LDP 1/2019

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APPROFONDIMENTO

I luoghi e le storie

Libertá di Parola 1/2019 ——

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

CANNABIS LIGHT, LA CONFUSIONE REGNA SOVRANA di Giorgio Achino In molti hanno sentito almeno una volta parlare di “cannabis light”, hanno visto la vetrina di un negozio specializzato che tratta articoli provenienti dalla coltivazione della canapa oppure hanno pronun-

ciato o sentito pronunciare l’associazione tra le parole “cannabis” e “terapeutica”. Tutti, o quasi tutti, ne sanno qualcosa. Pochi, tuttavia, hanno una visione completa e chiara dell'argomento. Que-

È impossibile riassumere in poche pagine di giornale la storia e le curiosità storiche di una città come Pordenone. In questo numero però abbiamo voluto comunque provare a lanciare alcuni spunti – senza la pretesa di essere esaustivi – sperando di solleticare la curiosità di voi lettori. Lo abbiamo fatto parlando di palazzi ed edifici storici del centro e di ciò che al loro interno è successo. Un viaggio dal Medioevo al Novecento. a pagina 7

sto succede perché la chiarezza sul tema “cannabis light”, almeno nel momento in cui esce il nostro giornale, sembra essere una chimera. Abbiamo cercato di fotografare da tre punti di vista la situazione attuale rispetto almercato della cannabis light: quello legale, quello commerciale e quello del consumatore. Anche da “addetti ai lavori” non è stato facile trovare un appiglio, uno scoglio da cui partire. L’impressione è che ogni “attore” abbia il proprio punto di vista, che non collima con quello degli altri. Eppure l'Italia dovrebbe essere il paese più titolato a comprendere il fenomeno, e quindi a regolamentarlo, se consideriamo che nel secolo scorso era il più grande produttore di canapa al mondo. A questa coltivazione veniva dedicato molto più terreno di quanto non gliene venga riservato oggi in tutto il globo. Invece, come spesso accade, l'Italia è il paese in cui l’incertezza la fa da padrona: vale anche per il tema di questo numero “cannabis light”. In materia esiste un vuoto normativo che non aiuta. La legge 242/2016 sulla filiera della canapa in Italia prescrive come limite legale di concentrazione di THC la soglia dello 0,2%: tuttavia entro lo 0,6% il coltivatore-canapicoltore che abbia rispettato le prescrizioni della legge non incappa in responsabilità. Purtroppo le “zone grigie” contenute nella norma – che non entra in particolare nel merito del consumo per uso ricreativo della sostanza - lasciano troppo margine all’interpretazione. A complicare il quadro, lo scorso anno, è intervenuta una circolare continua a pagina 2

PANKA NEWS

“Fisicamente”, arrampicare in gruppo per superare i limiti e la paura dei giudizi a pagina 6

INVIATI NEL MONDO

Due giorni a Siviglia, nel cuore dell'Andalusia: tra arte, cucina e flamenco a pagina 11

IL RICORDO

«Ciao Guerrino, guerriero buono. Hai giocato fino in fondo la tua partita con la vita» a pagina 12

NON SOLO SPORT

Il lato “social” del Pordenone Calcio. Chi cura la comunicazione dei ramarri sui nuovi media, con un pizzico di geniale ironia a pagina 14


IL TEMA

Cannabis light, cosa dice la legge

La cannabis light è legale in Italia da qualche anno, ovvero da quando la legge numero 242/2016 ha stabilito le dosi di THC massime consentite per la produzione e la commercializzazione di tale prodotto a norma di legge. La legge italiana del 2016 non ha reso però legale tutta la cannabis light, ma solo quella in cui il contenuto del principio attivo THC non supera lo 0,2%. Solo se tale soglia non è superata, quindi, la produzione e la commercializzazione della canapa sono ammesse dal nostro ordinamento. Tuttavia, se all'esito dei controlli specifici risulta che la coltivazione ha un contenuto complessivo di THC superiore allo 0,2% ma non al limite dello 0,6%, il coltivatore non incorre comunque in alcuna responsabilità se ha rispettato le prescrizioni dettate dalla legge 242. La coltura della canapa, con i requisiti prescritti dalla legge, è sostenuta e promossa dal nostro ordinamento solo per

specifiche finalità. Ovvero per la coltivazione e la trasformazione; l'incentivo all'impiego e al consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere locali; lo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l'integrazione locale e la sostenibilità economica e ambientale; la produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori; la realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca. Va ricordato però che la legge 242/2016 non fa alcun cenno all'uso ricreativo della cannabis light, che quindi non è né vietato né consentito da tale normativa. Ed è proprio relativamente a tale punto che potrebbero essere sollevate, a ragione, delle questioni relativamente alle lacune legislative attualmente presenti in materia. Rispetto ad esso infatti restano di conseguen-

za vigenti le leggi in materia di sostanze stupefacenti, in forza delle quali non è ammesso fumare cannabis light, neanche con bassa concentrazione di THC. Pertanto, in caso di possesso di cannabis light, in assenza di un'indicazione precisa in proposito, è possibile che si venga fermati e che la sostanza venga sottoposta a controlli per verificarne la legalità. In buona sostanza, la cannabis light può essere quindi messa in vendita in modo completamente legale, ma la presente legge fissa solo specifiche destinazioni d’uso, come quelle alimentari, cosmetiche e per la bio-edilizia. Nessuna menzione alla vendita per uso ricreativo, punto questo da tenere ben chiaro per chi desidera intraprendere questo business. La vendita come prodotto pensato per essere fumato non è sostenuta da specifiche norme sanitarie e quindi non è al momento supportata dalla legge. Invece altri usi, come ad esempio la commercializzazione come deodorante per ambiente o per collezionismo, risultano completamente legali (non implicando necessità di essere normati a livello sanitario) e se poi il consumatore una volta uscito dal negozio decide di farne un utilizzo diverso, il rivenditore non ha alcuna responsabilità in meri-

continua dalla prima pagina

negozio e la segnalazione al Prefetto dei consumatori, i quali rischierebbero quindi di subire le pene amministrati-

ve riservate agli assuntori di droghe. Nessun rischio invece per i coltivatori, come previsto dalla legge sulla canapa.

La normativa in materia ed il vuoto legislativo rispetto all'uso ricreativo della sostanza di Avv. Rosanna Rovere, presidente Ordine degli Avvocati di Pordenone

del Ministero degli Interni: spiega alle forze di polizia come comportarsi nei confronti dei commercianti che vendono cannabis light e bandisce la cannabis con THC oltre lo 0,5% (da considerare quindi come stupefacente e da sequestrare). La circolare è un vademecum per le forze dell’ordine e le sue le conseguenze, per prodotti con THC superiore allo 0,5%, sono la contestazione del reato di spaccio per il titolare del

to. A conferma di un trend in continua crescita, si evidenzia che nel 2005 i cosiddetti grow shops erano soltanto un centinaio in tutta Italia, mentre ad oggi se ne contano già più di 400. Il consumatore tipico della sostanza in oggetto non è facilmente identificabile ed inquadrabile in una tipologia. Circa il 10% dei clienti dei grow shops è nella fascia 1825 anni, il 70% ha 26-55 anni, il resto è over 55. Per quanto riguarda la tipologia, c'è di tutto: dall'operaio al dirigente, dal medico a degli utenti malati. Per quanto riguarda il consumatore che, nello specifico, incorre in problemi giudiziari non esistono statistiche. Del resto la platea degli utenti è molto ampia ed abbraccia persone di età che vanno dai 18 ai 60 anni, di diverse nazionalità e di differenti posizioni sociali. Sempre nel 2018, inoltre, la Corte di Cassazione ha stabilito che - poiché la legge 242/2016 non lo ammette, ma neppure lo vieta - fumare cannabis light con THC al massimo allo 0,6% non è reato. Insomma la questione è molto, molto confusa. E questo succede in un settore in cui si sta assistendo ad una fioritura (sembra proprio il caso di dirlo) di grow shop e di brand che distribuiscono cannabis light italiana: secondo Coldiretti il giro d'affari stimato è di oltre 40 milioni di euro l’anno.


Visita ad un hemp shop In vendita anche prodotti con THC superiore allo 0,2%. «I produttori e i fornitori offrono questo» di Chiara Zorzi

È una pratica diffusa quella di comprare merce sfusa per poi imbustarla in un secondo momento? Si, che io sappia lo fanno tutti. La merce arriva tramite corriere o poste italiane, poi bastano un bilancino di precisione, una sigillatrice e dei guanti. La fattura è trasparente, ovvero c’è scritto chiaramente “infiorescenze di canapa secondo la legge…” con allegate le analisi del prodotto eseguite anche da più laboratori. Tutta la merce deriva da coltivazione italiana, ad esempio la parte cosmetica è prodotta a Padova, quella alimentare a Mantova, le infiorescenze a Reggio Emilia e in Calabria. Solo l’olio è prodotto in Italia e anche in Olanda. La coltivazione invece avviene soprattutto in Toscana, ma in generale un po' in tutta Italia.

La marijuana è diventata legale anche in Italia e si può vendere (ai maggiorenni), comprare e consumare purché nella sua versione “light”. La legge stabilisce che non servono autorizzazioni per coltivare, vendere e detenere cannabis con THC sotto lo 0,2%. Abbiamo voluto capire più da vicino il fenomeno, entrando in un negozio del Pordenonese aperto da poco più di sei mesi. Ci ha accolti Maria, nome di fantasia. Giovane, disinvolta e disponibile al confronto; lei, del negozio, è la commessa mentre i titolari sono due amici che hanno sempre avuto una passione per la canapa sotto tutti i punti di vista. Come nasce l’idea di aprire un negozio di questo tipo? L’idea di apertura di questa tipologia di negozio nasce dalla passione dei due soci, che si sono ben presto resi conto del cambiamento del mercato del consumo di cannabis da quello tradizionale a quello light (minime concentrazioni di THC, elevato CBD, ndr) che la gente utilizza per rilassarsi e auto curarsi, unendo così l’utile al dilettevole. Cosa significa avere un negozio di cannabis? Aprire un negozio del genere è stata una scelta difficile perché il territorio in cui viviamo è ancora ricco di pregiudizi e piuttosto borghese. Certamente il fatto che non esisteva una realtà simile nei dintorni ha favorito l’apertura dell’attività. Tutt’oggi ci sono ancora molte persone che ogni qualvolta vedono esposto il simbolo della foglia di marijuana cambiano espressione in volto, altre invece riescono ad andare oltre le apparenze ed entrano per curiosità e per chiedere informazioni. Finora comunque non abbiamo mai ricevuto contestazioni o lamentele sull’attività che svolgiamo, ma per evitare un impatto visivo eccessivo dell’immagine simbolo della foglia di marijuana abbiamo preferito esporre anche prodotti, alimentari e di cosmesi. Le infiorescenze (dalle quali

in termini di effetti psicoattivi, in realtà nulla cambia. Noi acquistiamo da grossisti italiani di Reggio Emilia, della Calabria e da altre regioni ancora. Alcuni vendono il prodotto sia sfuso che già imbustato, altri invece lo vendono esclusivamente già pronto.

si ricava la cannabis light) rimangono un prodotto per un certo tipo di clientela e rappresentano circa il 70% delle vendite. Negli hemp shop si vendono anche prodotti con una percentuale di THC dello 0,5% o 0,6%, ovvero superiore allo 0,2% che è il limite imposto

dalla normativa. Avete mai avuto dei controlli? No, mai nessun controllo. Abbiamo provato a regolarizzarci, ma i produttori e i fornitori ci forniscono prodotti con un THC di 0,6%. I consumatori a loro volta acquistano prodotti con la percentuale più elevata di THC illudendosi che da 0,2% a 0,6% cambi qualcosa

La clientela Chi è il cliente tipo di un hemp shop (così si chiamano i negozi che vendono canapa e derivati)? “La clientela è davvero eterogenea – riferisce un esercente locale - si passa da chi è informatissimo a chi non ne sa nulla ed entra in negozio per curiosità. Ci sono giovani, maggiorenni, che sanno tutto sull'argomento, altri invece che chiedono informazioni e ai quali rilascio volantini informativi sui prodotti. In generale - aggiunge - le persone più informate hanno 30/40 anni”. Il cliente tipo, poi, varia molto a seconda del prodotto. “Le infiorescenze interessano una fascia di età tra i 20 ai 45 anni, prevalentemente over 30 – continua l'esercente -. C'è chi fuma in cerca di semplice relax, e chi come professione guida mezzi che prevedono analisi che, pare, con livelli di THC così bassi non darebbero esiti positivi. L’olio di CBD è utilizzato prevalentemente da persone con problemi di insonnia, attacchi di panico, morbo di Parkinson, che cercano alternative al farmaco, per lo più over 50. Rispetto gli alimentari, invece, il consumatore medio è donna, tra i 30 e i 50 anni, attenta alla linea, che di norma compra prodotti bio”. “In molti casi – conclude – i nostri clienti raccontano di voler mantenere vivo attraverso la cannabis light, e quindi a condizioni diverse, sensazioni provate durante la loro gioventù, con una consapevolezza e con dei limiti dettati dal loro essere adulti”.

Dicevamo che il 70% dei prodotti venduti nel vostro negozio è dato dalle infiorescenze. Esatto. Però vendiamo piuttosto bene anche le tisane e la birra grazie ai principi nutrizionali che contengono, fonte di attrazione per i clienti. Questi prodotti sono privi di CBD e THC, infatti in etichetta c’è scritto solamente “canapa alimentare”. Le tisane contengono anche degli aromi naturali dato che la canapa ha un sapore che ricorda quello della paglia o del fieno, che non è poi così gradevole.


RUBRICHE

IL MIO “RAP”, IL MIO “TRAP” «Spero che il mondo migliori: con la mia musica cerco di dare messaggi positivi» di Kevin La musica Rap e Hip Hop (una branca del rap) nascono nel Bronx agli inizi degli anni Settanta, grazie ai fratelli Cindy e Clive Campbell, che ben presto diventeranno un punto di riferimento per gli afroamericani che vivono nei quartieri malfamati di New York. Questo genere musicale diventerà uno stimolo per i giovani, aumentando il senso di inclusione sociale, la voglia di emergere, di creare e distinguersi. Personalmente mi sono avvicinato al rap ascoltando il gangsta rap, un filone del rap che tratta temi di attualità, rappresentato da artisti noti al pubblico come 2Pac, Warren G. ed altri ancora. Di questo stile mi piaceva il modo in cui venivano raccontate le storie, perché basate su fatti reali con i quali spesso mi identificavo. La canzone che più mi ha condi-

zionato è stata “Fk the police” dell’N.W.A, nella quale emerge una forte disuguaglianza tra il potere delle istituzioni e dei cittadini. Io stesso scrivo musica, e nei miei testi voglio far emergere questa differenza, perché spesso noto diseguaglianza sociale in questo paese. Mi dà rabbia il fatto che poliziotti, magistrati, giudici e avvocati abusino del loro potere per danneggiare le persone. Io invece vorrei semplicemente un mondo più giusto. Un’altra branca del Rap è la musica Trap, caratterizzata da testi cupi e minacciosi, per certi aspetti molto simili alla musica Rap. La vera differenza è evidente soprattutto nel modo di cantare, decisamente più orecchiabile e “alla mano”, oltre che nelle basi musicali, caratterizzate da una continua ripetizione di suoni elettronici

“Chi se ne frega della musica” Relegata a intrattenimento e bene di consumo, non viene rivendicata la sua autonomia di Marlene Prosdocimo Ancora ci risuonano nelle orecchie i dibattiti sull’ultima edizione del Festival di Sanremo, dibattiti che hanno anche coinvolto aspramente politici, sconfinando in questioni

ideologiche. Il punto focale di queste discussioni, la maggior parte delle volte se non sempre, era rappresentato dal testo dei vari brani sulla piazza; era il fatto che alcuni potessero sembrare inappropriati o particolarmente“emozionanti” o p p u re a n c o ra toccanti in quanto raccontavano storie struggenti e che sarebbero potuti d i ve n t a re

e vocali, che si protrae senza modifiche per tutta la durata della canzone. Questo tipo di musica per qualche motivo che ancora fatico a spiegare mi coinvolge particolarmente, è come se in quel momento io stesso sia parte della musica. Il rap è parte della mia cultura: non c’è cosa più bella per me che poter esprimere le emozioni e lo stato d’animo raccontando la propria storia attraverso l’uso delle rime. Sento di condividere i contenuti e le forme di questi stili musicali, ma allo stesso tempo mi piace anche immaginare che in un futuro non troppo lontano ci possa essere un’evoluzione nei testi che vadano di pari passo con la mia crescita personale e la

mia visione del mondo. Con il passare degli anni, sento che vorrei avere una visione più equa della vita, perché un giorno spero che il mondo migliori sotto tanti aspetti. Il messaggio che vorrei dare alle nuove generazioni attraverso la musica, è di positività e speranza, perché è quello in cui credo ora.

manifesti d’integrazione. Ma qualcosa sfugge: la musica in sé non viene quasi calcolata, v’è un’enorme sproporzione tra significante e significato. Anni di storia della musica si vedono così abbattuti, ci si stupisce con rinnovato sentimento dei riferimenti alla droga e intanto, per citare Caparezza, "Chi se ne frega della musica". In questo mondo nuovo si rifonda completamente una musica al servizio di altro, la sua autonomia non viene rivendicata. Viene considerato rivoluzionario ciò che è oggettivamente già sentito: non per questo non potrebbe essere apprezzabile, sia chiaro, ma al contempo andrebbe riconosciuto il debito che lo vede figlio del preesistente. I cosiddetti “grandi del passato” non annoverano tanti compositori o esecutori che davvero sono stati maestri della tecnica o che padroneggiavano questa “ars” in modo non di immediata comprensione. È amabile ciò che è orecchiabile, ciò che parla esclusivamente del quotidiano o che ha un tessuto lirico predefinito. Amplificare i propri sentimenti in modo banale è diventato il Verbo, l’estetica musicale si secca in regole base dell’ar-

monia. Manca spesso un’educazione di fondo alla Musica, ormai popolarmente relegata a intrattenimento e bene di consumo. Alcune scene rischiano di diventare sempre più di nicchia e rasentano l’estinzione. Avviene una naturale evoluzione che però rischia di impoverire realtà che, con un minimo di attenzione, potrebbero potenzialmente parlare a tutti. Realtà così variegate che andrebbero incontro ai gusti più disparati ma che sono impossibilitate in quanto l’industria non pare trovarvi profitti esorbitanti. One of the wonders of the world is going down (Porcupine Tree), ma la questione non viene affrontata come si dovrebbe. Si confondono il background dei generi musicali con i generi stessi, alimentando preconcetti che debilitano solamente un ascolto aperto. Dilaga l’immagine costruita ad hoc e non la musica in sé. Le riflessioni in merito possono facilmente scadere in generalizzazioni. Proprio per evitare ciò sarebbe necessario trovare il tempo per analizzare e sviscerare la questione, senza dimenticare che si parla di una delle più antiche compagne dell’uomo.


Il silenzio di uno sguardo Mille volti di donne in una sola storia, mille storie segnate dalla stessa violenza di Virginia Bettinelli Mi piace questa parrucchiera perché è silenziosa, così posso anche leggere durante la piega. Un giorno però, forse perché aveva intravisto i titoli delle mie letture ed eravamo sole, è partita da zero a cento senza darmi neanche il tempo di respirare. «Eh sì, quanti rischi corrono le ragazze. Io sono stata violentata a quattordici anni da un amico di mio padre. Era un porco, la moglie piangeva spesso. Malata, tornava distrutta dalla chemio e lui la voleva scopare comunque». Ed io: «Aiuto. Ecco, ci risiamo», zero a cento e gamba tesa. Conosco questa modalità: è anche la mia. C’erano calze rotte e una ragazzina che si sentiva in colpa, una madre e una nonna che insabbiavano tutto; ed un padre che dopo trent’anni ancora non sa nulla; quando erano bambine, a lei e la sorella più piccola gridava: “Andatevi a vestire puttane!”, se indossavano una gonna. “Cosa Sono passati più di trentasette anni da quando sono stato adottato. Sono nato a Trieste, mio padre biologico era di Arezzo, mia madre triestina. Fino a qualche anno fa la voglia e la curiosità di ricercare la mia famiglia biologica non era ancora “il mio chiodo fisso”, bensì un desiderio che affiorava durante il tempo libero. Un giorno mi ritrovai in un letto d’ospedale trafitto da diverse flebo a causa dell’ennesima overdose; di fronte a me c’era mia madre adottiva in lacrime, non era la prima volta che mi vedeva così. La rabbia e la continua preoccupazione fecero uscire dalla sua bocca una frase che mi arrivò al cuore come una pugnalata: «Simone si vede che non sei figlio nostro, da qualcuno devi aver preso». In quel momento delle emozioni molto contrastanti mi fecero risponderle con la frase più perfida che un figlio possa dire: «Se il tuo Dio non ti ha permesso di avere figli, io due domandine me le fa-

guardi baldracca, abbassa lo sguardo troia!”, se salutava un cliente uomo. Le insultava davanti alla clientela del bar dove le faceva lavorare tutto il pomeriggio durante il periodo scolastico e tutto il giorno d’estate. Avvolte da fumo di sigaretta acre di MS e sguardi vogliosi di vecchi malandati. E poi un giorno, c’era una

macchina con le porte chiuse e lei bloccata sul dirupo. C’erano un orco e la sua vittima. C’erano omertà e ignoranza. Quell’adulto meschino l’aveva costretta minacciandola: sarebbe andato a dire a suo padre che lei continuava a fargli le moine. Così l’ha obbligata a saltare l’ora di ripetizioni, e l’ha sequestrata in auto fino a quei campi che

lei conosceva bene, perché erano quelli dove suo padre la portava a passeggiare qualche volta da bambina e ora questo mostro proprio lì, la violentava bavoso e avido e perverso. Alla fine, la faceva “pulire” con la bavaglia di sua figlia. Cosa potrà più pulire quel dolore vivo di giovinezza spenta? Quel freddo

Di chi sono figlio...? «Sono stato adottato e da qualche anno sento il bisogno di saperlo» di Simone rei». Mia madre adottiva, da ragazza, ebbe un tumore per il quale le asportarono l’utero. Non mi resi conto del male che in quel momento la mia bocca aveva generato e neanche riuscivo a comprendere l’entità della disperazione e del dolore che quella donna provava per l’ennesima volta. Per più di un anno non le rivolsi parola e le vietai

persino di salutarmi e venire a trovarmi. Poiché si dice che nel nostro bagaglio genetico risiedano i vari “perché” dei nostri comportamenti e scelte che nella vita ci possono condizionare, un giorno trovai la forza di andare da lei e chiederle di chi ero figlio, dato che erano palesi le differenze tra me e la mia famiglia adottiva. Mia madre mi diede l’estratto

siderale delle vene, che ti fa paura e ti senti di morire? L’urlo dentro che non riesce ad uscire e quel lieve sussurro senza fiato che da nessuno vuol essere sentito. Che nessuno sa ascoltare. Io sì, anche se mi si aggrovigliano le budella, ti ascolto oggi interrompi il tuo silenzio sospeso. Posso ascoltare. Ti sento. Mi laceri. Sono mille volti di donne in uno. Sono mille scarpe rosse abbandonate in una piazza. Dove sono quelle donne che una volta ti sorridevano danzando? Dove sono le madri, le sorelle, le figlie? Put your red shoes on and dance with me. Sorridi ancora per me, danza ancora per me ragazza silenziosa! La piega è finita, i miei capelli risplendono. La guardo dallo specchio nel quale mi rifletto e lei abbassa lo sguardo dietro di me. «Non porto rancore, me la sono messa da parte», dice, poi lo rialza un attimo per fissarmi: «Ho due figlie a cui badare» continua con la voce ferma ed il tono deciso. Pago, ringrazio e me ne vado. Anch’io ho tre figli a cui badare. E dentro ho un’altra storia che devo raccontare, per rompere quel silenzio nel vuoto pneumatico di un orribile ricordo che viene da oltre la siepe e dar finalmente voce all’usignolo, rimasto in silenzio così a lungo. E dentro, dentro, ho un’altra storia che non potrò mai dimenticare. generale di nascita, cioè il documento nel quale la madre biologica, avallata da due testimoni, dichiara che quel bambino è figlio suo e può essere dato in adozione (i due testimoni erano mio padre biologico e la sua prima moglie). Tra le varie informazioni che recuperai sulla mia adozione, riuscii a sapere che mio padre era un cabarettista di discreto successo e mia madre una prostituta, in più avevo un fratello e una sorella, due fratellastri e una sorellastra da parte di madre con padri sconosciuti. Ritornai a casa con milioni di pensieri. Avrei sempre voluto avere dei fratelli e delle sorelle, essere figlio unico comporta solitudine e senti il bisogno di appoggiarti a qualcuno e sostenere qualcuno. Io nella mia famiglia mi sentivo continuamente fuori luogo a cause dei vari disagi comportamentali. Da quel momento le mie domande ricorrenti sono state: chi sono e cosa sono? Ma questa è un'altra storia.


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Radio Punk, la webzine autogestita Ad animarla è un collettivo che realizza progetti aperti a tutti e che richiama persone da ogni parte d'Italia di Gianluca Giannetto Pordenone è stata, e per certi versi lo è ancora, una delle capitali della musica alternativa in Italia. Tra i generi di cui è stata avanguardia c’è sicuramente il Punk che per molti giovani locali ha rappresentato uno dei primi incontri con la musica. Per capire quanto è diffusa questa sottocultura a Pordenone e in Italia, ho incontrato Simone e Elizabeth, due giovani pordenonesi che hanno un approccio particolare al genere: non suonano strumenti ma vivono giornalmente il Punk, raccontandolo attraverso recensioni di concerti in giro per l’Italia e dischi da tutto il mondo sul sito di Radio Punk. Partiamo dalla domanda più facile: che cos’è Radio Punk? Ciao e grazie dell'interesse. Radio Punk nasce nel 2011 con l'idea di fare una web radio, per poi di di-

ventare una webzine e scrivere recensioni, interviste, live report e news sul nostro sito. Oltre a questa attività, realizziamo varie auto-produzioni con oggetti di riciclo, co-produciamo dischi secondo l'etica DIY (Do It Yourself) e abbiamo una piccola distro che portiamo ai concerti. Tutto questo sotto il segno del dinosauro, il nostro logo. Di fatto siamo un collettivo, composto da diverse persone in giro per l’Italia, che si concretizza in un insieme di progetti autogestiti, aperti a chiunque voglia scrivere un articolo o raccontare una esperienza. Qual è la situazione del Punk in Italia, is dead or alive? Il Punk è sempre stato una controcultura con un forte carattere ribelle. Ha vissuto tempi migliori ma dire che è morto è assurdo. Ci sono un sacco di band che intendono il Punk per quello che è, ovvero un modo di vivere prima ancora che musica, come sono molti gli spazi sociali, le crew e le individualità che ancora portano avanti lotte, concerti e momenti aggregativi. Per cui non crediamo affatto che sia morto, però c'è bisogno di ricambio generazionale, di supportare anche le nuove band e i nuovi collettivi che portano avanti delle idee e delle pratiche diverse da quelle imposte dal pensiero dominante. Pordenone è ancora la “capitale” del Punk? Pordenone è croce e delizia. È una città benpensante, difficile e diffidente e, ad oggi, la situazione non è rosea. Ci sono tante band come gli Amici Inseparabili di Sempre, A New Scar, Methedrine, Daltonic Out Cry o gli Ant Abusers. Gli spazi liberi dove suonare pochi, l'unico rimasto in cui si va oltre alla semplice serata è il Prefabbrikato dove il Circolo Zapata e il PNRebel hanno organizzato diversi concerti, tra cui quello ormai canonico del 25 aprile. Ma non perdiamo le speranze, bisogna tenere viva la scintilla Noi lo facciamo su Radio Punk, al sito www.radiopunk.it e nelle nostre pagine social facebook e instagram.

PANKA NEWS

“Fisicamente”, arrampichiamo insieme Lo sport di gruppo che rimette la vita sui binari giusti e riaccende la fiducia in se stessi di Moreno Si chiama “Fisicamente” il gruppo di arrampicata nato all'interno del progetto “Montagnaterapia” del Dipartimento delle Dipendenze dell'Azienda sanitaria 5 di Pordenone. L'idea è di proporre alle persone con dipendenza un'attività che permetta non solo di uscire dalla routine quotidiana, ma soprattutto di praticare uno sport che consenta di mettere in discussione i propri limiti senza il timore del giudizio altrui. Riuscire ad affrontare una parete senza sentirsi giudicati è infatti una delle numerose capacità che, grazie all’arrampicata, si impara nel tempo. Ciò che per primo colpisce in chi è alle prime armi è il contatto con le proprie emozioni nell’affrontare la parete. Benché all'inizio la paura sia una compagna d'avventura quasi inevitabile,

nel tempo questa emozione si lascia gestire grazie all'esperienza e alla fiducia verso se stessi e verso il compagno che si trova diversi metri più in basso per “far sicura”. Nei momenti di insicurezza nell'arrampicare, l'incoraggiamento che arriva da chi sta sotto di te è importantissimo: se la tentazione di scendere è grande, le urla a proseguire che giun-

gono dal basso lo sono ancor di più. Praticare con costanza, impegno e dedizione questa attività aiuta a lavorare sulla propria autostima, dando la possibilità di affrontare la vita con più grinta. Questa capacità ti fa capire di avere intrapreso un percorso che porta ad un livello di salute e benessere sia fisico che mentale. Al di fuori della palestra, i be-

nefici di questo sport si riflettono anche sulla qualità della vita stessa. I problemi vengono affrontati con più coraggio e determinazione, la voglia di sentirsi autonomi cresce e l'apertura ad altre esperienze diventa meno difficoltosa. Chi l’avrebbe mai detto che uno sport di gruppo possa mettere la tua vita nei binari giusti. Sentirsi parte di un gruppo che funziona, che è solido e affiatato, produce molta sicurezza e fiducia in sé stessi, permettendo spesso di superare barriere considerate invalicabili, ma che in realtà, con il giusto sostegno, non rispecchiano altro che i limiti che la nostra mente crea. Avere un obiettivo - che sia scalare una parete di roccia oppure qualcosa al di fuori della palestra dà un senso ulteriore alla vita di ognuno, permettendoci di gioire ogni volta che viene raggiunto. Quando l’attività è finita e torniamo tutti nelle nostre case, ci portiamo dentro quella piacevole sensazione di sintonia e fiducia reciproca utile a comprendere che a volte nella vita è necessario allearsi con altre persone per superare gli ostacoli che la vita stessa ci offre.


L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————

Alla scoperta di Portus Naonis di Milena Bidinost I luoghi conservano la storia e “raccontano” al visitatore attento i ricordi e le curiosità che si sono conservati dentro le loro mura, agli angoli delle vie, sulle colonne dei palazzi. Per coglierli ed assaporarli – facendo un tuffo nel passato più o meno remoto – è importante conoscerli. Anche Pordenone, non meno di altre città, ha molte curiosità immortalate nel suo album dei ricordi. Ma quali sono? Ce lo siamo chiesto e, per ragioni di spazio, abbiamo deciso di raccontarne solo alcuni, facendo parlare non tanto i luoghi quanto le vite vissute in essi. Ecco quindi che, passeggiando in vicolo Molino, ci siamo soffermati sulla stele presente nel parchetto rendendo omaggio a Angioletta delle Rive, una popolana pordenonese che morì a Udine nel carcere dell’Inquisizione il 4 gennaio del 1651 e della quale ha raccontato la storia Ornella Lazzaro, nel libro «Le amare erbe» pubblicato nell'ormai lontano 1992 dalle Edizioni Biblioteca dell'Immagine. Incuriositi, abbiamo poi scoperto – dalla “Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità del Friuli” di Zanolli R., Roma 2004 - che anche Pordenone tra il '500 e il '600 ha avuto i suoi maghi e fattucchiere. Nel XVI secolo, ad esempio, operava la maga Euridice, conosciuta per alcuni rituali volti a ritrovare oggetti smarriti e rubati: scoperta dall’Inquisizione, per salvarsi la vita fu costretta a convertirsi ed obbligata a non ripetere più magie e riti. Nella seconda metà del XVI secolo era attiva la strega Giacoma Pittacola, a cui si ricorreva per consulti o sortilegi. Anche lei fu chiamata davanti all’Inquisizione ma per più di venti volte riuscì a non presentarsi. Non è noto l’esito finale della sua storia. Nel secolo successivo, invece, fu la volta del mago Aquino Turra. Proseguendo la nostra camminata ed arrivando in piazza della Motta inevitabile è stato soffermarsi a guardare il Castello di Pordenone, oggi carcere,

e chiedersi che vicende lo abbiano attraversato. Allungando lo sguardo c'è poi un altro castello, quello di Torre, oggi sede del Museo Archeologico del Friuli Occidentale. Sette secoli fa – alla fine del Medioevo - tra i due esistevano aspre contese che insanguinarono le comunità di Torre e Pordenone. La famiglia dei Torre Ragogna, durante il Quattrocento, si persuase di usare delle brutali truppe mercenarie per ricondurre all'ordine i riottosi contadini locali di Pordenone. I Pordenonesi per vendicarsi fecero precipitare sulla rocca la furia dell'esercito che incendiò il castello e sterminò la signoria, uccidendo donne e bambini. Intanto continuiamo ad osservare ancora un attimo le mura dell'antico castello di Pordenone: costruito attorno al 1270 cessò di essere centro di comando e presidio militare nel 1833, quando venne adibito a carcere. È una destinazione questa, com'è noto, che da allora non gli fu più cambiata. Usciamo quindi dal centro e raggiungiamo, in via Molinari, le Casermette che ci fanno fare un salto temporale di cinque secoli, approdando nell'era del Fascismo: per l'Aned e per l’Anpi il luogo è simbolo di interrogatori e torture ai partigiani. Le stanze dove venne rinchiuso il comandante partigiano Franco Martelli Ferrini, prima di essere fucilato dai nazifascisti il 27 novembre 1944, già conservano oggetti personali e indumenti dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti di Dachau, Mauthausen, Flossenburg, nonché le foto di partigiani e antifascisti che subirono sevizie e torture per mano della brigata nera fascista, insediatasi in via Molinari dalla tarda primavera del 1944. Sono solo poche tappe, dicevamo all'inizio, tra le tante che Pordenone consentirebbe di fare alla scoperta del suo passato. Per ora le abbiamo solo sfiorate. Nelle prossime pagine, ripercorreremo il percorso entrando nel vivo delle storie.


Angioletta delle Rive e i fiori dell’8 marzo Vittima delle maledicenze, morì nel 1651 nel carcere dell'Inquisizione di Udine prima del processo di Marta Bottos Qualcuno ci avrà fatto caso. Ogni anno, l’otto marzo, vengono lasciati dei fiori presso la stele del parchetto di vicolo del Molino. Come mai? Come in ogni giallo che si rispetti, la prima cosa è recarsi sul “luogo del delitto” e cercare delle tracce. In questo caso il gioco è facile. Sulla stele, infatti, si trova la risposta: il monumento, defilato rispetto alle piazze della città e vicino al Noncello, ricorda Angioletta delle Rive, una popolana pordenonese che morì a Udine nel carcere dell’Inquisizione il 4 gennaio del 1651. Siamo partiti dall’epilogo della storia, ma per capire qualcosa di più è bene partire dall’inizio. La storia di Angioletta, ben raccontata nel libro “Le amare erbe. Un processo di stregoneria nel Friuli del Seicento: ilcaso di Angioletta e Giustina Delle Rive” di Ornella Lazzaro, che ci riporta alla Pordenone del XVII secolo. La protagonista nacque nella città sul Noncello alla fine del Cinquecento, forse intorno al 1580, e qui si sposò a diciassette anni con Giacomo del Gniutto, detto “delle Rive”, di mestiere pescatore. I due vivevano in una casetta modesta insieme ai tre figli. Dopo trentadue anni di matrimonio Angioletta restò vedova e per tirare avanti si dedicò a varie attività. Durante il processo racconta, infatti, al frate inquisitore, che «Io nel corso di mia vita per vivere ho fatto ogn’ar-

te: ho filato la lana a mulinello, ho fatto le reti (da pesca) per altri e per casa, tessuti panni di lana, fatti bozzolai – dolci – per vendere; ho governato gli ammalati in casa d’altri per mercede e anco in casa mia, i poveri per l’amor di Dio qualche volta. Anco ho condotto in casa mia le meretrici per levarle dal malfare e metterle a star con altri honoratamente. Ho governato le donne di parto et i suoi putti». Insomma, Angioletta era una che si dava da fare. Dalle carte del processo studiate da Ornella Lazzaro, emerge che la donna fosse abile nella cura dei malati mediante l’uso di erbe e sistemi che oggi verrebbero definiti di “medicina alternativa”. Si dedicava alla cura dei malati, associando formule e gesti

rituali alla somministrazione di medicamenti ottenuti con erbe come la camomilla, l’iperico e l’erba della scrofola. Nel febbraio 1650 Angioletta delle Rive venne denunciata al provveditore e capitano di Pordenone, Francesco Loredan, per aver procurato un maleficio alla moglie del cavaliere pretorio. Venne istituito un primo processo, in seguito demandato a Giulio Missini, frate francescano che deteneva la carica di Inquisitore per le diocesi di Aquileia e Concordia. Il frate avviò un processo ufficiale, in cui sfilarono testimoni appartenenti a ogni ceto sociale (popolani, borghesi, esponenti del clero, il medico della città). Tutti sembrano concordare che Angioletta, ormai anziana, fosse una strega. È curioso che, no-

nostante la fama della donna non fosse buona, nessuno dei testimoni si fosse preso la briga di denunciarla. La stessa Angioletta, pur consapevole delle voci che circolavano sul suo conto, si considerò sempre una buona cristiana, ritenendo la propensione a guarire i malati come un’abilità personale, un sapere antico trasmesso da altre donne e sviluppato con l’esperienza. Insomma, una tesi completamente opposta a quella dell’Inquisitore, che vedeva nella capacità di Angioletta l’indiscutibile marchio della strega che aveva acquisito poteri malefici in seguito a un patto con il demonio. Il processo non giunse a sentenza, perché la povera Angioletta morì in carcere per «dolori colici». Le sopravvisse la figlia Giustina, coimputata, che venne rilasciata nel febbraio del 1651. Angioletta delle Rive fu vittima delle maldicenze e, forse, anche della paura dell’altro. Una donna che pur vivendo ai margini della società, si faceva portatrice di un sapere antico, capace di diagnosticare le malattie e di procurare guarigione e salute. Ecco che i fiori che ogni anno vengono posti l’otto marzo sulla stele dedicata ad Angioletta assumono un significato profondo e attuale, quello del rispetto e del ricordo di una donna ritenuta diversa, che visse ai margini di una società che la ritenne una strega.


Pordenone e Torre, un caso di bisticci tra vicini finito male Nel Medioevo l'incendio del castello e la morte del suo feudatario, Giovannino di Ragogna Il campanilismo nel Medioevo poteva essere molto pericoloso. Sappiamo qualcosa della secolare rivalità tra pisani e livornesi, ma, forse, non tutti sono a conoscenza delle aspre contese che, sette secoli fa, insanguinarono le comunità di Torre e Pordenone. La nostra storia inizia al Castello di Torre. Costruito alla fine del XIII secolo per volontà del Patriarca di Aquileia e dei conti di Prata su un rilievo vicino a un’ansa del fiume Noncello, il Castello di Torre fu a lungo oggetto di contese tra il conte di Gorizia, il Patriarca di Aquileia e i duchi d’Austria. Sorto intorno all’imponente torre mastio, con muri di 9 metri di lato e di spessore di 2, l’attuale edificio, sede del Museo Archeologico del Friuli Occidentale, è frutto di ampliamenti edilizi svolti in diverse fasi costruttive succedutesi tra il XIII e il XX secolo. Nel corso del XIV secolo il castello visse vicende piuttosto burrascose: preso e perso più volte dai di Prata, reclamato dal Patriarca di Aquileia, occupato dal conte di Gorizia, per poi tornare nuovamente tra i beni patriarcali e, infine, passare con una permuta ai conti di Ragogna. Un luogo affascinante e ricco di storia, che porta con sé anche le tracce di un passato più antico. Proprio nel sito dove nel Medioevo sorgerà il Castello e nelle sue immediate vicinanze, infatti, sorgeva in età romana una eccezionale villa. La scoperta di questo luogo straordinario si deve al conte Giuseppe di Ragogna, ultimo discendente dei di Ragogna e appassionato

archeologo, che negli anni Cinquanta eseguì uno scavo portando alla luce le strutture oggi visibili e i bellissimi affreschi conservati in Museo. Tra le tormentate vicende che si sono abbattute sul Castello di Torre, la più tragica e forse la più nota è quella della razzia effettuata dai pordenonesi il 12 aprile 1402, che sfociò nel massacro di buona parte della famiglia di Giovannino di Ragogna. Questi, insediatosi a Torre dal 1391, si impegnò nel controllo del territorio, entrando da subito in contrasto con i duchi d’Austria che a quel

tempo avevano giurisdizione sulla vicina città di Pordenone. Vessazioni e saccheggi ai danni dei pordenonesi culminarono in una serie di attentati al capitano della città di Pordenone, Nicolò Mordax, orchestrati proprio da Giovannino di Ragogna. Il venerdì santo del 1402, sventata l’ultima aggressione, i pordenonesi riuscirono a catturare il sicario, che rivelò i nomi dei complici e del mandante. Subito i pordenonesi partirono armi in spalla e cinsero d’assedio il Castello. La mattina del 12 aprile un servo del di

Ragogna abbassò il ponte levatoio per andare a rifornirsi d’acqua e, subito, i pordenonesi ne approfittarono per dilagare nel fortilizio, saccheggiandolo e devastandolo. Nel frattempo Giovannino, con la moglie incinta e i nove figli, si barricò nella torre-mastio. I pordenonesi, vista l’impossibilità di espugnare l’imponente struttura, decisero di dare fuoco al castello. L’incendio salì fino alla torre-mastio, dove sorprese e fu fatale a Giovannino di Ragogna, alla moglie e a sei dei suoi figli. Tre dei figli del di Ragogna riuscirono a salvarsi gettandosi da una finestra, ma vennero catturati subito dopo dai pordenonesi. Questi fatti sanguinosi non rimasero impuniti e la risposta del Patriarca di Aquileia non si fece attendere: dopo aver riunito il Parlamento della Patria, decise di assediare Pordenone. Lo scontro si risolse per via diplomatica, ma l’azione non fu priva di conseguenze per i pordenonesi. I Duchi d’Austria, infatti, richiamarono Nicolò Mordax e nominarono un nuovo capitano della città di Pordenone. Papa Innocenzo VIII, dal canto suo, punì i pordenonesi per la tragica fine di Giovannino di Ragogna con la scomunica, che venne ritirata solo quattro anni dopo da papa Gregorio X. La storia si risolse così. Un negoziato sventò il pericolo di una vendetta da parte patriarcale e la città di Pordenone riuscì in qualche modo a superare il periodo di scomunica. Spesso il passato offre preziose lezioni: è sempre saggio coltivare rapporti di buon vicinato. (m.b.)


Costruite nella seconda metà del XIX secolo, le Casermette erano un deposito di materiale (indumenti, coperte e lenzuola) prima di accogliere, fin dal giugno 1944, la banda fascista repubblichina di Angelo Leschiutta. L’immobile con base rettangolare, a due piani, si trova tra via Molinari (facciata principale), le vie Fontane e Caboto. È rimasto com’era, con il grande portone ad arco, come le finestre, allungate al piano superiore, larghe, schiacciate e dotate di solide sbarre al pianterreno. Le camerate, la cucina, il refettorio e l’ufficio di Leschiutta ricevevano luce dalle ampie aperture con parapetto su via Molinari. Il secondo piano era adibito a deposito e ad vaste camerate. Al piano terra le stanze sono più anguste, buie. Le inferriate forniscono una sensazione claustrofobica, da carcere o da ospedale psichiatrico, ancor più nelle stanze con i finestroni nell’angolo Sud e lungo la stradina che unisce le vie Molinari e Caboto. Due stanze alle quali si accede dal cortile interno sono caratterizzate da file simmetriche di colonne in ferro, bianche, con il vertice

Pordenone. Una città può essere raccontata anche con le storie dei suoi palazzi. È il caso di Pordenone dove la dimora più antica e prestigiosa, che ancora esiste, è il “Castello”. Una volta era abitato dai nobili del posto, oggi dai carcerati. Le prime notizie di quell’antico maniero, lo vogliono costruito attorno al 1.270 su decisione di Filippo Ulrico di Carinzia per contrastare l’egemonia dei signori di Torre, legati al Patriarcato di Aquileia, e mantenere a Pordenone l’appartenenza agli austriaci, poi, nel tempo, ai tedeschi e ancora agli austriaci, ai veneziani e agli austroungarici. La posizione strategica della città, in quanto porto fluviale, viene consolidata dal potente di turno che concede il transito di merci e truppe dal mare alle terre del Nord e viceversa. Per rendere più agevole l’uso del porto, viene concesso uno statuto speciale di autonomia a Pordenone, poi rispettato nel tempo da tanti occupanti. Il castello cessa di essere

Le Casermette di via Molinari Dal 1944 luogo di orrore e sevizie dove operava la banda fascista Leschiutta di Sigfrido Cescut

Da centro di comando a carcere Il castello di Pordenone cambiò destinazione nel 1833, nei suoi registri la storia di migliaia di detenuti centro di comando e presidio militare nel 1833, quando viene adibito dagli austriaci a carcere, usato anche per la repressione dei patrioti italiani, presenti nel regno Lombardo – Veneto, tirannia esercitata con pugno di ferro dal fedmaresciallo Radetzky. Il “Castello” rimane carcere anche quando Pordenone entra nel Regno d’Italia. Ristruttura-

to negli anni Trenta del secolo scorso, il carcere conta cinque celle medio – piccole e due più grandi, al piano terra. Sette celle di capacità ridotte e due più ampie al primo piano. Il carcere poteva ospitare, in condizioni accettabili, sessanta persone. Una piccola parte del penitenziario era destinato alle donne carcerate. Durante la Resistenza, nei

a ventaglio sotto il soffitto. Assomigliano alle colonne liberty di tante sale dei cotonifici pordenonesi. Nei due stanzoni, quelle colonne in ferro, sostegno del piano superiore, servivano ai fascisti per legare e torturare uomini e donne. Dalla stradina, come da via Molinari, non si poteva vedere oltre le inferriate. I vetri erano schermati, ma si udivano, forti, le urla di dolore dei torturati durante gli interrogatori di partigiani e antifascisti da parte di Leschiutta e dei repubblichini. Biografie, diari, verbali dei processi istruiti, dopo la liberazione, dai Tribunali di Pordenone e Udine riportano le testimonianze delle atrocità subite da antifascisti e partigiani durante la Resistenza. Nelle celle delle “Casermette” sono stati detenuti più partigiani, poi fucilati a Pordenone dai nazifascisti, compreso il comandante Franco Martelli “Ferrini”. Oggi le Casermette rappresentano un Luogo della Memoria, dove Anpi e Aned svolgono le loro cerimonie commemorative della Resistenza. L’Aned ha adibito due stanze a museo della deportazione nei campi di sterminio nazisti.

dodici mesi fra le primavere del 1944 – 45, nelle celle del “Castello” venivano stipate più di duecento persone per volta. Complessivamente durante la lotta partigiana di liberazione dal nazifascismo le detenzioni passano da una media di trecento a tremila prigionieri l’anno. Tutti registrati sui libri matricola che, oggi, restituiscono agli storici molte tragedie rimaste sconosciute alla comunità pordenonese, commentate così dall’attuale direttore del carcere Alberto Quagliotto: “Questo Registro matricola detenuti, per molti anni conservato nella casa circondariale, già castello della città, sottratto all’incuria degli uomini e gratuitamente restaurato da Igor Gaber, detenuto della Repubblica di Moldavia, sarà conferito all’Archivio di Stato, affinché non vada dispersa una pagina della storia del dolore di quella forte generazione di uomini che soffrirono, a pegno di un futuro migliore, nei tragici anni della Seconda guerra Mondiale”.


INVIATI NEL MONDO

Destinazione Siviglia La capitale dell'Andalusia nel 2018 era tra le dieci città da visitare. Diario semiserio tra i luoghi più importanti di Luca Cefaratti Per chi come il sottoscritto è nato nel mese di marzo quando il freddo continua a pizzicare nonostante i soffici accenni primaverili - una visita nel caldo sud della Spagna sembrerebbe la soluzione più sensata. Scopro dunque che la celebre guida di viaggi Lonely Planet ha inserito Siviglia al primo posto tra le città da visitare nel 2018. E così, si parte. Siamo arrivati a destinazione dopo un volo di tre ore tra giovani italiani che “parlavano” come se i neuroni fossero specie rare di scimmie urlatrici, e giapponesi che, invece di mostrare la strada della meditazione,

si impegnavano a scattare selfie imbarazzanti. Siviglia appare subito come una città affollata (di turismo), ma organizzata piuttosto bene. Una volta attraversate le vie dedicate allo shopping, si giunge alla Cattedrale più grande di Spagna. Facile vero? Certo. Prima però dovrete abilmente schivare le zingare che, senza neanche troppa insistenza, cercheranno di regalarvi (ma è un bluff, vogliono cash) rametti di rosmarino portafortuna. Una volta scampato il pericolo, e quindi con la sfiga ancora sulle spalle, bisogna prendere un’importante decisione. Mettersi in

coda per visitare l’interno della Cattedrale gotica più grande del mondo, costruita in “soli” 24 anni e che al suo interno ospita capolavori di Goya, la tomba di Cristoforo Colombo e tanto altro, oppure proseguire e passare alla fila per l’Alcazàr?Questo splendido palazzo fu costruito dal califfo Almohade Abu Ya'qub Yusuf I. Sappiate che avrete diritto ad un biglietto omaggio solo se riuscirete a pronunciare esattamente il suo nome al primo tentativo. È certamente da vedere, sempre se non vi lascerete distrarre dalla tentazione di dare un po' di conforto a quei cavalli schiavizzati che, per soddisfare inspiegabili bisogni umani, scarrozzano nel vero senso della parola i turisti in giro per la città dalla mattina alla sera. Povere bestie. “L’uomo è l’animale più stupido che c’è”, cantava una volta Battiato. Dopo una meritata pausa a base ti paella, tortillas, tapas e cerveza, è doveroso incamminarsi verso Piazza di Spagna, un esempio di cosa la mente umana sia in grado di costruire. Questa maestosa

flamenco in un locale intimo, seppur turistico, è altamente consigliato. Non aspettatevi ritmi semplici come il classico 4/4 ai quali siamo abituati. Per orecchie inesperte, non esisterà una logica musicale, inizio-fine, ma poco importa. Vi assicuro che quello che attirerà la vostra attenzione saranno i vestiti della ballerina, con i suoi movimenti sensuali e decisi, gli sguardi concentrati dei musicisti, i movimenti supersonici dei piedi a 200 battiti al secondo che fanno da solista al battito delle

piazza (parliamo di 500 mila metri quadri di arte pura), è un vero toccasana per il cuore, la vista e le gambe affaticate. Potrete infatti sedervi ad ammirare non solo la bellezza del luogo, ma anche le pose più assurde dei turisti, che, ne sono ormai certo, prima di partire avranno provato e riprovato le posizioni più fotogeniche per i loro ricordi. Oppure potrete sorridere nel guardare canoisti mancati schivarsi nello stretto canale che circonda la piazza stessa. Uno spasso. Vi consiglio invece di rilassarvi e godervi tale bellezza senza troppe pretese. Ad accompagnarvi saranno i graziosi pappagalli che sorvolano nei cieli, cantando forse la macarena? Per concludere la vostra esperienza española, uno spettacolo di

mani, la chitarra strimpellata come fosse la cosa più semplice al mondo e infine i canti del solista. Seppur all’inizio sarà probabile farsi scappare qualche sorriso nell’ascoltare questo inusuale modo di “cantare”, in realtà tale stile colpisce per la sua carica emozionale e per la sua visceralità espressiva. Racconta infatti di contadini andalusi poveri e sfruttati, di gitani erranti, di persecuzioni, di torture. È sicuramente un canto pieno di sofferenza e sentimento che sta alla base della cultura flamenca. Provare per credere. Se dopo aver letto questo articolo avrete ancora voglia di visitare Siviglia (bastano due giorni), allora prendetevi altri due giorni per Granada e la sua Alahambra. Ma questa è un’altra storia.


IL RICORDO

CIAO GUERRIERO «I tuoi occhi avevano visto il buio più profondo e da lì avevano saputo tornare per vivere appieno la vita» di Andrea Picco Il giorno che il Guerriero capitò in sede, in quella vecchia di viale Grigoletti, io me lo ricordo bene. Entrando, vidi Gigi che parlava con quest'uomo stanco, che camminava lentamente, gli rispondeva con un filo di voce, a monosillabi. Gigi gli spiegava cosa si facesse in sede, con la solita pacata "anda" da grande saggio. La stanchezza fisica che al primo impatto mi aveva trasmesso, però, creò subito in me un corto circuito una volta incrociati i suoi occhi. Chiari, vivissimi, curiosi di ogni cosa, si stupivano di qualsiasi parola o frase dicesse Gigi sul posto e le cose che erano state fatte lì. Erano occhi ingordi di vita, come se il Guerriero fosse stato fino a quel momento in debito con

la propria esistenza e volesse divorarla a colpi di sguardi in attesa che il fisico tornasse quello forte di un tempo. Il suo stupore divenne massimo di fronte al computer e alla notizia che era a disposizione di chiunque volesse usarlo. “Wow”, disse, con un filo di voce, ma i suoi occhi si erano già mangiati il futuro. La sensazione che ebbi, la compresi solo molto tempo dopo. Aveva già il film in testa, e lì aveva trovato il set ideale per il suo capolavoro. Il Guerriero, proprio perché gli sembrava che gli restasse poco tempo, voleva vivere la vita vera e aveva capito subito che quel posto gli serviva come ponte tra il passato e il futuro. Un posto dove stare senza più nascondersi ed essere

Tutto oppure niente «Difendevi le storie che scrivevi come fossero la tua» di Milena Bidinost «Se devi tagliare qualcosa del mio scritto, non pubblicarlo nemmeno». Sorrido ogni volta che ripenso a Guerrino e alla determinazione che aveva nel dirmi questo. Lo diceva ogni volta che si trattava di impaginare un suo articolo troppo lungo. Sorrido perché in quelle poche parole rivedo lui, la sua fermezza, la sua calma, il suo tagliare corto di fronte a quella che ai suoi occhi era un'evidenza. Per lui era assurdo ingabbiare dentro a dei confini storie che avevano il diritto di essere raccontate senza catene. Lo diceva quando scriveva di sé, ma anche quando scriveva degli altri, di vite che raccontava in “Libertà di Parola” e che sapeva difendere come se fossero state la sua. Io gli rispondevo con le regole della professione, ma a lui interes-

sava il senso profondo delle scelte. E così io finivo quasi sempre per accontentarlo. Guerrino era un collaboratore fidato, uno scrittore appassionato, un amico. Capo redattore di “Libertà di Parola” per molti anni, lo era non solamente perché scriveva – e

se stesso. Essere il Gueri che fino al 2006 non si era mai concesso di essere. Improvvisamente, voleva bruciare le tappe per comunicare col mondo, per trovare un senso. Per dire, per raccontare. Così word, subito. “Insegnami, dai. Ada, Andrea, insegnatemi come si fa a scrivere con 'sto coso”. E poco tempo dopo, una mattina, trovai un foglio che raccontava di un puntino sopra la testa, il puntino che non si era spento quando era in coma e l'aveva tenuto di qua. “Scrivi divinamente”, gli dissi. E lui mi raccontò che da ragazzino teneva un diario segreto, ma non abbastanza perché suo padre lo scoprì, s'infuriò per "quella roba da femmine" e glielo buttò nella stufa. Lo choc fu talmente pure bene – e coordinava gli articoli, ma soprattutto perché fin da subito aveva creduto, più di altri, nel senso profondo di “Libertà di Parola”. Il giornale de “I Ragazzi della Panchina” è nato anche grazie a lui e con lui: era ed è un progetto editoriale di integrazione sociale per il quale Guerrino si è speso, dedicandogli tempo, intraprendenza e tanta tanta curiosità e voglia di conoscere. Era un uomo che sapeva mettersi in gioco e a disposizione dei ragazzi che collaboravano per il giornale, restituendo, scambiando, non trattenendo nulla per sé. Indimenticabili i suoi racconti di vita dolci amari, le c ro n a c h e degli ultimi. Capace di strappare sorrisi mai banali il “Canton de Gueri”, un angolo di ironia dialettale. Coinvolgenti le tante interviste ai

forte che non scrisse più, nella sua prima vita. La seconda cominciava in quel foglio che avevo davanti. E voleva riprendersi tutto, il respiro la gioia, l'amore, tutto se stesso. In fretta, perché non c'era tempo da perdere. Allora il teatro, il giornale, la sede, tutto da assaporare fino in fondo, al 100%. Mi ricordo quanto fieri eravamo come inviati di “Libertà di Parola” alla conferenza nazionale sulle dipendenze a Trieste: accreditati come giornalisti! “Wow”. Questa carica che aveva, in quel periodo, è stata un grande insegnamento per me. Quegli occhi da bambino curioso avevano visto il buio più profondo e da lì avevano saputo tornare, per prendere a morsi tutto il bello della vita.

Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli

personaggi che sono passati per Pordenone - Giacobazzi, Caparezza, Mennea, Allevi o che lui stesso era andato a trovare a casa, come il poeta Andrea Zanzotto, l'astrofisica Margherita Hack. Sorrido ora nel ricordare la soddisfazione che manifestava ogni volta che mostrava alla redazione le foto da abbinare ai suoi articoli, ne aveva tante di lui in compagnia del suo intervistato del momento e ne andava orgoglioso. Scriveva bene Guerrino, ma soprattutto scriveva con i piedi per terra, gli occhi e le orecchie ben aperti sulle persone e il cuore tra le righe delle sue parole. Era sincero anche nella scrittura. Il suo “O tutto o niente” poteva permetterselo.


La libertà era la nostra unione «Hai giocato la partita della vita fino all'ultimo, pur sapendo di perderla. Non volevi malinconia ed oggi, senza te, il vuoto che resta è sereno» di Emanuela Greggio Quando ci siamo incontrati ricordo che su di me ha fatto breccia il tatuaggio che avevi sul braccio. Era la A di anarchia. Io ti ho chiesto se era la A di amore. Mi hai accarezzato la testa con una tenerezza indicibile e con l'entusiasmo di un bambino mi hai detto: ma da dove salti fuori tu? Su queste diversità si è basata la ricchezza del nostro rapporto. Due mondi completamente diversi, che hanno trovato in un amore travolgente il comune denominatore. Io fiume di parole, tu riservatezza e pacatezza. Pian piano ci siamo plasmati e abbiamo fatto della Libertà il simbolo della nostra unione. Tu sei riuscito a fare questo miracolo e te lo riconosco come il più grande che un uomo possa fare: amare una donna e contemporaneamente lasciarla libera di essere se stessa. Io ti ho guardato e amato con una intensità difficile da immaginare. Quando la malattia ci ha travolti e ha cambiato completamente le nostre vite abbiamo avuto il coraggio di ridisegnare i nostri ruoli. Tu la forza indomabile di farcela da solo e io la voglia a tutti i costi che le cose andassero a finire bene. Non ho conosciuto nessuno al mondo che non abbia avuto paura di morire come te. Me ne hai parlato come un evento naturale, me l'hai prospettata come un'evoluzione della vita. Morte e vita strette in uno stesso abbraccio. Morte che non deve spaventare ma fungere da input per vivere al meglio fino all'ultimo istante. Così come hai scelto di fare tu. Con il sorriso, senza tragicità, certo con la fatica di una malattia che ti ha sfiancato e che a volte ti ha reso irriconoscibile ai miei occhi. Ma poi lasciavi andare un sorriso dei tuoi, che mi faceva capire che sotto sotto eri ancora tu. Io so davvero che uomo meraviglioso tu sei stato. Quanta intelligenza, quanta sensibilità, quanta delicatezza d'animo, e saggezza infinita. Paragonavi la vita ad una partita

di calcio e dicevi che anche se si sta vincendo bisogna giocare bene fino all'ultimo minuto e non bisogna mai chiedere all'allenatore quanto tempo manca per paura di subire il gol. Vietato rilassarsi. Tu sei riuscito in questo pur sapendo che stavi per perdere. L'eredità preziosa che ci hai lasciato è quella che tutti noi fatichiamo a essere tristi per la tua morte. Non volevi malinconia e malinconia non c'è

stata. A casa manchi, sono sincera. Ma è un vuoto sereno. Sembra che tu abbia predisposto anche questo oltre a tutti gli altri dettagli. Sei stato davvero un guerriero buono, un guerriero senza spada. La tua grande forza è stata nel coraggio e nell'animo sincero di un uomo che ha vinto mille battaglie. Che si è assunto la

responsabilità dei propri errori e non ne ha fatto motivo di vergogna ma trampolino di lancio per vette sempre più alte. Maledetto vecchio, dico sempre. La sapevi lunga Tu.

Le scarpe nuove di Guerrino Faggiani, pubblicato su LDP 2/2009 Cambiare vita e tornare nel mondo corrente non è cosa di tutti i giorni, non è facile rientrare nella società che dà le regole e che stabilisce cosa è giusto e cosa non lo è. Dopo aver vissuto ai suoi margini non la si capisce più, ti si ripresenta davanti in tutto il suo cambiamento e non è più quella di prima. È come ritornare al paese dove si è nati, o al quartiere; tutto è diverso, non ci sono più i tuoi amici ragazzini di una volta, sono cresciuti, sono cambiati, e così tutto il resto. Hanno aggiunto esperienze alla loro storia, la loro vita è maturata e tu che non c’eri ti sei perso tutto. Far parte di una cosa che non si capisce più come gira è una impresa seria, porta a degli immancabili fallimenti che generano una gran voglia di buttare tutto all’aria e ritornare nel solito conosciuto ambiente in cui ci si sa muovere. È solo una questione di tempo, fino a quando la misura è colma, poi si rinuncia e si ritorna, è un meccanismo di difesa che scatta dentro: ritrarsi da quello che non si capisce. È questo il vero cruccio: reinserirsi in un mondo che nel frattempo è andato per la sua strada. Ci si ritrova pieni di buoni propositi, ma non se ne azzecca una, è tutto da modificare nel tuo modo di fare. Si ride di cose che agli altri non fanno nessun effetto, viceversa non si capisce perché tutti si divertano con cose che a te appaiono banali. Poi quello che gli altri dicono, al bar, al mercato, ovunque. Se parli con loro? Ti ritrovi circondato da sguardi esterrefatti come fossi un alieno: “Questo qui o è un chissà cosa o è un pirla”; naturalmente la seconda va per la maggiore, sei uno scarto della società, non c’è bisogno di capire quello che dici, meglio fare come se non ci fossi. Anche questo è un meccanismo di difesa, sottrarsi dalla vergogna di non capire uno scarto pirla. Dunque come se non bastasse anche porte sbattute in faccia. Tutto questo rende difficile ambientarsi che è la cosa più importante. Il primo passo: disintossicarsi da qualsiasi sostanza si voglia, è il meno, riesce sempre, ad ogni tentativo. È dopo che viene il vero nodo della questione. Ho sentito dire da un ragazzo in “carriera” che quando si esce dalla clinica si rimettono le stesse scarpe di quando si è entrati, senza volerlo ti ritrovi nei soliti posti, bisogna ricordarsi di non andarci altrimenti, se non ci pensi, sei di nuovo li. E allora si vaga senza meta con la speranza che succeda qualcosa, ma invano, provi ad inventartela, ma non va come ti aspetti e a forza di fallimenti cominci ad aver voglia del tuo vecchio mondo, magari solo per un passaggio, e poi quando ci sei ricordi quanto è bello essere in sintonia con qualcuno, tanto che prima o poi ci torni e così via fino a rimanerci fisso di nuovo. Ed è a questo punto che l’associazione I Ragazzi della Panchina riesce a darti quello che serve per resistere alla tentazione: ti dà un posto dove andare. La sede di viale Grigoletti è come un porto franco, una terra di nessuno, anzi di tutti, dove fermarsi, leccarsi le ferite rimediate fuori e tirarsi su lo spirito con qualcuno che sa di cosa parli, che capisci cosa dice, un’isola dove puoi essere te stesso senza forzature e goderti una pausa per raccogliere le idee. Nel frattempo il morale ritorna, fa capolino la voglia di andare avanti e senza accorgertene ti ritrovi in strada a proporti di nuovo, magari poi per ritornare mestamente con la coda tra le gambe, ma in attesa di tempi migliori per riprovarci ancora… e ancora. È come una guerra, una guerra alla quale un luogo come la sede permette di sottrarsi in caso di mal parata, così hai il tempo di capire. È importante che ci sia un posto così, che dia il tempo di ritornare al passo con il mondo. È questa l’esigenza di chi vuole farsi delle scarpe nuove: non essere costretto a giocarsi tutto in un improbabile “o la va o la spacca” ma poter mollare quando la cosa comincia a spaventare e sfuggire di mano, una ritirata strategica è meglio di una disonorevole sconfitta, e qui la sconfitta va evitata con ogni mezzo, non esistono armi non convenzionali, come si dice.. in guerra e in amore tutto è lecito. D’accordissimo.

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NON SOLO SPORT

Ramarri sempre più “social”, ecco chi cura l'immagine del Pordenone Calcio Sono Marco Michelin, capo ufficio stampa e social media manager, e Sebastiano Orgnacco, responsabile immagine ed informatica di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon Era il dicembre 2017 e il Pordenone calcio spopolava sui diversi social, nell’avvicinamento alla sfida di Coppa Italia con l’Inter a San Siro, facendo scuola. Dietro a questo successo mediatico – giocato tutto sull'ironia – c'erano loro, Marco Michelin, capo ufficio stampa e social media manager della campagna di

avvicinamento, e Sebastiano Orgnacco, responsabile parte grafica, immagine e informatica.

anni, è arrivato Sebastiano a darmi una mano per migliorare la parte grafica social e non solo.

Marco, quale è stata l'evoluzione della tua figura lavorativa? Lavoro nel Pordenone calcio da undici anni, quando eravamo in serie D e non esisteva nemmeno il centro De Marchi. Ero già giornalista all'epoca e con il Pordenone mi occupavo soprattutto di rassegna stampa e comunicazione in generale. Fu solo dal 2009 che ebbi l'intuizione di utilizzare facebook per parlare di calcio. Iniziai a fare gli aggiornamenti del social durante le partite per fare una specie di rudimentale cronaca diretta. In realtà facebook veniva usato come un mero diario e l'idea di sfruttarlo per una società sportiva fu abbastanza pionieristica perché le squadra di serie A cominciarono ad aprire le pagine social solo nel 2011. I successi calcistici del Pordenone e la diffusione prepotente dei social hanno ampliato il mio carico di lavoro e oggi sono occupato qui quasi a tempo pieno pur mantenendo la mia professione di giornalista. Fortunatamente, da quasi due

Cosa significa per voi lavorare al Pordenone Calcio? Una società sportiva di provincia come la nostra non può permettersi qualcuno che si occupi a tempo pieno solo dei social. Noi infatti abbiamo anche altre mansioni e i social sono solo la punta dell'iceberg. Sicuramente è la parte di lavoro più divertente e risulta fondamentale per permettere al Pordenone di farsi conoscere e di mantenere informati i nostri tifosi e simpatizzanti. Qual è la parte più bella del vostro lavoro? La libertà e la possibilità di creare e influire sul reale attraverso i social. È un lavoro molto flessibile, con orari poco definiti perché la fantasia non si programma e la creatività non si limita. Un esperto social deve essere sempre sul pezzo e cercare spunti dalla rete per captarli e veicolarli. La comunicazione nel nostro ambiente è diventata molto meno istituzionale e si utilizzano tanti contenuti pregni di umorismo e sarcasmo. Non tutti hanno ancora capito, specie in Italia perché all'estero sono già più abituati, che l'utilizzo dell'ironia non sminuisce il valore della realtà che la utilizza, è semplicemente il metodo più attuale per interagire nel contorno social. Ovviamente

non si sta giocando, ci sono responsabilità e conseguenze positive ma anche negative, l'importante è capire che la creatività non è fine a se stessa ma è capace di veicolare un messaggio, valorizzare un'immagine e aumentare la conoscenza. Pordenone-Inter, una partita che vi ha catapultato sui giornali e sui social in tutta Italia. È stata una occasione più uni-

ca che rara, siamo riusciti a sfruttarla e con il megafono per fare sapere a tutta Italia che il Pordenone andava a San Siro. L'idea di questa campagna basata sull'ironia è nata con la frase quasi casuale: “È una partita che non puoi giocare nemmeno con la Play”. A quel punto ci siamo detti che non avevamo niente da perdere. La preparazione dei post è stata divertentissima e ammettiamo che molti sono stati improvvisati e poco programmati. Dal post sulla play station è addirittura successo che una community di PES ha creato la squadra del Pordenone. È bellissimo, significa riuscire a incidere nel reale. È stato fondamentale come sempre il confronto tra noi e il condividere le idee con tutto il team del Pordenone, un'attività social non è mai di una sola persona, è stato un successo di tutti. La sfida e la difficoltà è stata poi mantenere tutti i simpatizzanti che si erano avvicinati; i numeri per ora dicono che ce la stiamo facendo.

Chi è il social media manager Tre parole importate dall'inglese che definiscono la professione più richiesta per chi vuole sfruttare il web per migliorare la propria visibilità, interagire e comunicare nell'era di internet. Questa figura professionale nacque circa dieci anni fa con l'avvento di facebook che, nel tempo, rese sempre più necessario per le aziende più virtuose l'affidarsi a degli “esperti” del settore. La crescita esponenziale dei social portò poi una sempre maggiore richiesta, tant'è che oggi qualunque organizzazione si affida ai social media manager per promuovere l'immagine e il prodotto. Siamo tutti abituati a interagire a livello social, ma applicarlo

sul campo lavorativo significa rimanere aggiornati sulle tendenze del momento, coltivare sempre fantasia e creatività all'interno di una pianificazione strutturata a tavolino. Al momento attuale non esiste un percorso di studi specifico, per cui chi vuole accostarsi a questo mondo deve percorrere strade alternative formandosi in comunicazione, giornalismo, grafica, fotografia e altre materie che sviluppano le competenze trasversali. È fondamentale sapersi soprattutto adattare a un lavoro che si presta al cambiamento in modo continuo e frenetico, in questo panorama l'apprendimento sul campo è la soluzione migliore.


Hanno collaborato a questo numero

LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada de I Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost

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Virginia Bettinelli Scrive scrive scrive, piacere esigenza amore. Non trova pace nella sua vita trafelata, in perenne corsa alla ricerca di stare al passo con l’orologio che invece, implacabile, indica il tempo troppo velocemente. Nella scrittura trova invece la quiete, la pausa, sopra il delirio. Scrive per la Panka anche per questo, tentativo di pace in un mondo ostile.

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Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: "...si bello, ma non si scrive così in Italiano!" S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara

Moreno T. Nonostante la sua giovane età vanta un curriculum di esperienze di vita da libro. Entra alla panka con l’impegno di venirci qualche volta ed ora è presenza immancabile della sede. Eclettico, canterino demenziale, alla ricerca di un giro vita invidiabile mentre si mangia una fetta di torta. Si muove in sede come fosse casa sua, si muove nel mondo come fosse casa sua.

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Milena Bidinost Per noi avere a che fare con una giornalista di professione non è mai facile: “Milena sai che ho sentito dire che.. vabbè dai, non importa”. Per lei avere a che fare con gli articoli che escono dalla Panka non è mai facile: “Scusate ma non credo che questa cosa si possa scrivere così perché giornalisticamente.. vabbè dai, non importa”. Milena, la mediazione è un’arte! Ben arrivata al MoMA!

Gianluca Giannetto La Panka ha da sempre ospitato la tifoseria dei ramarri con affetto ed entusiasmo. “Out Low” identifica uno dei gruppi storici e quale miglior contesto se non quello della Panka poteva dare voce ai Fuori Legge?! Per LDP Gianluca scrive articoli dalle tematiche più diverse ma... voi non accontentatevi semplicemente di leggerli perché, essendo le parole capaci di un colore, troverete sempre il nero-verde ad esaltarle!

Andrea Lenardon Tirocinante, educatore, psicologo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.

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Giorgio Achino Teatrante per diletto adesso applica la tecnica in Panka. A tutti dice: "Sarò chi vuoi, nella tua personale rappresentazione della vita"; palco e Panka si confondono. Benarrivato in questo teatro! Sempre in scena Giorgio

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Marlene Prosdocimo Se fosse nata in Trentino avrebbe vissuto una adolescenza drammatica ma in Friuli no, meno. Alleggerita da questo peso studia filosofia ed ama le arti. LdP esiste proprio perché è questione di arte realizzarlo ed anche perché senza la giusta filosofia sarebbe impossibile leggerlo. Lei l’ha letto ed ora ci scrive sopra. Perfetta... proprio come la mela!

Editore Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto

Stampa Grafoteca S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione. Foto a pagina 1, 4 e 5 dal sito: https://pixabay.com/it/ Foto a pagina 7 di Michele Missinato vedute di Pordenone dal drone Foto a pagina 8 e 9 a Marta Bottos Foto a pagina 10 di Sigfrido Cescut Foto a pagina 11 di Luca Cefaratti Foto a pagina 14 a cura del Pordenone Calcio Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle Dipendenze di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone Tel. 0434 371310 email: panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Instagram: panka_pordenone Youtube: Pankinari

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Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!

Redazione Giorgio Achino, Rosanna Rovere, Kevin, Marlene Prosdocimo, Virginia Bettinelli, Simone, Giianluca Giannetto, Moreno T., Marta Bottos, Sigfrido Cescut, Luca Cefaratti, Andrea Piacco, Emanuela Greggio, Alain Sacilotto, Andrea Lenardon.

Impaginazione Ada Moznich

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Capo Redattore Chiara Zorzi

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Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”

Per le donazioni: Codice IBAN BCC: IT69R0835612500000000019539 Codice IBAN Credit Agricol Friuladria: IT80M0533612501000030666575 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00


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I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA


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