportati processi di autovalutazione dei bisogni scolastici e di scelta di progettualità di promozione della salute coerenti
il Bando Welfare 2019. Le diverse collaborazioni attivate rappresentano una strategia d’intervento che risponde all’esigenza di coinvolgere quanti più soggetti e risorse
con le priorità individuate e basate sulle evidenze scientifiche. Questo con l’intento di aiutare i dirigenti e i docenti referenti del benessere a discriminare e scegliere tra le numerose e varie attività di promozione del benessere disponibili per gli istituti scolastici, quelle che vengono maggiormente incontro alle necessità del proprio contesto scolastico e che sono basate su prove di efficacia. Inoltre, vengono implementate attività formative rivolte ai docenti sui temi della promozione del benessere in generale e sulla promozione delle life skills in particolare, considerate fattori di protezione comuni e trasversali da rafforzare, al fine di prevenire l’insorgenza di diversi comportamenti problema. Questo con l’obiettivo di incrementare nei docenti non solo il proprio bagaglio di conoscenze teoriche sui temi relativi al disagio e al benessere, ma soprattutto quell’insieme di attività e strategie operative possibili da realizzare nelle proprie classi
in un progetto condiviso, in base al principio che l’incisività dell’azione è facilitata dalla più ampia partecipazione possibile della comunità per azioni coordinate a più ampio raggio. Il progetto vede infatti il coinvolgimento di setting diversificati e di strategie differenziate, in contesti educativi empowering, capaci di fornire opportunità di crescita e di coinvolgere minori e famiglie in esperienze che aumentino il loro benessere e le loro capacità personali, sociali, genitoriali. Le azioni si articolano su più piani e su livelli di intervento differenziati, concretizzandosi tanto nel contesto socio-sanitario, scolastico quanto extrascolastico. A livello socio-sanitario e di comunità le attività in corso riguardano azioni di promozione del volontariato e della solidarietà tra i ragazzi nelle associazioni del territorio coinvolte, per l’acquisizione e lo sviluppo di competenze sociali, personali e di cittadinanza e come forma di protezione rispetto la possibilità di incorrere in forme di disagio psicosociale, attività di supporto nella fruizione dei servizi e delle risorse territoriali, gruppi di supporto rivolti a minori e a genitori per la gestione dei comportamenti problema e sull’acquisizione di competenze genitoriali, piani di supporto personalizzato per le faper migliorare le competenze personali e relazionali dei propri studenti, nonché il clima relazionale tra studenti e con i docenti. In alcuni istituti scolastici, su esplicita richiesta, vengono svolte attività di supervisione dei docenti o dei coordinatori di classe a partire dalla presentazione e discussione di specifiche situazioni critiche che si presentano nel contesto scolastico, con l’obiettivo di costruire linee guida e procedure di intervento che possano diventare buone prassi condivise e rimanere patrimonio comune all’interno dei diversi istituti scolastici. Per quanto riguarda gli studenti - a partire da una conoscenza dello specifico contesto scolastico, della creazione di un rapporto di collaborazione con la Dirigenza scolastica e i docenti di riferimento - vengono realizzate attività differenziate in base al target e alle specifiche esigenze. In alcuni istituti, vengono presentati agli studenti in maniera partecipativa e interattiva i diversi
miglie, attività di supporto alle famiglie più fragili attraverso famiglie con più risorse coinvolte come protagoniste attive nei processi di welfare comunitario. A livello scolastico, le attività riguardano incontri formativi rivolti a docenti e genitori sul tema dei comportamenti a rischio nel campo delle dipendenze, degli interventi efficaci e per aiutarli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità educative, interventi e percorsi didattici/ formativi/di promozione del benessere mirati al singolo e a sottogruppi di studenti con caratteristiche simili o a intere classi. Terzo settore, servizi socio-sanitari, scuole, famiglie sono tutti coinvolti nello sviluppare un senso di appartenenza al progetto, uniti in maniera sinergica per garantire il principio dell'equità a contrasto del disagio.
servizi sanitari e le diverse risorse del territorio, sia per venire incontro a specifiche esigenze di loro futuro orientamento professionale, sia come risorse che possono risultare utili in situazioni di necessità o disagio conclamato. In altri contesti scolastici, vengono attivati laboratori sui temi del benessere o sui fattori di protezione (autocontrollo, gestione delle emozioni) favorendo il protagonismo dei ragazzi e metodologie attive che includono anche attività di peer education e di produzione di materiali da condividere e diffondere nei diversi contesti scolastici. In sintesi, tutte le progettualità proposte in corso di realizzazione negli istituti secondari, si basano sul principio di empowerment, ossia sul rendere il personale scolastico e singoli studenti protagonisti nel costruire e rafforzare il proprio benessere e nel favorire processi salutogenici nel proprio contesto di riferimento, attraverso metodologie scientificamente fondate.
Per l’AIDS siamo tutti uguali. Proteggersi sempre, discriminare mai E' il titolo della campagna di sensibilizzazione promossa da RdP e NPS Italia e culminata nello spettacolo informativo per le scuole superiori del 28 novembre al Concordia in occasione dell'HIV Day di Chiara Zorzi e Giorgio Achino In occasione del 1° dicembre, giornata mondiale per la lotta all’HIV/AIDS, l’Associazione I Ragazzi della Panchina ha organizzato per il sesto anno consecutivo l’evento HIV DAY “Non solo il 1° dicembre”, proprio ad indicare come di HIV ed AIDS non si debba parlarne solo un giorno, ma tutti i giorni dell’anno. Quest’anno, in collaborazione con NPS Italia Onlus e con il patrocinio dell’ASFO e del Comune di Pordenone, l’Associazione ha realizzato un evento di sensibilizzazione ed informazione per gli Istituti superiori di Pordenone rispetto ad un problema che tutti pensano riguardare gli altri, ma che in realtà è molto più vicino a noi di quanto si immagini e si dica. Il 28 novembre, all’auditorium Concordia di Pordenone, si è tenuto uno spettacolo informativo per le classi quarte e quinte degli istituti superiori: sul palco sono saliti I Papu che, assieme al MassimoCrapis, infettivologo della ASFO, e la presidente de "I Ragazzi della Panchina", Ada Moznich, hanno parlato di HIV e malattie sessualmente trasmissibili (MST). Lo scopo è stato quello di proporre un format semiserio e interattivo che prevedesse un dialogo tra uno specialista, una
paziente e i due comici che hanno rappresentato la società, al fine di sfatare i luoghi comuni, prestare nuova attenzione ad un tema che sembra dimenticato e presentare i servizi del territorio ai quali rivolgersi per avere informazioni ed effettuare screening di controllo. Oltre alla presentazione dei dati e delle modalità di contagio da HIV e MST, si è parlato di comportamento sessuale responsabile e riduzione dei rischi. Gli studenti potevano interagire con il palco grazie a due numeri di telefono a cui potevano rivolgere, senza barriere emotive, qualsiasi domanda inerente al tema. Funzionale è stato l’alternarsi del “serio con il faceto”. Sdrammatizzando, si è riusciti a porre in evidenza temi che molte volte rimangono in un limbo nel quale i ragazzi, e non solo, rimangono imprigionati. I Papu hanno saputo coinvolgere 350 ragazzi con un’operazione linguistica precisa, muovendosi tra le conoscenze scientifiche del dottor Crapis e l’esperienza diretta di Ada Moznich. Il format, già proposto alla città l’anno scorso, si è dimostrato efficace, efficiente e soprattutto snello. L’evento è stato abbinato ad una campagna di sensibilizzazione realizzata
attraverso dei manifesti esposti in città con lo slogan "Per l’AIDS siamo tutti uguali - Proteggersi sempre, discriminare mai". Lo scopo è stato quello di ricordare che l’AIDS riguarda tutti noi, non è una malattia debellata, anzi, è indispensabile sapere come affrontare ogni giorno per proteggersi e per proteggere, per vivere in libertà, una libertà che deve essere di tutti. Nell’anno scolastico 2019-20 l’associazione "I Ragazzi della Panchina" parteciperà, assieme ad operatori dei Consultori famigliari, del Dipartimento di prevenzione e della S.S. Malattie Infettive dell’Azienda Sanitaria, ad un percorso appositamente strutturato per gli studenti delle classi seconde dell'ISIS Zanussi di Pordenone con l'obiettivo di promuovere uno stile di vita sessuale sano. Il percorso prevede tre incontri per classe e ha lo scopo di migliorare le conoscenze dell’anatomia e fisiologia dell’apparato riproduttivo maschile e femminile, approfondire le conoscenze sulle MST (Malattie Sessualmente Trasmissibili) e sulla contraccezione, informare e far conoscere i servizi del consultorio territoriale ai ragazzi favorendone l’accesso.
Dopo due anni di pausa riparte la redazione del nostro giornale all'interno del carcere di Pordenone. “Codice a sbarre” è uno spazio gestito interamentedai detenuti. Tutti i testi nel nostro blog: www.iragazzidellapanchina.it
Il rumore insopportabile del carcere «Mi sono abituato a tutto, tranne che al suono delle chiavi e della battitura e ai colori di questo luogo» di Francesco Più di ogni altra cosa, del carcere ti resta impresso nella mente il rumore delle chiavi. Qui dentro si vive di alti e bassi e le giornate sembrano essere tutte uguali, perché si fanno sempre le stesse cose. Ciò che ti martella la testa è quel rumore, il rumore delle chiavi, di quando aprono e chiudono la cella, di quando fanno la battitura delle sbarre. Entra così forte dentro, che ti dà tanto fastidio. Tra noi detenuti c'è un modo di dire e cioè che "il carcere ti mangia, ti consuma". Non ce ne accorgiamo, ma se parlo con una
persona che arriva dall'esterno, sento che mi manca la serenità, la pace. Essere chiuso in una cella con sei persone ti mangia la libertà. La galera si basa tutta su una questione psicologica: non hai la tua privacy e per me questa è una mancanza di libertà. Abbiamo le sbarre, il blindo e le finestre con le sbarre. A questi aspetti ti ci abitui anche. Ma il colore blu delle divise degli agenti penitenziari, il blu scuro dei blindo, il bianco delle sbarre alle finestre ti entrano talmente dentro la mente che, quando vedi en-
trare da fuori una persona, è come se vedessi un fiume calmo in una giornata di sole. E' difficile spiegare la sensazione che ti dà un carcere. Io mi sono abituato a tutto, tranne che al rumore delle chiavi. Mi tormenta il rumore di quando fanno la conta e l'assistente batte il ferro. Mi dà fastidio a tal punto che quando succede mi metto in branda, sotto le coperte, e mi giro dall'altra parte. Poi, come sempre, mi sento tanto in colpa per essere qui dentro e per non poter vedere i miei figli, non sapere se stanno o meno bene, non sapere come si sentono quando vedono altri papà presenti, magari nell'accompagnarli a scuola. Quando mi prendono questi pensieri - e succede davvero tanto spesso - mi sento un verme, perché un vero padre dovrebbe stare vicino ai propri figli. Non pos-
Come una zanzara nascosta tra i vestiti puliti «Vorrei uscire da qui anche solo trenta minuti, per andare a dire alla mia famiglia che mi manca» di Ionel Tra noi e voi, che ci venite a trovare in carcere, c'è una differenza: sono i vostri vestiti, pieni di aria pulita. Ci ispirano libertà. Venite a trovarci con il sorriso pieno di gioia e quella gioia che portate ce la trasmettete, cosicché anche voi possiate vedere il nostro sorriso, che è pieno di tristezza. Tra noi detenuti facciamo fatica a farci un sorriso. Quando ci chiamano nella sala colloquio per il corso Codice a S-barre, siamo felici per quel poco che stiamo con voi.
Ridiamo, parliamo e quando ve ne andate, noi torniamo in cella e di nuovo i nostri cuori piangono di dolore. Ci mancano tanto i nostri bambini, le nostri mogli e tutta la famiglia che ci vuole bene. A me fa bene questo corso, comincio a scrivere, a conoscere le parole che fin'ora non ho mai trovato, a trovare le parole che mi aiuta-
no nella vita per poter scrivere e parlare bene l'italiano. Vorrei tornare indietro nel tempo per riparare a tutto quello che ho sbagliato per colpa di tutte le sofferenze che ho avuto da piccolo. Voglio dedicare a mia moglie tutto il mio amore, la voglio vedere felice, la voglio vedere volare come
so però fare la vittima, non ho giustificazioni, se sono qui è solamente per colpa mia. In carcere sto bruciando la libertà mia e anche quella dei miei figli. Per il mio egoismo ho privato loro della libertà di avere accanto un padre e i miei genitori di avere vicino un figlio. Oggi, a 41 anni, mi sento di dire che è tempo che io volti pagina, che tiri fuori il vero uomo per fare della mia vita una vita onesta e rispettosa della legge. una farfalla in cielo così che possa toccare la luna e la stellina più bella, la più brillante, portarla da me a illuminarmi e a scaldarmi la cella buia e fredda piena di ragni che camminano sopra la nostra testa. Quando arrivate da noi, vorrei trasformarmi in una zanzara per nascondermi in una vostra tasca così che mi portiate fuori, così che io possa andare dai miei bambini e da mia moglie solo per dire loro che li amo. Mi mancano tanto. Vorrei anche solo trenta minuti per parlare con loro e, dopo di loro, per poter fare un giro nei luoghi in cui giravo con le mie pecore, vederle e seguirle un po'. Poi tornerei in carcere, fino a quando non tornerete a trovarci: e allora, come una zanzara in una tasca dei vostri vestiti, profumati di libertà, ritornerei a prendermi anche solo trenta minuti di vita con chi amo. Ad ogni vostra visita sempre così, fino a quando non uscirò per sempre da questo carcere, per andare dalla mia famiglia.
Quella prima volta che mi ha segnato la vita «Era il 1994 quando fui arrestato. Tredici anni dopo, quando uscii, nulla era più come prima» di Alessandro Vi parlo della mia prima carcerazione e della mia prima rimessa in libertà. Era il lontano 1994 quando venni tratto in arresto. Per la prima volta varcavo il portone della casa circondariale di Venezia (Santa Maria Maggiore). Sulle mie spalle pendeva una pesante condanna di 13 anni. Ero già padre di due bambine, una di cinque e l'altra di due anni. Quel giorno fu l'inizio del mio calvario. Dapprima fui trasferito nel carcere di Treviso. Dopo sei mesi circa, ci fu ancora un trasferimento nel carcere di Bergamo. Qui ho avuto i miei primi problemi in quanto, a causa della lontananza, riuscivo ad avere colloqui con i miei familia-
ri solo una volta al mese. Circa sei mesi dopo, un altro trasferimento nel carcere di San Vittore a Milano. Trascorsi altri quattro mesi, un altro ancora nel carcere di Vigevano: questo fu il più duro di tutti in quanto ero davvero molto lontano dalla mia famiglia. I colloqui non avevano più modo di essere, i miei figli li potevo veder crescere solo attraverso delle foto, telefonare alla famiglia al tempo non esisteva e l'unico modo di avere notizie era la posta. Vane erano le mie
Tra fantasia e realtà
«Anche qui dentro, se lo vogliamo, possiamo vincere» di Bruno Buongiorno amici di Codice a S-barre. E' notte fonda e sto viaggiando con la fantasia, mentre con l'auricolare ascol-
to musica. In questo modo riesco ad uscire da questo carcere. Posso andare dove voglio e quando voglio. La
richieste alle istituzioni per ottenere un avvicinamento così da potere godere di colloqui: categoricamente venivano rigettate. Ho così iniziato a perdere il senso della ragione. Distruggevo ogni cella, incendiavo tutto quanto era possibile, affinché la mia ragione potesse prevalere sull'ingiusto torto che stavo subendo. Da subito fui rinchiuso in una cella di isolamento, venivo quotidianamente imbottito di psicofarmaci che a loro modo avrebbero dovuto calmare i miei bollenti spiriti. Al tempo pesavo 90 chili e per ottenere quanto io desideravo iniziai
a fare lo sciopero della fame. Il peso del mio corpo mutò notevolmente, fino a raggiungere i 65 chili. Ma tutto questo non fu ancora sufficiente e così iniziai anche con lo sciopero della sete. Dopo cir-
ca sette mesi prevalse la mia ragione e finalmente fui trasferito nel carcere di Padova (Due Palazzi). Da subito iniziai ad avere normalmente i colloqui e a riabbracciare così i miei cari che tanto mi mancavano. Giunto il 2005, la mia condanna fu completamente espiata. Rimesso in libertà, all'uscita provai una sensazione unica e straordinaria. Il mondo non era più quello che nel 1994 mi ero chiuso alle spalle. Tutto era mutato, avevo la strana sensazione che tutti gli occhi fossero puntati su di me. Ricordo che mia moglie mi diceva che i comuni passanti non guardavano me, che era solo e soltanto una fissa che avevo per la testa. Le mie prime notti fuori dal carcere era per me impossibile dormire. Passeggiavo su è giù per la casa. Credo fermamente che questo mi accadeva anche a causa dell'intossicazione da psicofarmaci che al tempo mi avevano fatto assumere. Decisi quindi di rivolgermi ad un medico il quale mi consigliò di bere molto latte per disintossicarmi. Trascorsi circa tre mesi, riuscii a tornare alla normalità e a condurre un tenore di vita come tante altre persone. Quel tempo però mi ha segnato molto. Per nessuna ragione al mondo potrò mai dimenticarlo.
fantasia mi ha aiutato tanto, in sua compagnia ho trascorso nottate intere sveglio e oramai è diventata mia amica. Mi immagino di stare a casa con mia moglie e con mio figlio. Viaggiando viaggiando tra fantasia e realtà, finalmente ho quasi finito di scontare le mie pene, dopo tanti anni. Ho poche foto di me e di mio figlio mentre cresceva e questo mi fa stare un po' male. Poi penso che io lui fra poco l'avrò accanto in carne e ossa, più alto di me di qualche centimetro, e la malinconia mi passa. La fantasia mi aiuta anche a pensare a come vive lui oggi da adolescente. Quando ero a casa, mi piaceva vederlo giocare alla play station. Oggi non gioca più da solo con il cd, ma è collegato con il Wi fi, può giocare nella stessa partita con tanti altri amici lontani.
Sono felice perché di me ha preso solo l'aspetto, il carattere l'ha preso da sua mamma. Io a mio figlio ho sempre detto che siamo amici, ma che deve ricordarsi che sono pur sempre suo papà. Ho sempre viaggiato tra fantasia e realtà e questo mi ha aiutato tanto. Oggi non ci sono più anni da scontare, ma mesi: tra fine giugno e inizio luglio sarò libero. Potrò finalmente andare al mare nella realtà. Ho finalmente una bella famiglia e quando tornerà libero farò di tutto per lavorare onestamente. Tante persone lo hanno già detto e dopo te le ritrovi qui in carcere, lo so. Ma io no. Farò di tutto per non rientrarci più. Grazie che mi avete ascoltato e sappiate che anche in questo posto, anche in carcere, noi possiamo vincere noi. Se lo vogliamo veramente.
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La buona informazione «Esiste, se si antepongono i fatti alle opinioni. Ma i fatti possono anche sparire» di Emanuele Celotto Esiste ancora la buona informazione? Ritengo di sì, esiste quando si mettono prima i fatti e poi le opinioni. Esempio: tre persone messe su tre punti cardinali diversi vedono la stessa scena. La persona A tira una pietra alla persona B. Essendo in tre punti cardinali diversi avranno una diversa visuale a cui va aggiunta l'impronta personale (cultura, scala di valori, esperienza di vita). Alle fine risulteranno tre dichiarazioni diverse ma tutte tre concordi sul fatto che A tira una pietra a B. In mancanza dei fatti invece tutte le opinioni sono valide. Ma i fatti possono scomparire? Certo che si. La notizia (il fatto) scomoda può venire sintetizzata all'osso (notizia sottiletta) ed infilata tra altre notizie. Esempio, “Ar-
restata banda ecc” ampio servizio; a seguire notizia sottiletta poi, “Adesso le squadre italiane nelle coppe” ampio servizio. Oppure i fatti possono essere fatti sparire del tutto. Vi ricordate Saddam e le armi di distruzione di massa? Bene, Saddam ebbe tre ispezioni ONU in un breve lasso di tempo ed i rapporti concordavano: “Saddam non dispone di nessuna arma chimica”. Allora partì una campagna di disinformazione. I rapporti della commissione ONU furono ignorati e vennero divulgati falsi rapporti tramite i media. I giorni passavano e le bufale shock si accavallavano; pareva che Saddam fosse in grado di scatenare l’Apocalisse. La “feroce” guardia repubblicana era armata fino
all’inverosimile di gas letali assortiti. Nel nome di un falso patriottismo venne invocato l’intervento militare. L'ONU non approvò alcun intervento militare ma, contro il parere di molti cittadini ed esperti, l’Iraq fu invaso. La "feroce" guardia repubblicana non si fece vedere, ne sparò un colpo. Dopo un anno non fu trovata alcuna arma di distruzione di massa (e neanche di Carrara). Scoperto il bluff, bisognava rilanciare: “Siamo qui per combattere il terrorismo!”. Lì terrorismo e terroristi non se n’erano mai visti, ma arrivarono da ogni dove e cominciarono gli attentati ed i morti. Per un periodo di tempo la stampa ed i media sostennero l’intervento finché non fu più possibile nascondere l’evidenza. Alla
fine l’Italia portò a casa una ventina di bare senza sapere cosa fossimo andati a fare in Iraq. La BBC divulgò i rapporti e resoconti ONU e Blair fu costretto alle dimissioni. In Spagna Aznar perse le elezioni. In USA quando la tv mostrò le immagini con le bare dei soldati americani (tutti under 25) Bush scese al minimo storico nei consensi. La guerra costò oltre 1000 miliardi di dollari ed un numero mai precisato di militari morti e feriti. Tra i civili i morti furono 80-100mila Gli unici a trarre giovamento dalle balle spaziali furono le industrie belliche. War it's a businness! Chiudo con un paio di domande: esiste ancora la stampa libera e fino a che punto può considerarsi libera?
PANKADOG
È questione di razza o di stazza? Un cane non è mai pericoloso di per sé, ma lo diventa se l'uomo non lo sa rispettare ed educare a stare con gli altri di Giorgio Achino Ogni razza canina ha delle predisposizioni dovute alla selezione avvenuta nel tempo da parte dell’uomo, che cerca di trasmetterle caratteristiche morfologiche precise (pelo, stop, stazza) e a volte anche caratteriali. Per quanto riguarda queste ultime bisogna assolutamente comprendere che la predisposizione non significa essere quella caratteristica. Se ad esempio un cane è predisposto particolarmente alla velocità, non significa che corra di sua spontanea volontà tutto il giorno. Se un cane è predisposto per potenza al morso, non significa che questo debba mordere continuamente. Quindi nessuna razza è la sua caratteristica: è l’uomo che ne esalta il com-
portamento. Altra distinzione necessaria è che anche un cane predisposto alla difesa non vive assolutamente sempre nella modalità difesaattacco, ma lo fa solamente nel momento in cui la situazione lo richiede. Per il resto del tempo fa la vita da cane. L’aggressività del cane non deve essere confusa con la sua insicurezza. Un cane che abbaia o ringhia in maniera aggressiva in passeggiata è molto probabile che, non essendo abitua-
to a stare con altri cani, viva una situazione di insicurezza e quindi reagisca di conseguenza. Non è il cane pericoloso, ma l’uomo che non lo ha educato ad una vita sociale. I cani ritenuti comunemente pericolosi, come rotweiler, doberman, almstaff e via dicendo - cani predisposti alla guardia e all’attacco, selezionati con caratteristiche ben precise, che necessitano di attenzioni educative precise e che richiedono un certo impegno
- vengono etichettati come pericolosi a causa della loro stazza, della loro potenza, del loro aspetto. In realtà chi ne possiede uno vi potrà confermare che nella maggior parte del tempo questi sono cani docilissimi e molto affettuosi. Quindi, ricordate, il problema di un cane è al 99% uno solo, l’uomo! Anche per la legge non esistono razze pericolose (lista abolita nel 2009) ma comportamenti umani che portano il cane ad essere pericoloso. Un ultimo fattore che, nel pensiero comune determina la “pericolosità” del cane, è la stazza. Partiamo dal presupposto che i cani non sono razzisti e quindi possiamo affermare scientificamente che la stazza per loro non comporta nessun problema. Quante volte si vedono scene in cui un “micro” cane abbaia e intimorisce un cane di stazza molto più grossa? Per i cani quello che conta è il carattere non le dimensioni. Nella valutazione complessiva, il problema sussiste solo se due cani di tempra uguale e di dimensioni diverse si incontrano. In quel caso la stazza farà la differenza.
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
Pedala e vai di Roberta Sabbion
"Pedala e vai" è un progetto per (e con) persone che hanno avuto meno fortuna in alcuni momenti della loro vita; per persone che hanno deciso di trasformare un proprio handicap in opportunità per rivisitare parti di sé che erano state accantonate perché troppo dolorose; per persone che pensavano di “ accompagnare” qualcuno verso qualche luogo e si sono ritrovate dolcemente “accompagnate” lungo un tratto della propria vita riscoprendo debolezze, forze, tratti di personalità che non pensavano di avere. In altre parole, "Venezia-Matera", un percorso attraverso strade di ricostruzione di un pezzo di mondo interno. Il progetto, partito da una esperienza compiuta da alcuni del gruppo, si è allargato a sei coppie di tandem, una persona in bicicletta singola, e due persone alla guida di un furgone che ha vigilato lungo tutto il percorso rendendo soste e tappe situazioni piacevoli e non fonti di stress. "Pedala e vai" è un progetto quinquennale che vede in "Venezia-Matera" l’obiettivo del primo anno; 1050 chilometri di esperienza pedalata, di emozioni continue, di rischio e attenzione, di conflitti affrontati e risolti, di continue situazioni in mutamento in maniera non sempre prevedibile. "Venezia-Matera" ha significato preparazione fisica, allenamenti, confronti, discussioni, chiarimenti che hanno preceduto la partenza: tutti pezzi di vita che ci hanno allenati alla quotidianità, alla possibilità di affrontare lo stress che ci accompagna senza mai raggiungere livelli troppo elevati da determinare una paralisi. La valutazione fisica pre e post esperienza, la valutazione di come si affronta lo stress pre e post esperienza ci daranno ulteriori informazioni di come abbia influito l’attività in fisico e mente. Le tappe sono state 11 : Rovigo,Bologna, Cesenatico, Senigallia, Loreto, San Benedetto del Tronto, Tollo, Marina di Chieuti, Foggia, Corato, Matera. In ogni tappa cresceva la consapevolezza dell’impresa che stavamo compiendo; le difficoltà fisiche o psicologiche di ciascuno che segnavano il motivo iniziale della costruzione del progetto, si affievolivano sempre più facendo emergere la parte sana, quella motivata alla vita, al piacere della vita; la differenza tra tutti i 15 componenti (12 atleti e 3 supporter) dell’esperienza
diminuiva progressivamente mentre uscivano risorse, capacità, abilità di ciascuno, così come fragilità, paure e preoccupazioni che non sono più state del singolo, ma hanno trovato nel gruppo un contenitore molto più in grado di gestirle. Direi che , “tandem”, “gruppo”, “strada” sono state le parole chiave per valorizzare la parte sana di ogni partecipante. Le emozioni hanno condito tutto l’insieme: paesaggi meravigliosi, accoglienza sincera e molto calorosa delle persone che abbiamo incontrato, rabbia in alcuni momenti, paura intensa in altri, affetto verso l’altro molto schietto e non condizionato da interessi altri se non lo stare bene assieme di quei giorni, tristezza, gioia intensa; le emozioni non sono solo quelle positive, le emozioni sono tutto ciò che proviamo, anche quelle negative. La forza di questo gruppo è stata proprio quella di poterci concedere una libertà di sensazione e di comunicazione senza sentire mai il giudizio dell’altro. L’immagine che rappresenta meglio il percorso interno di ogni partecipante è questa: ogni persona nella vita percorre la propria strada; ogni difficoltà determina una buca che a volte è piccola, a volte è una vera e propria voragine che interrompe la comunicazione. Ogni pedalata in allenamento e ogni pedalata nel percorso è stato come chiudere le buche, appianare la strada e permettere di ripercorrere quelle strade su asfalto liscio e scorrevole e ogni tratto di strada esterna percorsa, corrispondeva ad un tratto di strada interna ricostruita. Per concludere, credo che riabilitazione ed inclusione viaggino paralleli. I professionisti della riabilitazione devono sempre più uscire dalle quattro mura dell’istituzione e lavorare a fianco delle persone mettendo in gioco parti di sé, con una preparazione professionale nettamente superiore a quella necessaria al lavoro all’interno di un ambulatorio, ma deve sempre mirare a identificare e potenziare le parti sane di ogni persona. Il gruppo misto, fatto di persone con problematiche differenti, volontari, tecnici e professionisti delle relazioni d’aiuto, costituisce il setting migliore per creare spazi di motivazione e cambiamento. L’ottica quindi è “pedala e vai” e non “vai….e pedala”: inclusione e partecipazione attiva e non allontanamento e abbandono.
In tandem per scalare insieme le montagne Dall'esperienza di "PangeaCycling on Life’s Origin", il viaggio in bicicletta di Milena Bidinost "Pedala e vai" è nato dall'unione di molte forze. E' un progetto della durata di cinque anni, la cui prima tappa è stata raggiunta lo scorso mese di ottobre. Questa tappa è stata il viaggio in tandem di dodici persone, sei di Mirano e Padova e altrettante di Pordenone, da Venezia
a Matera: 1050 chilometri in undici giorni, unendo le forze di persone con e senza disabilità, con e senza dipendenze, con e senza esperienza. "Pedala e vai" è un progetto nel progetto, una costola di quella che è l'impresa straordinaria di Alessandro Da Lio, 60 anni di Mirano, tren-
ta anni dei quali trascorsi a girare il mondo in bicicletta. Questa sua passione dal 2015 è diventata “Pangea-cycling on life’s origin”, ovvero il giro del mondo compiuto nel senso dei meridiani e partendo da dove il “tutto di noi” idealmente nacque e iniziò 150 mila anni fa, idealizzato nella partenza da Capo di Buona Speranza in Sudafrica. La prima parte, l‘Africa e l’Europa, dal Capo di Buona Speranza a Capo Nord, Alessandro l’ha condotta in solitaria compiendo la traversata di tre terribili deserti: quello del Turkana, primo essere umano a farlo in bici, il Bayud desert in Sudan con temperature fino a 48°C e il Deserto Bianco in Egitto. Solo alcune settimane dopo arrivava nei pressi di Capo Nord, dove a Sodankila, nella Lapponia finlandese si è trovato a pedalare alla temperatura di 41°C. Rientrato a casa per un breve periodo, per riassettare finanze e problemi familiari, ha deciso, con Fiorella, la moglie che l’ha sempre spronato, e il cognato Lucio, disabile con problemi psico-fisici sin dalla tenera età, di affrontare la seconda parte del viaggio, dall’estremo Nord del Canada alla Terra del Fuoco in Ar-
La preparazione atletica
Dalla creazione dei team al piano di allenamento Passo per passo come si è sviluppato il progetto, dall'idea al viaggio verso la capitale europea della cultura 2019 di Enza Santo Venezia-Matera in tandem, primo step del progetto “Pedala e vai”, ci ha reso protagonisti vincenti di una esperienza condivisa e vissuta in gruppo. Il tandem è affascinante: è una bicicletta strana, che richiede al team armonia, ascolto reciproco, disponibilità ad adattarsi ai bisogni dell’altro, flessibilità, impegno, condivisione, fiducia nel compagno, buona gestione dello stress. Pedalare in due richiede sincronia e complementarietà nei movimenti, che vanno allenati. I tandemisti hanno ruoli diversi: il conducente e il passeggero, necessari l’uno all’altro: si pedala e si fatica in due, insieme verso una meta condivisa. Uscire dagli schemi istituzionali dell’operatività,
mettersi in gioco fuori dalla struttura e porsi a fianco della persona, cambiare prospettiva, uscire dalle abitudini e dalla staticità legate alla quotidianità, aprirsi alle emozioni, all’ascolto e alla condivisione permette di superare parti di noi legate a schemi di pensiero stereotipati, per meglio “vedere” al contempo sia la persona che se stessi nella propria essenza, nel proprio essere, con le proprie difficoltà e potenzialità. La strada e il viaggio sono un’incognita e una sorpresa. Persone partite insieme, al di là del ruolo e delle problematiche fisiche, psichiche e di dipendenza, e arrivate insieme ad ogni tappa, affrontando stress, fatica, paura, con tanta voglia di farcela. Ogni tappa raggiun-
ta significava accoglienza, abbracci, scambio di esperienze e di vita, storie che univano. Per affrontare il viaggio Venezia-Matera in tandem, il gruppo di tecnici e sanitari che ha proposto il progetto, attraverso una attenta osservazione e valutazione, ha creato ogni team, accoppiando capacità e difficoltà in modo da armonizzare la coppia e permettere a tutti di arrivare all’obiettivo. Tutti siamo stati sottoposti a visita medica presso la Medicina della sport di Noale con Erica, medico sportivo, per approfondimenti sullo stato di salute attraverso un’anamnesi accurata, misurazione dei parametri peso, altezza, pressione, analisi della composizione corporea massa grassa/massa magra,
gentina. Qui è stato lanciato il seme di un viaggio ancora più straordinario, quello di Lucio assieme alla sua famiglia: è iniziato con un anno di allenamenti per proseguire poi con l'affrontare insieme altri 20 mila chilometri, questa volta da nord a sud, partendo da Inuvik, Oceano Artico, verso Ushuaia, Terra del Fuoco. I mezzi questa volta sono stati diversi, Alessandro in tandem con Lucio, Fiorella con una ebike appositamente approntata. A casa c’erano medici e psicologi esperti a seguire le varie fasi del percorso. «Non esistevano modelli nei quali un soggetto con disabilità mentale potesse affrontare per tanti mesi, 14, uno sforzo così alto - racconta Alessandro -. Lucio è stato eccezionale, costantemente monitorato,
elettrocardiogramma, prova da sforzo cardiopolmonare con cicloergometro. È stata eseguita una visita medico sportiva prima dell’allenamento come test di base, e un’altra a fine avventura per valutare i benefici ricevuti. A Pordenone le persone, con la supervisione e presenza attiva con il tandem di Roberta, medico psichiatra nel settore delle dipendenze, si sono ritrovate una volta al mese, per creare gruppo, per conoscerci ed esprimere e condividere liberamente e senza giudizio emozioni e informazioni. Alessandro, coordinatore del gruppo Tandemoni ed esperto ciclista, ha adeguato, dopo attenta osservazione, il tandem alla struttura fisica delle persone e alle problematiche evidenziate durante la pedalata (altezza di sella e manubrio, uso dei cambi, postura). Simone, preparatore atletico, ha proposto un piano di allenamento in palestra con uso di attrezzi, stretching per migliorare e rinforzare la muscolatura alla resistenza e alla fatica, da affiancare al piano di allenamento sul tandem in strada, per due volte la settimana. Le uscite in tandem si sono svolte da aprile fino ad una settimana prima di partire, secondo uno schema di allenamento strutturato ad hoc, graduale nelle ore in
ha sostenuto tutta la fatica e lo stress del viaggio migliorando la qualità del suo benessere psicofisico". Tra gli esperti di medicina dello sport che hanno seguito il viaggio di questa famiglia, c'era anche Roberta, medico psichiatra nel settore delle dipendenze, che è diventata quindi il ponte tra Mirano e Pordenone per l'evoluzione di “Pangea-cycling" in "Pedala e vai". «Siamo partiti con un'esperienza base - dice Da Lio - e abbiamo voluto provare a creare dei team con la stessa storia di dipendenze o di disabilità e farli viaggiare insieme in tandem. L'esperienza Venezia-Matera è andata ben oltre le nostre aspettative. Ora proseguiremo con altre attività sempre in tandem, con livelli di difficoltà maggiori e con altre persone che hanno dato la loro adesione. Per trent'anni ho corso per il mondo in bicicletta da sportivo - conclude Da Lio -. Oggi c'è un altro obiettivo, umano, più stimolante ancora affiancando patologie strane o storie di dipendenza. E' l'obiettivo di essere complementari ad altri per far scalare le montagne a chi, da solo, non ipotizzerebbe mai la conquista di difficili traguardi». sella e nei chilometri da percorrere in pianura e in salita. L’obiettivo era riuscire a stare in sella fino a raggiungere quattro ore di pedalata, con pause di cinque minuti ogni ora per bere e riprendere fiato. Lo schema prevedeva da due a tre uscite la settimana, tenendo conto delle difficoltà di ognuno nel rispetto degli impegni di lavoro. Roberta ha somministrato il CISS, un test su come le persone reagiscono alle situazioni di stress, ad ognuno prima e dopo l’esperienza del viaggio. Il gruppo Tandemoni, sei di Mirano e Padova e sei di Pordenone, si è riunito in sella a sei tandem a giugno e agosto per uscite insieme di due giorni, in percorsi di diversa difficoltà e dislivello e strade trafficate per verificare ordine e regole e responsabilità da rispettare sulla strada ed evitare rischi per tutti come esercizio per l’esperienza Venezia-Materia. Utile il ruolo di Fiorella che con la sua bicicletta chiudeva la fila e aveva un buon campo di osservazione per le irregolarità in strada del gruppo. L’esperienza fatta ha dato a tutti l’opportunità di crescere, di mettere in movimento emozioni e di dare spazio a risorse che pensavamo perse e non recuperabili dove tutti possono ritrovarsi e dove “se si vuole si può”.
Pedalando in coppia con la mia compagna «Un'estate di allenamenti costanti, test medici e poi finalmente il viaggio: è stata una meravigliosa esperienza di crescita» di Andrea S. Questa meravigliosa avventura mi è stata proposta durante un’uscita di Montagna Terapia dalla responsabile Roberta Sabbion. Eravamo ai laghi di Fusine. Non ho esitato un attimo e, guardandola negli occhi, le ho risposo subito di sì, dato che a me le sfide piacciono. Roberta mi ha da subito spiegato che partecipare avrebbe significato entrare a far parte di un progetto nuovo, della durata di cinque anni. La prima meta sarebbe stata Venezia-Matera, da percorrere non a piedi ma pedalando con il tandem, quindi in coppia. Quando
ho capito le modalità, ci ho pensato molto perché per affrontare certi obiettivi sarebbe stato necessario un minimo di allenamento, portato avanti con costanza e continuità. Non avrei potuto prendere il compito in modo superficiale, avrei dovuto da subito iniziare ad affrontarlo seriamente anche allenandomi mentalmente oltre che fisicamente, altrimenti il rischio sarebbe stato quello di farsi male. Il pensiero di essere in due, di avere anche la responsabilità per chi sta dietro di te è stato un altro motivo di pensiero che tuttavia, alla fine, mi ha
portato in ogni caso a scegliere di aderire, avendo come compagna di viaggio proprio la Sabbion. È così durante l'estate abbiamo iniziato con i primi allenamenti; ci trovavamo alle 4.30 del mattino sotto casa mia per poterci allenare tra le 3-4 ore al giorno. Gli allenamenti sono stati costanti, abbiamo macinato ad ogni uscita dai 70 agli 80 km, alle volte anche di più e senza soste. Il feeling nel pedalare insieme a Roberta c’è stato da subito: partenze, curve, salite e discese hanno contribuito a creare la sintonia giusta e l’equilibrio necessario. L’estate così vissuta è stata molto intensa per me. L’ho trascorsa ad allenarmi in tandem e ad arrampicare. Tutto questo mi ha gratificato molto perché ho raggiunto un livello di preparazione fisica molto buona abbassando il mio stress mentale. Contemporaneamente all’allenamento siamo stati monitorati da un’equipe medica di medicina dello sport. Tutto questo mi ha permesso di ripercorrere e rivedere posti della mia infanzia: le scuole, i paesi dove da piccolo abitavo. Luoghi in cui la mia vita ha preso un percorso per me, purtroppo, infernale. Ho rivisto posti che mi hanno fatto rivivere i momenti belli e brutti del mio passato. Il bello è stato ripercorrere questi momenti anche confrontandomi con la mia partner di tandem che è stata sempre pronta ad ascoltarmi e a dare un senso a ciò che mi era accaduto e ai miei perché. Terminati gli allenamenti, finalmente, è arrivato il giorno della partenza. Ero pronto ad affrontare 1050 km con la mia compagna di tandem Roberta e con il resto del gruppo, a condividere giorno per giorno fatiche, dolori, freddo e pioggia, tutti insieme. Nelle undici tappe non ho mai perso il controllo di me stesso e sono riuscito a tenere a freno quella parte di me che mi ha portato a farmi del male. Riconosco finalmente di essere cresciuto e di esser riuscito a vivere secondo delle regole che mai prima d’ora avevo rispettato. Il viaggio verso Matera è stato una meravigliosa esperienza di vita e di crescita personale. Vedere l’Italia dal tandem è un’esperienza meravigliosa. Non mi resta che ringraziare tutta l’organizzazione che ha permesso lo svolgimento dell’evento: i miei compagni di viaggio, lo staff che ci ha assistito, la Coop che ci ha fornito cibo e alloggio in ogni tappa. Grazie. Ora mi aspetta un a nuova sfida: il giro del Friuli. So già che sarà una splendida esperienza di vita.
Le tappe di Venezia - Matera
Riassunto dati Kilometrri totali 1050 Ore di pedalata effettive 67 Dislivello effettivo metri 3966 Venezia 24 settembte Matera 4 ottobre
I benefici dell'attività fisica sul cervello Dal miglioramento della concertazione e della memoria ad un umore più felice di Sara Lenardon L’attività fisica è considerata come la modalità più efficacie per mantenere sani il corpo e la mente. Gli iniziali studi condotti sul tema partivano da interrogativi sulle basi neurobiologiche dei benefici correlati al movimento; a partire dalle ipotesi avanzate, è emersa la consapevolezza di come l’esercizio possa avere un effetto diretto sul cervello grazie alle variazioni di funzionamento dello stesso che portano all'incremento e riabilitazione delle capacità cognitive e di gestione dello stress. Ci si potrebbe chiedere: in che modo l'esercizio fisico può andare a produrre effetti sulle capacità di attenzione? Ecco che ricerche e studi scientifici hanno dimostrato come il movimento sembri avere come bersaglio privilegiato la neuroplasticità cerebrale incrementando i fenomeni neuroplasitici interni al sistema nervoso agendo nelle regioni della corteccia deputate alla mediazione delle funzioni esecutive e cognitive alla base delle capacità attentive. Anche la memoria può migliorare grazie alla pratica fisica: i cambiamenti più significativi stati trovati all’interno dell’ippocampo,
coinvolto proprio in tali processi come anche in quelli dedicati alla regolazione dello stress. Studi sul decadimento mnemonico dell'anziano hanno infatti dimostrato, per esempio, come un anno di attività fisica possa produrre benefici per quanto riguarda il volume dell’ippocampo, con un aumento medio del 2% dello stesso; in ottica preventiva e riabilitativa questo dato risulta essere un patrimonio conoscitivo prezioso non solo per le patologie neurodegenerative ma an-
che per altri spettri patologici correlati a varie forme quali, per esempio, le dipendenze. Anche i processi di apprendimento risentono positivamente dei risvolti correlati all'esercizio fisico; l'apprendimento è promosso dall'incremento della soglia di vigilanza e di motivazione, favorisce la creazione di nuove reti neuronali grazie alla registrazione di nuove informazioni e stimola lo sviluppo di nuove cellule cerebrali. Infine, è riscontrabile come il movimento fisico produca degli effetti positivi
nell'umore, stimolando i circuiti deputati alla regolazione della ricompensa e della motivazione. Quando un comportamento porta all’ottenimento di una ricompensa e quindi all’esperienza della gratificazione, l’attivazione dei circuiti specifici determina il rilascio delle endorfine, della dopamina e della serotonina, sostanze aventi una potente attività analgesica ed eccitante la cui azione è simile alle morfine ed altre sostanze oppiacee. Considerate neurotrasmettitori che calmano la mente e alleviano il dolore muscolare durante esercizi estenuanti, serotonina, dopamina ed endorfine, spiegano la sensazione di euforia e benessere che insorge dopo aver praticato attività fisica, oltre ad avere altre proprietà quali riduzione dell’ansia e dello stress. Per evitare un eccesso di produzione dei vari neurotrasmettitori coinvolti, è tuttavia importante sottolineare che l'esperienza di esercizio fisico dev'essere ricercata nella dose giusta, così da attivare il sistema della ricompensa e permettere, per esempio, alla dopamina di innescare l’esperienza gratificante, e quindi la motivazione a ripeterlo e a continuare in modo equilibrato. In conclusione emerge che la migliore attività fisica da ricercare sia quella aerobica ad intensità moderata: promuoverne il beneficio permetterebbe di rafforzare la motivazione e l'incentivo alla pratica così come la costruzione di progetti riabilitativi specifici incentrati sullo stesso.
INVIATI DAL MONDO
Da Mosca a Pechino in Transiberiana, 9000 chilometri all'avventura «È bello viaggiare, ma sono le persone che incontri che fanno la differenza» di Renato Rossetti Siamo Renato e Patrizia, marito e moglie. Siamo sposati da 33 anni ed il nostro stare insieme è sempre stato accompagnato dai viaggi. Ci accomuna il desiderio di vedere, di conoscere altra gente, altri luoghi, altri modi di vivere, altre culture. Il 2019 è stato il sessantesimo anno di vita di mia moglie, un grande traguardo da segnare con un viaggio speciale. Da sempre il mito del viaggio “on the road” ci affascina, per cui la prima idea è andata a una “coast to coast” negli Stati Uniti, ma durante un giro alla libreria "Quò Vadis" per raccogliere informazioni, Daniele, il titolare, ci fa vedere una sorta di scheda informativa per realizzare un altro viaggio, questa volta in treno, attraverso tutta la Russia, da Mosca a Vladivostock. La famosa Transiberiana. Patrizia rimane affascinata dall'idea di andare ad est, 9000 km di rotaie, sei fusi orari, attraversare un continente, da sballo! E visto che ci siamo, perché non fare una variante per vedere anche Pechino? Ecco il viaggio che abbiamo progettato insieme: un paio di giorni a Mosca per vedere i luoghi di maggiore interesse della capitale russa, poi in Transiberiana fino a Pechino, facendo delle tappe lungo il percorso, per visitare altre città rilevanti della Russia asiatica come Ekaterimburg, Novosibirsk, Irkutzk, Chita e in Cina a Manzouli, prima di arrivare a Pechino. In tutto tre
settimane. Un viaggio pensato senza l’utilizzo di agenzie turistiche, tutto organizzato da noi due. Siamo partiti con il solo biglietto aereo di andata per Mosca e di ritorno da Pechino, tutto il resto del viaggio lo abbiamo programmato volta per volta, tratta da percorrere in treno, biglietti da acquistare e alberghi da prenotare. Questo modo di viaggiare ha dei grandi vantaggi in quanto ti mette a contatto con le persone, con la cultura e gli usi del posto, ma vuol dire anche rischiare, mettersi in gioco, accettare che non tutto vada sempre come da programmi, abbracciare il diverso. Significa allontanarsi dai mille comfort di cui godiamo a casa e immergerci in una nuova realtà. Ed è per questo che abbiamo scelto di viaggiare nella classe più economica, chiamata Platzkart. In questa classe il vagone non è diviso in scompartimenti ma è tutto aperto, con i sedili che di notte si trasformano in letti. Viaggiando in queste carrozze, con tratte di percorrenza da due/tre giorni interi in treno è naturale dover comunicare,
avere dei contatti con gli altri viaggiatori ed è qui che ci scontriamo con la prima vera difficoltà, la barriera linguistica, perché, sia in Russia e ancora di più in Cina pochissime persone tra quelle che abbiamo incontrato parlano inglese. Non solo, ma anche la lettura di qualsiasi cosa, dal biglietto del treno al nome delle vie o il menù al ristorante sono dei grandi ostacoli perché l’alfabeto è diverso. Ma ci siamo arrangiati, un po’ con il traduttore dello smartphone, con le foto dei luoghi dove volevamo andare o l'immagine di ciò che volevamo mangiare ma soprattutto con i gesti. Abbiamo rivalutato questo elementare modo di comunicare. Bisogna riconoscere che la tecnologia ci è stata di grande aiuto, non solo per la lingua ma anche per le prenotazioni, il pagamento di biglietti, gli orari di musei, palazzi, treni, le comunicazioni con i familiari, gli amici. Siamo molto dipendenti da questo mondo che è Internet e per questo siamo rimasti molto colpiti dalla censura che in Cina ha provocato l’oscuramento di Google, Gmail, Whatsapp, Facebook e molto altro: praticamente il nostro cellulare era inutile. Tutto questo ci ha provocato un senso di disorientamento e frustrazione perché non riuscivamo a contattare le famiglie a casa e tanto meno interagire minimamente con chi ci stava intorno perché il Google traduttore non funzionava più e neanche Google Maps.
Quello che ci rimane di questo splendido viaggio sono sicuramente le persone che abbiamo incontrato, i semplici gesti di solidarietà, l'aiuto che ci è stato offerto senza neanche l'imbarazzo di chiedere, come quando a Mosca, scesi dalla metropolitana, una signora si avvicina e visti i nostri biglietti semplicemente ci accompagna in stazione fino al binario del treno che partiva per Ekateringurg; oppure l'ospitalità di tre ragazze cinesi che si sono prese la briga di accompagnarci nella visita della Grande Muraglia offrendoci cibo e attenzioni in cambio di quattro chiacchiere in inglese. È molto bello viaggiare ma certamente sono le persone che incontri che fanno la differenza. Essere disorientati per un paio di giorni ci ha fatto riflettere e pensare ai migranti che arrivano da noi, a quanta possa essere la paura ma anche la frustrazione, chiedere un'informazione e non trovar risposta anche in presenza di buona volontà perché quando ti rispondono non capisci quello che hanno detto, La differenza sostanziale però è che noi eravamo lì per turismo, loro per trovare una condizione di vita migliore, noi avevamo la carta di credito, per cui potevamo tornare a casa in qualsiasi momento, loro no.
PANKA LIBRI
Il Novecento tra Veneto e Friuli Santarossa parla della sua ultima fatica letteraria di Giorgio Achino Ho incontrato Massimiliano Santarossa in coda alla presentazione della sua ultima fatica, “Pane e ferro. Il Novecento qui da noi", edito da Edizioni Biblioteca dell'Immagine. Scrittore pordenonese affermato a livello nazionale, di lui mi piace l’essere analista di un mondo sommerso o che, per lo meno, i più non tengono in considerazione. Con lui dialogo proprio su questa scelta e su come sia nata l’idea (o necessità) di
scrivere “Pane e ferro”. Mi racconta il suo interesse nel fare la contro storia di un luogo proprio come gli diceva il suo maestro Tito Maniacco, ovvero che «la storia deve essere sempre ripresa e riscritta per dare voce a chi sta fuori dal coro», dice, a chi di voce non ne ha oppure, come spesso accade, non viene ascoltato. Così nasce l’idea di scrivere di «questo strano posto chiamato erroneamente nord-est, ma che
in realtà è sia Friuli che Veneto», mi dice Santarossa. «La denominazione nord-est è nata per elogiare la locomotiva Italia, un moto economico dove tutto va bene e dove tutti stanno bene», precisa. Un treno che ha iniziato a correre velocemente i cui vagoni, però, avevano caratteristiche precise e ben distinte. «Dietro la locomotiva ci sono i vagoni dei padroni (prima classe) mentre in seconda sono presenti coloro i quali hanno tratto vantaggio da questo sviluppo economico mi spiega l'autore -. In terza classe c'è chi si è spaccato la schiena e chi è morto in catena di montaggio, come mio padre, e alla fine, negli ultimi vagoni quelli del sud, una volta del sud Italia oggi del mondo in senso lato». "Pane e ferro" diventa quindi un modo per rileggere e riscrivere una storia che fino ad oggi era stata notata solo per chi le idee imprenditoriali le aveva, ma senza mai tenere in considerazione chi, fattivamente, le aveva realizzate. I nuovi protagonisti sono i metal-mezzadri che di notte lavoravano in fabbrica e di giorno i campi: gente che per non rinunciare a quella vita che così repentinamente era cambiata rimane attaccata, fino alla morte, a quella
La nostra terra ai confini dell'impero “Pane e Ferro” ci insegna che una comunità cresciuta troppo in fretta e dedita al benessere svilisce i rapporti interpersonali e famigliari» di Antonio Zani Ho intrapreso la lettura di “Pane e ferro” su consiglio di un’amica con l’aspettativa di andare a leggere il classico romanzetto sulla storia locale. Un romanzo che fa leva sul sentimento popolare del ricordo e dei tempi andati (ottimo volano per la tiratura), un romanzo che riporta il lettore in un’aurea di dolce melanconia. Ebbene, mi sbagliavo. Qui, invece, ho ritrovato la storia “degli anonimi e degli ultimi”, di coloro che non hanno mai voce quando la storia viene scritta, di quelli che han-
no cavalcato un’epoca, che li ha, loro malgrado, oltrepassati e catapultati nella modernità, lasciando alle spalle anni di cultura e tradizioni. Hanno girato pagina e, un po’ storditi e un po’ ineluttabilmente incuriositi, si sono gettati in un progresso che ha portato alla devastazione sociale dei giorni odierni. Leggendo "Pane e ferro" ho scorto angoli, gente, stradine sterrate, brughiere, campi e ancora odori, mormorii, fruscii e silenzi della mia ormai lontana infanzia. Ho provato emozioni dolci ed
arcaiche rituffandomi in un mondo che è stato demolito da quella mostruosa macchina (il progresso) atta in realtà a creare il solo benessere di pochi, poi, dei soliti, di quelli che la storia non l’attraversano più di tanto ma che in un’ultima analisi la scrivono a loro uso e consumo. In questo contesto l’autore, oltre a scenari e tradizioni che hanno fatto parte dell’intimo di tutti noi, fa risaltare vividamente il contrasto tra un prima consolidato da tempi remoti e un dopo d’incertezze e di aspettative,
civiltà che sembrava immutabile. «I metal mezzadri capiscono il cambiamento, non sono stupidi, ne hanno paura poiché contribuiscono ad un cambiamento che non accettano», osserva Santarossa. Seguendo la metafora della locomotiva e dei vagoni mi viene spontaneo chiedergli quali siano gli ultimi vagoni dello scrittore Massimiliano Santarossa, quegli aspetti di lui che supportano la sua locomotiva. Emerge un aspetto intimo, un dolore che nasce dall’incomprensione con la propria gente e dall’incapacità di rielaborare un passato che è ancora scomodo. «A Villanova di Pordenone - mi racconta - dopo molti anni ancora mi tengono alla larga (su 400 presentazioni dei miei libri fatte in Italia una ne ho fatta a casa). Ancora oggi qualcuno mi dice: "ancora te parli de drogai, in fondo nel mio condominio (case rosse) i xé morti sol che in tre!". Da parte mia non c’è rabbia dettata dall’incomprensione, ma un dolore profondo per una rimozione di un passato che si vuole tenere lontano. Scrivo di emarginazione, di morte e di dolore non per farne teatro o economia ma con profonda onestà e affetto”, conclude Santarossa. D'altronde, "nemo profeta in patria". avvenuto troppo repentinamente, insomma, un classico salto nel buio. La nostra storia è proprio questa: una città cresciuta a dismisura e in modo sregolato all’ombra di qualche industria; l’arrivo di gente “foresta”; i cambi delle abitudini quotidiane. Questo ha portato un benessere sregolato, famiglie intente al lavoro-doppio e all’incremento del guadagno e, simultaneamente ad un disinteresse ai figli (io ne faccio parte) cresciuti sì con due soldi ma molte volte senza una carezza. Ecco, in fin dei conti, “Pane e ferro” ci insegna che una comunità cresciuta troppo in fretta e ossessivamente dedita al benessere svilisce ciò che più conta: i rapporti interpersonali e famigliari. La mia generazione ha pagato un caro prezzo su questo fronte, noi siamo i figli di quel boom economico che ha lasciato più ferite che sorrisi. Da qui nascono molti disagi dell’era contemporanea. Grazie a “Pane e ferro” per aver dato voce alla nostra terra "ai confini dell’impero”, grazie perché ho rievocato i suoni, le voci e gli odori del “Paese novo”.
IL RICORDO
Ciao Simone, la tua vita è stata un film senza finale «Eri costantemente alla ricerca di radici, di voglia di essere qualcuno con una storia da raccontare, da trasmettere» di Giorgio Achino Quando sei partito tutti speravamo avresti trovato un po’ di pace a Sampa (San Patrignano). L’ultimo periodo era stato un turbinio di eventi e avevi bisogno di fermarti per provare a mettere un po’ d’ordine. Sei riapparso dopo due anni con un accento inconfondibilmente romagnolo, fisicamente trasformato, ma con l’entusiasmo di sempre, anzi, di più. Eri spesso e volentieri debordante di parole come se volessi mostrare a tutti un’identità i cui mattoni erano fatti di vita vissuta e trasudata. Il tuo slang era ricco di "Zio", "Zia": espressioni che usavi rispettosamente nei confronti di chi ritenevi potesse esserti da punto di riferimento, come ai tempi di Sampa. Mi sono sempre domandato
se gli epiteti che snocciolavi erano quello che eri o quello che avresti voluto essere. Eri costantemente alla ricerca di radici, di voglia di essere qualcuno con una storia da raccontare, da trasmettere. Avevi molto di più di quanto ti accorgessi. Avevi scelto la scrittura come strumento per rielaborare una storia famigliare che ti aveva marchiato nel profondo dell’anima di cui ricercavi i lati oscuri e di cui ti sentivi, ingiustamente, responsabile. Quando ne parlavi, sembrava di ascoltare una sceneggiatura di un film in cui il protagonista stava faticosamente a galla in mezzo a onde oceaniche ma che, nonostante tutto, continuava a nuotare. Sarebbe potuto essere un bel film, ma tu lo de-
Lei è parte di me ... dal sogno all'incubo «Ero euforico per avere ritrovato mia sorella. Parlammo a lungo con il desiderio di rivederci» di Simone Devo essere un attore semi protagonista di un film drammatico/comico di serie B. Ma di comico, o meglio, di masochista c'era solo la mia ostinazione nella ricerca di una verità e la necessità di ricollocare al posto giusto i vari tasselli di un puzzle stile Ravensburger, dal nome "The missing links", i collegamenti mancanti . Con caparbietà e determinazione, mi recai alla ricerca di lei, la sorella con la quale avevo il legame più stretto che si possa avere, lo stesso sangue. Tra le mani avevo solamente una descrizione e l’indirizzo di dove risiedeva; con l’emozione e un’impa-
zienza tale da farmi vibrare ogni muscolo, mi recai verso la sua abitazione. Giunto all’ingresso della sua dimora lei uscì. Quando la vidi non riuscii a proferir parola, feci finta di non vederla, lei mi salutò con la stessa educazione con cui si saluta un estraneo; probabilmente avrà pensato che andassi a trovare un condomino. Allorché con circospezione la seguii senza farmi notare come farebbe un investigatore mentre pedina un latitante. Dopo un quarto d’ora circa lei arrivò alla sua destinazione, un parco. Seduti su una panchina c’erano due suoi amici con i quali bevette
finivi di serie B. Ultimamente la tua cadenza si era trasformata: da romagnolo a triestino. Avevi trovato in Erika una nuova ragione di vita e la sceneggiatura del film ti aveva riportato a Trieste. Incredibilmente (o forse no) da li eri venuto e li stavi progettando di andare a vivere. Oggi siamo qui a ricordarti compiendo ciò che avresti voluto: pubblicare in capitoli la tua storia. Non è facile. Non lo è perché hai portato via con te il finale, che ancora una volta vedevi più brutto di quello che era, lasciandoci con un sacco di parole che formavano il tuo passato. A noi non interessava il finale ma avremmo voluto continuare a scrivere insieme cercando un presente possibile. Pubblicheremo nei
prossimi numeri i capitoli che ci hai lasciato, proseguendo la storia della ricerca delle tue origini che avevi cominciato a raccontarci nei numeri precedenti, così che tu sia ancora con noi, perché tu possa continuare a trasmettere agli altri. Questi capitoli erano solo l’inizio della tua storia, sarebbe stato bello leggere anche dell’esperienza di Sampa: solo di quella fase della tua vita avresti potuto scrivere e lasciare tanto. Donare agli altri una parte di te che non era solo dolore, non solo merda e sangue. Sì, qui in Panka, siamo tristemente incazzati per questo finale. P.s. Quanto a noi due, Simone, abbiamo giocato troppo poco a Tresette ed io avevo da imparare ancora qualcosa da te
delle birre e insieme fumarono dell’erba, io aspettai poco lontano da loro. Riuscivo a sentire le loro voci e l’odore degli spinelli. Dentro di me pensai e ripensai almeno un milione di volte a come potevo avvicinarmi e parlarle. Sentivo il bisogno e la voglia era talmente forte che sudavo freddo, allorché mi rullai una canna e, con la scusa banale di farmi accendere, mi avvicinai a loro. Mi presentai e chiamai per nome la ragazza dicendole: “A. in verità il mio nome è L.” . Lei sorridendo mi rispose che L. era suo padre biologico morto o suo fratello biologico dato in adozione come lei molti anni prima. Con un mezzo sorriso sarcastico le risposi “Per esclusione, chi sono?”. Lei si emozionò ed una lacrima le bagnò il viso, poi ne seguirono altre. Io non potei fare altro che versarne altrettante. Quando la situazione si calmò, ci raccontammo i nostri vissuti fino a quel fatidico incontro. I ragazzi che sedevano con lei ci lasciarono soli con la scusa di andare a comprare delle birre. Io e lei parlammo per più di due ore, fino a che notò i segni
dell’eroina che mi iniettavo, in quell’istante mi confidò che anche lei era eroinomane e le sue disavventure. Poco dopo tornarono i due ragazzi con diverse birre, bevemmo e fumammo marijuana, ridendo e scherzando come dei vecchi amici ritrovati dopo molti anni. Ci scambiammo i numeri e ci bucammo più volte insieme. Poi, ad un certo punto, me ne dovetti andare. Ci demmo appuntamento per il giorno dopo. Ero entusiasta, euforico all’infinito. Purtroppo, come nella mia vita è sempre accaduto che un sogno si trasformi in un incubo, mi chiamò il ragazzo di mia sorella: mi disse che A. si era rinchiusa in bagno e si era iniettata l’ultima dose. Era morta e allo stesso momento una parte di me era morta con lei. Il destino, ancora una volta, aveva infierito su di me ed inferto l’ennesima cicatrice in un cuore già solcato da innumerevoli squarci. Con la sofferenza e la tristezza più cupa che aleggiava nella mia mente, quanto successo accrebbe la voglia in me di trovare L. l’altra sorella perduta. Ma questa è un’altra storia
NON SOLO SPORT
A Claut, tra gli sport del ghiaccio Protagonista lo stadio Alceo della Valentina dove si praticano pattinaggio di figura, short track, curling e, in modo amatoriale, anche l'hockey di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon Lo stadio del ghiaccio di Claut “Alceo della Valentina”, intitolato al sindaco che ne volle la costruzione, è una delle migliori strutture in regione e in Italia per quanto riguarda gli sport sul ghiaccio. Meglio conosciuto con il nome improprio di “Palaghiaccio”, l'impianto ha una capienza di seicento posti a sedere, una regolare pista adatta al pattinaggio di figura, allo short track e all'hockey su ghiaccio e una pista aggiuntiva dedicata al curling. L'impianto è in grado di ospitare competizioni importanti come campionati italiani, coppe Italia e gare internazionali; nel 2006 è stato anche teatro degli europei di curling, sport per il quale la struttura sarà coinvolta alle Olimpiadi invernali giovanili del 2023.
La storia del ghiaccio a Claut inizia nel 1974 con la nascita della “Polisportiva Claut”, società che comprendeva tutti gli sport tranne lo sci. Alessandro Della Valentina – attuale gestore dello Stadio del Ghiaccio – ci racconta l'evoluzione che dagli anni '70 ha portato alla costruzione dell'impianto. «In quegli anni la pista era di ghiaccio naturale - esordisce - si bagnava con l'acqua e si tirava manualmente. Negli anni Novanta sorse il primo impianto refrigerante artificiale, ma la pista era ancora all'aperto, solo nel 2003, in occasione delle Universiadi, è stata fatta la copertura ed è nato lo Stadio “Alceo Della Valentina”». Oggi il palaghiaccio è aperto da ottobre a marzo, con un'affluenza media di 7000 visitatori l'anno. Oltre al pubblico e alle società sportive, c'è un buon coinvolgimento delle scuole superiori, sono circa venti gli istituti che ogni anno organizzano queste gite sul ghiaccio. Per i gruppi organizzati è possibile creare delle aperture speciali permettendo ai ragazzi di provare il pattinaggio e il curling. La Polisportiva Claut e l'Associazione Sportiva Curling Claut sono le due principali realtà che riempiono il palaghiaccio durante i mesi di apertura. Giovanna
Di Daniel, presidente della Polisportiva, ci spiega che all'interno dello Stadio del Ghiaccio si occupano di short track, ovvero il pattinaggio di velocità su pista corta, e di pattinaggio di figura. «Per lo short track - dice - abbiamo una trentina di atleti, una squadra master e una junior, entrambe impegnate nel campionato italiano e abbiamo avuto anche atleti convocati in nazionale». Rispetto al pattinaggio artistico, a Claut, ci sono atleti di tutte le età e, in passato, ci sono state delle pattinatrici che hanno raggiunto ottimi risultati a livello nazionale. Un dato che emerge dalle considerazioni della presidente riguarda però la difficoltà nell'appassionare i ragazzi più vicini affinché si mettano in gioco in questi sport «Abbiamo atleti da fuori regione - spiega Di Daniel - e collaborazioni con tutto il nord Italia, addirittura con il Quatar e la Francia ma la vera sfida è influenzare positivamente il nostro stesso territorio». Dal 1977 l'Associazione sportiva curling Claut si è staccata dalla Polisportiva per intraprendere un percorso autonomo che ha portato oggi lo Stadio del Ghiaccio ad essere un punto di riferimento per il Curling. «Fino a dieci anni fa - racconta il presidente Fausto Pedergnana -
c'erano cinquanta soci attivi, oggi siamo meno di venti». I numeri più esigui di associati testimoniano la difficoltà che questi sport incontrano in Italia. «Non abbiamo la cultura del ghiaccio e logisticamente i giovani del territorio faticano a praticare il nostro sport - prosegue Pedergnana -. Gli atleti attivi però sono molto motivati, vengono da lontano e, con le nostre tre squadre abbiamo trasferte in tutto il nord Italia”. L'impegno della società nello spesare di quasi tutto i suoi atleti è lodevole ed oltre le due squadre Junior e Senior c'è anche una squa-
dra con sei componenti di wheelchair Curling, ovvero lo sport praticato in carrozzina. Uno sport che a Claut viene praticato solo in modo amatoriale è invece l'hockey su ghiaccio. Anche questa disciplina stenta a diffondesi nel nostro paese, infatti ci sono solamente una decina di squadre, tutte del nord Italia che si dividono e partecipano a tre diversi campionati. In Friuli solamente Pontebba aveva creato una squadra e partecipato alla serie A, tuttavia al momento non esistono realtà organizzate di hockey su ghiaccio in regione.
La curiosità
Hockey e divertimento al palaghiaccio Il racconto di un giocatore: «Sport duro, ma dal grande spirito di squadra» Alessandro Del Favero è un ex giocatore di hockey che ha militato nel Belluno e nello Zoldo, giocando in serie C per tredici anni. «Sono cresciuto in un paese del Cadore - racconta - e, come qui da piccoli si gioca a calcio, da noi ci si faceva la pista con l'acqua ghiacciata, le stecche coi rami degli alberi e si giocava, o meglio, si provava a giocare. La passione c'era anche perché il Cortina Hockey in quegli anni era molto forte e noi bambini sognavamo di sfrecciare come quei campioni». Cosa ti piace di più dell'hockey su ghiaccio? «E' uno sport duro e di contatto - osserva -. Alla fine della partita però le due squadre si salutano sportivamente. E' una palestra di vita, dove ci vogliono coraggio, cuore ed energia. C'è il pregio degli sport di squadra di soffrire, vincere, pareggiare o perdere insieme, diventando una famiglia nella quale ci si aiuta e protegge. Io ero difensore e quel disco che pesa due etti e viaggia anche a 130 km/h non lo vedevo molto, il mio compito era fermare l'attaccante». Alessandro racconta di essersi anche fatto male qualche volta ma di non avere mai avuto paura. «L'intensità ed il coraggio che ci mettevo - dice - mi hanno permesso di giocare alla pari con atleti molto più forti di me tecnicamente». Alessandro si definisce il più vecchio giocatore di hockey in attività nel territorio. «In inverno ci troviamo allo Stadio del Ghiaccio di Claut - prosegue - la domenica e giochiamo due ore in modo amatoriale, dalle due alle quattro. Ci sono russi, cechi, slovacchi, americani e italiani; è una bella realtà eterogenea, giochiamo per divertirci, organizziamo tornei e coltiviamo la nostra passione. Ovviamente siamo aperti a chiunque voglia cimentarsi con la mazza e provare questo sport appassionante».
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada de I Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009
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Andrea S. Quando la storia della tua vita è un film di Tarantino, quando decidi che la voglia di vivere diventi il finale del film, quando tutto questo è condensato in un unico uomo, all’accendersi delle luci in sala non puoi che applaudire il protagonista. Fa dell’informatica la sua ragione di vita e per ora riesce con grande stile ad accendere il computer! In miglioramento!
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Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: "...si bello, ma non si scrive così in Italiano!" S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara
Andrea Lenardon Andrea fa dell'amore la sua storia. Amore per la famiglia, amore per il suo mestiere, amore per le sfide. Ama la Panka al punto da esserne in squadra senza fare minuti giocati ma tifandola, sostenendola, supportandola. La panka è famiglia, è mestiere, è sfida, quindi Andrea c'è.
Milena Bidinost Per noi avere a che fare con una giornalista di professione non è mai facile: “Milena sai che ho sentito dire che.. vabbè dai, non importa”. Per lei avere a che fare con gli articoli che escono dalla Panka non è mai facile: “Scusate ma non credo che questa cosa si possa scrivere così perché giornalisticamente.. vabbè dai, non importa”. Milena, la mediazione è un’arte! Ben arrivata al MoMA!
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Simone Nel corso degli anni aveva raggiunto tutti gli apici possibili, che fosse Everest o Fossa delle Marianne, che fosse vita o che fosse morte, che fosse amore o che fosse odio. Stare con lui significava passare dall’essere certi che non ci fosse più nulla da dire al restare sbalorditi dal fatto che ti aveva ascoltato per davvero. Dopo un’assenza di tre anni era tornato con una carica speciale…quella che è rimasta nei racconti che ci ha lasciato.
Capo Redattore Chiara Zorzi Redazione Giorgio Achino, Monica Vanzella, marta Pozzi, Francesco, Ionel, Alessandro, Bruno, Emanuele Celotto, Riberta Sabbion, Enza Santo, Andrea S., Sara lenardon, Antonio Zani, Alain Sacilotto, Andrea Lenardon. Editore Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto Impaginazione Ada Moznich
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Direttore Responsabile Milena Bidinost
Giorgio Achino Teatrante per diletto adesso applica la tecnica in Panka. A tutti dice: "Sarò chi vuoi, nella tua personale rappresentazione della vita"; palco e Panka si confondono. Benarrivato in questo teatro! Sempre in scena Giorgio
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Sara Lenardon Seguendo le orme del fratello decide di fare il tirocinio da noi. Pazza. Per cui perfetta. Ginnasta di professione, studentessa per cultura, panchinara per passione. Scrive il suo primo articolo dall’altra parte del mondo, adesso scrive perché da noi ha scoperto un altro mondo.
Stampa Faros Group s.r.l. Via Gorizia,2 33077 Sacile PN Fotografie A cura della redazione. Foto a pagina 1, 4, 5 e 6 dal sito: https://pixabay.com/it/ Foto a pagina 7,8 e 9 di Alessandro Da Lio Foto a pagina 11 di Renato Rossetti Foto a pagina 12 di Massimiliano santarossa Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone Tel. 0434 371310 email: panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Instagram: panka_pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN BCC: IT69R0835612500000000019539 Codice IBAN Credit Agricol Friuladria: IT80M0533612501000030666575 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al giovedì dalle ore 13:00 alle 18:00 e il venerdì dalle 13.00 alle 16.00
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Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!
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Antonio Zani Quando una persona legge molto, quando poi si accorge che scrivere gli riesce, quando è costretto a fare attività fisica ma non gli riesce e non ne ha voglia, quando in tutto questo conosce la Panka, allora che fa? La risposta è Libertà di Parola! Dopo una gavetta alle rubriche ora spazia anche in altre pagine, ma non ti preoccupare Antonio, sempre senza correre!
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Enza Santo Enza sta al Ser.T come la montagna sta alla neve d’inverno... è lì che ti aspetti di trovarla! Per la Panka è stata la neve d’inverno che non è mai mancata! Soffice, lucente, scenografica e determinata. Anche i ghiacciai perenni vanno in pensione ad un certo punto, ma si trasformano in altro, non spariscono, diventano fluidi, irrorano di vita altri luoghi. Sapremo trovarti. Grazie Enza
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Roberta Sabbion Se le giornate durassero 30 ore, a lei non basterebbero comunque! Come ogni ottimo scalatore, conosce perfettamente il significato del gruppo, della fiducia, dell’insieme, dell’obiettivo comune. Legati ma liberi, legati e quindi liberi, per l’Associazione è linfa sempre nuova.
CI SI PUÒ DROGARE DI COSE BUONE E UNA DI QUESTE È LO SPORT ALEX ZANARDI
I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA