APPROFONDIMENTO
Protezione civile
Libertá di Parola 4/2014 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
NATIVI DIGITALI, LA SFIDA EDUCATIVA di Gregorio Ceccone A partire dalla seconda metà del ‘900 abbiamo assistito a diverse “rivoluzioni generazionali” catalizzate da veloci evoluzioni economiche, sociali e tecnologiche che hanno interessato i paesi industrializzati. Negli anni ‘50 la rapida espansione economica fece emergere una “nuova” categoria sociale che assunse una propria identità e forza: i giovani. Si affermò nei mercati mondiali una nuova industria culturale che diffondeva sempre più velocemente musica, film e libri. I media contribuirono a creare un gap generazionale tra genitori e figli in quanto i giovani ascoltavano musica rock, consumavano i prodotti di questa nuova evoluta industria mediale ed avevano un nuovo codice di riconoscimento basato sullo stile, il linguaggio ed i luoghi che frequentavano. Negli anni ‘60 i giovani acquistarono una maggiore consapevolezza e accesero uno scontro generazionale con insegnanti, genitori e il sistema sociale nel suo complesso. Nell’arco degli anni si sono presentati nuovi confronti e scontri tra le diver-
se generazioni nel modo di pensare, di vivere e di comunicare. Oggi, nel secondo decennio del 2000, un altro tipo di gap generazionale sembra affermarsi: quello tra “nativi” e “immigranti digitali”. Il termine “nativo digitale”, coniato da Prensky nel 2001, definisce quelle generazioni che nascono parallelamente alla diffusione di massa dei computer a interfaccia grafica (1985) e dei sistemi operativi a finestre nel 1996. Il nativo digitale cresce in una società multi-schermo, e considera le tecnologie come un elemento naturale non provando nessun disagio nel manipolarle e interagire con esse. Per contro il termine “immigrato digitale” si applica a una persona che è cresciuta prima delle tecnologie digitali e le ha adottate in un secondo tempo. Una terza figura è invece quella del “tardivo digitale”; una persona cresciuta senza tecnologia, e che la guarda tutt'oggi con diffidenza1. Una dieta mediale simile genera un nuovo linguaggio, un nuovo modo di organizzare il pensiero e un tessuto sociale in costante evoluzione.
Previsione, prevenzione, soccorso e superamento delle emergenze: sono le azioni svolte dalla Protezione civile del Friuli Venezia Giulia, che dal terremoto in Friuli del 1976 ha fatto da modello a livello nazionale. E’ un sistema integrato di competenze tecniche, istituzionali e comunicative messe in rete: ha il suo quartier generale a Palmanova (Ud) e i suoi bracci operativi nei Comuni e nelle associazioni di volontariato. a pagina 9
CODICE A S-BARRE
Dalla nostra redazione in carcere a pagina 4
INVIATI NEL MONDO
Brasile on the road. "Il mio primo viaggio, a 18 anni"
Il gap generazionale che si è venuto a creare non riguarda solamente il rapporto genitori e figli, ma anche tra generazioni più vicine, in termini di differenza di età, che possono comunicare con linguaggi parzialmente differenti. Queste trasformazioni investono i processi di apprendimento e d’istruzione, e hanno importanti ripercussioni sui comportamenti che i più giovani adottano, consapevolmente o no, nel contatto e nell’utilizzo, spesso intensivo, delle tecnologie digitali. La sfida educativa posta ad educatori e adulti significativi è quella di interpretare l’evoluzione del contesto comunicativo entro il quale si muovono i giovani non solo per poter comunicare efficacemente, ma anche per essere membri attivi del tessuto sociale. Se riteniamo la presenza di un media “invadente” o possibile fattore di rischio nella vita di un ragazzo, cerchiamo di cogliere il momento di difficoltà come occasione educativa e di confronto. Il primo passo è cercare il dialogo. “Che cosa cerchi in rete? Qual è il tuo obiettivo? Cosa stai facendo?”. Se abbiamo dei dubbi sulla capacità del ragazzo di utilizzare lo strumento tecnologico chiediamo di controllare assieme le impostazioni della privacy e quali possono essere le funzioni per la sicurezza. Chiediamo quali, secondo lui, possono essere i rischi di questi strumenti e se possiamo magari scegliere assieme di installare un app o software di monitoraggio come Qustodio o Care4Teen. Oltre alla relazione altro fondamentale strumento per il l’educatore o genitore è l’informazione e cercare con at-
a pagina 13
continua a pagina 2
a pag. 16
L'EVENTO di rdp
Hiv Day 2014 Fiocchi rossi a Pordenone grazie ai commercianti a pagina 14
PANKAKULTURA
Il regista Giorgio Diritti con "Noi due" diventa anche scrittore continua a pagina 15
NON SOLO SPORT
Danilo Callegari, dietro ogni avventura il bisogno di sfidare se stesso
il tema
l’adescamento e il sexting.
Social media delle mie brame Viaggio tra i pericoli della rete Dal cyberbullismo al sexting di Gregorio Ceccone Quando parliamo di rischi dei social media il discorso si fa molto complesso in quanto gli attori e le variabili in gioco sono molte. Cominciamo dall'utente stesso: è un adolescente, è un adulto o è un anziano? Può sembrare scontato, ma in base alla tipologia di utenza i rischi possono cambiare e di molto. Secondo fondamentale attore è il social media stesso: è un servizio di messaggistica, è un social network o è un videogioco online? Ogni social media porta con sé pro e contro differenti. Un aspetto che unisce sicuramente i principali social media (Facebook, Whatsapp, Instagram, Twitter, Snapchat …) è il fatto che sono prodotti gestiti da aziende che vogliono spronare l'utilizzo da parte dei loro utenti all’uso di queste piattaforme con conseguente aumento dei loro introiti. In generale possiamo
definire le tipologie di rischi collegati ai social media in tre categorie sulla base delle informazioni e dei media che possiamo trovare, delle tipologie di utenti che possiamo incontrare e di tutto quello che ci viene permesso di fare in questi spazi online. Vediamo alcuni di questi rischi. Rischi collegati ai contatti on-line. Quando pensiamo ai Nuovi media, aldilà delle specifiche tec-niche, le caratteristiche che vengono in mente sono la possibilità di incontrare altre persone, essere facilmente in contatto e raggiungibili, la condivisione della privacy. Queste possibilità presentano dei rischi connessi alle possibilità di conoscere persone o aziende mossa anche da fini non sempre appropriati. Tra questi rischi citiamo il cyberbullismo,
Consiglio Nocivi/ Bufale. Molte delle piattaforme online nascono con la funzione di mettere in contatto diversi utenti. Forum, blog, social network permettono di conoscersi, relazionarsi e sviluppare forme di sostegno reciproco. Il vantaggio di poter comunicare qualunque pensiero ed informazione genera un flusso di informazioni non sempre veritiere. Per poter ottenere popolarità diversi utenti inventano delle informazioni oppure storpiano alcune notizie fino a renderle verosimili. Queste informazioni fasulle spesso girano nella rete e moltissimi utenti ci credono. Avete qualche dubbio sul fatto che i cellulari possano cucinare il pop-corn? Date un occhiata a www.attivissimo. net, www.butac.it/, www.bufale.net Dipendenza da Internet. Dato che le persone trascorrono sempre più tempo online, il rischio di essere dipendenti dall'utilizzo smodato di Internet è in costante crescita. In particolare i giovani sono a rischio di non essere in grado di spegnere il computer. «È patologia quando aumentano le ore di collegamento e diminuisce il tempo disponibile da dedicare alle persone care, agli amici e alla famiglia, quando il virtuale acquista una importanza maggiore della vita reale».1 Frodi Commerciali. Le frodi che vengono perpetrate nel web possono essere di diverso tipo. Il phishing, una tra le più diffuse di queste, è il processo di raccolta dati bancari,
in particolare i Pin e Tan, con lo scopo di saccheggiare il conto bancario di altre persone. Altre frodi avvengono quando dei venditori fingono di vendere beni o servizi, che, dopo il pagamento, non vengono recapitati o non hanno le caratteristiche dichiarate oppure la vendita di servizi digitali, ad esempio una suoneria, ad un prezzo irragionevole e spesso associato a un abbonamento permanente ad un ulteriore servizio senza che l’acquirente ne sia informato. La rete come specchio digitale del mondo analogico. In realtà le dinamiche presenti nella rete sono uno specchio della nostra società. Uno specchio che riflette sia gli atteggiamenti positivi sia quelli negativi che possiamo ritrovare nella vita off-line di tutti i giorni. Come nel paese o nella città in cui viviamo, questi spazi possono essere dedicati a giovani, dedicati ad adulti o possono riguardare contesti che non bisognerebbe frequentare né da adulti né da giovani. Sta a noi migranti e nativi digitali costruire assieme una bussola efficace per muoverci in questo (ormai neanche tanto) nuovo mondo. Costruire assieme una mappa che ci faccia capire dove siamo, dove stiamo andando e dove siamo stati. Una costruzione libera da pregiudizi o esaltazioni tecnologiche. Una costruzione serena, partecipata e intellettualmente onesta. 1
Tratto da un intervento di Gemelli Tonioni,
psichiatra del Policlinico Gemelli, Milano, pubblicato sul sito internet: http://www.policlinicogemelli.it
continua da pagina 2
tenzione quale sarà la fonte di questa conoscenza. Questa ultima indicazione viene fornita per valutare la bontà delle nostre informazioni. Fate un esercizio. Prendete un foglio e una penna. Scrivete al centro del vostro foglio i termini “nuove tecnologie e giovani”. Scrivete di getto i primi 10 termini che vi vengono in mente. Fatto? Se i primi cinque che vi vengono in mente sono accezioni negative delle nuove tecnologie forse dovreste pensare di rivedere la mappa che avete acquisito rispetto al tema e anche chi ve l’ha fornita. Un formatore deve darvi strumenti e competenze, non spaventarvi per potervi rivendere “ricette magiche” in “dieci
Rischi e opportunità del WEB 3.0 e delle tecnologie che lo compongono Bandiera R. (2014), Flaccovio Ed
Computer per un figlio. Giocare, apprendere, creare Antinucci F. (2001), Laterza
Internet ci rende stupidi? Carr N. (2011), Raffaello Cortina Editore
passaggi” per essere informati su qualunque minaccia o mostruosità sia presente nel web. Diffidate di chi vi porta esclusivamente fatti di cronaca nera e vuole vendervi testi, filmati e corsi per sopravvivere alla rete. Per accettare questa sfida educativa conviene non
essere “tardivi digitali”, ma cercare di guardare con sereno distacco a questo nuovo contesto. La diffidenza verso le nuove tecnologie e i nuovi media può portare a sottovalutare la questione educativa o ad avere un atteggiamento sospettoso e/o censorio.
1
Una ricerca attuale, Digital Learning - La die-
ta mediale degli studenti universitari italiani, a cura del Gruppo NumediaBios e dell'università Milano Bicocca ha specificato tre ulteriori tipologie di nativi digitali, che distinguono la transizione dall’analogico al digitale dei giovani nei paesi sviluppati: i nativi digitali puri (tra 0 e 12 anni); i millennials (tra 14 e 18 anni); i nativi digitali spuri (tra 18 e 25 anni)
SOCIAL NETWORK E SCUOLA «Il ruolo delle istituzioni è fondamentale: per difenderci dai rischi della rete noi giovani abbiamo bisogno di essere informati e non lasciati da soli» di Irene Vendrame I social network come Facebook e Instagram fanno ormai parte della realtà di noi giovani. Siamo abituati a farne largo uso, siamo assuefatti, dipendenti, direbbe qualcuno, ed è diffusa la preoccupazione per le insidie che la rete nasconde, come per esempio la questione della privacy, oppure il contatto con persone sconosciute. A mio avviso la responsabilità di questi problemi ricade solo su di noi, in quanto è nell’interesse di ognuno fare in modo di tutelarsi ed evitare determinati comportamenti. Hanno ovviamente una funzione fondamentale le campagne di informazione, nelle scuole per esempio, per metterci al corrente dei rischi e per proporci alcuni accorgimenti da applicare per il nostro bene.
Un problema che sta cominciando ad emergere è quello del bullismo online, soprattutto in relazione ad Ask, un social network un po’ diverso
dal più diffuso Facebook, che permette di rivolgere domande, anche in forma anonima, agli iscritti. Tempo fa ne abbiamo parlato in classe, tra noi studenti, perché c’è giunta voce di nostri coetanei che sono addirittura arrivati al suicidio a causa di insulti molto pesanti ricevuti da anonimi e, come si può immaginare, ne siamo rimasti molto scossi. La discussione però sarebbe sicuramente morta dopo poco tempo, se l’anno scorso non fosse stato creato da parte di alcuni studenti della nostra scuola superiore un profilo Ask. Questo, seguendo lo stile di Gossip Girl (serie televisiva), si proponeva di elargire informazioni di gossip appun-
QUANDO A NAVIGARE SONO GLI ANZIANI All’Università della Terza Età, alunni alle prese con la scoperta della rete di Sara Rocutto All’Università della Terza Età di Pordenone, tra i vari corsi dove gli allievi non mancano, c’è “Scoprire la rete”, in cui l’obiettivo non è insegnare il perfetto uso del Pc, ma fornire gli strumenti che occorrono per imparare ad accedere a Internet e farne buon uso. Curiosità, voglia di imparare, bisogno di tenersi in contatto con gli altri: le motivazioni che spingono ad avvicinarsi al Pc dopo la pensione sono tante e forti, spesso sufficienti a superare ogni ostacolo d’apprendimento. Occorre essere insegnanti pazienti e fare un passo alla volta, non dare per scontato nulla, a volte occorre ripetere 100 volte le stesse cose, in altri casi bastano pochi minuti e chi ha amici e figli lontani impara subito ad utiliz-
zare Skype e videochiamare i nipotini, inviare messaggi con faccine animate, allegare fotografie. E se per qualcuno Facebook risulta uno strumento incomprensibile ecco che impara magari in poche nozioni base a progettare un viaggio da sogno seguendo i consigli su TripAdvisor. Imparare che un check in online si può fare facilmente e semplifica la vita in aeroporto fa venir voglia di prendere il volo a chi non ha più le energie per sopportare le lunghe code. Si iscrivono a questi corsi anche coloro che potrebbero avere in famiglia ottimi maestri: molti tra gli allievi, nati tra gli anni ’20 e gli anni ’40, hanno con sé un computer portatile, molto spesso un regalo fatto dai figli. Infatti la teoria per cui Internet è
una di quelle dimensioni dove sono i figli e i nipoti ad insegnare ai padri si svela una favola senza lieto fine: «Ho ricominciato a leggere dopo che mi hanno regalato un Kindle: ma ora mi spieghi come faccio ad acquistare nuovi libri, non voglio dipendere solo dai miei figli, voglio leggere quello che mi pare!». La vita cambia l’approccio agli strumenti ed è magico l’incontro che riesce a produrre: «Ho comprato su eBay un libro usato! Costava 5€. L’avevo vinto al catechismo da piccola, l’avevo perso così tanti anni fa», racconta una signora dopo una lezione sulla sicurezza negli acquisti online. Bastano piccoli insegnamenti a volte per produrre magie: «Con quel metodo di cercare le parole su Google
to, riguardanti gli studenti della scuola. Il successo è stato immediato, salvo il fatto che le numerose domande (in maggioranza anonime) ricevevano risposte non solo sibilline ed irriverenti, ma perfino offensive in certi casi, senza risparmiare nessuno, professori compresi. I diretti interessati hanno animatamente fatto valere le proprie ragioni e la preside, che era stata subito informata, ha cercato di risolvere il problema, rivolgendosi alla polizia postale. Alla fine le acque si sono calmate, gli amministratori della pagina sono stati scoperti (anche se i nomi non sono stati resi noti) e costretti a chiudere la pagina; inoltre è stata indetta un’assemblea (presieduta da alcuni agenti della polizia postale) per discutere dell’accaduto, fornire chiarimenti, in modo che l’esperienza potesse essere utile non solo alle vittime, ma anche agli altri studenti. Questo episodio così vicino a me, mi ha fatto capire quanto è importante trattare questi argomenti di attualità tra i giovani, rivelando il ruolo fondamentale dell’istituzione scolastica. La scuola infatti non deve limitasi a dotarci di determinate nozioni, ma è importante che ci formi come persone, come cittadini, senza lasciarci soli davanti a problemi di questo tipo. tra virgolette ho ritrovato una poesia che avevo imparato alle elementari in Francia, eravamo emigranti… Ho trovato tutto il testo, l’autore e il libro». La rete diventa lo spazio dell’autonomia possibile, in quell’età in cui il corpo inizia ad aver bisogno di aiuto: «Mi dica come posso cambiare la password alla mia email: ho scoperto che la mia nipotina legge di nascosto la posta che mando alle altre nipoti!». Insegnare elementi di vita digitale all’Università della Terza età è una di quelle cose da cui si impara tanto, forse più di quanto non si insegni. Si impara prima di tutto che, sì, la conoscenza degli strumenti informatici semplifica la vita, ma la conoscenza tecnica è ben poca cosa rispetto a certa vita che ricerca la conoscenza per non farsi frenare dal tempo e dalle convenzioni. E potrà capitare di sentirsi raccontare: «Sa signorina, sono andata in Posta oggi e mi sono fatta una carta di credito prepagata. Di nascosto da mio marito. È tanto tempo che non viaggio da sola».
Prosegue il lavoro della redazione del nostro giornale nata all'interno della Casa circondariale di Pordenone. “Codice a s-barre” è uno spazio interamente gestito dai suoi detenuti.
Tristezza vattene via Come la nebbia, ti separa da tutto il resto e ti sembra non sia possibile uscirne. L’ironia è un buon rimedio naturale di Leonardo La tristezza la paragono alla nebbia, in quelle giornate umide e fredde, uggiosa, appiccicosa spesso è un’infausta compagna di viaggio. La tristezza, come la nebbia, appare all’improvviso e man mano che si procede alterna momenti con poca visibilità a momenti di muri impalpabili, dietro ai quali non si sa mai a cosa si va incontro. La tristezza è uno stato psicologico che può degenerare causando anche dei seri danni, che alterano l'equilibrio psichico. Cure concrete e certe non ce ne sono, ma soltanto l'aiuto di qualcuno può monitorare e alleviare questo disagio e non tutti possono avere questa capacità per affrontare il
problema. A volte un buon tonico può essere la musica, lo sport, le buone amicizie, con le quali si possono condividere le proprie esperienze. Un hobby, magari artistico, può essere fonte di aiuto, e solo così si riesce ad equilibrare il proprio umore. La tristezza a lungo andare può degenerare in forme di depressione, che posso diventare molto gravi. In una società come la nostra è facile riscontrare persone con queste problematiche al punto che, lo psicofarmaco pare essere diventato una sorta di “ricostituente morale”. Per fare fronte alla tristezza, secondo me, un rimedio naturale è quello di armarsi di una buona
L’HIV, TRENT’ANNI DOPO «A metà degli anni Ottanta ci fu una caccia alla streghe frutto della ignoranza. Oggi parlarne continua ad essere un dovere» di Giacomo Voglio parlarvi di questo virus chiamato Hiv, non perché peggiore o migliore di altri, ma perché a metà degli anni Ottanta, di punto in bianco, ci fu la notizia che questo virus era arrivato in Italia e nel piccolo comune dove abitavo io, alle porte di Pordenone, questa novità creò subito stupore e paura. Le persone si guardavano e commentavano le notizie che arrivavano dai mass-media e lo stupore iniziale, dovuto anche all’ignoranza rispetto a quel male sconosciuto, si tramutò imme-
diatamente in panico. I colpevoli del male oscuro, l’Aids, per la maggior parte delle persone erano chi usava droghe e gli omosessuali. Queste due categorie vennero subito ghettizzate. Per me è molto difficile spiegarvi i sentimenti di confusione e delusione che ho provato ascoltando quei discorsi; sicuramente anche da parte mia inizialmente ci fu molta ignoranza, sospetto e anche molta paura di poter contrarre quella brutta malattia che nessuno riusciva a spiegare con certezza come si
dose di pillole di ironia, perché questa è paragonabile al peperoncino che regala un gesto più spiccato all'alimento. Bisognerebbe condire tutto sempre con un pizzico di ironia creando cosi come una medaglia a due facce. Mi sono trovato anch’io a dover affrontare questa nebbia di tristezza e ogni volta non è mai stata uguale, sempre improvvisa, mai programmata e sempre devastante. Ogni volta ho cercato una mia chiave di lettura, una mia soluzione, perché spesso il mio problema dovevo affrontarlo in piena solitudine. Poche le volte in cui sono riuscito ad aver un conforto, un consiglio o quell’energia esterna, che avrebbe potuto darmi il modo di rialzarmi. I momenti più tristi sono stati quelli legati
agli affetti e “digerirli” non è stato facile. Accettare tacitamente e passivamente la fine di un rapporto crea uno stato d’animo di dolore indicibile e inspiegabile. In un attimo ci si trova trascinati dentro al film della propria vita dove, in un nano secondo, si finisce per analizzare e valutare tutti gli eventuali errori, dimenticanze o torti, quello che li ha indotti. Ma risposte non se ne trovano e si resta immersi nella nebbia; colmi di disperazione si arriva anche a pensare che il vivere non ha senso. Riuscire ad attraversare questo punto ed iniziare a ricostruirsi diventa imperativo: bisogna aiutarsi, bisogna provare a trovare interesse di nuovo per il mondo che ci circonda e, se sì è fortunati, bisogna ritrovare l 'amore.
potesse prendere. Insomma, ci fu una caccia alle streghe! Non potrò mai scordare come venivano trattate le persone che per loro sfortuna venivano etichettate come malate di quel male oscuro e soprattutto mi ricorderò sempre di quel ragazzo, che in quel periodo faceva uso di sostanze stupefacenti, che per tutti era malato di Aids. In realtà non lo era, ma veniva continuamente scansato per l’ignoranza della gente! Scrivere di questo virus che oggi conosco un po’ meglio, mi crea malessere; mi ritengo fortunato perché sono qui e posso raccontare il dramma che ho vissuto da vicino perché di Aids sono morti molti miei amici e amiche, persone a cui ero legato sentimentalmente e che vivono ancora dentro di me; li ricordo con tutte le loro sofferenze fisiche, ma soprattutto psicologiche. Persone che sapevano che dove-
vano morire, ma restavano appesi a quel filo di speranza che da un momento all’altro si potesse trovare una cura e si potessero salvare. Purtroppo se ne sono andati, ma con dignità, e mi dicevano sempre di non fare cavolate che la vita è importante. Oggi, per fortuna, ci sono delle cure e grazie a queste chi ha questo virus riesce a vivere una vita quasi normale. Si investe sulla ricerca, ma soprattutto se ne parla, c’è più informazione che serve sempre. Parliamone, parliamone!! Non bisogna aver paura o vergogna di discutere di questa malattia virale che non si trasmette dando la mano o parlando con una persona sieropositiva o in Aids conclamata. Noi, come società, cresciamo con l’abitudine di escludere tutto quello che non conosciamo e che è diverso. Aiutiamoci, così possiamo crescere insieme!
L’ODORE DEL CARCERE «Qui, dove tutti i cinque sensi cambiano e si respira un profumo mai sentito prima» di Donato Un giorno sono al lavoro, e mi piace. L’ho costruito su misura per me, godo del motto “lavorare divertendosi”, ci credo molto! Progredisco giorno dopo giorno e le soddisfazioni si moltiplicano, come i riconoscimenti e le gratificazioni personali, faccio del bene a chi ne ha bisogno, mi sento quasi come il cacio sui maccheroni! Troppo bello per durare ed essere vero! Ancora con le mani sporche di crema accolgo due persone per una notifica, forse una pillola amara? No, di più! Avevo pensato in modo troppo positivo. E’ un arresto. «Non preoccuparti sono un po’ di giorni di ferie e relax», mi dicono. L’altro giorno sono qui, in carcere, e manca tutto, ma questo non è un problema, ci si abitua, la vita cambia, cosi come la percezione dei cinque sensi. Qui sono un anziano, 56 anni,
ho pochi vizi, non fumo, non bevo alcool, non faccio uso di droghe. I giorni passano e più scorrono e più cambia la visione del “modus vivendi” e di udito, tatto, gusto, vista e olfatto. Ho sempre avuto un olfatto acuto. Qui perdo questa percezione, ma ne acquisisco un’altra: quella dell’odore del carcere. Apro gli occhi, inspiro e razionalizzo: è il profumo del carcere, anzi è un odore, che non è nè un profumo, nè un disgusto! Ad occhi chiusi e naso aperto provo a descrivere questa sensazione. E’ l’odore di qualcosa di oleoso, mai percepito prima d’ora, diverso da tutti gli olii da me conosciuti: semi, oliva, industriali, vegetali. Questo è veramente diverso, leggermente acre, oleoso, cupo. Lo ascolto ed è come un suono che si propaga in modo sordo attraverso un liquido pesante.
Codice a s-barre, quando la scrittura libera davvero «Dopo tre anni di detenzione, la presentazione del libro “Non giudicare!!” a pordenonelegge mi ha regalato ore di libertà preziose» di Nadir E’ iniziato tutto frequentando un corso che si chiama “Codice a s-barre”. Mi trovai subito molto bene, tuttavia non avrei mai pensato di poter arrivare a scrivere alcune parti della mia storia e di poterla pubblicare perché fosse letta da persone libere, fuori dal car-
cere. Dopo un anno, frequentando ogni appuntamento di tale corso, ho partecipato alla stesura del libro “Non giudicare!!” (edito da I Ragazzi della Panchina nd.r.). Per la presentazione del libro, a Pordenonelegge, sono uscito dal carcere in permesso premio,
Il tutto ha un colore grigio chiaro con dei riflessi più scuri e flash chiari metallizzati. Come una luce che si rispecchia su un acciaio satinato, che cambia in base al raggio di luce che lo colpisce. Questo odore è nella mia testa, per me è inconfondibile; addirittura riconosco un odore diverso nelle visite parenti, nell’avvocato e nel Don e anche nel resto del personale, medici e infermieri. Hanno tutti un odore ben definito, è l’odore del carcere. Queste strane sensazioni sono l’inizio di percezioni mai provate fin d’ora. Mi osservo, sono la stessa persona ma è cambiata la mente e le sensazioni. Somatizzo, evidentemente ed inconsciamente rifiuto dove sono. Non sento più. Adesso immancabilmente è cambiato ulteriormente tutta la visione dei miei sensi, non capisco cosa mi dicono, non ascolto più la televisione, sono costretto a seguire il labiale di chi mi è vicino. Capisco effettivamente che l’unico senso che non è mai cambiato è la
vista; anche qui però c’è qualcosa di diverso: la luce non brilla come fuori, i colori sono diversi e l’unica vera cosa che resta uguale è il cielo quando lo guardi mentre sei all’aria. Che bello! E’ tardi e qui la vita si placa prima che fuori. Il ritmo rallentato del tempo procede come un lento schiaccia sassi: ti stringe piano, piano e ti fa esplodere le cellule del corpo che come proiettili schizzano fuori toccando un grande muro che paralizza. Gli occhi si chiudono di stanchezza. Parte un sogno rubato, un dubbio inconscio. Mi sveglio, è un altro giorno, c’è un profumo oggi, è il profumo del carcere. Ora lo percepisco, è quello di ieri ma oggi è diverso. C’è un ingrediente in più, un desiderio: la speranza di uscire libero!
dopo tre anni di detenzione. La sensazione di libertà è stata meravigliosa, anche se ero consapevole che sarebbe durata il breve periodo della presentazione, dovendo poi tornare in carcere. All’uscita dal carcere, mentre andavo al ridotto del teatro Verdi per l’incontro, provai delle sensazioni incredibili: poter calpestare spazi illimitati, respirare l’aria pura della libertà, confondermi tra le persone. Mi colpì, poi, in modo incredibile la lunga fila di persone in attesa di entrare in teatro. Quando poi mi ritrovai sul palco, seduto tra il direttore del carcere, Alberto Quagliotto, il professore universitario Alvise Sbraccia e Cristina Collauti (operatrice dell’associazione n.d.r.), ma soprattutto davanti ad un pubblico molto numeroso, l’emozione ebbe una momentanea sopraffazione su di me. Passato questo breve momento, incominciai a
parlare esternando tutte le mie sensazioni, raccontando i miei sentimenti, alcune parti della mia vita vissuta in carcere e fuori, momenti belli e anche momenti molto tristi, dal profondo del mio cuore. I miei racconti provocarono nel pubblico un interesse tale che al termine del mio intervento ci fu un lungo applauso. Finita la presentazione la gente mi manifestò un’accoglienza inaspettata, trattandomi senza pregiudizi, non come un carcerato, ma come uno di loro. E’ stata un’emozione strana e bellissima; ho sentito il cuore battere a mille, una sensazione indescrivibile, che si può capire solo vivendola. Grazie al progetto “Codice a s-barre” ho potuto assaporare la piacevole sensazione di questi meravigliosi momenti di libertà e mi auguro che anche altri partecipanti al corso la possano sperimentare.
Alla ricerca della verità perduta Il ruolo dei media nell’indirizzare il pensiero sociale. Articoli a confronto di Stefano Venuto Riprendiamo, per questo articolo di LdP, un avvenimento successo a fine settembre scorso e già commentato attraverso il nostro blog, interessante non più per l’avvenimento in sè, ma come occasione per ragionare su quanto i media, in merito ad avvenimenti particolari o che comunque creano impatto sociale, possano distorcere la lente attraverso la quale si vedono e si percepiscono i fatti. Abbiamo letto con
interesse, stupore ed anche preoccupazione, gli articoli sui due principali quotidiani locali di Pordenone rispetto al rave party avvenuto sul greto del Tagliamento in località Quaiare a San Vito al Tagliamento. Interesse, stupore ed anche preoccupazione perché l’articolo uscito sul Messaggero Veneto sembrava descrivere un evento completamento diverso da quello del Gazzettino. Se non fosse che la località citata
«Riprendo in mano le redini della mia vita» Dichiarazione di intenti, dopo una vita svenduta alla droga di Tina Basta dissoluzione, mia malata perversa ossessione. Basta spegnere la mente per non guardare, come se il problema poi solo scompare. Basta reati, casini e autodistruzione, un mio nuovo mondo è già in costruzione, chiudendo gli occhi ne ho già la visione, uscire dal sentiero della perdizione, abbracciare la vita, rimarginare la ferita, prendere come scelta la felicità, fiduciosi che sarà realtà, perché la felicità non è una condizione, ma una scelta come
la dannazione. A fare i dark, si finisce al crak, a piangere chiunque ne è capace, ma è il sorriso che poi a tutti piace, la volontà caparbia inaffondabile, di chi di emozioni non è mai saziabile, che lascia alle spalle il più cupo dolore, per destinare la vita al divino amore. Guardare avanti e oltre il proprio naso, capire che niente nella vita è un caso, il vaso che finora le tue radici ha contenuto, troppo stretto ormai è divenuto, un impeto di parole patrocinano la
era la stessa, davvero nulla di quanto scritto dai due quotidiani era nemmeno minimamente equiparabile. Come può succedere una cosa del genere? Prevale il senso di preoccupazione rispetto all’informazione in quanto tale, perchè capiamo che ogni giornale “taglia” le informazioni in base alla “linea” che più interessa. Non può essere, però, che lo stesso evento letto sul Messaggero Veneto faccia intendere, commentare, pensare, discutere i lettori in maniera esattamente opposta a quello letto sul Gazzettino. Messi in due articoli a confronto, ci chiediamo: questo rave ha o non ha disturbato dei residenti della zona? Il Messaggero dice di no; il Gazzettino sì. I ragazzi presenti se ne sono andati la domenica mattina pulendo il luogo e con fare sereno, senza cioè che le forze dell’ordine, dopo i dovuti accertamenti, non trovassero alcun elemento per muovere procedimenti penali o amministrativi nei confronti di qualcuno di loro? Perché nel Messaggero si diceva che era stato così, mentre nel Gazzettino si lasciava intendere altro? Insomma, questa festa, non autorizzata, è stata una festa giustamente monitorata, ma che si è svolta assolutamente nei limiti o una nottata di musica, alcol e sesso tra la vegetazione? In messaggi che derivano dalla cronaca fatta dall’uno e dall’altro quotidiano sono diametralmente opposti: noi lettori dobbiamo
cioè iniziare a pensare che da qualche parte i ragazzi si possano divertire, anche con degli eccessi “gestiti”, come si deduce leggendo il fatto sul Messaggero, oppure dobbiamo concludere che il mondo giusto è quello che si mette la cravatta la domenica mattina e si strige le mani in segno di pace e che vede in questi “divertimenti” ed “eccessi” dei “pericoli”, come si arriva a pensare al termine dell’articolo del Gazzettino? Salvo poi, nel caso di chi vive in questo “mondo giusto”, nascondere a volte gli orrori del quotidiano dentro case sempre più vuote e destinate a produrre un futuro sempre più individualista? La risposta la troverete scritta in articoli di giornale come quelli presi ad esempio: ma vi suggeriamo di leggerli sempre tutti, perché ognuno scriverà cose diverse rispetto allo stesso fatto. Noi dalla Panka ci scontriamo ogni giorno tra realtà ed immaginario comune, tra azioni da giudicare e pre-giudizi, tra la valorizzazione delle persone con i propri limiti ma anche con i potenziali spedibili, contro la creazione di mostri sociali utili solo a far sentire tutti gli altri degli eroi. Bisogna stare attenti a quello che si sente e si legge, che ad indicare i cattivi perché si fa parte dei buoni è facile, ma solo fino a che non ti ritrovi nella categoria sociale degli “sbagliati”. Perché poi, citando Umberto Tozzi, è un lampo a scoprirsi che “gli altri siamo noi”.
mia condizione, ma è giunto il momento di passare all'azione, di riprendere le redini della mia vita, senza più permettermi il lusso della ritirata, infondo nella disfatta ho perso molta della mia debolezza, fatico ancora a precisare cos'è la certezza, credo che nel mondo dei tossici nulla lo sia, tranne forse la malinconia, ma è un mondo altamente alterabile, come il pongo modellabile, nel quale si chiude una porta e si apre un mondo, che dobbiamo imparare a conoscere a fondo, e non vedo l' ora di poterlo fare, senza il bisogno di dovermi alterare, perché niente vivi se sei “fatto”, tranne appunto il misfatto. Le fi-
nestre ogni mattina vanno spalancate, respira il cielo a gran “polmonate”. La libertà concedercela non deve nessuno, la propria appartiene già ad ognuno. C'è chi si butta da un ponte e chi scala un monte, chi preferisce volare veramente, piuttosto che volare solamente con la mente.
Vajont, quando la natura si ribella all’uomo In visita al museo di Longarone dedicato alla tragedia del 1963 Per non dimenticare di Timothy Dissegna La vita è fatta di attimi, lo diceva già il latino Orazio a suo tempo. Ma nemmeno l'antico poeta si sarebbe mai immaginato che quella frase si sarebbe mostrata con il suo volto più crudele, più di mille anni dopo l'Impero romano. Questione di pochi minuti e un paese intero cambia, nel profondo dell'anima e sulla pelle, piangendo i propri figli scomparsi atrocemente. Il Vajont è una storia che, dolorosamente, riguarda da vicino il Friuli Venezia Giulia. Perché quella sera del 9 ottobre 1963, alle 22.39, l'onda che devastò i paesi e borghi della valle omonima partì proprio da questa regione: fu causata, infatti, dal crollo di una parte del monte Toc pari a 260 mila metri cubi di roccia all'interno del bacino artificiale creato dalla diga da poco costruita. Né scaturì un gigantesco muro d'acqua alto 200 metri, che lasciò intatta la costruzione, ma fece tabula rasa di case, vegetazione e, soprattutto, persone. Non si trattò di un tragico incidente, ma della terribile vendetta della natura per lo «Una siringa vuota contro i tuoi guai»: potrebbe sembrare la frase di un medico ad un paziente. Purtroppo essa è fonte di uno dei problemi più gravi della nostra società. Solo una siringa... e quello che prima poteva essere considerato un problema da risolvere, diventa ora il dramma di chi si droga, di chi gli sta accanto. La società è divisa tra mille contrasti, opinioni diverse; parla, giudica, condanna e intanto quei giovani sono ancora là, a gettare con disperazione e forse anche con rabbia la propria vita assieme a quella siringa vuota. Ragazzi, siete tanti ma la vostra storia è simile, forse uguale, forse basterebbe solo uno di voi a far capire cos’è veramente la droga. Solo pochi mesi fa tu ragazzo eri come me, ora sei sull’orlo dell’abisso: traffichi in quel bar di periferia, dormi su una panchina, non ti si riconosce
spregio che la Sade (Società adriatica di elettricità) di essa fece, realizzando quella diga, nascondendo nel silenzio i terribili presagi che preannunciavano il disastro. E a pagarne le conseguenze furono le 1917 persone che quella sera persero la vita, oltre ai feriti e ai parenti che videro la loro esistenza cambiare per sempre. Del Vajont si è scritto tanto, ma solo dopo quell’onda devastatrice. Dietro questo nome ce ne sono moltissimi altri: Erto, Casso, Longarone solo per dirne alcuni. Erano tutti distribuiti tra la valle confinante oggi tra Friuli e Veneto, province di Pordenone e Belluno, e nonostante da quel giorno siano passati cinquantuno anni, le loro tracce rimangono ancora. Certo, i paesini sono stati ricostruiti e quello di Vajont è stato ricostruito nuovo poco più lontano; dovunque noti edifici molto più moderni rispetto a quelli degli anni ’60, ma il segno sul Toc rimane ancora. Vedi lontano chilometri la sabbia lasciata dalla frana e la diga è rimasta là, anche se non viene più
usata. É a Longarone, in Veneto, che si trova il resoconto più agghiacciante di quella notte. Sta tutto nel museo dedicato al disastro, terminato di essere realizzato qualche anno fa e al cui interno si ripercorre la storia del paese prima e dopo l'apocalisse. É un viaggio nella "piccola Milano", come era soprannominato questo luogo grazie alla forte industrializzazione che lo caratterizzò durante la prima metà del '900, da cui si vede ancora oggi, proprio appena fuori dall'edificio, la diga alta 261,60 metri. Una cittadina così fiorente che, nel 1938, arrivò anche Mussolini in visita. Entrando nel museo sembra di essere in una cattedrale silenziosa, cupa sotto le ombre di dolore di quegli innocenti spazzati via dall'acqua. Solo i suoni del documentario "Longarone Vajont, attimi di storia - moments of history", proiettato in una saletta vuota, riecheggiano tra le mura riempite di pannelli, foto, descrizioni di quello che una volta c'era lì. Le ultime sezioni del museo sono dedicate al processo che seguì alla tra-
Incontro con un “tossicodipendente” «Basterebbe la tua storia, per far capire cosa significa droga. Perché la tua è uguale alla storia di tutti voi» di Rita Vita Marceca più, appari lo spettro della tua vita reale. Forse a qualcuno puoi far pietà, guardato con occhi che giudicano. Forse qualcuno ti farà l’elemosina, ma poi passerà oltre. Tu resti lì, solo, adesso hai i soldi sai cosa fare, cerchi l’uomo giusto quello che ti ucciderà ancora una volta e andrai negli scantinati di una stazione lasciando una siringa e un
po’ della tua vita su quel pavimento calpestato più volte per la fretta di arrivare prima. Come vorrei aiutarti! Ti muovi a tentoni; cercare un appiglio su quei muri troppo lisci, troppo semplici, è impossibile e vai sempre più giù, fino al buio totale. Mio povero amico sconosciuto, come vorrei che ti svegliassi, anche se so che lo rifaresti ancora, anche se
gedia e alla risonanza mediatica che l'orrore ebbe. Le prime pagine di tutti i giornali europei, e non solo, gli furono dedicate per settimane, mentre il 20 febbraio 1968 iniziò l'iter processuale contro nove imputati tra cui Sade, Enel e Ministero dei Lavori Pubblici. Le parti lese furono 250 e la fine del processo civile arrivò solo nel '99. Uscendo dall'ultima stanza, foto di luoghi devastati si susseguono una dopo l'altra, insieme ai titoli dei giornali che denunciavano il ritardo dei lavori di ricostruzione. C'è da impallidire a osservarle tutte a rendersi conto che, nello stesso punto in cui ci si trova adesso, quasi cinquant'anni tutto fu rasato al suolo dalla furia cieca dell'acqua. Penso a quanto sta accadendo oggi e allora mi viene da dire che sarebbe meglio riflettere prima di gridare all'allarme allagamenti dopo qualche giorno di pioggia e, magari, anche smetterla completamente di violentare la natura costruendo dove non si deve. Chissà che alla fine si potrà finalmente vivere in pace con lei. ormai… Non ti fermerai più, correrai sempre più forte verso la foss,a vincendo le onde del tempo, la furia del vento, vincerai la tua esistenza; è solo un’illusione, non è la realtà, è ciò che credi vita, perciò non guardi più l’orologio, per questo non mangi più, perciò rimani lì a terra, aspettando la morte. I tuoi vecchi jeans, comprati quando ancora speravi, ora giacciono su questo marciapiede. Vorresti ora gridare pietà, vorresti piangere, solo adesso verresti farlo, vorresti bagnare il viso di un tuo amico con le tue lacrime, ma non puoi, dalla tua bocca esce solo un rantolo, la sola forza nella tua agonia, dai tuoi occhi senza più espressione non spunterà più una lacrima. E allora, amico mio, nemmeno il dolore potrà più spaventarti, nemmeno chi ti ha sempre chiamato con amore potrà farti niente. (Mazara 1981)
Il CEMENTO «Con i suoi pregi e i suoi difetti è la cosa che ci accoglie e ci protegge. È poco “eco", ma sempre meglio di un rifugio di paglia e fieno» di Ferdinando Parigi Gran cosa, la Natura. Eppure nessuno di noi è nato e vive in una baita di legno nel bosco. Quasi tutti siamo nati e viviamo il grosso del nostro tempo in involucri resistenti, che molto spesso sono fatti di qualcosa di grigio e non troppo trendy dal punto di vista “eco”, qualcosa che per me è formidabile, se ben usata: il cemento. Solo il nominarlo fa pensare a mostri ecologici, come le “Vele” di Scampia, e dire “cemento” suona meno bene che dire “ruscello”, ma stiamo parlando di qualcosa che può essere composto e miscelato in tanti modi per tanti usi, e successivamente
strutturato su misura in tempi brevi e con costi convenienti. Il cemento ha fornito all’Architettura la possibilità di esprimersi in modi nuovi, a volte mirabili. In altri casi, è stata la materia prima per costruire cose brutte, spesso in luoghi incantevoli. Come per tutte le cose del mondo, è l’Uomo a decidere come impiegare mezzi e strumenti: la Casa dello Studente dell’Aquila, ad esempio, è crollata soprattutto perché era fatta di cemento povero. Chi l’ha costruita ha pensato che gli conveniva mettere poco legante e tanta acqua, nella miscela. Ma c’è anche chi ha
saputo fare un eccellente uso di questo materiale, e l’architetto svizzero-francese noto come Le Corbusier in questo campo è stato il numero uno. E’ stato il primo a sancire che tutto andava costruito a misura d’uomo, dimostrando che, grazie al cemento, questo si poteva fare. Su alcuni solidissimi e geniali concetti basilari, nacque l’Architettura Razionalista, e per quel che ho capito, tutti, ancora oggi, grazie a quel modo di pensare viviamo, o almeno abitiamo, molto meglio di prima. Mi sembra che il miscelare una polvere adeguatamente composta (la più comune è il cemento Portland) con semplice acqua, e poter fare mille usi di quello che ne risulta, abbia quasi qualcosa di magico. Non si può certo dire che il cemento sia tutto rose e fiori, sarebbe troppo. Ci sono stati alti e bassi. Per esempio: le distruzioni operate dagli anglo-americani nella II Guerra Mondiale ci hanno costretti a ricostruire alla svelta. Il Dopoguerra è stato un momento fondamentale per l’impiego del cemento, che ci ha consentito standard abitativi decisamente più elevati
rispetto a quelli di prima del Conflitto, anche se rimanevano case con una baracca in cortile come unico gabinetto. Me le ricordo. Poi è venuta l’edilizia degli anni ‘60 e ‘70, che è stata un’edilizia veramente scarsa in cui si è dato spazio ad architetti che non erano all’altezza. Tutto sommato, la parte brutta dell’Italia è costituita soprattutto dai mostri di quegli anni. Ma resta il fatto che questo “dannato” cemento, con i suoi pregi e i suoi difetti, è la cosa che ci accoglie e ci protegge, ci permette di lavorare, dormire, nutrirci. Nel cemento, siamo nati quasi tutti, non in una radura o su un’isola. In mezzo al cemento abbiamo giocato da piccoli, nel cemento (casa, fabbrica o ufficio) siamo cresciuti e viviamo molta parte della nostra vita. Malgrado diversi limiti, di natura prevalentemente termica, il cemento è sempre infinitamente meglio che paglia e fango, o lamiera ondulata. E’ l’ideale, per chi non può permettersi un palazzetto di mattoni ristrutturato in Canal Grande o un cottage di tronchi d’albero levigati nel Montana.
di ogni tempo hanno saputo esprimere, trasformandole a volte in autentica poesia. In questa ‘raziunedda, quanta semplicità nel voler rendere il proprio cuore un giardino per Gesù bambino, affinché riposi all’ombra dei fiori! Chi di noi saprebbe esprimere l’amore con la stessa confidenza e lo stesso disinteresse? E poi, andando oltre all’aspetto poetico, io da credente rifletto che Dio stesso si è comunicato agli uomini, fin dall’inizio dei tempi, nel rispetto del loro cammino evolutivo ed ha intessuto un dialogo che si adattasse alla limitatezza dell’uomo concreto che gli era davanti, di volta in volta. Man mano che l’uomo allargava mente e cuore, Dio vi entrava con una rivelazione più grande, finché non è arri-
vato il momento di mandare Gesù. In campo morale per esempio: dapprima chiede che la vendetta non vada oltre l’offesa (“occhio per occhio” e non di più) successivamente insegna “ama il tuo prossimo come te stesso” ed infine, attraverso Gesù, propone il perdono, esteso fino ai nemici. Gesù ci ha rivelato che Dio ha sempre un rapporto personalizzato con ciascuno e non chiede a tutti le stesse cose, ma chiede ad ogni persona quello che quella persona può dare. E’ un messaggio di pace interiore, di felicità e di pienezza, che a volte bisogna scrostare dalle predicazioni rigide e ossessive in cui viene presentato. Ma chi cerca trova... Le perle ci sono ma bisogna cercarle!
L'ANGOLO DELLA FRANCA
Aspettando la nascita di Gesù Bambino Nenia di Natale in dialetto siculo, una riflessione per la vita di Franca Merlo Le ‘raziuneddi sono piccole orazioni, nenie natalizie in dialetto siciliano. Il mio amico Vincenzo anni fa me ne ha spedite una trentina, in dialetto trapanese-belicino. Le aveva raccolte zia Mirella, un’insegnante in pensione e nelle festività natalizie sono state esposte nelle vetrine del centro storico del paese, insieme a statuette in creta di Gesù Bambino. Le ho ancora nel computer e siccome questo è l’ultimo numero del giornale di quest’anno e tra non molto è Natale, ne offro almeno una ai lettori, non solo siciliani. Potrei citare altre composizioni, perché ve ne sono in ogni dialetto e pure in italiano, ma scelgo questa, una per tutte. E’ bello riandare alle proprie origini culturali. Nulla di ciò che siamo
è nato da un giorno all’altro, ma c’è stato un lungo processo storico, evolutivo, che ci ha condotti fin dove siamo ora. Nonostante opposizioni di pensiero, svolte, salti, siamo tuttavia sempre legati alle origini. Dalla famiglia in cui siamo nati, a sua volta immersa in un certo tessuto culturale, noi abbiamo preso la mentalità, la sensibilità, una struttura interiore che ci rimarrà dentro per tutta la vita e con cui affronteremo il mondo, fosse anche una nuova cultura ed un nuovo approccio alla realtà. Conoscere le origini è conoscere meglio se stessi. E così, se non si disprezzano le devozioni popolari partendo da una supposta superiorità, ma si cerca di capire, ci si accorge dell’infinita dolcezza che donne e uomini
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
LA PROTEZIONE CIVILE di Milena Bidinost Da fuori, la struttura che risponde al civico 43 di via Natisone a Palmanova (Ud), è un complesso di cubi grigi, moderno e asciutto. All'ingresso a caratteri cubitali la targa: “Regione autonoma Friuli Venezia Giulia. Protezione civile”. Ci entri e scopri che ti trovi nel cuore di un'articolata macchina, costruita con certosina razionalità, nella quale nulla è lasciato al caso. Questo è il quartier generale di un sistema integrato che abbraccia tutto il territorio regionale: il punto dal quale si dirama una rete complessa e trasversale che parte dalla testa (la sede stessa in cui si raccolgono ed elaborano le informazioni), passa per il cuore (i vertici regionali e istituzionali da cui dipendono le decisioni) e arriva fino alle braccia (Comuni, volontari, forze dell'ordine, privati che intervengono sul territorio). L'obiettivo è unico: prevedere, prevenire, soccorrere popolazioni e ambiente in caso di emergenze, fino a superarle con successo. Questa struttura nacque per coordinare i volontari presenti sul territorio, successivamente arrivarono i tecnici: geometri, ingegneri, geologici ed ogni genere di esperti. In totale a Palmanova lavorano un'ottantina di persone, dipendenti della Regione, contando anche amministrativi e legali. L'intera squadra è guidata da un funzionario, il Direttore della Protezione civile, il quale fa capo alla Giunta regionale. Nella sede di via Natisone la macchina funziona come un imbuto: vi entrano tutte le informazioni utili a monitorare in tempo reale situazioni dei fiumi, della terra e del cielo e, una volta elaborate, escono sotto forma di indicazioni operative a raggiera: la segnalazione di emergenza viene qui “spacchettata” affinché l'intervento su ogni suo aspetto (viabilità, geologia, sanità ecc) possa essere affidato ai competenti operatori sul territorio. Tutto nel minor tempo possibile. Il viaggio delle informazioni parte dalla sala operativa: è qui
che arrivano le chiamate fatte al numero verde della Protezione civile regionale, l'800.500.300. L'operatore le filtra, valuta la situazione e in caso di emergenza attiva la procedura di intervento. Due anni fa sopra la vecchia sala direzione e comando (tutt'ora utilizzata), ne è stata realizza una all'avanguardia con funzione istituzionale, decisionale e di comunicazione con l'esterno: è destinata alle grandi emergenze, come potrebbe essere un grosso evento sismico, ed è stata utilizzata per il momento solo in simulazione. In Italia di simile vi è solo la sala direzione della Protezione civile nazionale con sede a Roma. Tutto, in questo quartier generale, coopera per l'immediatezza delle decisioni e la corretta informazione da far passare alla popolazione, ai fini della pronta soluzione delle emergenze e del contenimento dei rischi. Fuori da qui, la Protezione civile diventa una rete preparata e articolata di uomini: sono i volontari dei Gruppi comunali e delle Associazioni di Protezione civile, che ancor oggi costituiscono il suo occhio vigile e il suo braccio operativo. Attualmente i volontari nella nostra regione sono circa 10.000, di cui 8000 circa appartenenti ai 219 Gruppi comunali e 2.000 alle Associazioni di volontariato di Protezione civile. La Regione Friuli Venezia Giulia fu precursore dei tempi anche su questo fronte. Già con la legge regionale 64 del 31 dicembre 1986, che istituì la Protezione civile anticipando nello spirito la legge nazionale del 1992, venne infatti riconosciuto il volontariato come risorsa da tutelare e formare costantemente. Nata dal volontariato con il sisma del 1976 che mise in ginocchio il Friuli, ancora oggi la Protezione civile resta cioè un grande gigante buono, la cui anima è costituita da gente che dedica gratuitamente mente e cuore alla popolazione e all'ambiente della sua terra.
Nel cuore operativo della Protezione civile Visita guidata al quartier generale di Palmanova, dove nulla è lasciato al caso di Guerrino Faggiani Visto dall’esterno, il complesso che ospita il Centro Operativo Regionale della Protezione Civile di Palmanova fa pensare ad una recente costruzione: una volta all’interno, ogni eventuale dubbio in merito viene meno. È infatti una grande struttura ramificata con spazi pensati e distribuiti scientemente in base a quelle che possono essere le esigenze durante la gestione di una crisi. E le esigenze non sono poche, tant'è che la Protezione Civile per affrontarle al meglio è chiamata ad un grande sforzo in termini di risorse umane e tecniche. Per semplificare il modus operandi il dipartimento è suddiviso in blocchi di competenze. Uno è quello dei tecnici del pronto intervento emergenza, che operano sul territorio e si relazionano con le aziende locali
per gli interventi. Per scelta la Protezione civile non dispone di attrezzatura propria, ma si avvale delle maestranze del posto che meglio di nessun altro conoscono il territorio, permettendo così, tra l’altro, che i fondi pubblici rimangano nelle zone colpite. Ci sono poi l’unità di cartografia (che fornisce mappe e riferimenti cartografici); l’unità tecnica (che gestisce l’informatizzazione, computer, sistemi di acquisizione dati e rete radio di emergenza); il coordinamento volontariato. Ci sono ancora: un gruppo di operatori che gestisce la sala operativa con tutti i sistemi di gestione ed elaborazione; chi si occupa della componente amministrativa e chi della parte giuridica. E infine c’è il direttore, come ci hanno spiegato, sorridendo, durante la visita da
noi effettuata in sede. Tutta questa macchina organizzativa è operativa 24 ore su 24. La Protezione civile si avvale di una rete automatizzata e di sensori sul territorio, che permettono in modalità non stop di sapere in tempo reale cosa succede: temperatura, livello dei fiumi, piovosità ecc. Notevole e di significativo impatto è la grande sala Direzione comando e controllo. Qui si entra con il naso all’insù, guardando tutt’attorno le sue alte e vaste pareti, nelle quali, grazie ad un sistema di rilevamento geolocalizzato, scorrono proiezioni digitali tridimensionali a 360 gradi, di territori prescelti all’interno della nostra regione. Pensate che in caso di sinistro, un elicottero sorvola con una telecamera la zona colpita e manda le immagini che in remoto vengono viste sulla sala. Si permette così agli operatori di avere lo stesso punto di vista del pilota e di vedere ciò che appare ai soccorritori. Vedere con i propri occhi cosa succede in tempo reale è fondamentale, permette di gestire e prendere le decisioni appropriate dalla sala operativa, e non dalla zona sinistrata, senza caricare così ulteriormente la già gravata rete di comunicazione del posto. Consente anche di operare in un contesto che non è stressato, di lavorare con tranquillità e con efficacia. Inoltre rende più facile a tecnici ed amministratori, comprendersi ed
accordarsi sui provvedimenti da prendere intervenendo nel modo più adeguato e rapido possibile. Qui il tempo è più prezioso del denaro, e tutto questo sistema di operare, dalla mole sicuramente possente ma agile e concreto allo stesso tempo, trova il suo senso proprio in questo: agire, il più presto possibile e nel modo migliore. Di fondamentale importanza per garantire il buon funzionamento della gestione delle crisi, è allo stesso tempo anche la divulgazione delle notizie attraverso gli organi di informazione: essa viene curata e vagliata attentamente, onde evitare che i media, a caccia di polemiche, sviino l’attenzione dell’opinione pubblica verso quelle che non sono le necessità del momento. Ebbene si, non siamo abbastanza maturi da non cadere in facili e ottuse bolle giornalistiche che non aiutano in alcun modo l’emergenza e il lavoro dei soccorritori, e anzi la complicano. Non si può uscire, al termine di una visita al cuore della Protezione Civile regionale, senza sentirsi dei bambini ai quali non si può dire tutto, perché sennò si fanno del male. Ma, osservando quella struttura mentre ce ne andiamo resta la cosa più importante: avere visto con i propri occhi quante persone preparate, formate e competenti, si adoperano ogni giorno e tutte per la stessa causa, che alla fine è la nostra.
La nostra regione fece da modello per il resto d'Italia Fu il terremoto del 1976 ad aprire la strada al concetto di prevenzione delle emergenze di Milena Bidinost In Friuli Venezia Giulia la prima legge sulla Protezione civile fu la n. 64 del 31 dicembre
1986 su “Organizzazione delle strutture ed interventi di competenza regionale in materia
Essere volontario di Protezione civile in Friuli Venezia Giulia
Richiede un percorso di formazione continua, costanza, disponibilità e voglia di essere d’aiuto agli altri di Francesco Miorin, volontario e mediatore tecnologico del Gruppo comunale di Protezione civile di Casarsa della Delizia Il volontario di Protezione civile, nel sistema integrato regionale, ha il ruolo fondamentale di portare soccorso alle popolazioni in modo organizzato, professionale e gratuito supportando sia il sindaco che è la prima autorità di Protezione civile sul territorio, che l’ente Comune, il quale ha la responsabilità primaria dell'intervento quando si verificano situazioni di emergenza. Il sistema della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia è una realtà unica e molto studiata, in quanto in ogni comune della regione è presente una squadra di volontari attrezzati ed addestrati pronta ad intervenire, il “Gruppo Comunale di Protezione civile”, che è a disposizione del sindaco per realizzare le attività di soccorso e di prevenzione dei rischi natu-
rali (terremoti, alluvioni, eventi meteo avversi, incendi boschivi, frane, ecc.) con lo specifico obbiettivo di tutelare ed assistere la popolazione in caso di emergenza. Diventare volontario di Protezione civile prevede un iter che varia dai colloqui iniziali per conoscere la persona e le sue competenze e motivazioni, alle visite mediche, ai corsi di formazione. Può diventare volontario chiunque abbia capacità, competenze e tempo da dedicare agli altri e che abbia almeno 16 anni (fino ai 18 anni effettuerà solamente addestramenti), basta fare richiesta in Comune. Il percorso prevede un periodo di prova nel quale il neo volontario dovrà frequentare i corsi propedeutici che servono a fornire le competenze e le normative di sicurezza neces-
sarie ad operare negli scenari nei quali sono chiamati ad operare i volontari. I corsi sono organizzati dalla Protezione civile della Regione e prevedono una parte teorica ed una sessione pratica entrambe concluse con un esame che abilita o meno l'allievo. Alcuni esempi dei corsi che frequentano i volontari del gruppo comunale sono: corso base per volontari, corso radiocomunicazioni, corso motopompe, corso guida fuoristrada, corso uso motosega, corso elicooperazione, ecc. Alla formazione obbligatoria si aggiungono le esercitazioni che ogni gruppo comunale organizza durante l'anno per mantenere alto il livello di formazione e l'affiatamento tra i componenti. La gerarchia all'interno del gruppo prevede al suo vertice il co-
di protezione civile”. Al momento della sua promulgazione la legge statale vigente in Italia in materia era la n. 996/1970: questa era però figlia dell’impostazione che vedeva questo “servizio” come intervento di soccorso da effettuarsi a calamità avvenuta. Fu con il tragico terremoto che nel 1976 colpì il Friuli che si sviluppò, proprio a partire dalla nostra regione, la consapevolezza della necessità di impostare un sistema basato sulla prevenzione, non solo dal punto di vista tecnico ma soprattutto culturale. Il
Friuli Venezia Giulia in questo ha fatto da modello. La scelta del legislatore regionale è andata infatti nel senso di precorrere i tempi ed interpretare lo spirito del testo unico allora giacente in Parlamento, che avrebbe visto la luce solo nel 1992, con l’approvazione della legge n. 225/1992. Quest'ultima istituì il Servizio nazionale della Protezione civile, un Sistema organico ed integrato di funzioni e competenze rimesso a più enti e strutture e diretto dal Dipartimento della Protezione civile presso la Presidenza del Consiglio dei Mi-
nistri. Si tratta di una sorta di cappello, sotto il quale operano le varie Protezioni civili regionali, ciascuna delle quali si è conformata alla storia e alla specifica realtà del proprio territorio. Se ad esempio in regioni come la Toscana o l’Emilia Romagna l’anello di congiunzione tra territorio e Protezione civile sono le associazioni, da noi esso è rappresentato dai Comuni (sindaco, gruppi comunali di Protezione civile) e dalle associazioni di volontariato di Protezione civile. Ma dire Protezione civile regionale oggi significa
ordinatore, che ha il compito di organizzare tutte le attività, mantenere i rapporti con il Comune e gestire i volontari, a lui si affiancano i capisquadra ed i vice capisquadra che supervisionano e gestiscono i volontari durante tutte le attività garantendo la sicurezza nelle operazioni, e le figure del nucleo formativo locale: il manager formativo (colui che organizza e gestisce la formazione dei volontari) ed il mediatore tecnologico che si occupa di gestire le banche dati. All'interno del gruppo comunale i compiti vengono suddivisi in modo che ogni aspetto venga costantemente mantenuto in efficienza (automezzi, magazzino, logistica, vestiario, attrezzature, ecc.). Al volontario è richiesta costanza nella partecipazione alle attività e la conoscenza delle attrezzature, delle dotazioni e delle modalità di esecuzione degli interventi in sicurezza. L'altra modalità di effettuare attività di Protezione civile è quella di aderire ad una delle associazioni di volontariato iscritte all'elenco regionale di Protezione civile, cioè quei sodalizi ad alta specializzazione che forniscono le loro competenze in caso di emergenza: Corpi Pompieri Volontari, Radioamatori, Cinofili, Sommozzatori, Scout, Associazioni di soccorso sanitario (Misericordie, Croce Rossa, Croce Verde, ecc), Ana (Associazione nazionale alpini), Anc (Carabinieri in congedo) ecc. Ognuno degli oltre 10.000 volontari di Protezione civile della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia (8000 dei gruppi comunali e 2000 delle associazioni) è sempre disponibile per aiutare chi ha bisogno nel proprio comune, in regione o fuori da essa, senza ricevere nulla in cambio se non qualche “grazie”. Numerose le missioni di soccorso effettuate in Italia ed all'Estero, dall'Albania e dal Pakistan, alla recente alluvione di Genova, sempre pronti ad aiutare dove serve. soprattutto dire “sistema integrato”, nel quale si fondano, orientate ad un medesimo fine, le molte e diverse componenti della società civile, da quelle istituzionali a quelle del volontariato, con un forte raccordo con le Forze dello Stato presenti sul territorio e con il Governo centrale. Nei primi anni 2000, il legislatore regionale ha inoltre iscritto tra gli interventi di emergenza di competenza della Protezione civile regionale anche quelli di solidarietà internazionale e nazionale, verso cioè le popolazioni di altre regio
L'autoprotezione dei cittadini
Come essere primi soccorritori di se stessi per fare prevenzione e affrontare situazioni critiche di Francesco Miorin Negli ultimi anni la frequenza di situazioni di emergenza che hanno colpito il nostro territorio regionale e nazionale è aumentata notevolmente, causando vittime e danni ingenti. Le cause di tali fenomeni (terremoti, frane, alluvioni, trombe d'aria, ecc.) si possono ricercare nell'urbanizzazione eccessiva e nella mancanza di manutenzione, ma anche nella sempre più frequente incuria da parte dei cittadini. I nostri nonni, conoscendo bene il territorio in cui abitavano e le situazioni di criticità che si potevano verificare, mettevano in pratica delle azioni che avevano lo scopo di prevenirle, perché spesso a quel tempo si trasformavano in danni alle abitazioni o alle fonti di reddito (campi, stalle, ecc) e quindi mettevano i cittadini nella condizione di non poter sfamare la propria famiglia. Quello che facevano era semplice, ma efficace: i fossati venivano puliti frequentemente e riscavati quando necessario, le piante pericolose venivano potate o abbattute, i boschi e i prati
puliti e falciati, e in generale venivano eseguite periodicamente tante altre azioni di manutenzione della proprietà privata e collettiva (le strade ad esempio). Con il passare degli anni, l'arrivo della gestione pubblica e del benessere, ha fatto cadere nel dimenticatoio queste buone pratiche, portando alla situazione che purtroppo noi tutti oggi conosciamo. Il cittadino ormai non è più abituato a prendersi cura del territorio, le operazioni vengono scaricate sui Comuni con fondi all'osso
e così ci troviamo, ad esempio, con i fossi che sono stati chiusi dalla terra dei campi e vengono seminati fino all'ultimo centimetro utile in nome del profitto, con la conseguenza che se la pioggia è più abbondante del solito i fossi non fanno il loro lavoro di raccogliere e convogliare l'acqua, ma straripano allagando spesso strade e scantinati. Di esempi come questi ce ne sono a decine nei nostri territori. Per fronteggiare le sempre più frequenti situazioni di criticità, invece, al cit-
tadino viene ora richiesto di tornare ad essere un cittadino attivo, un cittadino “primo soccorritore di se stesso”, il quale si mette in sicurezza autonomamente senza l'intervento di soccorritori esterni, attuando le misure di autoprotezione previste nei singoli piani comunali di emergenza di cui ogni Comune si sta dotando. La conoscenza di questi piani, di “cosa fare in caso di”, di dove e quali siano le aree di emergenza nelle quali andare in caso di terremoto, diventa fondamentale per permettere di ridurre al minimo le vittime e i danni, soprattutto per evitare che le persone, ad esempio, si mettano ad osservare la piena di un fiume su un ponte o ad imboccare un sottopasso allagato in auto, con conseguenze spesso fatali. La Protezione civile ha un ruolo fondamentale in tutto questo: ha le competenze per trasmettere alla popolazione le informazioni utili del piano comunale di emergenza, delle misure di auto-protezione e di come allertare correttamente i soccorsi in caso di necessità, partendo dai più giovani che saranno i cittadini del futuro, per arrivare agli adulti che possono con le loro azioni cambiare in meglio la situazione attuale. In questo contesto il cittadino si troverà sempre di più ad avere un ruolo attivo, partendo dalle piccole azioni di manutenzione e prevenzione nella propria proprietà, arrivando alle segnalazioni di situazioni di pericolo ed alla messa in atto delle misure di autoprotezione. “Ripararsi ai piani alti in caso di esondazione, ripararsi sotto un tavolo robusto in caso di terremoto, non sostare sui ponti o in prossimità durante una piena” sono solo alcuni esempi di queste misure, che dovranno diventare argomenti familiari a tutti noi, al pari di accendere un computer o del preparare un caffè. In altri Stati queste azioni sono in atto già da anni, lo possiamo vedere in Giappone dove, in caso di terremoto, ognuno in azienda o a scuola ha il proprio compito predefinito di cosa fare durante l'emergenza. Dovremo arrivare a fare in modo che in ogni famiglia sia presente un piano familiare di emergenza, una scorta di viveri ed acqua, una borsa con dei generi di conforto utili nelle prime ore, tutte indicazioni che oggi possiamo trovare nei vari materiali informativi predisposti dalla Protezione civile. Per iniziare questo percorso possiamo visitare il sito www.iononrischio. it “buone pratiche di protezione civile”.
INVIATI NEL MONDO
«Il mio primo viaggio in macchina, il più bello della mia vita» Partenza da San Paolo, arrivo a Natal: 6.600 chilometri e 22 giorni di viaggio in macchina alla scoperta del Brasile di Rafael Avevo 17 anni e aspettavo con ansia le ultime settimane che mancavano al fatidico diciottesimo compleanno, data che nella vita di un ragazzo vuol dire tante cose, ma una in particolare: la patente! Ho passato quelle settimane a prepararmi per averla il prima possibile e così è stato: 18 anni e 10 giorni ed avevo la mia patente in tasca! Evvai! Il passo successivo era quello di comprare la mia prima macchina. In quel periodo in Brasile, dove sono nato e cresciuto, erano già un paio d’anni che lavoravo con mio padre ed ero riuscito a mettere qualche soldo da parte. Poiché riuscivo a studiare, andando discretamente bene, ed allo stesso tempo lavorare, mio padre decise di darmi una mano e assieme ai due soldi che avevo ho comprato lei, la mia “Filomena”, Filo per i più intimi. Era una Opel Corsa grigia, cinque porte, motore mille, rigorosamente di seconda mano. Era brutta, piccolina, non andava per niente, ma era mia! Ogni volta che la vedevo mi sembrava di vedere sopra di lei la scritta “Libertà”! Niente più barriere, distanze, attese: a quell’età quella macchina ha rappresentato davvero una svolta. Di lì a poco, con i miei amici di sempre, i quali avevano due o tre anni più di me, abbiamo per caso cominciato a pianificare un viaggio. Non la solita gita al mare, ma una cosa seria, in grande: decidemmo di arri-
vare fino all’estremo nord-est del Brasile, costeggiando sempre il mare. Partenza San Paolo, arrivo Natal: erano circa 5.800 chilometri di sola andata! Ci sono voluti alcuni mesi per pianificare il viaggio, per radunare le persone giuste, quelle che non avrebbero tirato il pacco all’ultimo e realizzare un minimo di logistica. In quegli anni non esistevano ancora i Gps, gli smartphone e compagnia bella, tutto il tragitto doveva essere rigorosamente fatto con cartine geografiche, mappe varie e chiedendo tante informazioni alla gente che incontravamo. Bene, c’eravamo siamo! Dodici ragazzi senza esperienza, ma tutti amici da una vita, tre macchine scassate piene fino all’orlo, pochi soldi, una cifra di chilometri da fare…cosa mai potrebbe andare storto? Anche se i pronostici non erano a nostro favore siamo partiti lo stesso, con un itinerario abbastanza preciso da rispettare, se volevamo arrivare a destinazione nei giorni che
avevamo previsto! Pronti, via! Prima tappa Rio, una tirata unica di 600 chilometri. Giorni di sosta previsti uno, giorni effettivi quattro! Ecco già andare a monte i nostri piani. Comunque a noi poco importava , ci divertimmo cosi tanto in quella città che la fretta era l’ultimo dei nostri problemi. Una cantante brasiliana, che mi piace molto, dice in una sua canzone «Rio, città meravigliosa, purgatorio di bellezza e caos». E’ davvero un posto che ti affascina per tanti motivi. Il mio e quello dei miei compagni di viaggio erano senz’altro le ragazze e le nottate senza fine! Chiusa la parentesi Rio de Janeiro, abbiamo incominciato il viaggio vero, salendo verso il nord-est brasiliano e seguendo le strade vicine al mare. Entrammo in paesaggi mozzafiato: facevamo chilometri e chilometri in mezzo alla giungla, di un verde così intenso, indescrivibile e gli animali che saltavo fuori a destra o a sinistra della strada. Poi, all’improvviso, ci trovavamo di nuovo in riva all’oceano. Tante volte non avevamo più voglia di guidare ed anche se ci davamo il cambio, c’era davvero un’ infinità di strada da fare. In quei momenti bastava scegliere un posto bello e tranquillo dove mettere le tende, magari una spiaggia deserta, così deserta a volte da far paura; guardavi intorno a te e non vedevi anima viva, potevi dire «questo posto è mio, non c’è nessuno». In una di quelle nottate passate all’aperto decidemmo di mangiarci una pasta. Andava tutto bene tranne per un piccolo dettaglio: mancava l’acqua. Nessuno si era ricordato di comprarla nell’ultimo paese in cui eravamo passati. E adesso? «Facciamola con l’acqua di mare - disse un genio - basta non mettere il sale e siamo a posto». Con la fame
che avevamo andava bene qualsiasi cosa, ma purtroppo quella sera alla fine andammo a dormire con la pancia vuota: l’acqua era così salata che neanche una mucca l’avrebbe bevuta! Dopo tutte le più improbabili avversità, tra forature delle gomme, qualche piccola seccatura con le macchine, giornate in cui mangiavamo qualche frutto trovato lungo la strada, serate in cui dormivamo nella veranda di persone conosciute il giorno stesso e passando giorno dopo giorno per delle città che anche noi brasiliani del sud conoscevamo soltanto attraverso la televisione, il viaggio stava continuando per il meglio. Le distanze in Brasile sono davvero proibitive, ma noi eravamo li: Salvador Bahia, Aracaju, Maceiò, Recife, e tanti altri posti stupendi ed infine Natal! Più di 6.600 chilometri e 22 giorni di viaggio, ma alla fine arrivammo, finalmente. Dei piani iniziali non erano rimaste neanche
le briciole, ma l’importante era essere lì tutti insieme a fare quella foto. Tutti noi sotto quel cartello stradale che diceva “Bem vindos a Natal”. Quindici anni dopo questa meravigliosa odissea ognuno di noi ha ancora in bella vista a casa propria quella foto! Siamo ancora tutti molto legati, anche se vivo dall’altra parte del mondo. Mi sento molto privilegiato ad aver avuto degli amici così, che mi hanno accompagnato a conoscere davvero a fondo il mio paese d’origine. I ricordi che porterò con me a vita di quel viaggio sono certamente i luoghi che ho visto e conosciuto, ma senza dubbio quello che mi ha segnato di più è il calore umano e l’ospitalità del mio popolo. Fu l’esperienza più bella della mia vita. Le persone che incontrammo durante quel viaggio, anche se non avevano tanti motivi per essere contenti, vedendo una dozzina di ragazzi sporchi e squattrinati ci ricevevano sempre con il sorriso sulle labbra!
L'EVENTO
HIV DAY 2014 di Chiara Zorzi
E così anche quest’anno, in occasione del 1° dicembre, giornata mondiale di lotta all’HIV/AIDS, l’associazione “I Ragazzi della Panchina” ha parlato di HIV/AIDS. Anche quest’anno si è scelto il 29 novembre, una data diversa dal 1° dicembre, perché siamo convinti che non si possa e non si debba parlare di HIV una sola volta all’anno, ma sia necessario farlo tutti i giorni. In piazza Cavour, sotto lo striscione appeso su Palazzo Badini, in uno stand colorato di rosso e composto da volantini, libri, giornali, brochure, realizzati nel corso degli anni dall’Associazione, con le lettere HIV giganti sulle quali ognuno poteva attaccare un fiocco rosso firmato, ne abbiamo parlato a ragazzi, mamme, curiosi e a chiunque volesse sapere qualcosa in più rispetto ad un problema che tutti pensano riguardare gli altri, ma che in
realtà è molto più vicino di quanto si immagini e si dica; lo abbiamo fatto in modo divertente ma puntuale, colorato ma accurato, delicato ma consapevole, distribuendo preservativi e dando informazioni sulle malattie sessualmente trasmissibili. Bello è stato anche il non essere da soli: con noi l’associazione NPS Italia Onlus, Network nazionale per persone sieropositive, il Comune di Pordenone e l’Azienda Sanitaria n.6 che ci hanno patrocinato, i ragazzi di Kantiere Misto che hanno realizzato uno strepitoso graffito sul tema e molti commercianti di Corso Garibaldi e Vittorio Emanuele che hanno esposto in vetrina i fiocchi rossi preparati dai nostri ragazzi in sede! E’ stato davvero emozionante essere così in tanti a parlare di una cosa che fa paura, ma che solo conoscendo possiamo combattere!
PANKAKULTURA
Giorgio Diritti, da regista a scrittore L’artista, autore di “Noi due”, è stato ospite a settembre di pordenonelegge.it di Timothy Dissegna Ci sono parole che una cinepresa non sa cogliere, attimi che soltanto la magia del libro sa ricreare. Probabilmente è per questo che Giorgio Diritti, regista di film come "Un giorno devi andare", ha scelto di prendere carta e penna per scrivere il suo primo romanzo, "Noi due". E’ la storia di Carlo e Alice, innamorati in cerca di una “ricostruzione” personale. Da un’Aquila ancora ferma al dopo terremoto, i due ricominciano da un trasferimento al Nord: per ognuno però c’è una destinazione diversa. Presentato il 17 settembre al convento di San Francesco a Pordenone durante pordenonelegge, abbiamo intervistato l’autore alla fine dell'incontro, al suo esordio letterario. Il suo romanzo è ambientato a L'Aquila, tra le macerie del terremoto... Si parte da lì ma poi, in realtà, si sviluppa su Bologna e Ge-
nova, principalmente. Il terremoto è una drammatica esperienza vissuta anche in Friuli e, più recentemente, in Emilia. Pensa che dopo di essa si possa ricominciare solo grazie a un forte sentimento? Beh, sicuramente sì. Ci vuole un forte sentimento ma contemporaneamente una forte volontà sociale, politica, collet-
tiva per far sì che le cose tornino ad essere. Il Friuli è citato ancora oggi come l'esempio più straordinario di ricostruzione, a livello europeo, dopo un sisma. Questo perché in questa regione le persone misero in gioco tutta la loro energia,. Credo che il sentimento sia importante ma altrettanto fondamentale, nel caso specifico de L'Aquila, è che ci sia una volontà: non di creare delle case dormitorio provvisorie, ma
piuttosto favorire la ricostruzione vera e ristabilire quella che era il contesto naturale di vita. Nello scrivere il suo libro "Noi due" ha mai pensato cosa sarebbe successo se avesse scelto prima questa strada, anziché il cinema? No, perché la letteratura la sento vicina, ma non è l'innamoramento primario. La magia del cinema e la dimensio-
ne collettiva, ossia il lavorare con un gruppo di professionisti, sono aspetti per me bellissimi. Mi appassionano tanto. Il romanzo, invece, è un qualcosa di più intimo. Per quanto mi riguarda io preferisco lavorare in senso collettivo. Che consiglio si sente di dare a un giovane che sogna di lavorare nel mondo del cinema? Di non mollare mai, perché è sicuramente difficile e impegnativo, ci sono molte occasioni in cui ti sbattono le porte in faccia. Gli direi che ci sono dei no, ma anche che non bisogna mollare. Bisogna fondere umiltà con grande determinazione. Crede che una rinascita, almeno morale, dell'Italia possa iniziare da eventi culturali come Pordenonelegge? Più che mai. Penso che la vera rinascita culturale del paese passa attraverso queste manifestazioni. Se noi vogliamo immaginare un'Italia migliore, dobbiamo andarla a cercare nelle iniziative culturali e sociali, fuori cioè dalle "vetrine" degli schermi televisivi e della politica: vanno nella quotidianità, laddove si lavora seminando e non pretendendo di raccogliere subito. Seminare certe volte vuol dire avere pazienza, ma i risultati che possono esserci nel tempo sono decisamente più importanti.
PANKA LIBRI «Fulmicotone, nasce libero per liberarmi». Così ha definito il suo libro l’autrice, Virginia Bettinelli. In “Fulmicotone” parla del padre, liberandosi del peso portato sulle spalle dell’essere cresciuta con una figura paterna “ai limiti della società”, come lo definisce. Un uomo schiavo delle dipendenze, che fa vivere alla moglie e ai figli una vita difficile, come spesso accade. Il libro mi è piaciuto molto: l’ho trovato interessante perché fa capire come cresce una bambina che vive una vita dolorosa, in cui il padre ne fa quasi da “protagonista”. «Scrivimi un libro, dicevo a mio padre, se non posso fare le mie cazzo di esperienze; così leggo la tua di vita» scrive Virginia, quasi affascinata da questa figura paterna. Il loro era un rapporto amore- odio. «Mio padre – scrive - l’ho disprezzato, odiato, apprezzato ed amato con una sequenza di stadi ossimorici
“FULMICOTONE”
Una storia d’amore ed odio dedicata ad un padre difficile recensione di Fiorella fino a star male». Leggendo le sue pagine, mi sono accorta che noi stessi, senza rendercene conto, siamo circondati da persone cresciute con queste problematiche. Lei è stata prima una bambina, poi una ragazza che è cresciuta preoccupandosi giorno dopo giorno di come affrontare il padre e di come difendere la madre ed il fratello minore, infine è diventata questa donna senza paure e timidezze che ci scrive la sua storia per liberarsi. Nel leggere “Fulmicotone” mi ha colpito il fatto che è possibile diventare persone responsabili, intelligenti e di buon senso,
pur crescendo con figure genitoriali che potrebbero invece portarti nella “cattiva strada”. Tendiamo a pensare che un figlio di un fumatore cresca fumatore, il figlio di un alcolista diventi tale, e che il figlio di una persona tossicodipendente crescerà con tendenze alla dipendenze. O meglio sarebbe dire che questo è il pensiero di una parte della società. “Fulmicotone” è invece la prova che siamo persone che, indipendentemente da come e dove siamo cresciuti, possiamo utilizzare le esperienze più negative oppure un’infanzia infelice per trasformarci in
persone migliori. «Ci sono vite incasinate che non riescono mai a sciogliere quei n o d i che si sono formati ancor prima del cordone ombelicale. Vite tristi un po’ sfigate, per le quali la ruota sembra non girare mai. Vite incazzate, vite traballanti, vite brevi e spezzate, che però hanno dato vita a loro volta”, scrive l’autrice. Io in questo libro mi ci sono immediatamente ritrovata, come credo succederà a tanti. E’ scritto in modo semplice e scorrevole, a tratti commovente ed a tratti ironico, e si fa leggere tutto d’un fiato. E’ una storia che ha qualcosa delle storie di ciascuno di noi.
NON SOLO SPORT
Danilo Callegari, una vita in cerca di grandi avventure «L’Everest è dentro ognuno di noi. Contano solo la sfida e le difficoltà che si affrontano» di Guerrino Faggiani la stessa cosa con le grandi montagne.
Danilo Callegari, 32 anni di Bannia di Fiume Veneto: un nome che è come un marchio di avventura. Avventura di qualsiasi genere, ma meglio se mai fatta prima da nessuno. Una cosa è certa, ovvero che lui non è quel che si dice “un figlio d’arte”. I suoi genitori, infatti, sebbene lo abbiano sempre assecondato nelle sue stravaganti imprese, anche se un po’ a malincuore, non sono affatto degli avventurieri. “E’ una passione nata da me e basta”, rivendica lui. “La mia prima avventura – racconta – l’ho vissuta a 14 anni, ed è tuttora l’esperienza più folle che abbia mai fatto. Da solo, senza sapere niente di escursioni, con una comunissima mountain bike cari-
cata fino all’inverosimile, sono partito alle 4.30 del mattino e sono andato fino al confine con l’Austria alla base del monte Colgnas 2780 m, che è la vetta più alta del Friuli. Mi sono accampato sul greto di un fiume – prosegue – e poi sempre in bici ho raggiunto il rifugio Marinelli a 2122 m. Tutto questo l’ho fatto in due giorni, il terzo sotto al diluvio universale ho raggiunto la cima. Dalla felicità e dall’euforia il giorno seguente sono tornato a casa in un'unica tratta tutto sotto la pioggia”. Dopo una tale emozione non poteva finire li, vero? Esatto. Dopo un anno passato ad avvicinarmi al mondo della roccia, a 16 mi sono in-
ventato un’altra impresa fai da te. In sei giorni ho ridisceso a piedi tutto il Tagliamento dalla sorgente alla foce con lo zaino in spalla. Ho percorso 182 km. Sono arrivato con infiammazioni e vesciche, tutte cose che adesso sono normali, ma a quell’età no. Sono anche finito nel Fella. Dentro al fiume? Ma si, ho fatto una cazzata (e qui ci siamo sciolti n.d.r) per andare dall’altra parte: mi sono intestardito di passare sopra il tronco di un albero caduto, sono scivolato e sono finito dentro, con trenta chili di roba nello zaino, tutto in acqua, un disastro. Ma avevo 16 anni, ero alle prime armi. Due anni più tardi invece ho ridisceso il secondo fiume d’Italia, l’Adige: 14 giorni, 420 km. Lo stesso anno, assieme ad altri tre alpinisti, ho scalato la seconda cima più alta d’Europa, la Punta Dufour (4634 m). Ma in quell’anno ne ho fatti altri di 4000. Già ti cimentavi in imprese che manifestavano la tua passione per le alte vette. Si, ma a me interessava più fare delle vie nuove, sono sempre stato attratto da piste mai fatte prima. Di per sè magari le scalate erano delle fesserie, ma a quell’età le trovavo irresistibili. Ora è
Anche il volare è una tua grande passione, questa quando l’hai scoperta? Sempre a 14 anni, partivo ogni domenica con il motorino ed andavo a veder volare un ultraleggero. Passavo ore ed ore a guardare il pilota che armeggiava sul motore, anche se non capivo niente. Questo signore vedeva questo ragazzino che “sbavava” di curiosità fino a quando, me lo ricorderò sempre, mi ha chiesto se volevo salire sul suo biposto. E lì mi si è aperto un mondo. I miei si chiedevano dove andassi ogni domenica tutte quelle ore, fino a quando non gliel’ho detto. Apriti cielo, si sono arrabbiati molto: “Tu non salirai più”, mi dissero e via dicendo. Ma io da quel momento, tutti i santi giorni gli ripetevo: “Io voglio volare, io voglio volare”. Finchè, sei mesi dopo quella prima discussione, mio papà mi disse: “Ascolta, ci hai rotto: vai e fai quello che vuoi, perché non ce la facciamo più”. E così la mia passione per il volo è potuta decollare. Da allora Danilo Callegari ha inanellato una sequenza di imprese di assoluto livello che lo hanno portato in ogni angolo del mondo, cimentandosi su ogni elemento, dai posti più freddi ai più aridi. Solo in bicicletta e fuori dall’Italia ha percorso più di 20.000 km. Nel 2011 con la spedizione in Sud America è partito il suo “7SUMMITS Project SOLO”. Di cosa si tratta Danilo? È il mio tentativo di scalare in solitaria, in autosufficienza e in completo stile alpino le sette cime più alte del mondo, le “seven summit” appunto, rispettivamente la più alta per ognuno dei continenti. La particolarità del progetto (come se già detta così ne fosse povero n.d.r) sta che attorno ad ogni cima, mi invento e creo una grande avventura, un grande viaggio,
che mi richiederà dei mesi. Utilizzerò le gambe, la bicicletta, il parapendio ed il kajak. Quindi unendo più discipline out door. Il rapporto con il suo limite come tutti gli atleti dell’estremo è una continua evoluzione, scoprire dov’è, toccarlo e superarlo dove è possibile è il suo obiettivo. Ma il difficile è non oltrepassarlo mai. Nell’ultimo 8000 himalaiano ad esempio è stato graziato, riconosce di essersi spinto un po’ oltre e di avere avuto tanta fortuna. Gli è andata bene ed è tornato, e come ogni volta con una grandissima consapevolezza in più. Intanto per il 2015 ha un progetto di cui ancora non svela niente, solo che sarà un’avventura in cui si cimenterà in nuoto, corsa e alpinismo, tutto a livelli molto alti. E se lo dice lui c’è da crederci. Ma quando inevitabilmente fisico e testa non saranno più all’altezza cosa farà Danilo Callegari? Ti spaventa quel momento? No, troverò qualcosa che mi stimoli in altro modo, è la voglia di cimentarsi che conta. La curiosità è alla base di ogni mia avventura e di ogni mia giornata. Ritengo che la persona non curiosa sia inevitabilmente una persona poco interessante. Lo stimolo è tutto nella vita. Pensa che molti non trovano il coraggio di raccontarmi le loro imprese perché pensano che siano niente rispetto a quelle che faccio io, ma è sbagliato. L’Everest è dentro ognuno di noi, è la sfida e la difficoltà che si affronta per vincerla che contano, che sia al pianoforte o in una parete verticale è lo stesso. Dunque aggiungiamo noi, è tanto eroe chi salva il mondo impegnandosi allo spasimo, quanto chi lo fa con uno schiocco di dita, anzi.
Sport, luci ed ombre Alla conferenza sul tema “Lo sport come strumento e via per la pace e la valorizzazione di ogni persona umana”. Maniago 24 ottobre di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon Ci ritroviamo lì quasi per caso, attirati dalla notizia della presenza a quattro passi da casa di una leggenda nerazzurra: il capitan Javier Zanetti. Indubbio campione tanto sul campo da gioco quanto al di fuori di esso, Zanetti, sarebbe dovuto essere presente ad una conferenza per parlare di sport e valori umani. Spesso la vita ti sorprende e accade che, grazie al patatrack dell'Inter di Thoir il giorno prima, Zanetti non può esserci e noi, puntuali all'appuntamento con la sfortuna, ci presentiamo ignari di tutto e il nostro sorrisone si spegne subito. Delusi, prendiamo posto tra le file di studenti, più per cortesia che per vero interesse. La sorpresa è che la conferenza è veramente interessante e noi, da buoni "bombers" di Ldp ve la raccontiamo. Il luogo che ospita la conferenza, il teatro “Verdi di Maniago, è molto bello, la platea giovane, il lungo tavolo dei relatori è imbandito e il menù proiettato alle loro spalle attira l'attenzione: "Lo sport come strumento e via per la pace e la valorizzazione di ogni persona umana". E’ un tema caldo, scomodo e forse fuo-
ri moda rispetto ai tempi: ci vengono in mente le violenze negli stadi, il gorgo mangiatutto degli interessi economici e allora pensiamo che questa conferenza sia una delle gocce che possono contribuire a invertire la tendenza. Il primo intervento è del sindaco di Maniago,…., che un po’ in "politichese", sottolinea l'importanza dello sport come indicatore forte di salute sociale e fattore di benessere psicofisico. Lo stare insieme, rispettare le regole, sapere che ci
sono degli sforzi da fare per ottenere dei risultati, sono tutti valori universali che fanno crescere la persona: «Lo sport aiuta a vivere meglio», dice. Tra i relatori spiccano l'intervento del noto giornalista Italo Bucci, voce narrante dello sport italiano, e di Andrea Abodi, presidente della serie B di calcio. Quest'ultimo pone l'accento sul promuovere la cultura del rispetto in un paese che spesso si contraddistingue per la cultura del dispetto e del sospetto. Tratta poi le tematiche calde della violenza negli stadi e del doping; il suo pensiero può essere sintetizzato dalle parole di Papa Francesco: «E' meglio una sconfitta pulita che una vittoria sporca». Il contributo di Bucci è una miniera d'oro di citazioni storiche ed esperienziali, attraverso le quali tratteggia un'immagine di sport «a metà strada tra la virtù e il peccato», fatto di ombre e luci sulla via dell'equilibrio tra divertimento e serietà. Ombre perché ci sarà sempre chi si avvicina allo sport con l'intenzione di sfruttarlo e, di tutti i mali che possono rovinare il mondo sportivo, il peggiore per durata, quantità e capacità di diseducazione è indubbiamente il denaro. Basti vedere come le Olimpiadi sono ridotte al dettaglio economico, dipendenti dalle multinazionali che, sposnsorizzandolo, ne decidono l'organizzazione. Oltre agli aspetti negativi però, Bucci, rilancia sulla bellezza dello sport e dei suoi valori che, "bypassando" la retorica per avvalersi invece di mille esempi reali, trova nella solidarietà e nell'amicizia le sue colonne portanti che supereranno sempre ogni male e riporteranno a quel valore primario antiquato e quasi in disuso che è la bontà.
IL PERSONAGGIO
Il re nero della boxe La storia di Mohamed Alì: campione sul ring, emblema della difesa dei diritti civili dei neri in tutto il mondo di Emanuele Celotto A Miami il 25 febbraio 1964 il mondo conobbe quello che diventerà per alcuni decenni successivi il simbolo e il sinonimo di boxe: lo statunitense Cassius Marcellus Clay Jr. E’ passato alla storia con il nome di Mohamed Alì ed ancora oggi è l’emblema della lotta per diritti civili. Nato a Louisville nel 1942 da una famiglia povera, ultimo di quattro figli, fin da ragazzino si dedicò alla boxe. Dopo una serie di vittorie a livello dilettantistico, partecipò alle Olimpiadi di Roma del 1960, vincendo la medaglia d’oro nella categoria medio massimi. Quindi divenne un professionista ed i risultati non tardarono ad arrivare: veloce, tecnico, mobile e con un gran gioco di gambe, batté gli aspiranti alla sfida per il titolo mondiale e il 25 febbraio del 1964 al Madison Square Garden sfidò il campione Sonny Liston. Per la maggior parte degli addetti ai lavori si prevedeva un match dal finale scontato quando Clay finì “ko” alla terza o quarta ripresa. Ma Liston non era più l’atleta di qualche anno prima: si allenava poco e si dedicava alle gozzoviglie e al tirar tardi nei locali. Clay invece era convinto del suo valore e ben allenato. Fu così che l’incontro segnò l’inizio della nascita di un mito. Al settimo round, infatti, Liston, sfinito dai jab di Clay, gettò l’asciugamano. La boxe aveva un nuovo campione del mondo: Cassius Clay annunciò poi ai media la sua conversione all’islam. Di lì a poco entrò nella storia con il nome di Mohamed Alì. In America erano quelli gli anni bui della segregazione e Clay sentiva di essere chia-
mato ad un compito più alto; riscattare la popolazione nera. Nel 1966 per Alì cominciarono i guai: riformato al servizio di leva, viene richiamato alle armi. Erano gli anni del Vietnam e avrebbe dovuto partire anche lui. Ma a causa di una frase passata alla storia, ovvero «Non andrò a sparare ai vietcong perché non mi hanno mai chiamato negro», fu dichiarato renitente alla leva. Condannato a cinque anni di carcere e privato della licenza di combattere (con perdita del titolo di campione mondiale difeso in quegli anni) Mohamed Alì divenne un simbolo della lotta contro la guerra. Libero su cauzione, ma “esiliato dal ring” per più di tre anni, girerò gli States tenendo discorsi e conferenze in varie università ed aumenterà la sua popolarità. Fu poi prosciolto dalle accuse e, nel 1970, gli restituirono la licenza; poté così tornare sul ring. Successe contro contro Jerry
Quarry, sul quale vinse in sole tre riprese. Vinse anche contro Oscar Bonavena prima del match contro Joe Fraizer. Alì e Fraizer combatterono ben tre volte per il titolo e furono tutti incontri spettacolari. Il primo incontro, nel marzo 1971, lo vinse Fraizer in 15 round con verdetto unanime dei giudici; per Alì era la prima sconfitta da professionista e la prima volta che incassava tanti colpi. Nel 1972 combatté e vinse sei incontri battendo anche Floyd Patterson, ex campione mondiale, finché non subì la seconda sconfitta della sua carriera contro Ken Norton, che gli ruppe la mascella. Seguirono rivincita e bella contro Norton, due sfide entrambe vinte da Alì. Nel 1973 Joe Fraizer perse il titolo contro George Foreman, poi nel gennaio dell’anno dopo ci fu la rivincita contro Alì, che vince in 15 round per verdetto unanime dei giudici. Nell’ottobre dello stesso anno il match che farà storia: Alì verso Foreman. Fu combattuto in Zaire, a Kinshasa, spostando l’attenzione del mondo sul continente nero. Alì si allenò in Zaire, si fece conoscere e parlerò nelle università; il suo carisma e le sue posizioni fuori dagli schemi lo resero il beniamino della gente. Il campione sentiva come suo compito quello di combattere e vincere contro quello che era il simbolo dell’America. Fu una grande sorpresa per tutti quando videro Foreman scendere dall’aereo; non era bianco, ma più nero di Alì. Una ferita riportata
durante l’allenamento da Foreman ritardò di tre settimane l’incontro e la tensione dell’attesa crebbe. Intanto Alì aveva gasato l’ambiente con le sue dichiarazioni: «Cosa farò contro Foreman? Ballerò!». Ma in realtà non sarebbe stato un match così facile. Foreman era più giovane, più grande e più grosso; aveva messo “ko” Fraizer in sette riprese dopo averlo mandato al tappeto un bel po’ di volte e demolito Norton in due round. Picchiava duro, tanto da avere ammaccato il sacco durante gli allenamenti. Le speranze di vittoria di Alì erano minime. La sua box nel frattempo era cambiata: velocità e gioco di gambe erano diminuiti e compensati dalla capacità di chiudersi alle corde e incassare. Finalmente suonò il gong di inizio incontro: Alì sferra un doppio colpo al volto di Foreman, segue qualche scambio, ma nel secondo round Alì fa una cosa che nessuno si aspetta. Si mette alle corde e lascia che Foreman lo colpisca, anzi lo provoca mentre l’altro lo colpisce con tutta la forza. L’incontro prosegue così, Alì alle corde e Foreman che picchia. Ma alla settima ripresa Foreman è sfinito e Alì lo mette al tappeto. Ad un certo punto compie anche un gesto di cavalleria: Foreman sta andando giù ma Alì non lo colpisce e lo guarda cadere. Alì è nuovamente campione del mondo! Ci sarà poi la “bella” con Joe Fraizer a Manila nel 1975. Alì vincerà per abbandono al 14 round. Poi inizia il declino atletico con qualche incontro farsa, ma lui sarà sempre in prima linea per la difesa dei diritti dei più deboli. Che tristezza vederlo così, tremante per il parkinson mentre, nel 1996, accendeva la fiaccola olimpica ad Atlanta.
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost
——————————————
Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli
——————————————
Ferdinando Parigi Voce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si trovano raramente, la nostra nuova penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800
——————————————
Sara Rocutto IInformatica ma soprattutto collegata, in rete ma mai nel sacco! Nonostante le infinite ore passate davanti allo schermo, trova sempre il tempo per delle belle uscite culturali, perché tra esser impegnata ed impegnarsi, passa una bella differenza.
——————————————
Cristina Colautti È arrivata in sede in punta di piedi, adesso non le sfugge niente, anzi. Nonostante stia preparando la tesi, chiama in sede ogni giorno per sapere se va tutto bene. Pare che “ansia” sia il suo secondo nome, pare che presto sarà “dottoressa bis” in sociologia, per il momento è la nostra donna per Codice a s-barre!
Redazione Gregorio Ceccone, Irene Vendrame, Sara Rocutto, Leonardo, Giacomo, Donato, Nadir, Stefano Venuto, Tina, Timothy Disegna, Rita Vita Marceca, Ferdinando Parigi, Franca Merlo, Francesco Miorin, Rafael, Chiara Zorzi, Fiorella, Alain Sacilotto, Andrea Lenardon, Emanuele Celotto. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto
——————————————
Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: ”...si bello, ma non si scrive così in Italiano!” S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara
Capo Redattore Guerrino Faggiani
——————————————
Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia
Impaginazione Ada Moznich Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie Foto a pagina 1, 2, 3, 4, 6, 8, 13 e 18 dal sito: http://commons.wikimedia. org/wiki/Main_Page Foto a pagina 9, 11 e 12 a cura della Protezione Civile Foto da pagina 16 di Danilo Callegari Foto a pagina 17 di Alain Sacilotto Dove non spedificato le foto sono a cura della redazione Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it
——————————————
——————————————
Manuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili
Andrea Lenardon Tirocinante, educatore, psicologo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.
——————————————
Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!
Questo numero è stato stampato anche grazie al contributo dell'Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00
——————————————
Stefano Venuto Mimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!
Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle Dipendenze dell'Azienda Socio Sanitaria 6 di Pordenone
——————————————
Irene Vendrame E’ arrivata in redazione una cucciola! Giovanissima, timida e delicata, ma altrettanto determinata e ambiziosa. Sogna di diventare una famosa giornalista come Oriana Fallaci, così è stata arruolata da LDP per farsi le ossa. Benvenuta Irene!
——————————————
Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.
Giudica un uomo dalle sue domande piuttosto che dalle sue risposte Voltaire
I ragazzi della panchina campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA