APPROFONDIMENTO
Pordenone gioca
Libertá di Parola 1/2011 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
L' EDItoriale
Salutami Buenos Aires di Pino Roveredo Ricordo mio padre quando, sbattendo contro le pareti rigide della precarietà, mi raccontava di quel sogno che voleva ribaltare il mondo e volare fino in Argentina, dove da anni viveva un fratello, e dove, si diceva, che non si stava male, che girava un bel clima, e dove c’era la certezza materiale di un posto di lavoro. Un sogno, quello di mio padre, che non trovò mai un paio d’ali che lo portassero al centro di quella sospirata verità, e tutto per via di quella benedetta malattia/nostalgia che gli stringeva il cuore, gli
immobilizzava il passo, e che per anni gli impedì anche di accendere la decisione di quel viaggio tanto sospirato. Il mio caro faticò una vita, sempre piantato nella sua terra, e dopo quarantacinque anni di lavori precari tagliò il traguardo della pensione, e senza neanche il piacere di poterla consumare, perché venti giorni dopo l’inflessibilità della morte pretese il saldo della sua vita. Sì, se ne andò senza pensione, e col peso potente del rammarico per non aver dato movimento a un sogno e senso a un viaggio. Anch’io, a quattordici anni, senza toccare il volo alto di mio padre, ho sfiorato il sogno, disegnato il viaggio, e quasi acceso il rumore di una partenza… Come tutti quelli che nascono con l’abitudine del mare intorno alla vita, mi venne su la voglia di fare il marittimo, così andai alla Capitaneria di Porto di Trieste e avviai le pratiche per ottenere la
Questa volta ci divertiamo! Noi della redazione di Ldp, abbiamo pensato infatti di proporre in questo numerro primaverile un approfondimento originale, diverso sì, ma pur sempre fedele al nostro obbiettivo: parlare della città e dei suoi cittadini. Ecco allora che vi proponiamo di giocare con noi. Un grande cruciverba, un rebus e ... al centro di questa inedita settimana enigmistica, il gioco dei giochi. Ovvero Ducknaonis, il gioco dell'oca costruito a partire dai luoghi della città di Pordenone. a pagina 9
“matricola”, o meglio, il lasciapassare del marinaio. Dopo aver superato l’esame di voga e nuoto, e ottenuto il certificato di “buona salute”, ricordo che mi ritrovai davanti a un contratto d’imbarco di dodici mesi su una petroliera, con la qualifica minima del mozzo, e come un disegno del destino, con un viaggio direzione Buenos Aires. Ricordo anche che a un centimetro dalla firma, quei dodici mesi mi sembrarono un’eternità, e dentro quell’eternità passò il timore di dover soffrire la distanza degli affetti, sopportare la mancanza degli amici, e di dover rinunciare a tutta la magia, allegria, danze e canzoni che giravano intorno alla mia età. Fu così che scappai dal contratto, dal viaggio, e dall’eredità di un sogno paterno che continuò a girare nei giri a vuoto dell’astratto. Oggi, grazie a uno schiaffo mera-
IL TEMA
Lavorare sempre con la valigia in mano a pagina 2
LA TESTIMONIANZA
Militari di pace in Afghanistan a pagina 3
RUBRICHE
Dall'attualità al gossip, i liberi pensieri di Rdp pagine 4-8
INVIATI NEL MONDO
La Thailandia e l'Ecuador, due diari di viaggio pagine 14-15
continua a pagina 2
PANKAKULTURA
Il sound multietnico dell'Orchestra di Piazza Vittorio a pag. 16
NONSOLOSPORT
Canoa. Mauro Baron, l'allenatore dei campioni a pag. 18
L' EDItoriale segue dalla prima pagina
viglioso della vita, che mi concede la minima gloria dello scrittore e il privilegio di una richiesta, posso concedermi un’infinità di piccoli viaggi, e tutti con la certezza rigorosa del rientro. Così, girando l’Italia, l’Europa, mi capita d’incrociare file di viaggiatori che si sono venduti l’origine per acquistare un sogno. Negli incastri sperduti del sud ho visto, per due spiccioli e un calcio in schiena, file di africani ammazzarsi l’illusione nella raccolta delle arance, nei paraventi del nord ho visto immigrati dell’est cancellarsi il sogno precipitando dai cantieri, e intorno ho visto l’indifferenza di chi non ha bisogno di commerciare la vita con una partenza. Nelle sorprese che girano oltre i confini, ho incrociato le schiene piegate dei giuliani e friulani che hanno dato senso a una speranza, e che col dolore di uno strappo, mi hanno confidato la storia di un cuore lasciato nella bellezza delle loro e nostre terre. Viaggi che partono, viaggi che non ritornano, viaggi che si deludono, e viaggi che si smarriscono nelle strade senza soluzione… Eppure, nonostante tutto, se oggi, dentro questo nostro Paese senza promesse e senza risorse, dovessi incrociare il sogno di mio figlio e la sua voglia di farlo volare, giuro, anche contro lo strazio di un distacco, gli regalerei le ali di mio padre e gli accenderei la partenza… Salutami Buenos Aires!
TRA CASA E LAVORO, LA STRADA Marco, 38 anni, una famiglia e un lavoro che gli impone lunghe trasferte di Guerrino Faggiani Anche Marco, idraulico di 38 anni sposato e con una bambina, spesso è costretto ad allontanarsi dalla famiglia per guadagnarsi il pane. Il suo è uno di quei lavori che richiedono anche lunghi trasferimenti con il furgone per raggiungere i cantieri dove lavorare. “La partenza del lunedì mattina comincia già dalla domenica dice Marco-. Succede che con la testa, senza volerlo, si è già in viaggio dal giorno prima. Che stai per partire te lo ricorda la borsa da preparare, e la giornata si vive con un latente senso di malinconia”. All’indomani mattina l’adunata con i colleghi. “Di solito li trovo un po’ sulle loro - prosegue a raccontare - imbronciati già dal lunedì mattina. Io generalmente sono già di buon umore e pronto a tirar sù la compagnia. Una volta in strada con alcuni si fini-
In Bolivia a "buscarse la vida" Arrivata oltre oceano senza una meta, oggi lavora per la cooperazione internazionale di Alessandra Ciani Odio le bande di suonatori, non mi sono mai piaciute, eppure non potrei pensare a un carnevale boliviano senza il suono maldestro di una banda di giovani collegiali per la strada. Questa è la Bolivia, un paese con forti connotazioni, che dopotutto mi appas-
sionano. Quando sono arrivata a Sucre, la “ciudad blanca”[1], ormai tre anni fa, non pensavo certo che le cose sarebbero andate, come invece sono andate. Arrivai come dico sempre, a “buscarme la vida”[2]. Non che stessi male, o che fossi insofferente in Italia,
sce a parlare del fine settimana andato, mentre altri invece ne approfittano per dormire un altro poco”. Nel corso del viaggio, all’interno del furgone, scorrono un po’ tutti gli umori, da momenti di euforia generale si passa a momenti di calma piatta, e qui immancabile parte la radio, così per tutto il viaggio che a volte è proprio lungo. "Finalmente arrivati a destinazione - continua Marco - come prima cosa si va a mettere le borse nei nostri alloggi, così ci si sgranchisce un po’ e dopo l’ennesimo caffè si va in cantiere”. Ma nel giorno dell’arrivo c’è, ad ogni viaggio, immancabilmente il bisogno di ambientarsi, ci si sente come in un momento di transizione per la stranezza della giornata, si lavora quello che ne rimane e quasi tutto va nell’organizzazione della settimana. “Quando si è araffatto, la questione è che non avevo un progetto o un’idea. Fu, molto incoscientemente, della serie: “Lasciamo il certo, per l’incerto”. Spesso ricordo il primo giorno in cui ho toccato “terra boliviana”, una sensazione di spaesamento totale, il poco spagnolo conosciuto totalmente perso nei meandri del mio cervello (adesso succede esattamente l’inverso e sembro una troglodita parlando in italiano). I primi tempi sono stati duri, soprattutto perché mi trovavo immersa in una cultura diversa da quella in cui sono nata e cresciuta, e perché non avevo ancora un lavoro. Mi ero data tempo fino al mese di gennaio, mese nel quale se le cose non fossero cambiate me ne sarei tornata, come Calimero col suo fagotto, a casa. Da quando ero arrivata a Sucre, sarebbero passati nove mesi. E fu giusto a gennaio, che ebbi un colloquio di lavoro, e un mese dopo iniziai a lavorare per una organizzazione spagnola che lavora nella cooperazione internazionale, e che allora aveva due progetti in corso. Fu la “svolta”: immergermi nel lavoro mi ha permesso di conoscere a fondo, con tutte le sue contraddizioni, questo
rivati a sera tuttavia - prosegue il racconto - ci si sente già calati nel solito trantran della trasferta e dalla mattina dopo, consapevoli del motivo per cui si è li, ci si impegna in lunghe giornate di lavoro, in questo modo la settimana passa anche più veloce”. Lavorare lontano da casa è anche bello però. “Si cambia aria, si vede gente linguaggi e mentalità diverse - ammette Marco - può essere anche occasione di divertimento oltre che di impegno, soprattutto quando si è giovani si avverte un senso di libertà vista la mancanza di genitori o parenti a cui dover rendere conto, e alla sera dopo il cantiere se ne approfitta per divertirsi, a volte anche esagerando”. Può accadere cioè di darsi a notti brave, ma senza avere grossi guai. “Perché questo sia possibile però - afferma - bisogna essere in buoni rapporti con i colleghi. Indispensabile perché tocca a loro poi coprire le tue difficoltà del giorno dopo comunque presente, più o meno, sul cantiere”. Anche se il lavoro porta Marco e i colleghi in luoghi di divertimento e di attrazione, alla fine dopo poche settimane ci si abitua anche a questo e allora la nostalgia della famiglia e delle abitudini di tutti i giorni si fa sentire. “Il ritorno a casa è sempre bello – confessa l’idraulico - e sapendo che non durerà molto ci si organizza con cura il fine settimana in modo di viverlo intensamente, quando è così anche le cose di tutti i giorni si apprezzano di più”. Ma è solo per poco perché nel più bello è già domenica e con la testa si è di nuovo in strada. paese e la sua gente, sempre con la limitante di essere “gringa[3]”, aspetto che erge una barriera sottile e al contempo pesante. Non è stato facile potersi fare degli amici/amiche boliviani, in generale sono persone molto timide, e secondo me, è un popolo che troppo spesso si sottovaluta. Il mio rapporto con l’Italia? I momenti di nostalgia ci sono, nostalgia delle persone amate, nostalgia degli odori, nostalgia dei sapori, nostalgia di alcune abitudini che già non sono le stesse. Pero c’è l’altra faccia della medaglia: lo scoprire cose nuove, il fare tue abitudini che prima non avevi. Una cosa è certa, vivere fuori dal tuo paese è un continuo stimolo, perché non finisci mai di saziare la curiosità per il nuovo, il diverso, e anche per quello che non riesci a capire. Mi chiedete se mi sento più italiana, o boliviana? Non lo so, dipende dai giorni! Il mio nome? Non è importante, la mia storia è di molto simile, a quella di centinaia di altre persone che se ne vanno a “buscarse la vida”. [1] In italiano, città bianca, così chiamata per lo stile coloniale che la contraddistingue [2] In italiano a “cercarmi la vita”. [3] Termine generale per riferirsi agli stranieri.
NOI MILITARI DI PACE Lettera dal Battaglione alpini Tolmezzo: "Vi racconto il nostro Afghanistan" del Cap. Fulvio Comuzzi Sono passati oramai più di tre mesi da quando il reparto ha preso la piena responsabilità nella zona di operazioni. Zona, quella di Bala Morghab, situata nel nord ovest dell’Afghanistan ai confini con l’ex repubblica sovietica del Turkmenistan, che colpisce e affascina. Tre mesi intensi durante i quali, in qualità di comandante della compagnia “Alpha” (su base 6^ compagnia del battaglione alpini “Tolmezzo”), mi sono trovato a prendere decisioni importanti per far sì che tutte le attività venissero svolte nel modo migliore e nella massima sicurezza possibile. Ma qui, dove la calura
dei mesi caldi ti fa sudare fuori anche le idee, il freddo invernale ti congela anche l’anima e la pioggia ti impedisce di muoverti a causa del pantano, devi pensare bene come agire e come impiegare al meglio gli uomini alle dipendenze. Il compito principale della mia compagnia è quello di assicurare la libertà di movimento e di consentire una vita “normale” all’interno della cosiddetta “bolla di sicurezza”; questo lo si ottiene difendendo delle posizioni dominanti e fortificate. Un po’ come la conquista di quota del primo conflitto, ma qui scaviamo le trincee con goretex
Seeta, giornalista afgana A 23 anni sogna una radio per donne a Farah del Sten. Monia Savioli La prima volta che ho incontrato Seeta, l’unica giornalista donna afghana della redazione, mi sono preoccupata.Non riuscivo a capirla. Il suo tono basso e cantilenato mi rendeva oscuro il senso delle parole pronunciate. La voce dei suoi colleghi maschi era più ferma, alta e chiara. Lei, invece, parlava sommessamente quasi avesse paura di disturbare. Seeta, ha 23 anni e per gli standard afghani è già al limite della possibilità di farsi sposare. E’ una delle ancora rare donne che lavora e si muove in autonomia in un paese diviso fra due realtà parallele: quella delle città dove il livello generale medio dell’istruzione rende gli abitanti meno legati alle tradizioni e quelle dei tanti villaggi dove non molto è cambiato dal termine del regime talebano. La condizione della donna è un indicatore importante di questa diversità. Nelle città alcune di loro possono studiare e lavorare. Nei villaggi la loro condizione è di assoluta inferiorità rispetto agli uomini e questo le espone a violenze di ogni tipo.
e Gps. Gli uomini e parimenti le donne presidiano costantemente queste posizioni. Non solo. Trovano infatti anche il tempo per effettuare continui lavori di sistemazione e ampliamento dei presidi stessi, sotto un caldo ed una polvere inimmaginabili in un ambiente non sempre sicuro. Sforzi non inutili in quanto, nelle fredde ed uggiose giornate invernali, assicurano maggior protezione dal vento gelido e dalle minacce esterne. All’imbrunire la popolazione dei villaggi da noi controllati, rientra nelle piccole case di argilla e paglia e il silenzio cala come un velo sulla valle. In quel momento le sentinelle devono acuire ulteriormente i sensi in modo da captare qualsiasi segnale che possa identificare una minaccia. Dopo diversi giorni, quando il turno finisce, si rientra da questi baluardi di sicurezza; l’arrivo in base è atteso con ansia da me e dai logisti che, rimasti in sede, hanno supportato a distanza ed hanno programmato il lavoro per il rientro del personale. Finalmente posso vedere tutti i miei uomini, sentirli, confrontarmi con loro e con le loro esigenze. Ma non c’è tempo per oziare: subito ci si divide tra servizi e pattuglie. La presenza sul territorio serve a garantire primariamente il contatto con la popolazione locale in quell’ottica civilo-centica codificata dalla dottrina Petraeus. Contatto che avviene anche attraverso un concreto aiuto a quelli che sono i loro bisogni primari, spesso la salute, ed allora noi usciamo per i villaggi con distribuzioni umanitarie e visite mediche itine-
ranti. Ogni qualvolta ci si muove fuori dai presidi, tutto deve essere programmato ed organizzato nei minimi dettagli in quanto il movimento può celare insidie di ogni genere, per questo gli elicotteri, moderni angeli custodi, volando sopra la nostra testa, si fanno carico della nostra sicurezza. Questo ci dà quella tranquillità necessaria per operare meglio sul terreno, spesso in collaborazione con personale americano o afgano con cui qui si lavora “shohna ba shohna” (spalla a spalla). Finito il periodo presso la base ci si prepara a riprendere nuovamente il turno presso i posti di osservazione dando il cambio all’altra compagnia, proseguendo così con il controllo della “bolla di sicurezza”. Capita, raggiungendo questi avamposti, di pensare che, lì dove andiamo, in epoche non troppo lontane, vi si trovavano i soldati dell’Armata Rossa prima ed i mujaiddin poi! Ancora poche settimane di queste incalzanti attività ed il nostro mandato sarà concluso e potremo finalmente rientrare in patria. Consapevoli di aver fatto il nostro dovere, porteremo dentro di noi il ricordo dello sguardo furbo e felice dei bambini nel ricevere un biscotto dalle nostre mani, ed il saluto dell’anziano del villaggio con cui si è degustata una fumante tazza di tè, semplice simbolo che, da queste parti, suggella i rapporti di stima e collaborazione. Personalmente, per tutto quello che assieme ai miei uomini siamo riusciti a fare: “Sono fiero dei miei soldati”.
Durante il regime talebano la famiglia di Seeta ha scelto di sottrarsi al terrore varcando il confine con l’Iran. Anni dopo, è tornata nella terra di origine scegliendo Farah come città in cui stabilirsi. Seeta, vestendo il burka azzurro perché a Farah le tradizioni sopravvivono più forti che in altre città, ha continuato a fare il suo lavoro, quello di giornalista. I talebani l’hanno minacciata apertamente di morte, se non avesse smesso. All’epoca era l’unica donna giornalista presente a Farah. Per questo, dopo un anno di attesa e di timore, Seeta e la famiglia hanno affrontato l’ennesimo trasferimento, a Herat. “L’essere giornalista - dice Seeta - mi permette di essere portavoce delle speranze e dei desideri di tutte le donne per la difesa dei nostri diritti”. Seeta, dopo il lavoro, si proietta all’Università di Herat dove segue un master di management. Torna a casa alle 20. Riposa un paio di ore per “rilassare la mente” e poi ricomincia occupandosi dei lavori domestici in aiuto alla madre, impiegata nella polizia locale. Poi, torna a letto e alle quattro di mattina si sveglia per studiare. “In futuro – spiega Seeta - vorrei creare una organizzazione che aiuti le donne del mio paese. Ho ideato il progetto di una radio per donne a Farah ma al momento nessuno degli enti ai quali ho chiesto aiuto già da qualche mese mi ha risposto. Io continuo a sperare”. Si ringrazia della collaborazione il Magg. Igor Piani della Brigata alpini Julia
«Chi è debole e fragile sente su di sè il peso della morte civile»
VIVERE AI MARGINI Per il popolo dei dimenticati insufficiente è l'aiuto dei servizi sociali e quasi nulla la comprensione della gente di Gino Dain e Elisa Cozzarini Questa volta la nostra rubrica sull’ambiente cambia colore. Gino vuole parlare di sociale, vuole sollevare il tema dei dimenticati, gli ultimi, coloro che stanno ai margini. Lo spunto viene da due fatti di cronaca che hanno tristemente occupato le pagine dei giornali italiani dall’inizio del 2011. In gennaio a Bologna un neonato, figlio di italiani senza fissa dimora, è morto di freddo in pieno centro città. Un mese dopo, a Roma sono morti quattro bambini rom a causa di un incendio scoppiato nella baracca dove vivevano. Sono fatti non troppo lontani dalla nostra Pordenone, che sollevano una riflessione sul ruolo dei servizi sociali e sulla necessità di recuperare un senso di comunità, allacciare nuove reti di solidarietà. Non ho voluto modificare nulla delle parole di Gino.
In questo periodo il popolo degli invisibili, persone di cui avevamo perso il ricordo, grida la sua esistenza in modo drammatico. Col regime capitalistico e falso moralista, sempre di corsa in nome di un benessere fittizio, abbiamo compreso che non si va ancora tanto avanti. Vengono a galla oggi tutte le disuguaglianze che una società fondata sul denaro comporta. Da qui le nefandezze che ci raccontano ogni giorno e per le quali ogni giorno ci stipiamo e ci indigniamo. Però è una falsa indignazione pronta a svanire appena dietro l’angolo. E noi come siamo messi? Per prima cosa avremmo bisogno di assistenza psicologica perché non è facile vivere in questo mondo. Non c’è via d’uscita perché il bollo rosso che ci hanno messo addosso ricorda molto quella stella gialla che gli ebrei erano costretti a portare all’epoca del Nazismo. La gente che ti guarda lascia trasparire tutte le domande che si pone, a cui dà l’unica risposta che ritiene possibile: Colpevole! Non si sa per cosa, ma noi ci dovremmo sentire colpevoli, forse semplicemente perché viviamo. E il moralismo imperante butta benzina sul fuoco. In questa società, chi per i più disparati motivi non è abile, chi è più debole e più fragile viene relegato nel dimenticatoio e pian piano si sente addosso il peso della morte civile. Con i diritti ridotti al lumicino, anche il più forte di noi un giorno o l’altro scoppierà, rimettendo in moto la giostra delle sentenze del: L’avevo detto! Oppure: Ecco, vedi, questi non cambiano, sono perduti, è inutile perdere tempo con loro! I servizi sociali, che in questa fase sarebbero un buon supporto, con ci sono abbastanza e tutto è sulle spalle del singolo, che si sente sempre più isolato. Da soli, si sta in piedi finché è possibile, poi… alla prossima!
DI-DARIO
Caso Fiat, lavoratori con le spalle al muro Quando il posto di lavoro diventa più importante dei diritti dei lavoratori di Dario Castellarin Io, a parte qualche parentesi della mia vita, ho sempre fatto l’operaio metalmeccanico. Quindi come non sentirsi solidale con tutti gli operai di questo settore? A tal proposito mi viene in mente una vicenda accaduta poco tempo fa agli operai della Fabbrica Italiana Auto Torino, la Fiat per l’appunto. Mi riferisco in particolare a quella sorta di referendum interno all’azienda, che aveva l’aria di essere piuttosto un effimero ricatto. Esso prevedeva infatti che in caso di un “no” da parte degli operai e impiegati, l’azienda sarebbe stata spostata in un altro paese dove la manodopera costa meno, mentre in
caso contrario, ovvero di prevalenza di un “si”, tutto sarebbe rimasto al suo posto. Ebbene, quel “tutto” però si riferiva alla fabbrica in quanto struttura, ma non in quanto regolamenti interni. Infatti il “si” (come poi è di fatto avvenuto) avrebbe dato carta bianca alla Fiat, che era così autorizzata a “fregarsene” dei contratti nazionali di lavoro e di stabilire che in un turno di otto ore si possa usufruire di una pausa anziché di tre, più lo spostamento della pausa pranzo, che di norma veniva a circa metà turno, a fine turno, cioè prima di tornare a casa. Inoltre questo famigerato “si” dava la possibilità all’azienda
di assumere persone con contratti individuali, i quali non garantiscono un equa retribuzione dei dipendenti, ma fa sì che a parità di orario e di mansione un operaio possa essere pagato più o meno dell’altro anche solo per simpatia o antipatia. A questo – dato che non è finita - si aggiungeva il fatto che più nessun dipendente si sarebbe potuto avvalere delle forze sindacali che non avessero firmato il nuovo accordo. Insomma, sembra essere tornati indietro di un secolo! Ora, penso a quegli operai che in televisione ho visto piangere come bambini, e cercando di immedesimarmi in loro, rimango
veramente sconcertato. Dobbiamo pensare che la maggioranza di questi operai lavorano in catena di montaggio, facendo il medesimo lavoro giorno dopo giorno come degli automi. Se in otto ore non posso fermarmi di tanto in tanto, per prendere un caffè, andare al bagno o semplicemente uscire dal capannone per prendere una boccata d’aria durante la pausa pranzo, che come è stato stabilito ora si fa a fine turno, come posso andare al lavoro con serenità e cercare di produrre bene dando il meglio di me stesso? Come posso farlo se, magari dopo anni di lavoro, mi sento tradito dall’azienda nei
CODICE A SBARRE
Dopo il silenzio, l'abbraccio "Buona fortuna amico mio" Storia di un'amicizia che non aveva bisogno di parole. Trent'anni fa, nel carcere di Marsiglia di Damiano Di Pierno
Era il 1975 ed io allora avevo 19 anni, mi trovavo in Francia perché in Italia ero ricercato. Anche se ancora non sapevo di preciso quali imputazioni mi sarebbero state mosse, pensai di andarmene. Dopo un certo girovagare finii in carcere anche lì, per reati minori dato che in qualche modo dovevo arrangiarmi per vivere. Finii a Marsiglia, a Baumetts, un carcere duro di vecchia concezione, iniziato dai tedeschi in tempo di guerra e poi finito dai francesi. Aveva due muri di cinta tra cui giravano feroci cani addestrati a riconoscere le divise delle guardie, ma sopratutto il loro cappello. Se anche uno di loro gli si parava davanti senza averlo indosso veniva attaccato. Finii in una cella con un israeliano, tipo robusto più o meno della
miei inviolabili diritti di lavoratore, poiché so che nell’azienda in cui lavoro mi hanno estorto un “si” perché altrimenti mi sarei trovato per strada disoccupato in tempi assolutamente non rosei per il mondo del lavoro e dell’economia in generale? E se a tutto ciò aggiungiamo che l’attuale Governo, che dovrebbe tutelare i diritti dei lavoratori, ha dato man forte alla Fiat dicendo che avrebbe fatto bene a spostare la fabbrica in altri paesi se i lavoratori non avessero votato per il “si”, dove andremo a finire? Torneremo a una sorta di schiavismo? Ricordiamoci sempre che i dirigenti o i titolari di un’azienda hanno, come i lavoratori, dei diritti e dei doveri. Con un sistema così, dove il lavoratore si sente sfruttato, le cose non possono migliorare ma solo peggiorare con risvolti negativi anche per il mercato dei prodotti, dove la qualità che una volta ci distingueva nel mondo, non farà che scendere fino a non esserci più. Perché un lavoratore frustrato, tradito e scontento del proprio posto di lavoro non può dare il meglio di sé, ma solo lo stretto necessario per mandare avanti la baracca di questa, ormai, povera Italia.
mia età, pacifista convinto. Non sapevo niente di lui se non che al mio arrivo era già li. In quel carcere tra guardie e detenuti non poteva esserci nessun dialogo, neanche il saluto, quindi non avevo altri che il mio compagno per scambiare qualche parola. Con lui però non riuscii ad instaurare nessun tipo di rapporto. Oltre ad un po’ di lettura il suo mondo era una radiolina ed un suo amico nella cella a fianco. Parlava solo con lui, si guardavano tramite uno specchietto che tenevano in mano fuori dalle sbarre, si passavano anche dei pacchetti, e per farlo usavano il sistema dello yo-yo: legavano il sacchetto ad uno spago fatto di fili da cucire intrecciati e lo facevano roteare fino a lanciarlo al compagno che nel frattempo lo
aspettava con il braccio teso fuori dalla inferriata in modo che gli si attorcigliasse attorno. Con questo sistema il pacchetto arrivava anche in celle lontane in barba alle guardie e al divieto. Naturalmente, se il giochetto veniva scoperto erano guai. Insomma con questo tipo neanche una parola che fosse una, un anno sono stato in cella con lui ma tra noi non c’è mai stata nessuna socialità. Radiolina, l’amico della cella accanto e qualche scrittura, questo è stato il mio compagno di cella per tutto quel tempo. Per questo suo modo di fare a volte mi scoppiava dentro un’ira rabbiosa, ma poi tornavo alla calma e alla rassegnazione visto che non c’era niente che potessi fare, neanche litigare potevamo perché poi avremmo avuto entrambi
delle punizioni. Finalmente arrivò il giorno della mia scarcerazione, e lì successe quello che non mi sarei mai aspettato. Nonostante fosse vietato, lui uscì dalla cella per accompagnarmi e portarmi la borsa fino all’uscita del braccio, rischiando di essere passato per le mani e di finire in isolamento. Ancora più sorprendente fu che le guardie non dissero nulla. Io rimasi toccato da questo suo gesto. In quel momento capii che per un anno avevo vissuto assieme ad una persona che senza mostrarlo era un amico. Ci salutammo con auguri di buona fortuna e tra noi è partito anche un abbraccio di slancio. E’ stato un momento molto toccante e mi sono commosso, poi mi sono accorto che anche lui aveva gli occhi gonfi di lacrime.
Morgan, un'occasione persa per parlare davvero di droga
manager Mara Maionchi al sottosegretario della Presidenza dei Ministri Carlo Giovanardi passando per altri ancora, sono stati pronti a puntare il dito su di lui come se fosse il diavolo in persona. Però poi, come già detto, è stato invitato a partecipare a vari programmi televisivi dove ovviamente si rincarava la dose sull’argomento. Ma allora quello di Morgan era un messaggio negativo o è stato solo un ‘occasione per aumentare gli ascolti dei talk show sulla pelle di Morgan? S’è parlato dell’impatto negativo che le sue parole potevano avere sull’opinione pubblica. E se invece questa stessa confessione, fatta a cuore aperto, fosse stata utilizzata per aprire un dibattito costrittivo sull’uso delle droghe, senza ipocrisie e luoghi comuni, e soprattutto senza moralismi e giudizi gratuiti? Se così fosse stato non avremmo fatto per contro un buon servizio ai telespettatori? Come sempre la televisione ha perso una buona occasione! E’ passato un anno, Morgan va a cantare al Festival di Sanremo, il problema droga non è stato affrontato nel modo migliore e le cose continuano come se non fosse successo niente!
Demonizzato per fare audience, l'artista è ora redento. Come se niente fosse successo di Dario Castellarin Prima del Festival di Sanremo 2010 c’è stato uno scandalo. Mi riferisco alla confessione fatta da Morgan, al secolo Marco Castoldi ex cantante dei Bluvertigo, ad un giornalista che poi ha pubblicato le sue parole. Sono completamente d’accordo con il fatto che il messaggio che traspariva da quell’intervista non fosse affatto educativo, anche se ritengo che Morgan non avesse nessuna intenzione di far passare un messaggio come quello, ovvero che far uso di droghe faccia bene. Ma se anche così fosse stato, perché allora pubblicare questa intervista, forse per aumentare la tiratura della rivista? E poi perché escluderlo dal Festival di Sanremo dove lui avrebbe cantato
una canzone d’amore? Sta di fatto però che dopo l’esclusione dal Festival Morgan è stato chiamato in vari programmi televisivi, da Porta a Porta ad altri. Ora non capisco, se io sono un giornalista e facendo un intervista ad una pop star mi accorgo che le sue parole possono suonare come diseducative soprattutto per i giovani, o non pubblico l’intervista o quanto meno taglio i pezzi, che in coscienza, ritengo fuorvianti. Ma così facendo non farei lo scoop, giusto? A Morgan non solo non è stato concesso di partecipare al Festival in quanto persona sgradita, ma gli è anche stato impedito di far cantare ad altri la sua canzone. Tutti, dai dirigenti Rai a Maria De Filippi, dalla sua
ZIO FRANCO
FIABE DI VITA
Urbanistica: è questione di punti di vista "In città il problema non è la mancanza di soldi, ma come li stanno spendendo" di Franco de Marchi Pordenone, di per sé, sarebbe anche una bella cittadina, il problema è il modo in cui viene gestita e di conseguenza conservata. Vi sono, nell’ambito urbano, cantieri e opere pubbliche in fase di realizzazione di cui, “soggettivamente scrivendo”, non se ne vede tutta questa urgenza. Di contro, vi è invece la parte storica che, oltre al degrado fisiologico dovuto al tempo, presenta i segni dell’incuria da parte di chi di dovere, i quali rendono questa parte di città sottovalutata, ignorata e stravolta. Tanto per fare esempi concreti: in via Del Mercato hanno stravolto il Palazzo dei Capitani. Stravolto in modo osceno, dato che sono viste travi del Quattrocento fatte a pezzi e buttate. Per fare un garage si sono abbattuti vari metri quadrati di muro della stessa epoca, soffitto compreso. Altro esempio il vicolo San Rocco, che a quanto mi risulta potrebbe essere la viuzza più stretta del Triveneto. Anche questo punto della città, a mio parere, dovrebbe essere trattato come un’attrattiva turistica ed invece vicolo San Rocco è diventato una discarica. Stessa cosa dicasi per i vari bagni chiusi che ci sono nei diversi parcheggi cittadini. Non per allungare la lista delle inadempienze, ma perché i fatti sono fatti, oltre a tutto ciò voglio far notare che i vari affreschi cittadini posti principalmente nei sottotetti dei due corsi principali sono in via di un degrado irreversibile. Altro esempio importante, in via Fratelli Bandiera vi è una casetta che sembra uscita da una fiaba. E’un genere di casa di quelle di una volta, in cui al piano terra vi stavano le bestie, che con il loro calore scaldavano le travi sovrastanti, e al piano superiore viveva la gente. Le finestrelle inferiori sono ridotte al minimo per non disperdere il calore; il soffitto è costrutto in legno così da restituire il calore sottostante. Via Fratelli Bandiera è adiacente a Piazza Risorgimento: sarebbe uno sfregio abbattere quella casetta, che anzi andrebbe piuttosto ristrutturata. Anch’essa è una buona occasione per far conoscere ai giovani e ai bambini come funzionavano le case “biologiche” del tempo che fu. Nonostante questo è più importante lastricare Pordenone di cubetti di porfido. Qui prodest? Al di là dei dietrismi escatologici o dei revisionismi facili rimane il fatto che in città vi è un connubio tra il nuovo e il vecchio. Altro giro altra corsa altra torta da spartire. Sono convinto che i soldi ci sono e che il problema è piuttosto come li stanno spendendo. Indi per cui al di là di queste opere “urgenti”, quando si va in Comune a “elemosinare” per sopravvivere ti rispondono che: “Non ci sono soldi”. Mentre lo stipendio dei dipendenti comunali viene aggiornato di volta in volta rispetto al tenore di vita vigente, di contro l’aiuto che un bisognoso richiede viene elargito sulla base di un regolamento che risale al 1981. Negano, quando lo richiedi, che vi sia questa disparità ma fatti alla mano, quando si arriva, al dunque tacciono. Non voglio fare polemica, ma torno a ribadire che i fatti sono fatti tant’è che prima elargivano 200.000 lire ora ti danno 50 euro. Tanto secondo loro un invalido con 260 euro mensili deve riuscire a mantenersi a parte qualche sporadico aiuto una tantum. Per il resto ogni uno pro domo sua. A questo punto o si toglie del tutto questo fittizio aiuto o lo si aggiorna al caro vita. Fate vobis.
Non basta una stretta di mano per fare "pace" Al di là delle paure e della rabbia per agire con buon senso e in modo solidale di Alberto Danesin Un urlo. Un gesto di stizza. Una portiera sbattuta. Un papà un po’ rude rivolge parole forti con toni accesi ad un altro uomo seduto in auto parcheggiata di traverso vicino al cortile della scuola e quindi poco rispettosa degli spazi comuni pubblici. Davanti ad altri papà. Forse anche loro un po’ rudi, perché ognuno prende le parti dell’uno o dell’altro, senza ricordare che è l’esempio del tutto agli occhi dei bimbi e delle famiglie ad essere poco … esemplare, che le auto a scuola si possono parcheggiare a cinquecento metri dall’uscita dei figli e che fare due passi aiuta entrambi. Una espressione ruvida non proprio educata alla compagna di vita, un litigio tra colleghi all’ora di pranzo, un commento non benevolo tra amici nei confronti di un comune conoscente. Nei rapporti quotidiani ognuno di noi può relazionarsi più correttamente, mantenendo la propria personalità anche quando aderisce ad un elemento più completo, una coppia o un gruppo, con caratteristiche di sintesi delle qualità delle singole persone. Come nella torta, gli ingredienti per la preparazione dell’impasto e quelli per la guarnitura. E’ quindi necessario iniziare dai nostri comportamenti, dal nostro esempio, per promuovere il sentimento di pace, senza attendere le ufficialità delle istituzioni o il maturare delle ideologie che risolvono i conflitti più ampi, come ad esempio le guerre nazionaliste, perché fino a quando non siamo noi a cambiare non possono esserci un giusto modo di educazione e un mondo pacifico. Si può favorire il
dialogo tra le religioni, per educare al riconoscimento dell’altro come uguale a sé e non diverso, dedicando in famiglia una festività diversa da quella tradizionale, una nuova liturgia, e chiedendo ai figli di immaginare la celebrazione delle altre religioni, con i loro simboli e le loro usanze (un presepe laico?). Si può favorire la donna nelle relazioni, perché biologicamente portata all’armonia, riconoscendo il suo ruolo materno di difesa dei diritti dei più deboli ed assegnando a lei responsabilità importanti nella costruzione e nel mantenimento delle relazioni, nella vita e nel lavoro. Si può promuovere l’economia della pace ricordando ad ognuno di noi, a proposito di torta, di suddividere il proprio tempo in tante fette e dedicarne ogni mese un certo numero alle buone pratiche della pace: aiutare il vicino di abitazione, accompagnare un conoscente bisognoso, effettuare una commissione per un’associazione meritevole, scrivere un articolo per una redazione “partecipata”. Si può inoltre, più efficacemente, cercare di adottare comportamenti preventivi di buon senso e coltivare la pace dentro di noi, nella comprensione delle cause che governano i nostri comportamenti con gli altri, unificando l’ “altro” e l’ “io” in un'unica persona, senza distinzioni o dualismi. Perché non impariamo la giusta conoscenza di noi stessi, della nostra aggressività, della nostra paura? Perché quando cresciamo ci dimentichiamo troppo facilmente dei nostri sogni di bimbo, dei nostri occhi di bimbo?
PERLE di vita
-Rebbe, rebbe! Sbottò. Non hai fatto che aggravare le nostre disgrazie! Ho eseguito quanto mi hai detto, ho portato in casa gli animali. E con quale risultato? Le cose sono peggiorate ulteriormente! La mia vita è un vero inferno, e la casa è diventata una stalla! Salvami, rebbe, ti supplico. -Figliolo, gli disse il rabbino con tono sereno, rientra e fa’ uscire le galline da casa. Ma, già l’indomani, era di ritorno dal rabbino. -Rebbe, rebbe! Aiutami, salvami! Ho fatto uscire le galline. Ma la capra rompe tutto in casa. E ci appesta con il suo fetore! La mia vita è un inferno a casa sua! -Rientra, disse il rebbe con dolcezza, e fa’ uscire la capra. E bada che non torni in casa! Dio ti verrà certamente in aiuto!
Yukl rincasò e fece sloggiare la capra. Ma, già l’indomani, era di ritorno dal suo rebbe, lamentandosi a gran voce: -Rebbe, rebbe, come siamo disgraziati! Mi sono finalmente sbarazzato della capra, ma la vacca! La vacca ha trasformato la mia casa in una stalla! Sterco dappertutto! Come può vivere decentemente un essere umano davanti un animale? Ti supplico, rebbe, devi fare qualcosa per noi! -Hai ragione, figliolo, hai perfettamente ragione! Esclamò il Rebbe. Torna a casa immediatamente e fa’ uscire la vacca! Vada al diavolo! Yukl corse a casa a gambe levate e fece sloggiare la vacca. Già l’indomani mattina era di ritorno dal suo rabbino. -Rebbe, rebbe! Esclamò contento. Che buon consiglio mi hai dato! La mia vita è finalmente paradisiaca, così paradisiaca! -Ora che tutti gli animali se ne sono andati, la casa è tornata ad essere così tranquilla, così spaziosa, così pulita! E tutto ha un così buon profumo! Che piacere! Che piacere!
mare l'ennesima nave carica di scorie: "Ma non ci pensi al nostro mare?" avrebbe detto uno degli intercettati. Nello stesso anno un pentito delle stesse cosche rivela l'affondamento fraudolento di una trentina di navi tutte contenenti scorie (metalli pesanti, scorie radioattive, liquami industriali). Per due settimane le televisioni, i giornali e tutti gli organi di informazione non parlano d'altro. Il Governo si fa avanti con molte promesse, il recupero dei vascelli, la bonifica delle situazioni a rischio e via dicendo. Molti ricorderanno ad esempio la Jolly Rosso, nave della ditta Messina spiaggiata di fronte alle coste calabre, il cui carico scomparve misteriosamente in una notte, il suo capitano mori dopo una cena il giorno prima che iniziassero le interrogazioni sul caso, fu chiamata ad intervenire una ditta olandese che si occupava con competenza di naufragi dove c'era un pericolo di esposizione a radiazioni. Questo uno dei casi, quello più eclatante, comunque sia il Governo rispose, subito intervenne cercando, da quello che si apprese dai telegiornali, chi potesse scovare le navi affondate cariche di veleni. Si pensò allora alla Guardia costiera, che però fece sapere di non avere mezzi idonei al caso, la soluzione alternativa fu un amico armatore del premier. Risultato si ritrovò il Catania, nave affondata durante la prima guerra mondiale che nulla aveva a che spartire con le navi di cui parlava il pentito. Nell'anno 2011 nessun paese al
mondo, ne il più evoluto, ne il più occidentale, nessuna centrale al mondo neanche quelle di quarta generazione conosce un sistema per stoccare e rendere inoffensive per l'uomo le scorie derivanti dalle centrali nucleari. Nell'anno 2011 non si sono avute risposte per quanto riguarda il ritrovamento di relitti carichi di veleni, nessuna risposta sul monitoraggio della salubrità delle acque o del pescato, unica certezza è l'aumento esponenziale dei tumori a carico degli abitanti della zona dove è avvenuto lo spiaggiamento della Jolly. Il Governo ha a cuore l'economia della zona interessata e dichiara che fare dell'allarmismo inutile, nuoce alle pesca ed al turismo della Calabria. La ditta Messina, quella della Jolly Rosso, denuncia il giornalista che si occupa delle inchieste sulle navi scomparse: "getta fango sul buon nome della ditta" dice. Impossibile tracciare la radioattività di qualcosa che sta in fondo al mare sotto centinaia di metri d'acqua. Chi affonda queste navi lo sa. Avete mai visto nelle centrali dove vengono stoccate le scorie per renderle inoffensive al personale che ci lavora. Enormi piscine piene d'cqua. Conoscete forse una piscina più grande del mare? Ho un' altra perplessità, se è vero che le cosche calabresi si occupavano di questi lavori sporchi, da chi veniva la domanda di smaltimento? Solo i governi si occupano di nucleare, quelli di destra come quelli di sinistra, quelli occidentali come quelli asiatici.
Potrebbe essere peggio Tratto dalle Parabole del Maggid di Dubno, in“Racconti dei saggi Yiddish” (Ed. L'ippocampo) Youkl Vakhlakhlakes, nipote del celebre cantore di Khelm, non ne poteva più. Decise di andare a chiedere consiglio a Reb Yankl Schmune, il nuovo grande rabbino della città. -Rebbe! Esclamò. Mi va molto male in questo momento, e le cose non fanno che peggiorare! Siamo poveri, così poveri che la mia povera moglie, i miei sei figli, i miei suoceri e io stesso siamo costretti a condividere una squallida casetta che ha una sola stanza. Siamo pigiati come sardine. Abbiamo i nervi a fior di pelle. E non smettiamo di bisticciare. Credetemi, rebbe, casa nostra è l’inferno! Preferirei morire anziché continuare vivere in questo modo! Il rabbino considerò il problema con tutta la serietà del caso. -Figliolo, finì col dire al povero
Yukl, promettimi di fare ciò che ti dirò, e ti assicuro che la situazione migliorerà. -Te lo giuro, rebbe! Esclamò il povero Kukl. Farò qualsiasi cosa! Dimmi che cosa devo fare! -Dimmi, chiese il rebbe, hai degli animali? -Ho una vacca, un caprone e qualche gallina. -Benissimo! Ottimo! Rientra subito e prendi tutti questi animali in casa. D’ora in poi vivranno al vostro fianco. Il povero Kukl, smarrito, sconcertato dal consiglio del rebbe, non potè non abbedire. Rientrò e prese in casa la vacca, il caprone e le galline. Inutile dire che la loro presenza non fece che peggiorare mille volte le cose! Già l’indomani Yukl tornava a trovare il rebbe.
Nucleare, tutti i gialli di casa nostra dal 1987 ad oggi Nonostante gli italiani abbiano detto no alle centrali, ancora si continua a produrre scorie di Andrea Zanchetta Nell'anno 1987 gli italiani si esprimevano democraticamente, tramite un referendum, contrari al ricorso al nucleare come approvvigionamento energetico. Da allora non tutte le centrali sono state chiuse, alcune sono parzialmente ancora attive, il problema
delle scorie è rimasto quello di sempre e qualcuno ancora parla della costruzione di nuove centrali. Nell’anno 2009 da intercettazioni telefoniche si scopre il dispiacere provato da un affiliato di una cosca calabrese al pensiero di seppellire in fondo al
L'ANGOLO DELLA FRANCA
LA DIFESA DELLA DIGNITÀ CHE STA ANIMANDO LE PIAZZE In Italia il movimento per l'emancipazione delle donne. In Africa quello dei popoli di Franca Merlo Ore 10.30: Bari, Bergamo, Boston, Cagliari, Catania, Napoli, Venezia ore 12.00: Atene, New York, Portland, Francoforte, Barcellona, Bruxelles ore 14.00: Firenze, Londra, Roma, Stoccolma, Tokyo, Verona, Vicenza ore 14.30: Bolzano, Milano, Parigi, Pisa, Torino, Bologna, Viareggio ore 15.00: Brescia, Fermo, Lisbona, Modena, Genova, Orvieto, Padova ore 16.00: Arcore, Empoli, Olbia, Ragusa, Rieti, Urbino, Cesena ore 17.00: Alghero, Trento, Agrigento, Foggia, Madrid, Perugia, Reggio Calabria. E’ un semplice elenco, incompleto: sono 230-250 le città che in varie ore di domenica 13 febbraio hanno visto la protesta delle donne italiane, scese nelle piazze per difendere la loro dignità in un Paese che qualcuno ormai senza mezzi termini definisce un bordello. Trasversale a partiti e schieramenti, il gruppo “Se non ora quando?” formatosi grazie al web, ha raccolto in poco tempo le firme di 28 mila persone e molte di più sono scese in corteo, a dire il malessere anche di tante altre. Molti uomini hanno manifestato con loro; le agenzie parlano di un milione di persone solo in Italia. I telegiornali si sono tappati le orecchie, ma è stata forse la più grande mobilitazione popolare nella storia della Repubblica. Non è una questione di bunga-bunga, il problema è dove va l’immagine della donna, dove va l’Italia. A preoccupare non è villa Arcore, è palazzo Chigi: la corruzione offre a ragazze povere o straniere rapide scorciatoie
per avere soldi e successo, proponendo un modello di degradazione e di ipocrisia che si insinua attraverso i media, e fa scuola. Scavalca le meritevoli, porta a cariche pubbliche persone incompetenti e pilotate; e il prezzo lo paghiamo tutti… Nei cortei a dire “basta” c’erano le donne di “Popolo viola”, “Indecorose e libere”, “Ombrelli rossi” con sciarpe bianche al collo e c’erano perfino delle suore, con il velo o in borghese. Tra queste suor Rita Giarretta di Caserta, che a Casa Rut gestisce il reinserimento di prostitute che vogliono liberarsi dalla schiavitù della strada, suor Eugenia Bonetti responsabile del settore Tratta delle donne e minori dell’Usmi. Presenze che mi fanno sperare: chissà che anche nella chiesa siano le donne e in generale i laici, a compiere segni concreti per manifestare ad alta voce quel malessere che pervade la base nei confronti dei vertici. La protesta delle donne italiane, come le rivoluzioni di questi giorni lungo le sponde del Mediterraneo, mostrano che la gente è stanca di sopportare, vuole prendersi in mano la sua vita; e ha capito che questo non avverrà mai ad opera dei potenti. C’è oggi da parte dei popoli una presa di coscienza del proprio peso nella storia: il nostro è davvero un tempo di speranza. No, non lamentiamoci del tempo presente, che ci regala infiniti mezzi, infinite possibilità di informazione e comunicazione: sta a noi usarli nel modo migliore. E poi non molliamo, il bello viene adesso! Bisogna che la protesta si trasformi in proposte, che usi ogni mezzo per farsi ascoltare e avere un seguito.
EL CANTON DE GUERI
SU PAR L'ARMADURA -Toni me buto fora a sbalso co la tola che ghe dago na spenelada a quel toc de linda li che no l’è vignua ben, te sa che dopo i paroni i se mete sotto a cercar i difetti-Iii para via dai, noi sta mia sempre li a vardar el muro, i va anche a magnar a mesogiorno-Dai semo monta sora la tola e fame da contrapeso, ta fermo li e!-Siori pitori voleo qualcosa da bever?-Mah, perché no, si grasie signora-Vignì ta la l’altra finestra alora, ta quela de la cusina che ve meto su un caffè-Bon a ste ore, dai che andemo Piero, Zipo ara che la signora del sesto la ne fa el caffè, mola tut-Qua qua, vignì ta questa finestra. Ma no gavè paura a star cussì in alt?-Noo cossa vola che sia, semo abituai noi vero Zipo?-E ostia.. gaven lavorà anca più in alto signora, te ricorditu a Molinella Piero, che se caminava su pa le capriate piene de brosa
ingelada? La si che no l’era da ciaparse indormensai-Madona ma no gavessi paura?-Ee l’era da star atenti cio, ma noi semo così, semo spericolai-Beati voi, mi go paura solo a vardar fora da la finestra. Ma quando penseo de finir?-Ee ghe vorà ancora un po’ de tempo, ristrutturar l’esterno de un palasso no l’è roba da poc, bisogna prima che l’impresa la tiri via le malte vecie e dopo i le rifasi nove, poi vignimo noi co stuc e pitura che fa sempre bela figura. Ma se i mureri noi va avanti.. me sa che qua no i ha tanta voia de lavorar. Lori i dise che noi pitori semo tutti mati, ma me par che lori invece iè tutti curti de bras. Comunque co finimo sta man qua tiremo via el ponteggio da sta facciata così almeno liberemo l’ingresso-Aaa manco mal, che se fa fadiga a entrar co le biciclete. Ma chi che l’è el capo qua, quel co la pansa grossa?-Si quel li l’è el geometra del cantier-E quel’altro grando vestio ben?-Quel alt par nient? Quel l’è el geometra contrario-Eco qua meteve el suchero. Perchè contrario cossa volo dir?-Vol dir che invece de farne parar via coi lavori come el nostro,
el ne rallenta tirando fora tutti i difetti immaginabili, l’è el geometra del committente, de quel ch’el paga insoma-A ho capio, e l’ora l’è el geometra giust quel a bas che’l ve sta vardando-Ei voi tre lassù, voleo un caffè?-No grasie i ne lo ha pena fat la signora-Cossa?? Me ciapeo anche in giro?? Ste schersando come al vostro solito. Me par che tirè el cul indrio ta quela parete li, ogni volta che buto l’ocio s’è sempre li che ridè! Ma vardè che ho pena telefonà al vostro paron, ghe ho dita che i so operai i me someia a “QUELLI DELLA NOTTE” vedarè che bela incarnada che ve ciapè-Va la va la, dove trovitu pitori come noi?-L’è meio che no te me fae pensar satu, anca i primi che pasa par strada. E no sè neanche boni de lavorar, vara la un toc de linda che no l’è vignua ben-L’è perché le malte nove no l’è ancora secche e l’ora vien fora la macia, se i mureri no i se ciapa avanti..-Bisogna lasar sugar ben el color tra na man e l’altra invece, altro che mureri-Eee qua geometri ingegneri.. tutti inteligenti tutti che sa tut, ma varda se un el ciapa in man un
atresso el fa veder come che se fa. Sol che boni de parlar e de far disegni sbagliai voi altri, e dopo se no semo noi a sistemar le robe vien fora na scarpa e un socol-Lo digo sempre mi che voialtri s’è l’ossatura del cantier. E quel’altro vostro compare dov’elo, no l’è vignuo oggi?-L’è a casa, ghe ha mort na zia-Ancora?! Che fameia sfortunada che l’ha, na disgrasia drio l’altra. Ma mai come la mia ad averve voialtri come operai. Ades faseme pensar se lasarve lavorar o mandarve a casa, intanto andè avanti co quela parete-Geometra, se metemo subito o fasemo prima na cantadina insieme?-Vardè che se vegno su ve buto a bas tutti quanti-Chi vien su, ti? Co quela pansa li? Ti neanche par le scale te vien su-Peta peta che ciamo ancora el vostro paron, ve faso pasar mi la voia da rider.. ve denuncio tutti-Se vedemo a Forum alora, bon fioi dai che andemo avanti a far qualcossa va, grasie del caffè signora. Ou la saveo quela de la femena che la dise al mario: “Ti te ga un’altra!” E lu: “Cossa? Son sposà co ti da vinti anni e go un’altra???”-
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
PORDENONE GIOCA Perché costruire da zero una sorta di settimana enigmistica dedicata, interamente, alla città di Pordenone? Perché l’idea, lanciata alla redazione di Ldp da zio Franco, questa volta più che una semplice provocazione delle sue ci è sembrata l’idea originale, divertente e al tempo stesso “costruttiva” per dare come sempre il nostro punto di vista. “Facciamo
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un gioco dell’oca partendo dalla cartina di Pordenone”, ha proposto Franco … aggiungiamoci un cruciverba che sfrutti storia, cultura e gossip pordenonesi, un rebus, e poi mettiamoci del colore con le spigolature made Rdp ... insomma a suon di idee il gioco è stato fatto. E a questo punto non ci resta che augurare ai nostri lettori un buon divertimento.
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ORIZZONTALI: 1. Corpi celesti - 7. É simile allo struzzo - 10. Quella di Pordenone è stata istituita nel 1968 - 13. A noi - 14. Lo sono il" Messaggero Veneto" e "Il Gazzettino" - 15. Un centimetro… corto - 16. Sporca, insudiciata - 17. Egregio sulla busta - 18. Reggono le bandiere - 20. Dea che fu scacciata dall'Olimpo - 21. Segno musicale - 23. Preposizione semplice - 24. Sud-Ovest - 25. Può essere fuggente - 27. Scherzi, beffe - 30. Nascosta - 32. Piuttosto audace - 34. Può essere rosso o bianco - 35. Lo sono "quelli" della Panchina - 37. Il pordenonese che canta "Furia" - 39. Dentro - 40.
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VERTICALI: 2. Operazione conta-
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Inutile - 42. Via! - 43. Rettile simile al coccodrillo - 46. Albero dal legno chiaro - 48. Il Santo che protegge la Città di Pordenone 50. Aeronautica Militare - 51. Lavorare la terra con l'aratro - 52. Parte di una pianta in grado di emettere radici - 53. Incitamento rivolto a cavalli - 54. Voce al poker - 55. Suona in fabbrica - 57. Iniz. di Tolstoj - 58. Si festeggia il 25 dicembre - 59. Da 11 anni è la "Festa del Libro" in città - 63. Banca vaticana - 64. Un tipo di farina - 65. In modo non professionistico - 66. Iniz. della Estrada
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bile di verifica - 3. Pesci d'acqua dolce - 4. La "Sacra" è un tribunale ecclesiastico - 5. In quel luogo - 6. Ermetica, sibillina - 7. Uno in tedesco - 8. Emettono grugniti - 9. Il Gigi della Tv locale - 11. É bene averle chiare - 12. Piace molto ai conigli - 13. Un titolo di Stato (sigla) - 14. Fascicolo di fogli per alunni - 19. Prodotto intermedio della macinazione del grano duro - 21. Il primo cittadino di Pordenone dal 2001 - 22. Targa di Latina - 24. Steven attore… marziale - 26. Nelle cose - 27. Poggia su traversine - 28. Articolo indeterminativo - 29. Ha scritto "Capriole in salita" e "La
melodia del corvo" - 30. Iniz. della Gerini w- 31. La prima e l'ultima dell'alfabeto - 33. Uscire con violenza, traboccare - 34. Sei antichi romani - 36. Targa di Aosta - 37. Il nome di Schumacher - 38. Uncino per pesci - 41. Teatri all'aperto - 44. Finisce affumicata - 45. Materia plastica sintetica - 47. Veicolo trainato da animali - 48. Pratica salutistica di origine finnica - 49. La… madre di Catilina - 51. Strumento simile all'arcolaio - 54. Club Alpino Italiano - 56. Parità delle dosi nelle ricette mediche - 60. Iniz. della Muti - 61. Congiunzione telegrafica - 62. Mezzo giro
Casella n°27:
Casella n°6:
Sede dei Ragazzi della Panchina “La Pankina cambiando posto è divenuta un discorso tosto” Avanza tirando ancora con un dado
Casella n°10:
Stadio Bottecchia “Al Bottecchia, anche stasera festa Verde – Nera” Avanza tirando ancora con un dado
Casella n°12:
Ex Cotonificio “Cotonificio di Ponte De Marchi, tra poco crolleranno anche gli ultimi archi” Torna alla casella 23
Casella n°33:
Parco San Valentino “Parco San Valentino verde, oche e pisolino.. goditi il relax un attimino!” Vai alla casella 38
Casella n°37:
Fiera Vecchia “Mens sana in corpore sano… Vecchia fiera, fieri nuovi” Avanza tirando ancora con due dadi
Stazione dei treni e delle corriere “Nella stazione vi è troppa confusione, quindi aspetta (forse) comprensione” Stai fermo un turno
Casella n°39:
Casella n°16:
Casella n°46:
Fiera nuova “Quando c’è la Campionaria non si trova solo aria” Avanza di due caselle
Casella n°21:
Parcheggio Marcolin “Al Marcolin non puoi fare pipi, perché di acqua ce n’è tutti i dì” Stai fermo un turno
Casella n°24:
Piazza Risorgimento “Piazza Risorgimento, è tutto un disfacimento” Torna alla casella 21
Casa dello Studente “Alla casa dello studente, si mangia, si studia e non ci si rompe il dente” Avanza di quattro caselle Ser.T via Montereale “Ser.T. di via Montereale è solo una schiaffo psichico e morale” Tira due dadi e con il risultato ottenuto indietreggia.
Casella n°51:
Ospedale Santa Maria degli Angeli “L’ospedale vale, ma con pazienza statale” Stai fermo un turno
Casella n°56:
Cinemazero “Al Cinemazero, cultura per intero” Avanza tirando ancora con un dado e raddoppiando il risultato
Casella n°61:
Biblioteca civica “La Biblioteca nuova ti saprà sorprendere, mettila alla prova” Avanza tirando ancora con due dadi
Casella n°64:
Teatro Verdi “Teatro Verdi da Busseto, non saprebbe se applaudire o fare un peto” Torna alla casella 61
Casella n°67:
Mediateca “La mediateca non è un oggetto, ma sta diventando indispensabile anche per chi soggettivamente non è abile” Avanza di tre caselle
Casella n°72:
Carcere “Carcere o galera sei sempre incatenato o in cella o in coscienza non ti allentano la lenza…” Tira due dadi e con il risultato ottenuto indietreggia. Nella casella in cui arrivi, stai fermo un turno.
Casella n°75:
Municipio “HAI VINTO!!! Nel Municipio che ora ci comanda, c'è una bella banda”
DI FRANCO DE MARCHI E STEFANO VENUTO FOTO DI MICAELA HAREJ Il Gioco dell’Oca ha origini antiche: le prime testimonianze risalgono infatti agli antichi egizi e cinesi. La prima stampa che ne cita il nome è invece dell’epoca dei Medici, del 1580. Esso rappresentava il concetto del bene (le oche) e del male (le avversità, gli ostacoli) e un po’ per tutti, giovani o vecchi, fa parte di quei giochi da tavolo in cui prima o
poi ci si è cimentati nella propria vita. Tradizionalmente, il gioco si svolge utilizzando due dadi, un contrassegno diverso per ciascun giocatore (massimo 6) e una tavola dove sono disegnate a spirale 60 o 90 caselle alcune delle quali contengono delle regole. Ciascun giocatore tira i dadi a turno e procede lungo il percorso di tante caselle quanto è la som-
ma dei punti usciti dal tiro. Vince chi arriva primo al traguardo. Se però i punti superano il numero finale, dovrà tornare indietro di tante posizioni quanto sono i punti in eccesso. Quella che qui proponiamo è una versione inedita del Gioco dell’oca, riadattata per Ldp utilizzando in luogo delle caselle gli angoli, quelli buoni e quelli meno buoni, di Pordenone.
Il Rebus.
Le spigolature. Dalla bacheca dei Ragazzi della Panchina
Da una idea di Guerrino Faggiani
È
«Durante il concorso di Miss Muretto ho rischiato un mega attacco di pedofilia acuta» Dario
DA
FA santiago
È UGUALE PER TUTTI
«L'unico modo per vedermi lucido è passarmi la cera» Walmi
FRASE 1-6-2-7
Soluzione: LDP è facile da leggere
«Sono truzzo anche perchè mi vesto come un truzzo e visto che ci sono miei amici truzzi con tante amiche carine ho deciso di diventarlo anch'io» Luca
Le soluzione del cruciverba di pagina 9 O
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«Se non te tien la bala ... va a casa a dormir» Franco
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«Cesco, mi sembri lanciato oggi!» Ada «Si, devo aver dormito troppo ieri» Cesco
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«Mi sono fatto il culo come un negro dell'Ottocento» Gigi
IL VISIONARIO La vita è un gioco Un nostro affezionato lettore di Recanati, G. L., ci segnala un’originale iniziativa promossa dal comune di Nubiana, in Valdivento. Per far fronte ai numerosissimi episodi di depressione che colpiscono la popolazione locale, con ogni probabilità dovuta al fatto che in quel paese non batte mai il sole, la locale amministrazione ha obbligato l’intera cittadinanza adulta tre ore al giorno di gioco alla maniera dei bambini. Pertanto, Sindaco in testa, si vedono nella palestra della città, quarantenni gattonare, cinquantenni giocare con i coperchi delle
pentole e qualche sessantenne con i mestoli di legno. Alla richiesta di quale teoria scientifica stesse alla base di una così originale soluzione ai problemi degli adulti, il Primo cittadino, dopo aver ricordato che è idea di molti savi che la vita sia un gioco, ha candidamente ammesso di essersi ispirato al suo concittadino più famoso, Filippo Ottonieri, secondo il quale per sconfigger la noia bisognerebbe fare “alla maniera dei fanciulli, che trovano il tutto nel nulla, mentre gli uomini il nulla in tutto”.
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Ha l'Hiv? Non posso operarla di Ada Moznich
L'OBIETTIVO
Dove vanno a mangiare i poveri? A Pordenone mancano una struttura popolare di ristoro e un dormitorio di Giuseppe Micco Pordenone, città industrializzata del Nord est, ha avuto un notevole afflusso di extracomunitari, molti con permesso di soggiorno regolare, ma molti altri clandestini, senza lavoro e senza domicilio. Questo ha provocato un accavallarsi di disperazione con altra disperazione, di fame con fame, di panchine con panchine. Con queste considerazioni il dato rilevante è l’inesistenza di una mensa cittadina, avvero c’è la Casa dello Studente, ma l’utenza di studenti, impiegati e qualche fortunato che ha dei buoni pasto erogati dal Comune non lascia spazio a quella fascia di persone con estremo bisogno del pasto caldo della mensa. Non dimenticandoci che sabato e domenica la mensa è chiusa. Oltre a questo non c’è un posto che dia da dormire a chi ne ha bisogno. Le associazioni di volontariato tipo Caritas in primis dove sono? E’ possibile mai che nel 2011 si possa morire in una centrale elettrica abbandonata? E’ possibile morire bruciati in una casa abbandonata? Molto è stato scritto e spesso la cronaca è stata impietosa, non rispettando la verità dei fatti accaduti. Ora più che mai, visti i momenti di crisi generalizza all’interno di una società multietnica, in ogni angolo della città c’è gente che chiede l’elemosina ed in questo marasma qualcuno ha veramente fame. In questa campagna pro-mensa e pro-posti letto vorremmo essere in prima linea, perché aiutare il prossimo in difficoltà è già una nostra priorità, ma la vita è molto più difficile che facile. Mi risulta che in altre città, anche vicinissime a noi, ci sono delle realtà molto efficienti per arginare questi problemi, ma a Pordenone il problema non si pone. Io non credo che l’assistenzialismo curi o risolva il disagio, ma dando dei supporti di prima necessità non si aiuta solamente chi è in difficoltà ma, se mensa popolare e posti letto vengono strutturati nel giusto modo, a giovarne è la comunità cittadina intera. Spero che questo scritto abbia un ritorno sul fronte del “fare qualcosa per”. Noi dell’associazione i Ragazzi della Panchina diamo già qualche aiuto a chi ne ha bisogno grazie al supporto del Comune, ma chiaramente i nostri mezzi sono limitati. Auspico perciò per il futuro maggior impegno ed interesse da parte di chi di dovere.
L'Obiettivo LDP apre una nuova rubrica dal nome “L’Obiettivo”. Questo spazio vuole essere la voce dei lettori di LDP riportando fatti, proposte, ingiustizie e varie situazioni di quotidiana attualità, per dare notizia a tutti nella dovuta trasparenza. In questa associazione si lavora quotidianamente con il dolore del vivere e a tratti si rischia di diventare faziosi. Mai si potrebbe incorrere in un errore più grave di quello di giustificare. L’intento di questa rubrica è raccogliere le “voci altre”, che vivono la città “normalmente”e che si scontrano con normali situazioni che “obiettivamente” sono da porre in evidenza, arrabbiandosi ma soprattutto proponendo, verso il meglio. Vi invitiamo a contattarci alla nostra mail info@iragazzidellapanchina.it. Altrimenti telefonateci al numero 0434.363217 dal lunedì al venerdì dalle 14 alle 19.
Sono passati quasi trent’anni ma non è cambiato molto. Del virus Hiv, quello che causa l’Aids, si sa tutto, è stato fotografato, si sa come si replica, quali sono le vie di trasmissione, si sa quanto vive, si conoscono i danni che fa e soprattutto si sa benissimo come evitarlo e ucciderlo. Nonostante ciò l’ignoranza delle persone resta sempre tanta, ed è ancora più sconfortante quando capita con persone che lavorano nell’ambito medicosanitario. Da anni ho problemi ai denti e in tutto questo tempo ho sempre cercato di tamponare alla meglio con dei dentisti compassionevoli che cercavano di sistemare la mia bocca in modo da permettermi di masticare senza farmi spendere molti soldi. Questa volta avevo deciso di prendere in mano la situazione e di rivolgermi al meglio che offre la piazza e affrontare finalmente l’investimento necessario per trasformare la mia bocca in una Ferrari del nutrimento. Il sogno è durato poco: mi sono scontrata con i pregiudizi di sempre. Mio marito ha preso un appuntamento con un noto studio dentistico della zona rassicurandomi che la conoscenza, che lui aveva, lo portava a pensare che i sanitari dello studio fossero delle persone intelligenti e preparate. Io, titubante e alquanto ansiosa, mi sono fidata. Lui è entrato per primo, anche lui con dei lavori in bocca da fare, e ha eseguito la visita e pianificato il lavoro con il dentista, poi è arrivato il mio turno. Vista la mia agitazione, mio marito si è premurato di prendersi l’onere di avvisare il dentista. Si è sentito rispondere: “Ma sai, noi non siamo attrezzati per questo”. Naturalmente, mio marito, che ormai sa tutto sul virus, gli ha chiesto: “Ma scusi, non siete attrezzati addirittura per il virus dell’epatite, che è ben peggiore?”. La risposta del medico, a quel punto, è stata vaga: “Si…. ma… però”. “Ho capito – ha chiuso mio marito - fammi il preventivo del mio lavoro e ci risentiamo”. Mi ha raggiunta in sala d’attesa e, dal suo sguardo, ho capito tutto. Ora mi chiedo: “Questa è discriminazione o veramente non sono attrezzati questi dentisti?” La cosa mi spaventa perché ormai sappiamo che con la semplice varechina, o facendolo bollire in acqua per pochi minuti il virus si annienta. E’ nota da tempo la sua debolezza, altrimenti avrebbe fatto dei danni alquanto superiori a quelli che ci sono stati. Ma se così fosse, che i medici non sono davvero attrezzati, quanto siamo sicuri quando andiamo dal dentista? Quanti virus passano da bocca in bocca che non sono Hiv? Ciò anche considerando che non tutti sanno di essere infetti, visto che delle 4000 nuove infezioni che ci sono ogni anno in Italia il 60% vengono diagnosticate in fase conclamata della malattia in persone insospettabili che non hanno mai fatto il test? Voglio pensare che sia discriminazione e la cosa è ancora più triste, perché mi fa concludere che, mentre la tecnologia e la scienza, fanno passi da gigante e ci consegnano nelle mani prodotti e saperi sempre nuovi e innovativi, noi ancora oggi abbiamo un cervello che non è mai riuscito a fare quello scatto in avanti che ci permetterebbe di usare tutta questa conoscenza per il meglio. E finiamo, invece, inesorabilmente ad usarla nel peggiore dei modi.
Cosa dice la legge La legge 5 giugno 1990 n.135 (Piano degli interventi urgenti in materia di prevenzione e lotta all’AIids) prevede, all’art.7, che il Ministro della Sanità emani un decreto recante norme di protezione dal contagio professionale da Hiv nelle strutture sanitarie ed assistenziali pubbliche e private, cosa che il Ministero ha puntualmente fatto con l’adozione del Decreto Ministeriale 28 settembre 1990. Il Decreto detta norme precauzionali, generiche e di specie, per tutti gli operatori sanitari. Lo scopo di dette norme è proprio quello di scongiurare il possibile rischio di contagio sia del paziente da parte dell’operatore sanitario, sia di quest’ultimo da parte del paziente, partendo dalla considerazione che non è possibile individuare con certezza i pazienti affetti da virus. Si è dunque ritenuto che, laddove l’applicazione delle cautele sia scrupolosa e costante, il rischio di trasmissione venga ad essere ridotto al minimo. Con ciò il Ministero ha voluto affermare il principio che la professionalità nell’espletamento delle funzioni di operatore sanitario costituisce una garanzia sufficiente a tutela della salute collettiva, risiedendo la pericolosità non già nella professione in sé, ma semmai nei comportamenti dei singoli che deviano dall’osservanza delle norme precauzionali. Tutto ciò premesso le motivazioni che, nel caso in questione, il professionista avrebbe adotto a giustificazione del suo diniego a prestare cure odontoiatriche risultano di difficile comprensione. Un diniego per di più che non tiene conto del fatto che un paziente sieropositivo che dichiara apertamente il proprio status sierologico sta compiendo un atto di responsabilità nei confronti dell’operatore sanitario. (Avv. Matteo Schwarz NPS Italia)
INVIATI NEL MONDO
THAILANDIA, ESPLOSIONE DEI SENSI Sapori e colori decisi come il sole tropicale e le piogge monsoniche di Elisa Cozzarini Caldo umido, spezie e smog. La prima sensazione è di soffocamento, poi inizio a respirare. Apro gli occhi. Eccomi, sono dall’altra parte del mondo, in una guest house nei dintorni dell’affollatissima Khao San road. Bangkok ha dieci milioni di abitanti, con grattacieli altissimi, fino agli 88 piani del Baiyoke. Sotto corrono la metropolitana, lo skytrain (una sorta di tram sopraelevato), un traffico incredibile di taxi dipinti di rosa, giallo, verde fluorescente, auto, tuk tuk (tricicli a motore che hanno preso il posto degli antichi risciò), motorini e carretti dei venditori ambulanti, sempre in viaggio, giorno e notte, da e verso le decine di mercati della città. Diluvia. Cade pioggia calda. Passa tutto in mezz’ora, il tempo di una doccia che rinfresca solo per un istante. Il cielo dopo il tramonto è blu elettrico. Quello di Khao San road è il quartiere dei viaggiatori zaino in spalla, un rettangolo di bar, pub, ristoranti, una libreria con libri per farang (che vuol dire straniero, bianco, in lingua thai), strade invase da baracchini di vestiti, cibo, CD, ciabatte, cinture, merce di tutti i tipi, roba da far girare la testa alla più incallita amante dello shopping. Scrive il giornalista americano Lawrence Osborne: «I baracchini di Bangkok sono i migliori del pianeta. Quello che si consuma sui marciapiedi è come un pasto nomade nel bel mezzo di un urbanesimo occidentale
sedentario, partorito dalle menti di architetti punitivi e incapaci di immaginare che le persone, là sotto, potrebbero anche volersi divertire». Divertimento, piacere, vacanza. Nel cuore di questo rettangolo di estremo Occidente, circondati da un muro bianco alto circa tre metri, sorgono un monastero, templi buddisti, i wat dalla classica forma appuntita e una palestra di muay thai, la boxe tailandese. I monaci indossano tuniche arancione o zafferano, sono rasati, hanno gli stessi occhi delle statue del Buddha. Il loro sguardo sa vedere oltre questo mondo, oltre i farang che si sbronzano o si fanno fare massaggi più o meno equivoci, in una costante ricerca del piacere.
Qualche giorno dopo, alla ricerca di una Thailandia più vera e quotidiana, sbarco a Same San, un villaggio di pescatori a sud di Pattaya, a casa della mamma di un’amica thailandese che vive a Udine da vent’anni. Samrit, la madre, è piccola e cicciotella, capelli corti quasi tutti ancora neri e qualche ruga. Deve avere almeno settant’anni, ma non li dimostra. Il benvenuto è spoglio di tutti i cerimoniali che si seguono in Italia. A me sembra strano, anche perché Samrit non guarda nemmeno il piccolo regalo che ho portato. Ma per lei sarebbe segno di maleducazione se lo aprisse davanti a me. Di fronte c’è una gigantesca macchina tritaghiaccio che serve tutti i pescatori del porto. L’odore di pesce invade ogni cosa a Same San. Di fronte alla macchina tritaghiaccio siede un uomo con gli stivali di gomma, che passa tutto il giorno seduto su un motorino, in attesa che arrivi qualcuno a comprare il ghiaccio. Dalla strada salgono suoni di continuo: il clacson di un furgone che fa da autobus e avverte così del suo passaggio; il rumore dei motorini scassati con sidecar di legno per trasportare uomini, pesci o ghiaccio; la trombetta di un omino che vende frittelle piccanti con pollo e verdure. Suoni e rumori di una vita in continuo movimento. A Same San sono l’unica turista. La gente mi indica dicendo: “Farang! Farang!”. Tutti sanno chi sono. La mattina al porto è pieno di pescherecci colorati, con file di lampadine, specifici per la pesca dei calamari. Ci lavorano solo immigrati da Birmania, Laos, Cambogia, Bangladesh. I thailandesi non fanno questo mestiere. Un gruppo di pescatori scarica il pescato da una barca per caricarlo su un camion. È un lavoro massacrante, sotto il sole che brucia, dopo una notte in mare aperto. Prendo la macchina fotografica e li fotografo. Mi sento fuoriluogo, ma lo faccio lo
stesso, perché voglio documentare quello che vedo. Un ragazzo mi sorride e mi chiede da dove vengo. Si mette in posa per farsi fotografare, sfoderando un sorriso smagliante. Viene dal Bangladesh e forse con quel lavoro riesce a sfamare tutta la famiglia nel suo paese. La cucina thailandese mi fa impazzire. La mia amica è una cuoca fantastica, che ha saputo adattare i piatti della sua cultura ai gusti degli italiani, trovando una mediazione che accarezza i palati. Samrit invece cucina thailandese al cento per cento. Piccante da piangere. Prepara un pentolone di granchi giganti che lei stessa sguscia a uno a uno a mani nude, passandomeli e osservando con soddisfazione quanto mangio di gusto. In questo è uguale alle mamme e nonne di tutto il mondo. L’insalata di mango, peperoncino, cipolla, calamari, guarnita di arachidi, accosta magicamente dolce, piccante e salato. Sono gusti forti e decisi, come il sole tropicale e le piogge monsoniche, senza mezze misure. Ride Samrit, sentendomi ripetere i nomi dei piatti in lingua thai, con una pronuncia evidentemente improbabile. Le sembro buffa, chissà cosa sto dicendo. Rido anch’io, perché io stessa mi sento buffa e perché pure lei, ridendo, fa ridere. Arriva il giorno della partenza. Samrit è triste. Io e lei un po’ riusciamo a capirci, a gesti e con qualche parola imparata a fatica. - Quando torni in Tailandia, questa è la tua casa.
Ecuador e Galapagos zaino in spalla "Le mille facce di un'America Latina che mi ha stregato" di Piero Della Putta Eccomi qui, a raccontare, a provarci, a riassumere, a condensare un viaggio. Uno dei miei viaggi, che sono orami malattie; più che viaggi, sono bisogni inestinguibili. Uno bello, un viaggio bello, Ecuador e Galapagos. Uno lontano, pur se non è la lontananza che fa il viaggio, ma a renderlo indimenticabile sono le sensazioni, le esperienze, gli odori, le facce. Quelle cose che restano in mente, che non si dimenticano, che non si confondono. Eccomi, dunque, a parlare di Ecuador, di un viaggio affrontato da solo, per scelta e solo parzialmente per costrizione. Di un viaggio facile - ogni viaggio lo è - e iniziato a Guayaquil. Che dell'Ecuador è la città più popolosa. Che è la faccia più brutta di quest'America Latina che mi ha stregato. Definitivamente. Ci abitano le donne più belle del mondo, dicono. Di certo c'è un traffico assurdo, ci sono mille motivi per scappare. E infatti scappo, pur sapendo che avrei potuto tirarci fuori qualcosa di buono, a guardare bene. Ma un viaggio è anche scegliere, e io ho scelto. Montañita, para-
diso ecuadoriano del surf, dove arrivo dopo ore di corriere, di sbalzi, di salti, di improperi. “Go fame de coriera”, era solito dire un carissimo amico, gran viaggiatore: la fame la sazio, perso tra freak, tra alcool e tra fumi più o meno leciti, tra i mille colori di un oceano troppo in vendita per i miei gusti, che mi impongono un altro addio, un'altra tappa, casuale come sono solito fare. Puerto Lopez e i suoi pochi turisti, Puerto Lopez e don Giuseppe, che lasciata un'Italia che gli sta stretta assiste chi diventa madre a tredici anni, e vede il suo uomo scappare inevitabilmente poco dopo. Non ci sono certezze, a Puerto Lopez, non c'è lavoro, in sostanza non c'è futuro: a saperlo, cosa sia il futuro... Non lo so io, a quarant'anni suonati da un pezzo; non lo sa il ragazzino che mi affianca nel bus per Bahia e quindi per Atacames, le mie successive destinazioni. Ha un gallo in mano, unico suo avere. Non se ne separa, non si separa dalla sua fierezza, mal celando un'invidia che, in fondo, è anche mia. Perché se non si vede una abitazione per chilometri, se la strada è fatta di asfalto che si alterna impietosamente alle buche, e non viceversa, in lui c'è qualcosa che mi manca. Pur se ho tutto. Non gioco – per esempio - sulla strada, non ci giocano i miei nipoti. E non è cosa da poco, anche se ad Atacames le cose cambiano. Ci sono i gringos, ci sono gli italiani, c'è Giulio, che di Atacames è uno dei tanti,
piccoli, mafiosi. C'è una serata da passare, c'è del whisky da bere, c'è una proposta, quella di diventare l'assessore italiano di Atacames, da rifiutare. C'è l'America Latina da respirare, e io respiro, arrivando poi di notte a Quito, la capitale. Immensa, buia, affascinante anche al primo sguardo: ci tornerò, alleggerito, dopo qualche giorno. Alleggerito, perché a Quito se ne va la mia macchina fotografica. Con una settimana di immagini, di ricordi, portandosi via anche la fiducia in chi mi ha gabbato. Se ne va mentre aiuto a sistemare la valigia di un vecchio, se ne va mentre sto per arrivare da Chiara, che da Pordenone è finita a Ibarra, sul confine, ad aiu-
Mitad del mundo, con gente che ti muore a fianco, e non è un eufemismo. Con - a Quito - il volcan Pichincha, che scalo a dorso di mulo, pur con un salto di oltre mille metri a fianco. Morirò, lo so, prima o poi. Morirò facendo queste cose. E sarò felice. Voglio morire a Mindo, paradiso del birdwatching, voglio morire a Baños, voglio morire sul volcan
tare i rifugiati colombiani, quelli che scappano dalla Farc, dal governo, da qualcosa o qualcuno. Poco male, ciò che si può comperare, in fondo, non vale nulla. Lo so, e mi distraggo, mentre la mia ospite mi spiega cosa sia Ibarra, mi fa visitare la città e i dintorni. Mi fa scoprire Otavalo e il suo fantastico e coloratissimo mercato, mi fa scoprire Cotacachi, mi fa scoprire l'Inti Raymi, la festa del solstizio. Mi porta su un treno magico, che collegherebbe, teoricamente, la città alla costa. Ma che funziona solo in parte, pur regalandoti panorami mozzafiato. Mi abbraccia, Chiara, quando me ne torno a Quito, e mi abbraccia Jairo, il suo compagno. Saremo destinati a rivederci, qualche anno dopo, a Pordenone, dove queste due splendide persone tutt'ora vivono. Passando a fianco di mille vulcani, torno a Quito, con le sue chiese, patrimonio dell'umanità, con i suoi scorci magici, con la
Cotopaxi, che sfioro appena, voglio morire guardando il Cimborazo. Voglio morire mi ripeto felice, dopo aver visto el nariz del diablo ed essere arrivato prima a Cuenca, quindi alle Galapagos. Che sono le ultime tappe di un viaggio che vi consiglio. Come consiglio le Galapagos, che non sono anche il nome di una pizzeria. O meglio, forse lo saranno. Sono tutto, e il suo opposto. Sono storia, sono cenere, sono natura, sono Lonesome George, sono mille tartarughe, sono squali, delfini, pinguini. Sono sula, fragate, leoni marini. Sono le cave dei pionieri, sono pietre vulcaniche e lapilli, sono la splendida Isla Isabela, sono una barca che salta, salta, salta, che mi devasta e mi fa capire cosa sia il terrore. Sono cactus e snorkeing, pellicani e mangrovie, uccelli sconosciuti e sono Darwin. Dal quale siamo partiti tutti, e al quale torneremo. Eccolo, il mio Ecuador. Indimenticabile.
PANKAKULTURA
"È la curiosità per ciò che è diverso che ci tiene insieme" La straordinaria esperienza di una band che sa fondere artisti e generi musicali di tutto il mondo. L'Orchestra di Piazza Vittorio a Pordenone di Guerrino Faggiani L’Orchestra di Piazza Vittorio il 3 febbraio scorso ha fatto tappa a Pordenone per presentare al teatro Giuseppe Verdi “Flauto Magico”, un’opera liberamente tratta dallo Zauberflöte di W.A.Mozart. L’orchestra aveva in programma anche un incontro con il pubblico a cui noi non potevamo mancare. A rappresentarla sul palco in quell’occasione c’erano Pino Pecorelli e Leandro Piccioni, rispettivamente contrabbassista e arrangiatore dell’orchestra sin dal primo minuto. Non era presente, invece, Mario Tronco ideatore della “creatura” assieme ad Agostino Ferrente, in quanto colpito da un grave incidente fisico che lo terrà a lungo lontano dalle scene. L’Orchestra di Piazza Vittorio è nata nel 2002 in seno all’associazione Apollo 11, una associazione culturale composta da cittadini del rione Esquilino, a Roma, dove gli italiani sono
in minoranza etnica. Mario assieme ad alcuni musicisti italiani che già conosceva grazie ai suoi trascorsi musicali (una su tutte l’esperienza fatta con gli Avion Travel) si è ad un certo punto chiesto quanti musicisti ci fossero in queste comunità di immigrati che popolavano Piazza Vittorio Emanuele II, punto nevralgico del quartiere, e se sarebbe stato possibile farli suonare assieme. “Noi del gruppo originario di musicisti, amici tutti di nazionalità italiana che a tutt’oggi continuiamo a suonare nell’Orchestra - racconta uno di loro, Pino Pecorelli - abbiamo deciso di assecondare questa sua pazzia, pur nella convinzione che in qualche modo sarebbe stato un fallimento. Sembrava, all'epoca, una operazione mastodontica mettere assieme venti musicisti con strumenti e culture dalle provenienze più disparate”.
“È stato difficile trovare l’armonia?”, chiediamo a questo punto. “All’inizio di confusione ce n’era moltissima, le componenti musicali erano le più disparate, c’era chi proveniva dalla musica classica dal rock dal jazz, c’era chi veniva dalla strada – risponde Pecorelli - Quindi mondi molto distanti tra loro. Ma devo dire che è stato proprio il caos libero verso cui Mario ci ha spinto che ha risvegliato in tutti noi la curiosità di conoscere altra musica. Questa voglia di conoscenza e curiosità è stata la base ed ancora lo è del nostro percorso quotidiano”.
“La Genesi – dice il musicista – risale ad alcuni anni fa, quando Daniele Abbado direttore artistico dei teatri di Reggio Emilia, ha proposto a Mario di realizzare con l’orchestra qualcosa di attinente al Flauto Magico. Mario mi ha subito contattato per girarmi questa, chiamiamola pure, proposta indecente. Ma con grande entusiasmo ci siamo messi subito ad identificare quello che del Flauto Magico potesse stare nelle corde di questa orchestra e siamo partiti. È stato un work in progress, non ci siamo tenuti solo ad una traduzione ma l’abbiamo modellata e via via aggiunto materiale fino al risultato finale” .
Con Leandro Piccioni che da sempre collabora con l’orchestra come arrangiatore, vogliamo invece ripercorrere l’origine di un idea, così importante, come quella del “Flauto Magico”.
Ed ora una domanda a tutti e due, dalla nascita dell’orchestra guardando alla sua storia c’è qualcosa che non rifareste? Dopo alcune occhiate tra di loro
no sezionati nelle sale dell’Istituto. Sarà invece proprio questa sorta di empatia post-mortem (non preoccupatevi, niente di soprannaturale, non siamo dalle parti di Voyager), unita ad una forza di volontà che cresce piano lungo le pagine del romanzo e porta Alice ad affermare le sue ragioni e le sue capacità professionali, a farla giungere (contro tutto e tutti, già l’avete intuito) a ricostruire la verità sulla sfortunata vicenda di Giulia Valenti, tormentata ragazza dell’alta borghesia capitolina, all’apparenza vittima di un’overdose accidentale. Mentre si batte per giungere al fondo di questa triste storia, Alice si tira dietro un sacco di guai: rischia il posto, la carriera e forse la sua salute psichica, ma riesce pure a trovare una sorta di anima-gemella (ricordate, però: in amor vince chi
fugge), che per colmo di sfortuna è il figlio giramondo del Supremo, il suo capo. Romanzo scorrevole, che si legge velocemente e piacevolmente senza impegnare, “L’allieva” riesce soprattutto come ritratto di quello strano microcosmo sempre in penombra rappresentato dalle facoltà di Medicina, con certe argute e fresche descrizioni di personaggi quasi archetipici che chiunque abbia bazzicato un po’ l’ecosistema universitario riconoscerà immediatamente in suoi compagni o superiori. Per il resto, delle due linee narrative principali la trama gialla ha una sua coerenza e un suo sviluppo compiuto (pur se non ci sono invenzioni degne di nota), soprattutto nel dipanarsi del rapporto tra Alice e Bianca, la sorella di Giulia; più fiacca e prevedibile, invece, la componente “rosa” : a parere
RUBRICA LIBRI
L'Allieva, giallo tinto di rosa E' l'opera prima della messinese Gazzola recensione di Andrea Russo Nell’ambito del circuito degli editori di medio calibro, il “fenomeno” degli ultimi mesi, sapientemente sospinto da un battage pubblicitario crescente e mirato (compresi l’anticipazione di un intero capitolo sul periodico “Il libraio” e un video di presentazione online in stile trailer cinematografico), è un’opera prima leggera e ben scritta, un giallo tinto (molto) di rosa di una giovane dottoressa messinese, Alessia Gazzola. Ambientato a Roma, “L’Allieva”
(Longanesi, 2011) racconta le vicende di una specializzanda in Medicina legale, Alice Allevi, ragazza goffa e insicura che, pur amando alla follia la carriera intrapresa, mal sopporta l’ambiente altamente competitivo dove si è trovata a lavorare: un ambiente in cui, in sovrappiù, la si considera forse inadeguata, a causa della sua incapacità a mantenere il dovuto distacco nei confronti dei veri “strumenti del mestiere,” i cadaveri che ogni giorno vengo-
PANKAROCK ed un tacito consenso finale Pino Pecorelli è partito: “C’è stato un periodo in cui si era corteggiati da enti e personaggi politici italiani che si offrivano di reperire fondi e finanziamenti per rendere stabile l’orchestra. Ma questo ci ha fatto solo perdere molto tempo e risorse perché delle milioni di promesse che ci sono state fatte nessuna è arrivata in porto, anzi è stato deleterio perché ha gettato una strana luce sull’orchestra. Alcuni politici venivano dove noi si suonava e si atteggiavano come se l’orchestra fosse loro, e c’era chi diceva che si andava avanti grazie all’aiuto di qualcuno di loro. Mario dice che i problemi per l’orchestra sono iniziati quando ha cominciato a chiamare per nome i politici. Sento di poter rispondere a nome di tutti dicendo che dare del tu ad un politico sicuramente è una cosa che non rifaremo più”.
di chi scrive, è alle volte po’ stucchevole, ma del resto chi scrive è maschio, cinico e pedante, quindi non dateci eccessivo peso.
Weather Report, quando il jazz incontrò il rock Grazie a genialità e creatività negli anni '70 inventarono il genere "fusion" di Caludio Pasin ““Abituali vincitori di concorsi jazz, i Weather Report sono considerati il gruppo più creativo della fusione tra jazz e rock, guadagnando accoliti e un seguito considerevole in entrambi i mercati” . Così recitava, alla voce Weather Report, l’Enciclopedia del rock di Nick Logan e Bob Woffinden scritta nel 1976, vero punto di riferimento per chi era interessato ad approfondire (internet non esisteva ancora) il panorama rock. La ricerca era partita dopo aver ascoltato il loro “sweetnighter”, stupendo Lp dai suoni magici, eleganti e dagli effetti elettronici nuovi e accattivanti che lo rendevano sofisticato e piacevole, Renzo, un amico con qualche anno in più che studiava la tromba me lo fece ascoltare a casa sua elogiando le loro capacità tecniche e soprattutto sottolineando la portata innovativa delle loro scelte musicali. Fu uno di quegli innamoramenti “musicali” che durano una vita e il gruppo, che era agli esordi ( “sweetnighter” era il loro terzo lavoro inciso nel 1973), non mi deluse mai incidendo un gran numero di dischi sempre di ottimo livello e promuovendo uno stile, un “sound” che andava oltre il rock ed il jazz, fondendoli assieme con un criterio compositivo ed estetico assolutamente godibile. Erano anni di grande fermento sociale e il rock, mai così prolifico e creativo, era la naturale colonna sonora per milioni di giovani in tutto l’occidente. Ma anche il mondo del jazz, soffocato dalle culture dominanti in patria e seguito da una minoranza (a volte anche snob) qui da noi, stava dando voce alla rabbia di chi per anni non aveva avuto la giusta considerazione. A fornire un nuovo “campo da gioco” è l’elettronica, vera novità degli anni Settanta che mette a disposizione spazi assolutamente vergini e sconfinati per entrambi gli stili. Con l’indole della rock star il mitico Miles Davis, nel 1969, dopo aver amplificato e distorto la sua tromba, “partorisce” un disco epocale “Bitches Brew” considerato un manifesto programmatico del jazz/rock, al suo fianco il nucleo centrale dei
futuri Weather Report, Joe Zawinul e Wayne Shorter. Malgrado il successo, anche tra i più giovani, la prospettiva da cui parte questa nuova alchimia musicale è da jazz classico ma ci penseranno nel 1971 i Weather Report, appena formatisi, a ripensare totalmente il modo di fare jazz e ad introdurre un’ulteriore innovazione, che è racchiusa nelle parole dello stesso Miroslav Vitous che fu protagonista con Joseph Zawinul e Wayne Shorter del nucleo iniziale dei Weather Report : “Perseguire la conversazione diretta e la parità tra gli strumenti, lasciandosi alle spalle la schiavitù rappresentata dai vecchi ruoli della sezione ritmica”. In altre parole, l’improvvisazione e la narrazione vengono affidate contemporaneamente al gruppo piuttosto che ai singoli musicisti. Jazzisti sperimentali, quindi, che ben presto verranno universalmente riconosciuti come capiscuola di questo genere denominato “fusion” che racchiude influenze etniche, jazz, rock, soul e funky il tutto fuso, appunto, con genialità e grande tecnica. Tale e tanta è la qualità profusa nella intera discografia come pure l’ elevata statura artistica e le storie personali dei fondatori e di tutti i musicisti che negli anni ruotarono attorno al gruppo che meriterebbe di essere approfondita oltre i limiti di una rivista. Due note sui fondatori: Joe Zawinul (tastiere). Nasce a Vienna nel 1932, a 7 anni è già iscritto al conservatorio della stessa città dove studia pianoforte, violino e clarinetto. A 12 anni scopre il jazz e negli anni Cinquanta ne frequenta gli ambienti nella sua città. Nel 1958, grazie ad una borsa di studio, si trasferisce in America per studiare al famoso Berklee College di Boston e dopo essersi guadagnato il rispetto dei più grandi, vedi Miles Davis, mette in piedi il progetto Weather Report. Sciolto il gruppo, dopo 15 anni, Zawinul segue le sue inclinazioni per le musiche etniche e la sperimentazione elettronica continuando a confezionare ottimi lavori sino alla sua morte avvenuta sempre a Vienna nel
2007 dopo solo un mese dall’ultimo concerto tenuto in Ungheria. Aveva 75 anni. Wayne Shorter (sassofono). Nasce nel New Jersey nel 1933. Di origine afro-cubana inizia a suonare il sassofono a 16 anni. Non solo un ottimo strumentista ma anche fine compositore e capace organizzatore di suoni. Ancora in attività vanta collaborazioni con i maggiori esponenti del jazz e pure del rock quali: Joni Mitchell, Carlos Santana, Rolling Stones, Herbie Hancock, Miles Davis e altri ancora. Miroslav Vitous (basso e contrabbasso). Nasce a Praga nel 1947, studia violino già a 6 anni, il pianoforte a 10 e il contrabbasso a 14. Dopo aver frequentato il conservatorio di Praga ottiene una borsa di studio per la Berklee College Of Music di Boston. Ideatore e membro iniziale dei Weather Report lascia presto il famoso gruppo per dissensi con Joe Zawinul. Nel 1988 torna in Europa dove si dedica alla composizione. Jaco Pastorius (basso elettrico). Nasce in Pennsylvania nel 1951. Una vera star del rock , considerato uno dei più grandi bassisti di tutti i tempi, ha rivoluzionato il modo di suonare il suo strumento “trattandolo” come una chitarra (strumento solista) e non più solo come supporto ritmico, un vero virtuoso. Fu con Jaco Pasturius che il gruppo raggiunse la maggiore notorietà. Trova la morte per mano di un buttafuori di un bar malfamato di Fort Lauderdale in Florida nel 1987. Se ne va così il più innovativo ed influente bassista di tutti i tempi, uno che a 36 anni era già una leggenda vivente.
NONSOLOSPORT
Mauro Baron, una vita dedicata alla canoa Da allenatore per il club cordenonese a Ct della squadra azzurra di Guerrimo Faggiani Dalle prime incerte pagaiate in Meduna a commissario tecnico della Nazionale canoa slalom ce n’è di strada, ma è proprio quella che ha fatto Mauro Baron, cordenonese doc di 53 anni, fondatore nel 1976 del gruppo sportivo Centro Attività Motorie, un gruppo senza fini agonistici. Varie le discipline in cui si cimentava, su tutte lo sci, il nuoto e la canoa. Poi come Baron stesso dice “Visto che i ragazzi si mostravano predispo-
sti abbiamo pensato di far fare loro qualche gara e i risultati sono stati incoraggianti”. Da li è partita un’avventura che ancora non è finita. Sempre senza perdere di vista il senso del gioco, Baron e compagni hanno insegnato ai ragazzi lo spirito del sacrificio e la mentalità dell’agonismo sano. “Insegnamo ai giovani - dice il Ct - ad usare i propri punti di forza e la caparbietà per superare gli ostacoli. E a saperli distinguere
Grazie maestro! Il ricordo più bello fu l'oro europeo 2001 quando Mauro entrò in acqua per abbracciarmi di Daniele Molmenti Tante persone dicono che sono un talento, che qualunque sport avessi scelto sarei stato un campione. Io penso che ci sono voluti anni di scuola e un buon maestro per costruire corpo e mente dell’atleta che sono diventato. Quel buon maestro io l’ho avuto e si chiama Mauro Baron.Mi è stato chiesto di parlare di Mauro dal punto di vista umano e sportivo e ora che sto battendo sulla tastiera del computer sto trovando la cosa più difficile del previsto. Potrei raccontare quel-
lo che mi ha insegnato, ma son segreti e trucchi che tengo per me. Potrei scrivere cosa è stato e cosa è ora per me, ma sarebbero pensieri personali che non posso condividere. E allora cosa dire di Mauro? Potrei cominciare descrivendo cosa ha fatto per me: ho conosciuto Mauro quindici anni fa, lui era il maestro di canoa che allenava i forti del club e mi dava qualche consiglio per pagaiare dritto. Da ragazzo ho passato estati intere con i ragazzi del club, Mauro ci ha portato a
dalle distrazioni, perché le distrazioni sono più pericolose, fanno perdere di vista i propri sogni magari per rincorrere quelli degli altri”. Migliaia i ragazzi che sono passati alla “scuola di Baron” nel corso degli anni. Anche le scuole stesse si sono affacciate al mondo della canoa attraverso il gruppo sportivo cordenonese.“In particolare - continua Baron - collaboriamo con le scuole elementari di Borgo Meduna e l’istituto Vendramini di Pordenone. Ma anche tanti punti verdi estivi ci chiedono di fare delle giornate di canoa”. Il gruppo procede spedito dunque e anche i grandi risultati sportivi non mancano. “Abbiamo sfornato dei bei campioncini nelle varie specialità - sottolinea il ct - solamente nel settore canoa abbiamo qualcosa come oltre cento titoli italiani, due partecipazioni olimpiche, abbiamo titoli mondiali europei e medaglie d’oro in coppa del mondo”. E’ stato proprio in seguito a questi risultati che la Federazione si è interessata all’allenatore di Cordenons.“Già in passato c’erano state delle pressioni perché io entrassi nello staff tecnico della nazionale, però in quegli anni non ero ancora in condizioni di accettare, ho preferito aspettare
che la famiglia si sistemasse. Anzi le devo un grazie per aver condiviso questa scelta, perché costa a tutti. Almeno 200 giorni all’anno sono lontano da casa, adesso ad esempio sono appena tornato dall’Australia, tra poco parto per la Grecia sempre con la squadra nazionale, e poi a Londra a visionare ed organizzare la location per le olimpiadi del 2012”. Grandi preparativi per le olimpiadi, ma è proprio una gara diversa dalle altre? “E si, a Pechino 2008 che è stata la mia prima olimpiade, mi son reso conto che è una gara completamente diversa, e poi in Cina è stato unico. Per darti un’idea, la canoa ad un mondiale ha tre quattromila spettatori, a Pechino c’erano 120.000 persone”. Impressionante! Ma, dopo tanti traguardi, oggi un sogno nel cassetto Mauro Baron ce l’ha? “Vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi e dedicarla a mia moglie”. Bene, e allora appuntamento a Londra 2012, quando avremo qualcuno in più per cui tifare. Grazie Mauro.
pagaiare in tutta Italia, a nuotare, a fare immersioni e tuffi da ponti su laghi gelidi o nei caldi mari del sud. Mi ha insegnato a sciare, i fondamenti dell’allenamento in palestra e soprattutto mi ha insegnato a stare al mondo: dormire in tenda, cucinare alla buona, adattarsi a quello che si trova, aggiustare quello che di solito si butta via e ricavare sempre il massimo anche quando sembra tutto perduto. Sono ricordi emozionanti ed una scuola di vita che ho compreso molto tempo dopo: Mauro ci faceva giocare e intanto imparavo i rudimenti dello sport e cominciavo a costruire il fisico da atleta. E’ stato tutto “step by step” e tutta la conoscenza sportiva necessaria per vincere è arrivata al momento di mostrarlo e infatti abbiamo vinto. La vittoria più bella con Mauro è certamente il titolo Europeo nel 2001 quando ero junior e il ricordo di Mauro in acqua fino alla vita per abbracciarmi rimarrà sempre nel cuore. E’ passato un decennio da quella medaglia e a vederci ora ci sia-
mo tutti e due evoluti: io sono un professionista e corro per il Gruppo Sportivo Forestale, e Mauro è il direttore tecnico della squadra nazionale. Continuiamo a lavorare per lo stesso obiettivo, vincere, ma con responsabilità diverse. Mauro è stato per me l’ esempio del personaggio, forse “testardo”, che non scende mai a compromessi. Lui sa cosa deve essere fatto e se vuoi vincere deve essere fatto così, punto. Mauro crede nel metodo e nel lavoro duro e dal Noncello ha portato molti atleti ad indossare la maglia azzurra e domare le acque del mondo. Mi ha insegnato che a volte bisogna rischiare per le proprie convinzioni, migliorarsi dopo le sconfitte e credere fino in fondo che davvero volere è potere! Mauro mi ha dato tutto questo e dopo esser arrivato sul tetto del mondo, lo ringrazio e ne condivido i meriti. Da lui ho appreso gli ideali sportivi per cui ogni giorno mi alleno e che alla fine della gara fanno la differenza tra l’atleta ed il campione.
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009
—————————————— Pino Roveredo "La melodia del corvo" è il suo ultimo regalo letterario. Capriole in salita, Caracreatura: Attenti alle rose, nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. Con l'associazione ha da poco aviato un laboratorio di scrittura creativa coraggioso
—————————————— Gino Dain Un medico un giorno gli ha detto: se continui cosi non duri più di sei mesi. Era il 1980. Da allora per scaramanzia non è cambiato di una virgola. É la dimostrazione vivente che la medicina non è una scienza esatta
—————————————— Guerrino Faggiani Rinasce nel maggio 2006 all’ospedale di Udine. Da lì in poi è blogger (www.iragazzidellapanchina.it/ gueriblog ), attore, ciclista.. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche davanti al computer. “Cosa? Tagliare?!? Piuttosto non sta neanche metterlo..”
—————————————— Claudio Pasin In porta a calciobalilla è praticamente insuperabile: le sfide con Andrea contro Gigi e Diego sono impresse nella memoria del calcetto della sede. Con Andrea condivide anche un mito, Zulù, per tutti e due esempio inimitabile.
—————————————— Elisa Cozzarini È riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. Insomma, Freelance Amstrong
—————————————— Andrea Picco Su Fb alla voce orientamento religioso ha scritto integralista juventino. Ora stiamo pensando di scrivere a "chi l'ha visto?" per sapere che fine a fatto sia lui che la Juve. Ogni tanto ci arriva una mail che conferma la sua esistenza, come le poche vittorie della Juve.
Direttore Responsabile Milena Bidinost Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Andrea Picco, Franca Merlo, Claudia Pasin, Ada Moznich, Cap. Fulvio Comuzzi, Sten. Monia Savioli, Gino Dain, Elisa Cozzarini, Dario Castellarin, Damiano Di Perno, Franco de Marchi, Stefano Venuto, Alberto Danesin, Giuseppe Micco, Piero Della Putta, Andrea Russo, Alessandra Ciani, Andrea Zanchetta. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto mpaginazione Ada Moznich Stampa La Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN
—————————————— Micaela Harej Una giovane donna passionale con due occhioni che incantano, ma non fatevi ingannare dal suo sguardo: vi darà filo da torcere. Da poco nominata fatografa ufficiale della redazione Ldp, oltre alle foto la sua passione è cambiare colore ai capelli.
—————————————— Andrea Russo A vederlo sembra un talebano ma se lo si conosce si scopre che è più dolce di uno cioccolatino. Laureato da poco in medici con 110 e lode sotto gli occhi increduli degli amici, ma il suo cuore batte per la letteratura e ha implorato la redazione per poter scrivere su LDP. Intabto si sfoga su: www.paleozotico.it
—————————————— Alberto Danesin Gentile, cortese ed educato come pochi. Inizialmente ci ha deliziato con delle marmellate biologiche, come ogni buon salutista. Ora si presenta in redazione con vassoi di paste alla crema e frittelle. Che voglia attentare alla nostra salute?
—————————————— Giuseppe Micco Bepi: secco come un terno, Monsieur Le Bepo è il lottologo della compagnia. Dategli la vostra data di nascita e ne farà una fonte di reddito. Una volta all'anno da Monsieur diventa Mister: dei leoni indomabili, i Kullander United.
—————————————— Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. perchè si è ripresa la vita (www. milenabidinost.blogspot.com) e oggi, come un trionfo, il direttore " vive, parla, ride, si arrabbia, commuove, annoia, risveglia…"
Fotografie A cura della redazione Foto copertina Micaela Harej Foto pagina 3 Cap. Fulvio Camuzzi Foto pagina 4 Kr4gin-Flickr Foto pagina 4 e 7 da sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto pagina 8 Sara Rocutto Foto pagina 14 Elisa Cozzarini Foto pagina 15 Piero della Putta Foto pagina 18 Mauro baron Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it
—————————————— Franca Merlo O Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia. ilcannocchiale.it
Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo della Fondazazione CRUP attraverso il Comune di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Tel. 0434 363217 email: info@iragazzidellapanchina.it www.iragazzidellapanchina.it Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00
—————————————— Stefano Venuto Il nuovo operatore che si è insediato a febbraio, ha ricevuto il battesimo da "Zio Franco" che appena visto lo ha insultato e lui gli ha risposto: "un attimo che appoggio la borsa e poi ne parliamo" da quella volta sono amiconi.
—————————————— Dario Castellarin È il re del gadget. Volete la penna che piange? il portachiavi che ride? Lui li ha. E dietro la scorza da duro del Roadhouse ha anche una grande sensibilità
—————————————— Franco De Marchi Frate mancato, tra i fondatori degli RdP, poeta cambusiere per sua stessa ammissione si è lavato qualche volta il viso con gli occhiali da sole su. Oltre agli occhiali c'è una cosa da cui è inseparabile: la... polemica
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