APPROFONDIMENTO
Cannabis
Libertá di Parola 1/2015 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
In Italia l'uso terapeutico della Cannabis (marijuana) è consentito, ma di fatto impraticabile; è vietato invece quello ricreativo. Eppure la percentuale di consumo sfiora il 30 %, con i giovani ad essere i più esposti. Ldp dedica un focus sull'argomento, perché di fronte ad un cambiamento epocale del fenomeno legato allo spaccio e al consumo di tali sostanze, innescato anche dal web, è d'obbligo interrogarsi. a pagina 9
CODICE A S-BARRE
I detenuti si raccontano a pagina 4
RUBRICHE
Andrea Appi de I Papu e gli interrogativi di un padre a pagina 7
INVIATI NEL MONDO
Santiago de Compostela, il cammino della condivisione con sé stessi e con gli altri a pagina 13
Il penitenziario e la libertà La vita in carcere dei detenuti raccontata ai ragazzi di Francesca Cappella Il penitenziario è una realtà tanto lontana dalla nostra, a cui non pensiamo mai. Non ci chiediamo cosa voglia dire trascorrere ore, giorni, anni chiusi all’interno di mura, perdendo la cognizione del tempo. Partendo da questo assunto, alcune classi del Liceo Grigoletti di Pordenone hanno aderito ad un progetto volto a sensibilizzare i ragazzi sull’argomento carcere, a renderli consapevoli del funzionamento di strutture del genere e a dare loro la possibilità di ascoltare la testimonianza di persone per le quali la prigione significa vita quotidiana. Il primo dei due incontri
parte del progetto in questione, vedeva come protagonisti il direttore e due poliziotti del carcere di Pordenone e un’educatrice dell’associazione I Ragazzi della Panchina. Questi, oltre ad aver reso più chiari l’organizzazione ed il loro ruolo all’interno della struttura, hanno esposto ai ragazzi una delle attività che in carcere vengono proposte ai detenuti: la scrittura creativa, uno sfogo per tante persone che trascorrono le proprie giornate in compagnia solo di se stesse. Raccogliendo testimonianze dirette hanno fatto capire come, seppur detenuti, questi uomini restino persone ed in
quanto tali sono detentori di diritti ed hanno il desiderio di comunicare al mondo lì fuori le proprie idee. Quello che è stato prodotto durante l’attività di scrittura è stato poi raccolto in un libro carico di pensieri, emozioni, sentimenti, fruibile da chiunque. I ragazzi di 4ªD hanno anche avuto modo di parlare con un ex detenuto: è stato l’incontro più coinvolgente e toccante, in quanto ha permesso agli ascoltatori di catapultarsi all’interno della sua vita, dei suoi ricordi e dei suoi pensieri. Seppur ormai libero, la vita di questo ragazzo non è più quella di prima perché per la società egli ha l'etichetta di “delinquente”. Lui stesso ha ammesso che la prigione l’ha salvato, l’ha portato a riflettere sulle proprie azioni, ma resta un’esperienza che lascia cicatrici di cui è difficile liberarsi. Perché, come dice Victor Hugo, «La liberazione non è la libertà, si esce dal carcere, ma non dalla condanna».
PANKAKULTURA
Sepulveda a Dedica, l'incontro con i giovani a pagina 14
NON SOLO SPORT
"Anche noi a cavallo", l'associazione che da 28 anni va in aiuto alla disabilità a pag. 16
Il tema
«Il carcere, epilogo di un disagio» Il messaggio dell’incontro con gli studenti: ogni detenuto ha una storia alle spalle di Alberto Quagliotto, direttore carcere di Pordenone Non è la prima volta che incontro gli studenti delle scuole superiori e devo confessare, senza remore, che non sempre sul tema del carcere - molto probabilmente per l'impeto e la vigoria dell'età (beati loro!) - è facile interloquire con la necessaria pacatezza: si passa dall'esternazione di posizioni forcaiole alla manifestazione di epidermiche emozioni “buoniste”. Questa volta invece mi sono sentito a mio agio,
poiché l'incontro era stato ben preparato dagli insegnanti. E ciò si è visto dalle domande, che sono state risparmiate dal peso della banalità, che spesso le opprime in queste circostanze: «Come passano il tempo? Hanno la Tv ? Hanno la sveglia ?» ed altre amenità. In quei verbi coniugati alla terza persona plurale sento sempre una, più o meno consapevole, volontà di tracciare un confine: di qua noi, di là voi, senza
possibilità che le vicende della vita possano portare ad appartenere a quel mondo, che si sente così alieno e, tutto sommato, bollato come “meritato”. Spero che si sia sviluppata negli studenti la consapevolezza di quanto possa essere complessa la vicenda umana; ed all'interno di questa consapevolezza a quali conseguenze possa portare la sottovalutazione dell'importanza della legalità nella vita di ogni giorno.
Da giovani si tende a sminuire tutto e ad autoassolvere ogni comportamento, ma purtroppo il meccanismo sociale non è così indulgente. Il carcere è innanzitutto esecuzione penale, ovverosia l'ultimo passaggio che parte dalla condotta materiale e passa attraverso un tribunale. Non è pertanto importante che i ragazzi sappiano “cosa si fa” in carcere, ma che esso è il punto di arrivo di condotte a loro volta espressione di un disagio o di una visione distorta della vita, che nessuna opera di rieducazione può sanare. Quando si entra qui la porta si chiude alle spalle del condannato, ma parimenti scende sul tempo passato una cortina che segna una cesura drammatica nella storia personale, che non è paragonabile a nes-
Uomini con il desiderio di una famiglia e di un lavoro Per capire ascoltate le loro parole e non giudicateli per le loro azioni di Silvia Ersetti Il 28 gennaio siamo stati partecipi di un innovativo progetto scolastico, in cui ci è stato mostrato il funzionamento del penitenziario cittadino, oltre che il lato umano di un gruppo di carcerati. La conferenza è stata tenuta dal direttore del carcere di Pordenone, assieme ad un’educatrice dell’associazione “I Ragazzi della Panchina” e a due poliziotti operanti all’interno della struttura. Ci sono stati forniti diversi punti di vista, così che potessimo paragonare tra loro le diverse risposte alle domande, sia nell’ambito pratico, che in quello più emozionale. Dopo la presentazione del loro ruolo e delle loro mansioni all’interno del penitenziario è stato mostrato un video per raccontare le finalità del corso di scrittura, realizzato sotto forma di intervista, così che ognuno dei carcerati avesse l’opportunità di esprimere singolarmente la propria opinione sul progetto e raccontare i propri pensieri. La maggior parte
di loro, nel video e nel libro “Non giudicare” (che raccoglie tutti gli scritti dei detenuti che hanno partecipato al corso n.d.r.), si è detta sorpresa di aver provato tante emozioni positive nel mettere nero su bianco i propri pensieri e ricordi; quasi tutti hanno trovato in quell’ora di scrittura un’occasione per evadere dalla quotidianità, avendo a disposizione qualcosa in cui impegnarsi e per cui provare anche soddisfazione. Hanno poi raccontato i loro progetti futuri, sia in ambito relazionale che lavorativo, della propria famiglia o del desiderio di costruirne una, di corsi o certificazioni che vogliono ottenere e dell’idea di trasferirsi all’estero o rimanere in Italia. Un dettaglio significativo è stato l’accorgimento di non parlare della colpa da loro commessa in quanto carcerati: gli ideatori del progetto hanno voluto che ascoltassimo le loro parole, non che giudicassimo le loro azioni.
UNO COME NOI...
L’incontro con Rafael: «Le sostanze sono come un tornado nella tua vita» di Lisa Lunardelli Venerdì 6 febbraio, noi ragazzi della IV P del Liceo scientifico M. Grigoletti di Pordenone abbiamo accolto in classe Rafael, un uomo "qualsiasi" all'apparenza. Si è recato in classe, accompagnato dalla nostra professoressa e da Cristina, operatrice in carcere dell'associazione I Ragazzi della Panchina di Pordenone, e, appena sistemati, ha iniziato il suo racconto. Rafael si è presentato e, forse imbarazza-
to e un po' nervoso, ha iniziato a raccontarci di lui, della sua adolescenza e di ciò che ha passato. E' stata una storia molto intrigante, ci ha resi partecipi nel racconto della sua vita un po' frastornata nelle scelte, forse troppo importanti per un ragazzo che all'epoca aveva la nostra età. Ci siamo sentiti parte del suo racconto, poiché la realtà che ha vissuto Rafael non è poi così lontana dalle nostre. I pensieri
suna altra vicenda. Quando si rialza quella cortina non si può ripartire con un semplice “heri dicebamus”, cioè con un semplice “dove eravamo rimasti?”. Si riparte da un uomo comunque cambiato. Spero che questo sia il messaggio passato nella mente di quei ragazzi, che personalmente ringrazio (mi è stato chiesto di accennare anche ad una mia sensazione.... lo faccio volentieri), poiché è per me sempre emozionante vedermi puntati addosso gli occhi dei giovani nel mentre mi rivolgo loro per una “lezione”. Finalmente capisco cosa provavano per noi i “bravi” professori: l'amore per la condivisione di un sapere con persone generose (il giovane è sempre generoso), che è una delle forme più alte di filantropia. che sono passate per la testa a quel diciannovenne, passano spesso anche per le nostre teste, un "lascio tutto" piuttosto che un "voglio stravolgere la mia vita"; esperienze nuove, soldi "facili", avere più coraggio degli altri e farsi vedere invincibili, buttarsi a capofitto in cose più grandi di noi, dalle quali sembra facile uscirne, cosa che in realtà non è. Tutto ciò Rafael lo ha espresso con la consapevolezza di aver sbagliato, di aver "bruciato" molti anni della sua vita ed è forse questo che ci è rimasto più impresso. Inoltre, ci ha fatto capire che la droga è come un tornado, prima ti coinvolge in tutto e per tutto e, infine, spazza via ciò che avevi costruito. Ci ha fatto capire quanto il carcere possa essere costruttivo, se fatto con testa, quanto lì dentro ti trovi davvero a fare i conti con la tua coscienza e, infine, quanto nei momenti di difficoltà rimane solamente chi ti vuole davvero bene. Abbiamo apprezzato molto la sua testimonianza, il coraggio che ha avuto nel raccontarsi davanti a dei giovani, il cercare di rispondere nel modo più esaustivo possibile alle nostre domande. Grazie a Rafael, a Cristina e alla professoressa Nardo, al direttore della casa circondariale di Pordenone e al comandante della polizia penitenziaria, per averci dato la possibilità di conoscere meglio questa realtà. Questi momenti ci hanno permesso di avere delle idee più consapevoli e meno sterotipate su un mondo così difficile e complesso.
Scrittori in attesa di scarcerazione «Il carcere deve avere una funzione rieducativa: prima di essere detenuti, sono persone» di Roberto Andrei Daneliuc Mercoledì 28 gennaio alcune classi quarte del Liceo M. Grigoletti hanno partecipato ad un progetto scolastico nel quale hanno potuto ascoltare le testimonianze di più rappresentanti della Casa Circondariale di Pordenone. Durante l’incontro è stato mostrato a noi studenti un filmato in cui sono stati intervistati diversi uomini che nel carcere hanno deciso di aderire ad un progetto di scrittura (Codice a S-barre n.d.r): chi perchè già conosceva quest'arte e sapeva di amarla, chi per
"evadere" un po' dalla routine e chi per provare qualcosa di nuovo, che poi ha scoperto essere piacevolmente utile. Costretti alla reclusione in carcere, per azioni che, durante l'incontro, sono state omesse in modo da evitare giudizi morali, queste persone attraverso la scrittura hanno mostrato il lato che spesso si dimentica quando ci si riferisce a loro: quello umano. Hanno deciso di mettersi in gioco, rievocare emozioni forti, spesso dolorose, mettendole nero su bianco, condivi-
dendole con i compagni di scrittura e, successivamente, con tutti noi in una raccolta di varie testimonianze intitolata "Non giudicare!! Pensieri di uomini non liberi". Reintegrarsi, questo è il passo fondamentale che accomuna tutti loro. Il carcere, proprio per questo motivo, deve avere una funzione rieducativa e deve saper tirare fuori da ogni singolo uomo le caratteristiche che gli permetteranno di diventare amico e non nemico della società. Il progetto ha riscosso molto successo poiché ha trattato un argomento lontano da noi, ma sicuramente più vicino di quanto potessimo immaginare. Molti detenuti hanno subito un cambiamento radicale nella loro vita dopo una singola decisione sbagliata presa in un momento difficile, ma anche se a volte si sbaglia è importante preservare la persona e i suoi sentimenti, perché senza di essi si resta semplici carcerati, dimenticando di essere prima di tutto uomini!
RACCONTARSI AI GIOVANI «Temevo il giudizio, ma mi sbagliavo» di Rafael Non avrei mai immaginato che un giorno avrei potuto aiutare gli altri, ma soprattutto me stesso, raccontando e rivivendo certi periodi della mia vita. Questo probabilmente perché avevo una percezione sbagliata di cosa fossi realmente e, non avendo mai fatto niente del genere, ero molto sospettoso e impaurito a riguardo. Ho dovuto raccontare la mia storia. Mi sono passate per la mente tante cose che potevano essere interessanti oppure d’aiuto, ma anche tante paure, tra le quali il timore di essere etichettato, accostato ad un mondo che non voglio che mi appartenga più e di non essere compreso. Raccontarsi può anche sembrare una cosa da niente, ma vi assicuro che non è facile parlare dei fatti propri a degli sconosciuti, specialmente quando questi hanno a che fare con un periodo molto difficile della vita. Dall'altro canto me ne sono capitate così tante in quest'ultimo periodo che ci può anche stare. Prima di andare all’incontro con gli studenti mi sono chie-
sto cosa potessi trasmettere a loro e cosa avrebbero pensato di me. Io più o meno sapevo cosa dire, ma per loro ero uno qualsiasi che era venuto lì per raccontare la sua vita. Questo quanto poteva essere interessante per loro? All'inizio ho cercato di spiegare com'era la mia vita quando avevo la loro stessa età e tutta la serie di scelte che ho fatto e che mi hanno portato a lasciare il mio paese ancora molto giovane. Fino ad un certo punto del racconto sembrava tutto molto normale e lineare, finché non arrivammo alla fatidica parentesi della mia carcerazione e di tutte ragioni che mi hanno portato a vivere questa esperienza, che è stata molto complicata e che mi ha lasciato un segno profondo, dalla quale ho tratto però alcuni insegnamenti. Con i ragazzi non avevo tante pretese, volevo solo far notare loro che a volte basta veramente poco per fare degenerare le cose, che ciò che hai ottenuto con tanto sudore e sacrificio può svanire, e ho cercato anche di raccontare che può succede-
re a chiunque, nessuno di noi è immune davanti alle tentazioni, ma poi inevitabilmente bisogna fare i conti con le conseguenze. Rivivere quei momenti attraverso i racconti senza dubbio mi è servito a rafforzare le mie convinzioni di oggi. La più forte tra queste è quella che non esistono motivazioni abbastanza valide che mi portino a far soffrire di nuovo le persone a cui voglio bene. I ragazzi da parte loro sono stati molto simpatici e comprensivi anche nelle domande che mi hanno posto: erano curiosi, come lo ero io alla loro età. Mi sono sentito molto vicino a loro e spero che abbiano sentito lo stesso verso di me. Quest’esperienza con i ragazzi è stata molto gratificante per me, perché mi ha fatto scoprire una nuova forma di scambio a me sconosciuta, che avviene naturalmente tramite una semplice conversazione. Sono rimasto colpito positivamente da questa nuova sensazione! Un grazie speciale a tutti coloro che hanno reso possibile questa esperienza.
Prosegue il lavoro della redazione del nostro giornale nata all'interno della Casa circondariale di Pordenone. “Codice a s-barre” è uno spazio interamente gestito dai suoi detenuti.
Lettera aperta ad un amico «Ho davanti a me orizzonti infiniti, non temere amico mio, non mollerò» di Fulvio Caro amico mio, nonostante sia difficile per me esternare sentimenti e stati d’animo, mi ritrovo qui, quasi costretto da uno slancio interiore, a raccontarti di me. Il tempo qui sembra fermarsi e di conseguenza c’è molto spazio per la riflessione. E’ come se il flusso dei miei pensieri scorresse impetuoso per la stanza, rievocando situazioni già vissute, ma forse non comprese totalmente. Per questo motivo credo di essere in un momento di transizione, dove la vecchia parte di me non vuole ancora fare posto a quella nuova, che prepotentemente cerca di stabilirsi.
Tu mi conosci molto bene e sai che non permetterò mai alle difficoltà e ai problemi di sommergermi. In merito a ciò che ho fatto, di certo non era mia intenzione fare del male a nessuno. Francamente, vorrei tanto poter tornare indietro nel tempo e magari accettare quella proposta di lavoro in Germania, che ricevetti a suo tempo, ti ricordi? In realtà non ha senso ora fare questo tipo di discorsi, ma ci penso costantemente! Tuttavia non mi mancano affatto la speranza e il desiderio di dirigere la mia vita verso un binario differente rispetto a quelli fin’ora percorsi. Confesso che l’i-
Quel lavoro che nobilita il detenuto «Dopo essere stato in carcere, ora avrò la possibilità di mettermi alla prova» di Massimo Qualche tempo fa ho guardato un’interessante puntata di Report (la trasmissione televisiva di Rai Tre condotta da Milena Gabanelli n.d.r). Il tema trattato era il lavoro dei detenuti nelle sue varie forme e applicazioni, quindi, il lavoro interno al carcere ed il lavoro come pena alternativa al carcere. Il lavoro come alternativa al carcere è stato solo uno degli argo-
menti: si riferiva ad esempi legati a nuovi reati come essere sorpresi alla guida in stato di ebbrezza. Tramite esempi ed interviste i giornalisti hanno illustrato come queste pene alternative, previste dal nostro ordinamento giuridico, hanno simultaneamente risolto il problema del sovraffollamento delle carceri e ridotto la recidività dei reati, in molti paesi eu-
dea di dover guardare il mondo esterno attraverso delle sbarre per del tempo ancora i m p re c i s a t o non mi piace, ma un giorno uscirò e sarò di nuovo libero. Qui, gran parte del tempo, lo passo a progettare il futuro che mi attende, in modi che non avevo mai osato minimamente intravedere. Sento che nella mia profondità alberga qualcosa che è la consapevolezza di essere al mondo per uno scopo preciso: fare dell’esperienza. Non importa di che genere di esperienza si tratti, qualsiasi evento è da considerarsi opportuno. Gli orizzonti sembrano infiniti. Ora si tratta solo
di capire quali mete voglio raggiungere. In conclusione, amico mio, ti auguro un futuro prosperoso intriso di esperienze vincenti per te e la tua famiglia. Con affetto. Il tuo amico.
ropei. Paesi come Austria, Germania, Danimarca ed Irlanda, usando il lavoro al fine di ricollocare e riavvicinare i detenuti alla vita quotidiana, hanno ridotto cosi di tanto la popolazione carceraria, che sono arrivati ad affittare le carceri o a chiuderle. In Italia, invece, sembra che ci siano degli interessi a mantenere questo stato di sovraffollamento e di lentezza giudiziaria perché forse torna utile a qualcuno. Probabilmente, per alcuni, il carcere è un business, più carcerati vuol dire più personale, più appalti, più risorse, ma anche tribunali intasati. Applicando gli strumenti giuridici esistenti si potrebbe, invece, fare molto per questi problemi. Le pene alternative vengono applicate di frequente per reati minori, ma se venissero usate maggiormente si potrebbe evitare che molte persone stiano in carcere per pene ridicole di mesi o qualche anno, per poi uscire e trovarsi ancora in
difficoltà, tornando quindi a delinquere. Purtroppo la mia esperienza, mi ha dimostrato l’inutilità della misura carceraria. Sono stato parcheggiato in carcere senza che nulla venisse fatto per cambiare le condizioni che mi hanno portato qui. Il risultato è che, quando sono uscito, tutto era uguale a prima e sono rientrato per aver commesso lo stesso reato. Credo che i giudici abbiano capito queste problematiche e abbiano deciso di aiutarmi attraverso una misura nuova: la messa alla prova. Quest’ultima dura minimo 6 mesi e si può avere una sola volta. Attraverso la messa alla prova viene progettato un percorso di reinserimento nella società, una società di cui noi detenuti non facciamo parte. Mi verrà assegnato un lavoro socialmente utile e delle attività di sostegno e, se questo periodo verrà superato senza difficoltà, il reato verrà cancellato e potrò tornare alla vita di tutti i giorni.
La sua morte segnò una svolta nella mia vita Un amore durato un’estate, la perdita della persona amata e una felicità che non è più tornata di Moreno Sai cosa? E’ proprio quando credi di essere tu il padrone di te stesso e della tua vita che ti succedono cose che avevi visto succedere solo agli altri. A me è capitato a trent’anni suonati, dopo aver vissuto un’infanzia discreta con pochi alti e numerosi bassi, che mi hanno fatto capire che ciò di cui hai bisogno non te lo re-
gala nessuno, ma te lo devi conquistare da solo. Ho avuto un’adolescenza e una gioventù tranquilla, direi quasi euforica per certi versi. Tanto lavoro, ma anche tanti soldi, tanti capricci, tante donne, ma nessuna storia importante. Fino al giorno in cui incontrai una bellissima ragazza di nome Uhta. Era una giovane
tedesca che lavorava in Italia, a Lignano, per imparare l’italiano. Ci siamo conosciuti nella pizzeria dove lei lavorava come cameriera. Ci siamo subito piaciuti; è bastato uno sguardo seguito da un sorriso. Era giugno, ci siamo frequentati per tutta quella favola estate. Io lavoravo nel raddoppio ferroviario di Moggio Udinese e la sera, a fine turno, prendevo la mia Alfa Romeo e andavo a Lignano per passare qualche ora con lei, poi sabato e domenica restavo li. Con lei amavo molto giocare, ridere e fare lunghe passeggiate sulla spiaggia la sera tardi; io e lei soli con la luna che ci indicava la strada. Il sogno finì ad ottobre. Lei rientrò in Germania per continuare gli studi. Mi scrisse una sola lettera, io le risposi immediatamente, ma la seconda lettera mi fu inviata dal padre, che mi comunicava che Uhta purtroppo era morta in un incidente d’auto al rientro dall’università. Per
me fu un grave colpo, non riuscivo a darmi pace. Per fortuna l’età giovane e la voglia di andare avanti mi fecero da spalla, mi aiutarono ad andare avanti e anche a dimenticare per quanto possibile. Diventai spregiudicato sia con la mia vita, sia con le ragazze che incontravo: ero arrabbiato con il mondo e con me stesso. Andai avanti errando per un po’ di tempo, forse un paio d’anni. Il ricordo di lei e del tempo trascorso assieme non mi voleva abbandonare o forse ero io che non volevo dimenticare. Si, forse l’ostacolo maggiore ero proprio io. Me ne rendo conto proprio ora che sto scrivendo. Ricordare nuovamente quel periodo mi fa ancora un po’ male. E’ come aver cercato di cancellare il suo nome dal muretto dove era stato inciso e dove ci incontravamo e che non potrò mai dimenticare. Solo il tempo ha questa risposta. Il fatto è che ora non ne ho più molto.
della verità stessa. Duro e in salita è il percorso che porta alla sua conoscenza e spesso essa è evidente agli occhi di tutti, ma pochi la riconoscono, anzi peggio ancora spesso la disconoscono. In una società come la nostra, con i mezzi a disposizione,
è possibile creare qualsiasi artificio, arrivando anche a vedere o sentire quello che in realtà non c’è. Niente è mai quello che sembra e non bisognerebbe mai fermarsi a credere a quello che in quel momento ci sembra di vedere.
Niente nella realtà è mai come appare «In una società come la nostra è possibile creare qualsiasi artificio a discapito della vera verità» di Leonardo La verità rappresenta la descrizione di un evento per come si è sviluppato. Ad essa, così intesa, manca però la dimensione emotiva (che è anch’essa verità) in cui questo evento si è svolto, la quale spesso non viene documentata. Chi, inoltre, è preposto a valutare l’evento riesce davvero a capire come si sono svolti i fatti? Come fa ad arrivare a delle conclusioni, se la posizione da cui osserva è soltanto uno dei tanti punti di vista da cui la verità si può guardare? Se vi fosse un’opportunità di osservazione tridimensionale o totale di un fatto,
forse neanche in quel modo si potrebbe vedere al cento per cento la verità. Se poi si deve affrontare l’evento attingendo dalla memoria o da altri punti di vista, siamo certi di arrivare alla verità o, piuttosto, di ottenere l’effetto contrario, quindi allontanarci da essa? Per quanto mi riguarda arrivare a dare una risposta a questa domanda non è facile, anche alla luce di esperienze passate in cui, per giungere ad una verità, il più delle volte il “garante” di quest’ultima ha perseguito teorie personali e fuorvianti per i propri fini e per conseguire un vantaggio a scapito
Il mio incontro con I Ragazzi «Arrivai in sede nove mesi fa e ora mi sento uno di loro» di Moreno T. Il mio ingresso nell’associazione “I Ragazzi della Panchina” non è stato deciso da me, ma mi è stato proposto da una educatrice del Ser.T. per capire se, stando con la gente che già conosco per precedenti problemi di abuso di sostanze, riesco a proseguire il mio percorso di uscita dalla dipendenza. L’ingresso non è stato difficile e traumatico perché sono stato accompagnato, mi è stato fatto capire come avrei potuto andare in contro agli altri. Non mi hanno portato lì e abbandonato, ma, prima di inserirmi completamente nel gruppo, mi hanno spiegato tutti i ruoli che avevano le persone che ne facevano parte. Lì ho potuto fare la conoscenza di tutti Come il fermo immagine di un film, un urlo straziante fermò il tempo per alcuni secondi, che sembrarono interminabili. Era la fine di giugno 1995, anno in cui l’Aids reclamava impietoso le sue anime, ed erano ormai tre mesi che tutte le sere, dopo il lavoro, andavo al Cro di Aviano per le infusioni di “Foscarnet”, per cercare di fermare un virus che mi stava devastando la retina dell’occhio destro. In quel periodo il reparto era molto popolato non solo dai pazienti, ma anche dai familiari che rimanevano il più possibile accanto ai loro cari, ed era inevitabile fare amicizia. Tutte le sere, dal lunedì al venerdì, per un’ora circa stavo in reparto e vedevo e ascoltavo tutto quello che succedeva. Ho visto morire amici, conoscenti e sconosciuti spesso arrivati da lontano per una ultima speranza. Quella sera arrivai di corsa, avevo fatto tardi al lavoro, e, arrivata in reparto, aprii la porta: nello stesso momento un paziente, che non conoscevo, stava per uscire tirandosi dietro il palo con le flebo. Ci guardammo negli occhi e in quel preciso istante sentimmo l’urlo. Rimanemmo bloccati a cavallo della porta, senza riuscire a muoverci per alcuni secondi che sembrarono giorni, guardandoci negli occhi senza fiatare. Il momento fu interrotto
gli operatori che compongono l’organico per cosi farmi un’idea del ruolo che ricopre ognuno di loro. La prima settimana è stata dedicata alla scoperta delle persone con le quali mi relazionavo e mi sono reso subito conto che i punti di vista rispetto al problema della dipendenza erano molto diversi: c’era chi usava la terapia in modo corretto, perché realmente crede nel percorso che sta facendo; chi avrebbe voluto farlo, ma ancora non ce la faceva e chi non ci provava nemmeno. E’ stata dedicata a capire il modo giusto per relazionarmi con ogni singola persona e potevo vedere che non era tanto difficile perché alla fine puoi scegliere di
parlare con chi vuoi e con chi ti va più a genio, ovvero con persone con cui si può creare un certo tipo di dialogo. Sono inoltre rimasto colpito dalla disponibilità degli operatori, anche se io partivo avvantaggiato perché già ne conoscevo uno, la mia amica Ada, quindi ero sicuro di poter fare tutte le domande che volevo anche sul mio andamento, in altre parole se avevo scelto la strada giusta per entrare nel gruppo e se stavo raggiungendo il mio obbiettivo. Ebbene, da allora sono passati nove mesi, quindi, posso dire che i punti che mi ero prefissato, a giudizio della responsabile della sede, li ho raggiunti. In conclusione posso dire che sono migliorato in tanti aspetti. Ho imparato a confrontarmi con gli altri, mettendomi in gioco: ho avuto l’opportunità di po-
Quell’urlo disperato che non ho mai dimenticato «Successe a giugno di vent’anni fa, anni in cui l’Aids mieteva ovunque le sue vittime» di Ada Moznich da una donna, al sesto mese di gravidanza, la quale, piangendo, ci passò attraverso, rompendo l’incantesimo. Riprendemmo le nostre strade. Quella donna era la sorella di un paziente e non voleva accettare ciò che ormai era inevitabile. Dopo quell’urlo, il suo, io passai la mia ora in silenzio in infermeria senza muovermi, osservando le infermiere che in modo frenetico sbrigavano le faccende del momento. Quella morte
mi sconvolse nonostante non conoscessi il paziente. Nelle lunghe serate al Cro avevo però stretto amicizia con la madre. La sera dopo tornai in ospedale ancora sconvolta e dissi alle infermiere che non potevo continuare così e, assieme a loro e ai medici, decidemmo che avrei potuto fare le infusioni a casa, aiutata da una amica infermiera. Cominciai così l’automedicazione. Il lunedì andavo in reparto: le infermiere mi siste-
ter sbagliare, ma con la mia forza di volontà ho imparato a dire di “no” . Ora mi ritrovo anche a dare dei consigli a ragazzi più giovani di me, che continuano a rovinarsi la vita. Alla fine continuo ad andare avanti con il mio progetto e ogni giorno che passa mi sento più forte, anche se ogni tanto ho degli alti e bassi per colpa di una malattia chiamata Hiv. La terapia mi creava non pochi problemi adesso risolti. Comunque sono fiero di me stesso e continuerò ad andare avanti per questa strada, con la speranza di uscire definitivamente da questo problema della tossicodipendenza. Non ho fretta le cose vanno fatte con calma, non per niente si dice che ogni cosa a suo tempo ragazzi, questo è solo un capitolo della mia storia. Al prossimo numero di Ldp.
mavano l’ago per le infusioni al braccio, che tenevo fino al venerdì per poi toglierlo da sola, lo scatolo con tutto il necessario, bocce di acqua fisiologica, farmaco, eparina, canule, siringhe e disinfettante per la settimana di terapia. In poco tempo imparai a fare da sola, diluire il farmaco, preparare la canula ed eparinare il catetere una volta finito l’infusione. Lara, la mia amica, smise così di venire ad aiutarmi. Continuai in questo modo per altri novi mesi, con alcune pause di qualche settimana per far riposare il fisico dall’intossicazione del farmaco, finché anche per me il ricovero divenne inevitabile. Oggi, periodicamente mi fermo ancora a pensare a tutto quello che ho passato in quegli anni terribili, alla mia sofferenza fisica, alla sofferenza delle persone che inevitabilmente da un giorno all’altro non c’erano più, all’angoscia quotidiana dell’incertezza del domani, e mi chiedo se sarei ancora capace di sopportare nuovamente tutto quanto. Poi però ripenso a ciò che disse Terzani: «Ogni cosa ha un lato positivo, anche quelle negative ci insegnano qualcosa, solo per il fatto che ci fanno pensare». Ho imparato a farmi sorprendere dalla vita, mai dare niente per scontato, non demordere mai e lottare con tutte le forze che si hanno.
Domenica di piccoli gesti d’amore
che conta è il presente, ed in questo presente io vorrei uscire da questa mia sedazione fisica e mentale dalla vita quotidiana; vorrei amare di più ed allo stesso tempo non esserci, vorrei attraversare l’arcobaleno tra la vita e la vita eterna, ma lasciando un segno, una piccola scia luminosa perché qualcuno si ricordi di me; vorrei che qualcuno, guardando le stelle, pensasse che tra i tanti milioni di puntini luminosi, uno sono io. Io nel mio viaggio introspettivo non riesco a ritrovare la mia anima, non riesco a pensare che l’arcobaleno mi porterebbe all’immensità e che forse ritroverei la persona che mi
è mancata troppo presto e di cui il mio cuore piange la mancanza. Il mio cuore piange, ma mi consola il fatto di aver dato qualcosa a questi ragazzi, le mie attenzioni, delle carezze sincere, parole affettuose, gesti che diamo per scontati però attraverso i quali passa l’amore per l’altro. In quella giornata mi sono sentita come uno sciame di lucciole in una sera di agosto, le vedi un attimo e poi non più, ma sai che ci sono, io per questi ragazzi ci sono. Il padre di Antero, uno dei ragazzi succitati, vedovo, così descrive i suoi sentimenti: «La costante è l’amore, amore paziente e presente, amore sacrificato ma pieno di soddisfazioni, calmo e vivace come la fiamma appena accesa, e speranza e costanza nel tempo, un amore paterno e per il materno che non c’è più, dove conta solo il fatto che lui, Antero, c’è ed è con te, che quando gli dai la buonanotte lo copri di baci, quasi voli dalla grande gioia per aver fatto qualcosa di meraviglioso e grande, da lui trai tanta voglia di vivere, di andare avanti, serenamente, a volte felice». Antero ha anche un nomignolo, “Masurin”.
dere se questa religione gli piace o no. Vabbè; praticamente gli dò da mangiare un piatto di pasta al pomodoro e poi gli chiedo se gli piace. E se risponde di sì? Mangia sempre e solo pasta al pomodoro? Non è il caso che mi chieda perché mio figlio DEVE avere una religione? La scelta della pasta al pomodoro la capisco. DEVE mangiare. Ma una religione? Perchè mai DOVREBBE averla? Mica muore uno, senza religione. DOVER aderire ad una religione (e non a un'altra) prima di sentirne il bisogno è
come darsi una risposta prima di essersi posti una domanda. Ci sono! Anticipo angosce e dubbi che avrà da adulto, dandogli gli strumenti per affrontarli. Mhmmm, mi sembra 'n'altra cagata... E perché non dargli anche gli strumenti della laicità? Per par condicio dovrei fargli frequentare anche la casa del popolo, casa pound, gli anarchici, le convention di forza italia e quelle della lega. Dovrebbe passare la vita a provare di tutto, per poi decidere, alla fine delle prove libere, quale vita scegliere. No. E' chiaro che non è così che funziona. Forse dovrei prendermi le mie responsabilità di genitore, di educatore e dargli l'imprinting, segno chiaro e preciso delle mie scelte, come faccio per il cibo, la lingua, la morale... Beh magari non la mia stessa morale perché... meglio un'altra, ecco... Cazzo, che casino... Nel frattempo che ore si son fatte? Le nove meno venti. Cazz'... la partita! No, quella è domani, meno male. Ommerda! Ma se la partita è domani... oggi è sabato! E' sabato!!! Fanculo, anche per oggi sono salvo
Una giornata trascorsa con ragazzi speciali capaci di dare un senso a ciò che fai di Onorina Eravamo in tanti, quella domenica di sole a Vivaro, in un clima di allegria in mezzo a tanto verde di fronte ad un laghetto dove avremo poi pescato le trote. Tanti genitori, e tanti ragazzi, non persone portatrici di handicap, ma solo tanti ragazzi simpatici, ognuno con il loro problema e la loro peculiarità. Ragazzi che vivono una situazione diversa, che non faranno la solita vita alla quale noi siamo abituati, affannata e condizionata. Hanno bisogno di tanto, di tutto, da parte dei genitori e del personale qualificato, ma sono ragazzi che danno tanto, tanto amore, amore puro. Un amore che ritengo non
condizionato da vincoli o da tradimenti. Loro ci sono, a volte ti chiedi dove trovi la forza di andare avanti e ti rispondi che la trovi in loro, loro hanno bisogno di te e ti amano. Non dimenticherò mai la giornata passata con loro e non dimenticherò le parole del sacerdote tratte dal Vangelo, «beati gli ultimi perché saranno i primi». Disse anche: «Signore, perdonaci per non aver amato di più». È vero, al calar della sera, nel tramonto della vita, l’importante è aver amato: è questo il mio macigno, alle volte sento di non aver amato abbastanza, di non aver amato bene. Ricordare il passato non serve a nulla, quello
APRO GLI OCCHI E TI PENSO Piccole inquietudini educative di Andrea Appi Apro gli occhi e ti penso. Penso a te la domenica mattina in cui dovrei portarti a fare non so cosa, non so dove né quando. Non so neanche che ore sono. Sbircio l'orologio sul comodino. Le sette e cinquanta. Ho tempo. E se non lo portassi? Piano, non facciamoci prendere dal panico. Analizziamo scientificamente la questione: dovrei portarlo a messa. Perché, se non me ne frega niente? Vediamo; perchè con me è stato fatto così e io faccio così con lui. Per difendere valorizzare e mantenere le tradizioni, diciamo... Mhmmm, sembra un comunicato stampa... Si difende valorizza e mantiene 'na cosa se la si reputa buona e giusta. Se è 'na cazzata... Ci deve essere un motivo più razionale, condivisibile, concreto... Un motivo “giusto” per cui fare le cose, ecco. Ci sono: perché qui da noi la maggioranza fa così, per cui io, per non farlo sentire “di-
verso”, lo inserisco nel nostro normale contesto culturale e poi sarà lui a decidere, quando sarà grande, quale strada percorrere. Mhmmm... ragionamento un po' da paraculo... Per non farlo sentire “diverso” lo faccio diventare uguale agli altri? Ma che è? E la favola del brutto anatroccolo? Servita a un cazzo? Non voglio fargli fare quel che fanno tutti per paura di metterlo in difficoltà quando sarà adulto? Paura, ecco una parola che mi piace, nel senso che si avvicina al cuore del problema... Forse che... ho paura? Di cosa? Cerco di capirlo... Razionalità, ci vuole razionalità. Lo mando a messa, catechismo eccetera per... Per dargli gli strumenti per decidere quale sarà la sua religione. Mhmmm No. Tecnicamente è sbagliato. Se a messa, catechismo eccetera studiasse TUTTE le religioni potrei darmi ragione, ma ne fa solo una. Forse la risposta giusta è: per dargli gli strumenti per deci-
l'angolo della franca
La pagliuzza nell’occhio dell’altro «Colui che invoca vendetta per i crimini altrui, spesso uccide a sua volta in altri mille modi» di Franca Merlo Accendo (raramente) la televisione e sono accerchiata da esibizioni di violenza: dai telegiornali ai film, a molti programmi d’intrattenimento e di cultura, pressoché dappertutto. Isis, guerre, violenza di genere, ma anche corruzione (la violenza del denaro sulla coscienza e sulla persona), sconti di ogni tipo ai potenti, morte ai poveri diavoli anche per mano della polizia. E su tutti il grande violentatore che è la finanza. Un po’ alla volta ci assuefacciamo, fino a dimenticarci che la violenza è anche in noi, è dentro
di noi. Inquina la convivenza, avvelena i pensieri. Il “mostro” che è in noi viene continuamente risvegliato e solleticato dalla demonizzazione di altri “mostri” sempre a noi esterni, quasi per esorcizzare il male che alberga in noi e che mai siamo invitati a vedere. Quasi a sentirci fuori dal male del mondo. Ma se vediamo solo una parte della realtà, attraverso occhi altrui che ci portano fuori da noi stessi, non ci apparteniamo più e nemmeno il mondo ci appartiene più, e allora finiamo davvero per vivere su un altro piane-
ta, costruito da noi (o da altri) a nostro uso e consumo (o a loro uso e consumo). E allora può succedere che proprio colui che invoca vendetta per i crimini altrui, sia colui che in mille modi uccide a sua volta: uccide l’innocenza e spesso anche la vita con il turismo sessuale e la pedopornografia, col sostenere le ragioni di una guerra bugiarda, col consumo sfrenato che toglie risorse al resto del mondo. Anche noi gente comune, siamo diventati insicuri e finiamo per essere taglienti e crudeli con chi ci
sta vicino, non ascoltiamo le ragioni dell’altro. Poiché non si tratta del caso televisivo diventato telenovela a più puntate, sembra che il male in noi non ci sia. La televisione continua a sollecitare i giudizi superficiali e sommari della gente dell’audience, a fare spettacolo delle tragedie e noi ci sentiamo fuori da ogni coinvolgimento e responsabilità. Immersa in queste amare riflessioni, girellando per il web ho incontrato la disincantata speranza di Aldo Capitini, filoso e poeta, e ne propongo due brevi brani.
Troppe nefandezze sono oggi compiute; gli uomini sono considerati come cose; ucciderli è un rumore, un oggetto caduto... E bisogna rifarsi dal fondamento originario, dall'inizio, dal basso, dall'esistenza dei singoli proprio come esistenti, ed amarli proprio come tali, come fa la madre. Se non tutti faranno così sarà pur bene che qualcuno lo faccia: il fuoco viene sempre acceso da un punto.
Tanto dilagheranno violenza e materialismo, che ne verrà stanchezza e disgusto; e dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della decapitazione salirà l’ansia di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore, e di instaurare subito, a cominciare dal proprio animo (che è il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento che il mondo ci è estraneo se ci si deve stare senza amore, senza un’apertura infinita dell’uno verso l’altro, senza una unione di sopra a tante differenze e tanto soffrire. Questo è il varco attuale della storia.
(Aldo Capitini, 1947, p.7)
(Aldo Capitini, 1947, p.7)
«Sono solo stanca»
Ricordi della mia infanzia con la nonna di Ada Moznich La mia infanzia l’ho passata con la nonna paterna nella sua grande casa. A volte si sedeva in un piccolo sgabello, di quelli che i vecchi usavano per sedersi davanti alla stufa per sistemare il fuoco all’interno, appoggiava la tesata allo stipite della porta e chiudeva gli occhi. Un pomeriggio di questi chiamandola vedevo che non mi rispondeva, allora preoccupata mi av-
vicinai e comincia a scuoterla e a chiamarla più forte, preoccupata per la sua mancata risposta. Lei apri gli occhi e sorridendo mi disse: “sono solo stanca!”. Ripensando a lei mi rendo conto che aveva vissuto dieci vite compresa la nascita di mio padre, che avvenne alla fine di agosto durante l’ultimo taglio dell’erba in malga. Quel giorno mia nonna prese il sentiero
di montagna, era quasi alla fine della gravidanza di due gemelli, e andò da sola a tagliare il prato vicino allo stavolo che si trovava nella montagna dietro casa. Mentre tagliava l’erba si ruppero le acque, e come da accordi mandò l’avviso in paese attraverso la teleferica che usavano per trasportare i carichi di erba a valle. Dal paese partirono per raggiungerla, e al loro arrivo trovarono i due gemelli già avvolti nelle fasce come due piccole mummie
con fuori solo la testina avvolta dalle cuffiette, e lei era già tornata al suo lavoro. In qualche cassetto ho ancora quella foto, due creature avvolte dalle fasce bianche stese su una roccia piatta in mezzo alla malga. “Ada sono solo stanca”
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
Il business della cannabis e le sfide per la salute pubblica di Elisa Cozzarini La marijuana legale è l'industria più fiorente oggi negli Stati Uniti. In base a un recente rapporto diffuso dall'Huffington Post, la crescita del mercato della cannabis è stata del 74% nel 2014, passando da 1,5 miliardi di dollari nel 2013 a 2,7 lo scorso anno. Si stima che nel 2015 ci sarà un ulteriore incremento del 32%. La ricerca si è basata sulle vendite sia a scopo terapeutico, sia ricreativo, negli Stati USA dove sono consentite. Nel 2019 il mercato potrebbe valere 11 miliardi di dollari l'anno. Ecco perché il processo verso la legalizzazione corre veloce negli USA. Venendo all'Europa, la città dove ci sono più tracce di hashish e marijuana nelle acque di scarico è Novi Sad, in Serbia, dove la cannabis non è legale. Eppure la città balcanica supera addirittura la scontata Amsterdam. Terza la capitale francese, Parigi. E in Italia quali sono i numeri? La percentuale di consumo è nella media europea, con il 27,1% per hashish e marijuana. Le fasce più giovani sono quelle più soggette, in accordo sempre con i dati europei per cui l'età media del primo consumo di cannabinoidi è intorno ai 16 anni, con una netta maggioranza maschile (83%). Secondo la Relazione sulle tossicodipendenze al Parlamento del 2014, un ragazzo su quattro fuma spinelli e il consumo è in crescita. Tra gli studenti di 15-19 anni, quelli che hanno fumato cannabis negli ultimi 12 mesi sono il 23,46%. Per quanto riguarda invece la popolazione generale, il Rapporto cita i dati delle analisi delle acque reflue (di scarico) in 17 città italiane: nel 2013 risultava in aumento del 10,96% la concentrazione di cannabis, mentre
diminuiva dello 0,75% quella di cocaina. La diffusione è favorita anche dal boom di siti web che offrono sostanze o ne promuovono l'uso. L'Osservatorio europeo delle droghe e tossicodipendenze ha rilevato che i social network e le App per Smartphone giocano un ruolo sempre più rilevante sia per l'acquisto e la vendita, sia nel marketing, nella condivisione di un'esperienza o nell'opinion-making. La grande maggioranza delle App che promuovono l'uso di sostanze stupefacenti si riferiscono proprio alla cannabis, con nomi come "How to sell weed", con consigli su come produrre e vendere, oppure "Leafy App" (da leaf, che significa "foglia"), che offre un catalogo interattivo delle diverse varietà di cannabis, le loro caratteristiche e disponibilità sul mercato, compresa la possibilità di fare una ricerca del "rivenditore" più vicino grazie al GPS. Su Twitter spicca il numero di tweet e followers orientati a favore del consumo di cannabis. Per lo più si tratta di giovani uomini. La velocità con cui Internet sta trasformando il mercato delle droghe, e la necessità di stare al passo con i tempi del web per poter monitorare il fenomeno, pone una sfida epocale alle legislazioni sul tema e, più ampiamente, apre una questione sociale e di salute pubblica. Libertà di Parola, con queste pagine di approfondimento, intende portare all'attenzione un tema di grande attualità, che andrebbe affrontato a livello nazionale, nelle varie sfaccettature, dalla cannabis a uso terapeutico, che sarebbe consentita e di fatto è impraticabile, all'uso ricreativo, stigmatizzato ma in costante crescita.
Cannabis: tanti i dubbi e tanta necessità di mettersi in ascolto «La mia preoccupazione è per questi giovani che delegano ad altro la capacità di stare nella vita» di Roberta Sabbion capo Dipartimento dipendenze di Pordenone Quando la redazione di Ldp mi ha chiesto di scrivere qualcosa rispetto alla mia esperienza di clinico di fronte a soggetti che si presentano al servizio e che utilizzano cannabis, mi sembrava una cosa facile. Poi ho cominciato a pensare a chi era diretta la mia osservazione, ho cercato di pensare all’ultima persona arrivata senza cannabis. Mi sono francamente demoralizzata e il mio inconscio mi ha fatto mettere da parte l’articolo fino a dimenticarmene. La redazione , come sempre, mi ha risvegliata e ho dovuto di nuovo fare i conti con la mia quasi totale impotenza. In questi ultimi anni i giovani e i minorenni che arrivano al servizio (il Ser.T n.d.r) sono tutti utilizzatori prevalenti di cannabinoidi, con varie ulteriori sperimentazioni con altre sostanze. L’uso è quasi sempre quotidiano e talora di più volte al giorno e la costante è che nessuno ha la sensazione di fare qualcosa che non sia in perfetta sintonia con la sua vita. Quello che intendo dire è che l’utilizzo di cannabinoidi non avviene per una dipen-
denza dagli stessi, ma per il semplice fatto che sono diventati parte integrante della funzionalità quotidiana della persona, fanno parte del rito necessario della vita: mangiare, dormire, lavarsi, fumare canne, stare con la gente, fumare canne, socializzare, e di nuovo dormire. Quando parlo con i ragazzi, la descrizione del loro oggi ha come intercalare costante la canna senza un reale motivo, ma per automatismo acquisito dopo la prima sperimentazione, perché tanto una «canna fa meno male di un bicchiere di vino». Nel tentativo di documentarsi, leggendo articoli scientifici in merito alla cannabis, ci si rende conto come ci siano articoli validissimi che dicono una cosa e altri che dicono perfettamente l’opposto. In questi casi, come sempre succede, si cerca l’articolo che confermi quello che si pensa per dare ulteriore valore a ciò in cui si crede: «vedi, fa male», oppure, «vedi, non solo non fa male, ma ha anche valenza terapeutica». Alla fine, quello che mi colpisce è come l’assenza di libera scelta sia con-
Come i ragazzi iniziano a fumare «Ho 17 anni e da 5 mesi non fumo più» di Chiara Zorzi «Ho iniziato a fumare a 15 anni, con amici coetanei e più grandi che avevano del fumo (hashish). La prima volta ho fumato perché ero ad una festa e io avevo un problema al quale non volevo pensare. Adesso ho 17 anni e da 5 mesi, da quando cioè ho la morosa, non fumo più. Prima fumavo 3-4 canne il sabato con gli amici. Il 90% dei miei amici fuma. Chi fuma tanto, 10-15 canne al giorno, poi passa
più facilmente ad altro: i ragazzi che conosco io sono passati soprattutto alla cocaina». Luca, nome di fantasia, ci racconta che i ragazzi che conosce fumano tanto, più di 4-5 canne al giorno, e che lo fanno quando sono depressi o quando semplicemente ne hanno voglia perché provano piacere a farlo. Spesso però questi stessi ragazzi, come ci riferisce, portano motivazioni un po’ stupide, ad esempio la
fusa con il massimo della percezione di libertà da parte di chi usa cannabinoidi. L’ultimo ragazzo con cui mi sono confrontata mi ha detto: «Io scrivo canzoni e per scrivere ho bisogno di stimoli che la canna è in grado di darmi». Ebbene, questa è la fonte della mia demoralizzazione: una persona delega ad altro ciò che dovrebbe essere fonte della sua capacità di creare, di creare pensiero, di creare arte, di creare sogni e futuro. Come clinico, il mio pensiero non va alla legalizzazione o meno della sostanza; l’alcol e la nicotina sono legali, ma non per questo esenti da possibili complicazioni. Come clinico il mio pensiero va a giovani che hanno sostituito una parte della propria capacità di “stare” in questo mondo da lucidi e con le proprie risorse, che vanno chiaramente coltivate e nutrite spesso con difficoltà, con il “transitarci” sopra, delegando ad altro, cannabis, alcol o altre sostanze, la parte più creativa di sè, rischiando di spegnersi giorno dopo
giorno. Per chi cercava in questo articolo certezze, mi dispiace, non solo non le ha trovate, ma ha trovato una persona, di sicu-
spiegazione più frequente è che: «Io fumo perché i miei amici fumano». Alcuni fumano prima di entrare a scuola per essere più rilassati, altri dopo scuola per allentare la tensione derivante dalle lezioni. Non c’è molta differenza tra consumo nei maschi e nelle femmine. Trovare e vendere fumo è facile e molti dei ragazzi che fumano vendono agli amici. «Adesso – dice Luca - gira più fumo (hashish) che erba (marijuana) e a Pordenone trovi il fumo dai 10 euro in sù. Puoi comperare cannabinoidi ovunque, in piazza, ma anche a scuola». Quando gli chiediamo se è consapevole del rischio che corre a consumare fumo, Luca ci risponde: «Si, lo sono. In genere i ragazzi che consumano stanno abbastanza attenti, perché se ti beccano che comperi vogliono sapere chi te l’ha dato, perché
l’hai comperato, da quanto conosci la persona che te l’ha venduto e da quanto lui spaccia». Secondo te fumare fa male? «Secondo me sì – risponde - perché ti si bruciano i neuroni. Alcuni amici invece dicono che faccia bene, che non è come fumare le sigarette che ti rovinano i polmoni. Ad esempio, dicono che il fumo serve per curare il morbo di Parkinson oppure che, fumando, diventano più “intelligenti”, perché grazie ad esso amplificano le percezioni. Altri ragazzi, per contro, ammettono che non riescono a combinare (capire n.d.r.) più niente».
ro con grande esperienza, ma piena di dubbi e con la consapevolezza che sia necessario cambiare paradigma di osservazione e di ascolto per comprendere in quale direzione stanno andando le generazioni che si affacciano alla vita adulta, soprattutto senza pregiudizio alcuno e senza giudizio nell’ascolto. Insomma, ho molti dubbi e poche certezze. Perdonatemi.
La fotografia scattata dalla Questura «Fenomeno sotto controllo. Consumatori giovani, anche con famiglie per bene ma poco attente» di Milena Bidinost Pordenone anni '90 – 2015. La fotografia del territorio, cittadino e provinciale, a quasi trent'anni da quando il capoluogo scoprì il fenomeno della droga, quella pesante data dal consumo di cocaina ed eroina seguendo l'asse dello spaccio Pordenone-Padova, è profondamente mutata. Oggi a dominare è l'utilizzo di cannabinoidi, marijuana e hashish, il cui consumo è cresciuto nell'ultimo decennio, mentre l'eroina è pressoché sparita dalla circolazione, la cocaina relegata a consumatori di “nicchia”. L’ultimo anello della catena del mercato degli stupefacenti sono i giovani, già dai 14 anni. I quantitativi sequestrati ai fruitori ogni anno restano tuttavia all'interno di quelli che vengono considerati valori minimi e Pordenone, a detta della Squadra mobile della Questura cittadina (sezione narcotici), che lavora in sinergia con la Magistratura, resta
“sotto controllo”. Hanno radici oltre confine infatti le grandi cellule dello spaccio: per questo le operazioni antidroga da Pordenone si spostano spesso in altre regioni, sotto il coordinamento della Direzione centrale per i servizi antidroga, organo interforze che fa capo al Ministero degli Interni. “La criminalità del mondo degli stupefacenti – riferiscono dalla direzione della Squadra mobile – è una criminalità di passaggio, non radicalizzata. Il grosso dello spaccio è in mano ad albanesi e rumeni, in misura minore ai magrebini. I fruitori invece sono i giovani, in modo trasversale”. Fumo e spinelli in altre parole entrano negli zaini e nelle tasche di ragazzi italiani e di nazionalità straniera, che siano figli di operai o di medici, avvocati e imprenditori. “Non sono molti quelli che conduciamo in Questura per gli interrogatori – riferiscono – con situazioni di grave di-
«Non pensavo fosse così rischioso»
Lucia dopo una canna si sentì male. Ancora oggi ha paura che ricapiti di Chiara Zorzi «La prima volta che ho provato a fumare avevo 14 anni: eravamo in tre ragazze e la più grande, di 16 anni, che già fumava, ci ha fatto provare. Dopo quella volta non ho più fumato fino ai 16 anni, quando mi sono messa as-
sieme ad un ragazzo, un mio coetaneo. Lui fumava regolarmente e anch’io ho iniziato a fumare frequentemente (un giorno sì e uno no), soprattutto la sera, ma poteva capitare anche durante il pomeriggio». Lucia, nome di fantasia, all’inizio fumava per piacere, perché se fumava quando era con il suo ragazzo si sentiva bene e non pensava ai «casini a casa». «Poi però – prosegue a raccontarsi - con l’andare della relazione sono iniziati i litigi, i problemi a casa aumentavano e quando fumavo mi prendeva male. Un pomeriggio d’agosto ho vissuto un’esperienza davvero brutta. Dopo aver fumato una canna – spiega –, o meglio un purino, ho iniziato ad avere tachicardia, perdita di equilibrio e vedevo tutto bianco, come se tutto attorno a me sprigionasse luce: non avevo più sensibilità tattile, sentivo i rumori amplificati
e ho veramente creduto di morire. Da quella volta – fa sapere - non ho più fumato: la relazione con lui, invece, è andata avanti perché per me non era un problema il fatto che lui fumasse e io no». Dopo quell’episodio che l’ha spaventata moltissimo, a Lucia è capitato di fumare l’anno successivo, a Capodanno. «Ancora oggi fumo molto raramente – ammette -, si tratta solo di qualche tiro in occasioni particolari, perché ancora oggi ho paura di stare male. Procurarsi l’erba/fumo è facile, la si trova in piazza, anche se oggi è un po’ più difficile perché dopo tutti i controlli la gente non rischia più e quindi i canali per procurarla sono altri”. Lucia ma tu sei consapevole che è rischioso? «Sì. Se ti beccano possono portarti in caserma, perquisirti e farti un verbale: a me
sagio familiare alle spalle, più numerosi invece quelli che una bella famiglia ce l'hanno, ma poco attenta. Quasi tutti i genitori davanti a noi cadono (o fingono di cadere n.d.r) dalle nuvole. Basta però tirare i cassetti delle loro camere per accorgersi che gli stupefacenti sono quasi alla luce del sole”. E nelle scuole? I controlli qui si concentrano soprattutto all’entrata e all’uscita (all’interno la Polizia entra infatti se chiamata dalla Direzione scolastica) dove gli “occhi” della sezione antidroga sono rappresentati dagli agenti in divisa che fanno capo all’Ufficio Prevenzione generale e soccorso pubblico, che coordina le volanti. Importante è la figura del poliziotto di quartiere. “Tra i suoi compiti – spiegano dalla direzione dell’Ufficio –. se chiamato dalla scuola, anche quello di tenere incontri con i ragazzi in cui spiegare i rischi del consumo di stupefacenti”. è successo di essere in centro con degli amici che si stavano fumando una canna, una persona ha chiamato le forze dell’ordine, sono arrivati i carabinieri e ci hanno portato in caserma. Dopo aver chiamato i genitori, ci hanno interrogato e ci hanno fatto un verbale, ma non abbiamo avuto altre conseguenze». Fumare fa male? «Penso possa far male se la usi ogni giorno. Oggi i ragazzi iniziano sempre più giovani, spesso perché hanno amici più grandi e quindi vogliono farsi vedere; molti usano la scusa dei problemi per giustificare il consumo» Quanto si usa e perché? «Dipende da quanti soldi hai. Si usa molto anche prima di entrare a scuola, perché quando sei fumato c’è una diversa percezione del tempo, che ti sembra scorra più veloce» Quanto costa procurarsi del fumo? «Per 10 euro al grammo trovi sia erba che fumo. Essendoci poca qualità in giro, non sai mai che cosa comperi, quindi la gente non spende più di 10-12 euro».
Nel 2007 l’ex ministro della Salute Livia Turco rende possibile l’utilizzo dei principi attivi della cannabis a uso terapeutico, per alleviare le sofferenze dei malati di sclerosi multipla, cancro, dolore cronico, sclerosi laterale amiotrofica, Parkinson, glaucoma etc. A oggi però in Italia questi farmaci sono ancora di difficile accesso, sia per i costi, che superano anche i 12mila euro all'anno, a seconda del dosaggio, sia per l'iter burocratico. Il risultato è che nel nostro paese sono a malapena un centinaio i malati che ricorrono alla cannabis terapeutica per vie legali. Molti di più quelli che la coltivano in casa o la acquistano al mercato nero. Intanto, nel 2014, il ministro della Salute Lorenzin e quello della Difesa Pinotti, hanno dato l'ok per la coltivazione di cannabis terapeutica e i primi prodotti, si annunciava, potrebbero essere in vendita già da quest'anno. La Toscana già tre anni fa aveva approvato una legge per facilitare l'uso medico della cannabis, permettendo ai medici di base di prescrivere la cannabis. In Puglia l'associazione "LapianTiamo" di Andrea Trisciuoglio e Lucia Spiri, entrambi affetti da sclerosi multipla, sognano di inaugurare il primo Cannabis social club italiano. Mancano però le autorizzazioni nazionali per l'attuazione della legge pugliese che lo permetterebbe e al momento è tutto bloccato. Il tempo dei malati, per l'associazione "LapianTiamo", non è quello della politica. Servono provvedimenti immediati ed efficaci, per evitare che per curarsi ci si debba rivolgere allo spacciatore. In senso contrario va il Veneto, che con una delibera appena approvata di fatto impedisce ai medici di prescrivere la cannabis terapeutica, salvo per «gli spasmi da lesione del midollo e solo dopo aver constatato l'inefficacia degli altri farmaci e solo su prescrizione
CANNABIS TERAPEUTICA Pierugo racconta il percorso a ostacoli per ottenerla intervista di Elisa Cozzarini di specialisti neurologi». Restano tagliati fuori migliaia di malati che speravano in una legge sulla falsariga di quella toscana. "Libertà di parola" ha raccolto la testimonianza di Pierugo Bertolino, che sin dal 2007 ha cercato di accedere alla cannabis terapeutica per vie legali, incontrando ostacoli crescenti. Pierugo, ci racconta come mai ha deciso di chiedere
l'utilizzo di cannabis per curarsi? Sono sieropositivo e da trent'anni assumo farmaci che hanno molte controindicazioni, tra cui la neuropatia periferica, che si manifesta in modo diverso a seconda delle persone. A me prende un dolore dalla pianta del piede fino al ginocchio, a volte anche più su. Alcuni non riescono nemmeno a camminare. Per questo tipo di patologia non esiste rimedio di alcun tipo, salvo trovare il modo di soffrire un po' meno. Avendo provato la cannabis illega-
le, ne conoscevo i benefici, il distacco mentale dal dolore, con risultati molto migliori che con gli psicofarmaci. Così, sin da quando è stata introdotta la possibilità di utilizzarla su ricetta medica, mi sono attivato per procurarmela come prevede la legge. Ci racconta qual è la procedura che bisogna seguire? Mi sono rivolto al mio medico di base, ci siamo informati
e abbiamo avviato l'iter. Sul sito del ministero della Salute è possibile scaricare i moduli per la richiesta di questi farmaci. Il modulo va consegnato alla farmacia territoriale dell'Azienda sanitaria locale, da qui parte la richiesta di nulla osta al ministero per l'importazione dall'estero, solitamente del Bedrocan dall'Olanda. Una volta ottenuto il via libera dal ministero, dalla farmacia ti richiamano per ritirare il nulla osta, che devi inviare per raccomandata alla fabbrica produttrice. Questa ti manda il contratto, tu fai il
Cosa sono i cannabis social club? I "Cannabis Social Club" sono un'alternativa al mercato nero e alla legalizzazione su vasta scala, che porta, come avviene in alcuni Stati USA, a incentivare i consumi a beneficio delle aziende produttrici. Così li definisce la Coalizione Europea per le Politiche sulle Droghe Giuste ed Efficaci (Encod). In Spagna, dove la legge permette la coltivazione e il consumo di marijuana per uso privato senza porre un
limite quantitativo, i Cannabis Social Club sono passati da 40 nel 2010 a più di 700 oggi, con oltre 165mila iscritti. Alcuni casi sono sfuggiti al controllo, tanto che si parla di Barcellona come la nuova Amsterdam. Il Belgio è il secondo paese dove i club operano legalmente, perché anche qui la coltivazione non è reato. Come funzionano questi gruppi? La descrizione è disponibile sul sito di Encod:
un gruppo di cittadini si organizza e coltiva una quantità limitata di cannabis esclusivamente per l'autoconsumo, senza perseguire finalità di lucro. I Cannabis Social Club sono associazioni registrate, con uno statuto e un'organizzazione democratica. Tengono un registro con il rendiconto della produzione e consumi di cannabis. Utilizzano metodi di coltivazione biologica, sviluppano una politi-
bonifico e rispedisci il tutto. Insomma in tutto l'iter dura almeno un mese e mezzo, e la richiesta che fai è per un dosaggio fino a un massimo di 90 giorni, poi devi ricominciare da zero. Quali sono i costi? Andiamo sui 9 euro al grammo, una scatola viene 45 euro. Io e la mia compagna in tutto spendiamo circa 1.200 euro ogni tre mesi. I costi sono così alti anche per le tasse doganali. Non è una contraddizione che rivolgendosi al mercato nero si risparmierebbe più del 50%? Cosa deve fare un paziente che non ha grossa disponibilità economica? Certo, se ti rivolgi al mercato nero non sei sicuro del prodotto, ma se il risparmio è di questa entità, capisce che sono in molti a scegliere la strada dell'illegalità. Oppure uno se la coltiva da solo, così almeno sa da dove arriva. Con il nuovo governo noi speravamo che cambiassero le cose, sembrava ci sarebbe stata un'apertura. Invece dal 2007 a oggi non si è mosso niente. Che cosa chiederebbe allora? Secondo me il modello dovrebbe essere quello dei "cannabis social club" come in Spagna, dove un certo numero di soci mette una quota e si possono coltivare due piante a testa. Sono riconosciuti e hanno regole come per esempio quella di consumare in loco e di non vendere alcolici. Comprende anche chi fa uso ludico della sostanza, che secondo me non dev'essere stigmatizzata. Penso sia una contraddizione che l'alcol si possa acquistare tranquillamente e la cannabis sia illegale. Quello che non mi piacerebbe è che diventasse un business come sta accadendo negli Usa. Il modello spagnolo predilige l'aspetto sociale, è lì che dovremmo guardare. ca di prevenzione dell'abuso della sostanza e sono aperti al dialogo con le autorità. Sono completamente svincolati dal traffico di stupefacenti. Prima di prendere in considerazione l’idea di avviare un Cannabis Social Club, è bene verificare il quadro giuridico sul consumo di cannabis in vigore nel proprio Paese. Secondo Encod, in Italia, dove l'uso personale è depenalizzato, sarebbe possibile organizzare un’adeguata difesa legale dei Club. www.encod.org (e.c.)
INVIATI NEL MONDO
IL FASCINO DEL CAMMINO DI SANTIAGO «Ci andai da sola nel 2009. Fu un’esperienza che le parole faticano a descrivere» di Valentina Furlan Pensavo che sarebbe stato più facile scrivere un articolo che parlasse del “mio” Cammino di Santiago de Compostela. Dico “mio” perché è un Cammino che ogni anno percorrono migliaia e migliaia di persone provenienti da ogni parte del mondo, con i motivi più disparati, più intimi. Ognuno con la sua storia, le sue radici, tante vite che si incontrano nel “campus stelae”, chiamato anche “via lattea”. Tante stelle che ti accompagnano lungo un percorso orientato da est ad ovest di circa 800 km, che porta da Saint Jean Pied de Port, nei Pirenei, fino a Finisterre, nell’oceano Atlantico, con una piccola tappa a Muxia. Il Cammino di Santiago ha una storia molto articolata, che parte dal IX secolo fino ai giorni nostri. E’ prima di tutto una storia di fede che ha le sue radici nell’epoca apostolica, alla quale nel tempo si sono mescolate tradizione e leggenda. Come ho detto, raccontare questa esperienza non è semplice. Ho rimandato l’ appuntamento con il foglio bianco per molti giorni perché alla fine è un appuntamento con le emozioni che mi porto dentro dal 2009, emozioni che sembrano affievolite. Eppure, basta nominare “Cammino” che mi sento nascere un sorriso, dentro e fuori. E questo è il primo anello che mi unisce con la maggior parte dei pellegrini che ho conosciuto, se non con tutti. Il cammino, nel
bene o nel male, non lo dimentichi più. Io l’ho percorso una volta sola, per intero, da Saint Jean fino al mare. Avevo deciso di partire ancora prima di sapere cosa fosse: fu una promessa verso niente e nessuno, una “goliardata” al termine dell’università. Poi, più leggevo e più mi documentavo, più mi nasceva dentro quel qualcosa di magico che so che chi mi sta leggendo e ha percorso il Cammino può capire. Prima di partire comprai tre paia di scarpe: non mi sarei mai immaginata che avrei fatto metà delle tappe con le scarpe di un compagno conosciuto al mio arrivo a Saint Jean. Sono partita da sola, agli inizi di ottobre, per tornare assieme a molti altri a metà di novembre. Le regioni che si attraversano offrono scenari incredibili, dalle montagne al deserto, dai vigneti nel tempo della vendemmia agli uliveti, dal caldo e sole al tempo cupo e piovoso per finire con l’esplosione dell’oceano, purtroppo un po’ fuori stagione per farsi un bel bagno. Raccomandano di mettere nello zaino le cose essenziali: io ho cercato di farlo, eppure una volta laggiù ho dovuto rispedire un po’ di cose in Italia. Preparare lo zaino diventa un rituale, esso diventa la tua casa che ti porti sulle spalle, tutto ciò di cui hai bisogno è li con te. Appesa allo zaino non può mancare la conchiglia di San Giacomo, ti contraddistingue rispetto ad altri quando sei nelle gradi città, ti unisce a tutti coloro che come te stanno segnando lo stesso suolo. Voglio provare a sintetizzare il mio viaggio con delle parole. Semplicità. Solitamente si parte per questa esperienza anche per ritrovare il gusto
della semplicità: nello zaino che porti in spalla infatti trovi tutto ciò che ti serve per affrontare il viaggio. Lungo la strada, tuttavia, c'è il rischio di dimenticarsi di questo aspetto: gli ostelli sono sempre più belli, la fame e la sete non la sperimenti perché ci sono distributori automatici di bibite anche in mezzo al nulla e molto altro ancora. Molti sono i pellegrini che all'essenzialità che presupporrebbe questo pellegrinaggio, preferiscono le comodità. Rispetto. Ogni giorno mi sono confrontata con questo valore, rispetto per gli altri e per la natura. Accoglienza delle varie diversità, provenienza, lingua, abitudini. Ascolto. Ho ascoltato gli altri, il loro percorso umano. Ho ascoltato il silenzio, km e km di silenzio, di musica, di dolori fisici, di gioia e soddisfazione per aver raggiunto la meta. Ho ascoltato la paura quando mi sono fatta male e sono andata in ospedale, quando ero da sola nella stanza e nessuno mi diceva che cosa
avessi. Ho ascoltato i miei tempi, il mio ritmo, il mio passo, il mio corpo. Ho ascoltato la natura, i suoi rumori, gli animali. Condivisione. Ho condiviso tanti pranzi e cene, obbiettivi, aspettative. Ho condiviso ciò che c’era intorno a me, fotografie, ostelli, ricordi. Ho regalato emozioni; me ne hanno regalate molte. Spiritualità e Curiosità, soprattutto di capire cosa da questo viaggio portarsi a casa. Io l’ho capito a Santiago, ed ecco che la fine è diventata per me l’inizio. Poco più di trenta tappe senza capire cosa mi avesse spinto lì. Ho imparato cosa significa valorizzare ogni singolo giorno,apprezzare la lentezza, quel senso di libertà dato dalla fiducia in sè stessi e nelle proprie capacità. Ho sentito la convinzione che possiamo affrontare gli ostacoli insieme agli altri, che ciò che non hai tu ce l’ha chi sta accanto a te. Ho assaporato la gioia di fare qualcosa “insieme con”, ho conosciuto il mio ottimismo. Ho iniziato a voler bene ai miei limiti e debolezze. Mi sono accorta che quelle cose che sul momento sembrano grandi, quando ti giri sono solo dei puntini nella tua storia. Mi ricorderò per sempre la gioia che ho sentito quando, dormendo sul pavimento dell’aeroporto di Madrid, ho pensato che avevo qualcosa di bello da raccontare alle persone a me care, come se nel ritorno e nel racconto di quanto accaduto alle persone importanti trovasse senso il tutto. Credo che la vita di ogni giorno sia come le tappe del Cammino, dove non conta solo l’inizio o la fine, ma tutto ciò che c’è nel mezzo. Magari apprezzandolo un po’ prima di arrivare alla fine. Buen camino!
pankakultura
Sepulveda, il nonno saggio che racconta storie straordinarie Ospite in città per “Dedica”, lo scrittore cileno ha entusiasmato i giovani delle scuole di Irene Vendrame Dal 7 al 14 marzo Pordenone è stato teatro di diverse iniziative culturali organizzate in occasione del “Dedica Festival”, evento questo firmato, come ogni anno, dall’associazione culturale Thesis. Protagonista della rassegna è stato il noto scrittore, giornalista, cineasta ed attivista cileno Luis Sepulveda e ospite in città durante quella settimana. Nato a Ovalle, in Cile, nel 1949, ha
preso parte attivamente alla vita politica del suo Paese fin da quando era ragazzo e, a seguito del colpo di stato militare del 1973, è stato imprigionato e torturato. Una volta libero, ha viaggiato per l’America Latina, vivendo per un periodo anche nella foresta amazzonica (un’esperienza per lui importante, che ha saldato il suo rapporto con la natura e ha lasciato il segno
in diversi suoi scritti), attraverso l’Europa (si è stabilito per molto tempo ad Amburgo) e per il mondo, collaborando con Greenpeace come attivista. Ora risiede in Spagna, nelle Asturie. Sepulveda era un autore a me sconosciuto ed è stato proprio in occasione del Festival che ho cominciato a leggere i suoi libri. Ciò che mi ha affascinato e catturato fin da subito è sta-
to quel senso di speranza e di umanità che traspare dal suo linguaggio, essenziale ed accurato al contempo. Mi immaginavo una persona semplice e disponibile e, al primo incontro, avvenuto in conferenza stampa sabato 7 marzo, le mie aspettative non sono state deluse e si sono riconfermate durante l’appuntamento con gli studenti di mercoledì 11, al teatro comu-
Quando l’impegno sociale si fa musica Ultima serata del Festival, i Modena City Ramblers con il nuovo album “Tracce clandestine" di Fabio Passador E’ un’umida serata di marzo quella che anticipa il saluto finale alla città di Pordenone dello scrittore cileno Luis Sepulveda, ospite per un’intera settimana del Festival Dedica. Tra reading poetici, spettacoli teatrali, incontri pubblici e con le scuole, la ciliegina sulla torta questa sera è rappresentata dall’esibizione live del gruppo folk emiliano dei Modena City Ramblers, per l’occasione insieme all’amico scrittore, con il quale c’erano già state in passato alcune collaborazioni artistiche. L’ultima serata inizia con una sorpresa: Sepulveda è infatti appena stato ricoverato in ospedale per alcuni problemi di salute (poi risolti) che lo costringono ad un saluto al suo numeroso pubblico pordenonese presente in sala tramite un messaggio registrato
lanciato ad inizio serata. E così l’attenzione è tutta per la band emiliana, che si presenta in Friuli con la sua prima data del tour e vent’anni di carriera da festeggiare. Infatti
è imminente l’uscita del nuovo lavoro della band, “Tracce clandestine”, contenente l’inedito “The trumpeths of Jericko”, che avrebbe dovuto essere cantato dalla cantan-
te israeliana Noa, proposto anche durante il concerto in riva al Noncello, insieme ad alcuni brani che non hanno mai trovato luce nei precedenti album dei Modena City Ramblers, accompagnati dai pezzi storici suonati dal vivo. Il tutto arrangiato e registrato tra Barcellona, Dublino e l’Emilia Romagna. Gli MCR appaiono carichi ed in piena forma: pare proprio che non passino mai gli anni per D’Aniello e Ghiacci, unici componenti rimasti dopo quel meraviglioso disco che è “Riportando tutto a casa”, di cui ricorre il ventesimo anniversario dall’uscita. Sono ancora i brani come “In un giorno di pioggia” e “Ninna Nanna” che scaldano l’eterogeneo pubblico che li segue dalla prima ora, ma anche i giovani fans, che conoscono le canzoni che
nale “Giuseppe Verdi”. Quel giorno, l’enorme anfiteatro era gremito di giovani delle scuole medie e superiori della provincia, accompagnati dai loro docenti. Sul palco Luis era circondato da dieci ragazzi che, per l'occasione, hanno vestito i panni degli intervistatori. L’impressione che mi ha fatto è stata quella di un nonno saggio che racconta storie straordinarie. Noi ascoltavamo in silenzio le sue parole profonde, pendendo dalle sue labbra. I temi toccati sono stati diversi. Il suo rapporto con la letteratura, ad esempio. «Credo – ha spiegato con grande passionalità - che la letteratura faccia parte dell’esistenza umana, come respirare». Ha scelto il genere del racconto perché gli sembra una sfida raccontare una storia completa in così poche battute. Quando gli hanno chiesto perché abbia scritto anche alcune favole, ha risposto: «La favola, avendo gli animali come protagonisti, permette di allontanarsi dalla realtà, per
poterla osservare e descrivere con maggiore chiarezza». È stato grazie ai suoi insegnanti, che l’hanno seguito ed incoraggiato prima come lettore e poi come scrittore, che ha deciso di percorrere questa strada. Sepulveda ha poi toccato il tema dei giovani, di
come lui sia stato giovane, di come abbia inseguito i suoi sogni, nonostante tutte le difficoltà; ha parlato della prigionia, di come l’esempio dei compagni fosse stato un alito di speranza nelle celle anguste della tortura. «Mi aspetto tantissimo dalla vostra gene-
razione – ha quindi affermato con fiducia rivolgendosi a noi - in tutti i campi». Non ha parlato di politica, se non sul finire dell'incontro, quando uno studente gli ha chiesto se ritenesse ancora efficaci i valori di Che Guevara. La sua risposta è stata chiara: «Sono gli antichi valori che hanno fatto avanzare la società: il senso della fratellanza, della solidarietà sociale ed umana, l’idea di giustizia sociale, di libertà, di esistenza piena, di felicità; si può essere d’accordo o meno sulla forma con cui “il Che” ha portato avanti i suoi ideali, ma in generale questi valori sono di un’attualità enorme». Al termine di tutto, sono scrosciati gli applausi e decine e decine di ragazzi si sono accodati per l’autografo. L’immagine che mi rimarrà impressa nella memoria è quella di un uomo che ha speso la sua vita per inseguire i suoi ideali e che ancora infonde speranza ed entusiasmo alle nuove generazioni.
all’epoca erano cantate dalle voci di Stefano “Cisco” Bellotti e Alberto Morselli, solo attraverso l’ascolto degli album. La carica emotiva ed il profondo animo viscerale che Davide “Dudu” Morandi sprigiona dalla sua voce, donano un tocco molto più rock al gruppo emiliano, che però rimane sempre fedele agli echi delle verdi brughiere irlandesi e rivendicazioni sociali a favore degli “ultimi” della terra e di coloro che lottano per la libertà. C’è spazio per molte citazioni, tra cui l’immancabile “Mia dolce rivoluzionaria” di Paolo Pietrangeli, “The gost of Tom Joad” di Bruce Springsteen e “Rock the Casbah” dei Clash, che si alternano alla
forza delle parole e della memoria di Peppino Impastato, alla quale è dedicata “I cento passi”, cantata e vissuta da tutto il pubblico come uno degli inni della lotta antimafia in Italia. Ma le atmosfere dei Modena City Ramblers sanno essere anche intime e dolci, come nel caso di “Ebano”, che canta dell’Africa e delle sue contraddizioni: la purezza dei suoi paesaggi, il saccheggio dall’età coloniale, le guerre e le conseguenti migrazioni di cui siamo testimoni ai giorni d’oggi. Il concerto sembra non finire mai, anzi è un crescendo d’intensità ed il richiamo ad alcune delle canzoni di lotta diventa il modo per esaltare anche
coloro che nelle ultime file del pubblico faticano a lasciarsi andare, un po’ per timidezza, un po’ per l’età. Ed
ecco che partono le note di “Bella Ciao”, che da sempre infiamma le esibizioni al concerto del 1°maggio a Roma, “Fischia il vento”, altro inno della Resistenza italiana insieme a “Per i morti di Reggio Emilia”, per la gioia dei molti sessantottini presenti al Deposito Giordani. Il tour europeo è appena iniziato ed il rodaggio dello spettacolo è ancora nella sua fase iniziale, ma presto gli MCR torneranno a trovarci nella ormai prossima estate, quando sicuramente tutti i più fedeli fans avranno in testa le “Tracce clandestine” del nuovo album e li seguiranno tra i numerosi festival italiani ed europei, restituendo alla band quel calore che non li abbandona da ormai vent’anni di onorata ed impegnata carriera musicale.
non solo sport
QUANDO IL CAVALLO DIVENTA IL MIGLIOR TERAPEUTA Da 28 anni a Porcia l'associazione "Anche noi a cavallo" segue bambini con disabilità. Visita alla struttura di Irene Vendrame Ciò che mi ha colpita, appena ho aperto il cancelletto verde d’ingresso della sede dell’associazione “Anche noi a cavallo”, è stata l’aria giocosa e leggera dell’ambiente, i disegni colorati alle pareti e gli animali, due cani e due gatti, che mi hanno dato il benvenuto. Vallì Bomben, la coordinatrice dell’associazione, mi ha accolto con un sor-
riso gentile, è stata addirittura rassicurante, dato che era la mia prima intervista e che per giunta ne sapevo molto poco sia di cavalli, che di approccio alla disabilità. “Con l’Ippoterapia – mi ha spiegato - si riescono ad unire i benefici fisici e psichici di un’attività riabilitativa con il vantaggio che per l’utente questa è una pratica molto più stimolate e
L’ASSOCIAZIONE L’associazione “Anche noi a cavallo” si trova a Porcia, in via Mantova. Si è costituita nel 1987 fondata da Beatrice e Marianne, come struttura sanitaria privata, senza scopo di lucro, per occuparsi
di persone con patologie fisiche e psichiche, in particolare dell’età evolutiva. La peculiarità di quest’associazione è quella di utilizzare gli animali come co-terapeuti attraverso le attività e le terapie con
divertente, si ottengono ottimi risultati.”. Infatti l’associazione da 28 anni lavora con i cavalli, o meglio i cavalli lavorano per aiutare i ragazzi, e non solo, a superare le disabilità. “ Abbiamo introdotto - prosegue la coordinatrice – anche l’attività assistita con i cani, che stiamo svolgendo grazie a Roberta, una educatrice cinofila. I cani vengo-
no utilizzati anche negli asili nido e nelle scuole materne. Dopo la coordinatrice, ho conosciuto anche la Direttrice sanitaria, la dottoressa Elena Granieri, medico psicoterapeuta, già psichiatra nel Centro di Salute Mentale di Pordenone, che nel Centro, sin dagli inizi, accoglie gli utenti e con gli operatori personalizza i progetti terapeutici. E’
animali, definite più comunemente Pet Therapy. Questo termine è stato utilizzato per la prima volta nel 1961 dallo psichiatra inglese Levinson per indicare un sistema di terapia speciale, che vedeva appunto l’animale come parte integrante del metodo di cura. In questo caso, dato che l’animale preferito è il cavallo, si parla di ippoterapia e/o di rieducazione equestre. Nel primo caso il paziente non è in grado di condurre il cavallo ed è quindi accompagnato, oltre che dall’operatore, anche dal palafreniere, che si occupa solamente di guidare l’animale durante gli esercizi. Nel secondo caso, invece, il cavaliere si trova ad un livello più avanzato ed è in grado di condurre da sé l’animale. Gli operatori equestri e cinofili hanno
conseguito titoli specifici per effettuare le Terapie Assistite con gli Animali. “Anche noi a cavallo” sul territorio è stata una delle prime realtà ad utilizzare l’ippoterapia, riconosciuta, come attività terapeutica e riabilitativa a tutti gli effetti solo nel 2012 (legge regionale n. 8 12/04/12). Attualmente il centro accoglie circa 100 utenti alla settimana, provenienti soprattutto dai centri diurni e dal reparto di neuropsichiatria infantile dell’Azienda sanitaria, dalla Nostra Famiglia di San Vito al Tagliamento, dalla Fondazione Bambini Autistici di Pordenone e dall'Anffas. Il Centro inoltre offre la possibilità di Borse lavoro e collabora a livello europeo con il progetto Erasmus +, in particolare per il Volontariato Europeo. Oltre alle attività con le persone
lei che mi ha fatto da “cicerone” all’interno del maneggio dove si svolgono le terapie, un’area di 30x15 metri (la metà di un maneggio tradizionale) e una delle poche in zona ad essere al coperto e riscaldata. Ci sediamo su una panca per osservare l’attività di Chiara, una bambina che ha un grave problema fisico, un ipertono muscolare: a cavallo non di una sella, bensì di una spessa coperta di gommapiuma,dotata di maniglie segue un percorso lungo il quale svolge alcuni esercizi, come ad esempio infilare un cerchio in un bastone. Alla fine delle attività in maneggio si passa ad una passeggiata all'esterno. Mi viene spiegato quanto sia importante per bambini con gravi problematiche fisiche, prendere contatto con un essere animato come il cavallo, che diversamente da una macchina o una sedia a
rotelle, dà calore e movimento. “Questi ragazzi – racconta - hanno un rapporto molto difficile con il proprio corpo: alcuni di loro non hanno conosciuto mai la deambulazione, il rapporto del proprio corpo con lo spazio. Ecco che il cavallo diventa uno strumento fondamentale, indispensabile per un certo tipo di apprendimento, come se potesse donare al cavaliere il corpo sano che non ha mai avuto.” Finita la mia visita, ho inevitabilmente pensato che venire a contatto con questo tipo di realtà fa riflettere su noi stessi e sulle nostre abilità che spesso diamo per scontate, ma che, in realtà, sono una grande ricchezza. Ho rivalutato anche il rapporto con gli animali, esseri che spesso consideriamo inferiori e limitati, ma che invece possono diventare un fedeli alleato nell'affrontare e superare le nostre difficoltà.
disabili, l’associazione opera anche come Centro estivo e offre lezioni di volteggio pedagogico; dà la possibilità di fare del volontariato a ragazzi ed adulti del territorio, svolge la funzione di centro di aggregazione e formazione. Il presidente di “Anche noi a cavallo” è l’avvocato Francesco Longo di Pordenone, la Direttrice sanitaria è la dottoressa Elena Gra-
nieri, la coordinatrice della struttura Vallì Bomben. Collaborano, infine, alla conduzione dell’associazione gli operatori, Giulia Marangoni, Anna Marchi, Natascia Rossetto, Alice Poles, Roberta Cagnazzo e Marianne Muntendam. Fino a settembre per il Volontariato Europeo è presenta la dott.essa Ioana Nechifor proveniente dalla Romania. (i.v.)
Frasi celebri del calcio Da 28 anni a Porcia l'Associazione "Anche noi a cavallo" segue di Guerrino Faggiani Ci sono personaggi del mondo del calcio che hanno una certa familiarità con inciampi e gaffe, scivoloni poi raccontati e ricordati nel tempo tanto da diventare patrimonio nazionale. Trapattoni (fa sorridere solo a nominarlo) è una fonte inesauribile e anche in modi diversi. Lo ricordiamo tutti infatti da allenatore del Bayern Monaco, nella tremenda “incarnata” pubblica ai danni di alcuni suoi giocatori uno su tutti il centrocampista Strunz (che già a noi suona in un certo modo). In quella occasione con il suo sgangherato tedesco ha tolto la voglia di ridere a tutti. Altra cosa invece quando da Ct della nazionale irlandese, gli venne chiesto di commentare delle critiche mosse alla sua squadra da Roy Keane, ex capitano del Manchester United in quel momento allenatore, disoccupato. Prima ha cercato di rispondere a modo arrampicandosi sul suo inglese, ma poi evidentemente insoddisfatto del risultato il suo temperamento si è imbizzarrito ed è uscito con un perentorio: “Non ha mai vinto un cazzo questo, orco zio.. non ha mai fatto niente e rompe..” Vari e coloriti i suoi commenti nei dopo partita: “Non sono né la Lollobrigida né Marylin, non merito tante attenzioni, sebbene spesso abbia anch’io un bel culo.” E ancora: “Non mettiamo il carro davanti ai buoi ma lasciamo i buoi dietro al carro”. Ma non solo il Trap è attore in questo palcoscenico, partendo da lontano ricordiamo il paròn Nereo Rocco allenatore del Milan (Voi andate in campo e colpite tutto quello che si muove sull'erba, se è il pallone pazienza), al più recente mister professor Scoglio (Io in campo guardo a 300 gradi, gli altri 60 li tengo per me) anche quando mortificò un giornalista (Mi faccia una domanda precisa, non posso fare dichiarazioni ad minchiam). Sempre Scoglio fuori tema: “Leopardi? Mi piace la sua poesia perché è chiara e indecifrabile". L’avvocato Prisco, invece, era fine nel pun-
gere: “È vero, l'Inter nasce da una costola del Milan, infatti non abbiamo mai rinnegato le nostre umili origini". Sulle voci delle notti brave dei giocatori della squadra: "I festini hard? Non so, quando escono non mi chiamano mai". A Sibilia, storico patron dell’Avellino, dissero che il portiere voleva guanti nuovi, ma lui ci mise un attimo a liquidare la faccenda: “O li compriamo a tutti o a nessuno". Spillo Altobelli: "Devo ringraziare i miei genitori, ma in particolare mio padre e mia madre". Anche i giornalisti compaiono nel cast e pure in forze, tra i tanti ricordiamo un Foglianese in radiocronaca per Tutto il calcio: "Ferri ha riportato, lo diciamo per tranquillizzare i famigliari, la frattura della mandibola". Notevole un titolo del Secolo XIX negli anni Novanta che è finito dritto alla storia: "Pompini a raffica, Sammargheritese ko". Stefano Pompini era il centravanti della Fiorenzuola che quel giorno con i suoi ... gol, mise ko la Sammargheritese. Ricordo una a cui ho assistito personalmente, un giornalista rai a caccia di polemiche chiese al mister Vujadin Boskov un parere su un intervento dubbio non sanzionato, subito dalla sua squadra in area avversaria: “era rigore signor Boskov?”. Lui lo guardò come avesse una rotella in meno e rispose: “Rigore è quando fischia l’arbitro”. E allora a tale proposito non si può non chiudere con il Trap: ”Il pallone è una bella cosa, ma non va dimenticata una cosa: che è pieno d’aria.”
il personaggio
Le avventure di Rasputin, uomo del mistero Visse nella Russia dello zar Nicola II e morì assassinato. Ciò che resta di lui è conservato nel museo di San Pietroburgo di Guerrino Faggiani Grigorij Efimovič Rasputin, pseudo monaco di una setta orgiastica religiosa che professava il peccato e l’eresia per potersi poi cimentare nel vero pentimento, nacque nel villaggio di Pokrovskoe, in Siberia, il 21 gennaio 1869 e morì a San Pietroburgo il 17 dicembre 1916. Circondato da un alone di mistero e uomo dallo sguardo raggelante, Rasputin godeva fama di guaritore dai poteri sorprendenti. Si narra che da piccolo con suo cugino fosse caduto in un fiume gelido, e che in seguito lui solo fosse sopravvissuto ad una grave polmonite dopo giorni di deliri e visioni da cui aveva avuto somme rivelazioni. Era quello che noi chiamiamo “un poco di buono”, beveva, rubava e, dotato di attributi genitali sorprendenti, si concedeva ad una estrema spregiudicatezza con le donne e non solo, rincorrendo un appetito sessuale mai domo, da qui il suo nome “Rasputin”, che dal russo si traduce in “depravato”. Di forte indole ossessiva verso il misticismo e la
spiritualità, dopo il matrimonio con Praskovia Fedorovna Dubrovina da cui ebbe sette figli, autoproclamatosi guaritore e veggente indossò una tonaca da monaco e partì in “pellegrinaggio”, interpretando un credo personalizzato. La convinzione di essere un prescelto da Dio a conoscenza di grandi verità lo portò a San Pietroburgo, dove la sua fama non tardò a diffondersi e grazie alla quale riuscì a creargli una rete di relazioni ad altissimo livello. Fu grazie a conoscenze vicine alla famiglia imperiale che, nel 1905, nelle vesti di veggente e guaritore approdò alla corte dello zar Nicola II della dinastia dei Romanov. Corte afflitta da gravi problemi: uno di questi era quello della successione al trono per il mancato arrivo di un figlio maschio ; quindi, dopo la sospirata venuta del piccolo Aleksej, l’emofilia inguaribile di cui soffriva. Pare che Rasputin riuscì ad ottenere dei miglioramenti delle sue emorragie e sofferenze riuscendo con un tipo di ipnosi, a rallentargli il battito cardiaco diminuendo così la pressione sanguigna. Addirittura, durante una sua assenza, in occasione di una grave crisi del piccolo, dopo giorni di vani tentativi dei medici di corte e quando ormai era in fin di vita, Rasputin venne avvisato dalla zarina Alessandra,. Lui intercesse a distanza da una condizione di trance, e po-
che ore dopo il piccolo si riprese. In seguito a questo la zarina e lo zar si affidarono completamente a lui anche come consigliere su questioni di primaria importanza politica, e la sua influenza a corte divenne abnorme. Nessuno poteva sentirsi al sicuro da quando Rasputin aveva il potere di alzare o abbassare il pollice su chiunque. E non era inusuale che per “comprarsi” la sua benevolenza i nobili, oltre a soldi, gli offrissero mogli e figlie che sembra non disdegnassero visto il suo grande “carisma”. Le malelingue dicevano che tra le sue “prede” ci fossero anche la zarina e sua figlia. L’opinione pubblica rumoreggiava e si chiedeva come lo zar potesse ospitare a corte un così infimo personaggio. I rapporti della polizia segreta e della Duma che finivano sulla sua scrivania venivano considerati solo maldicenze. Divenne così tanto potente e scomodo, che alcuni nobili organizzarono il suo assassinio. Il principe Feliks Jusupov (che godeva anche fama di omosessualità) con altri cospiratori gli tese una trappola e lo invitò ad un banchetto a casa sua con la scusa di fargli “conoscere” la sua bellissima moglie principessa Irina Aleksandrovna Romanova. Rasputin non esitò ad accettare e, una volta arrivato, in attesa di Irina, come di sua abitudine si concesse a cibo e vino in abbondanza. I quali però erano avvelenati dal cianuro. Ne ingurgitò una quantità tale da uccidere sei uomini, ma davanti agli sbalorditi congiurati niente accusava se non un bruciore di stomaco. Allora il principe impugnò una pistola e gli sparò su un fianco, ma Rasputin si riprese, indi gli sparò ancora alla schiena. Ma non bastò, e mentre lo trascinavano all’esterno lo finirono con un colpo in fronte e lo gettarono nel
fiume Moika, da cui il suo copro riemerse il giorno dopo. Sbalorditivo l’esito dell’autopsia eseguita dal dottor professor Kosorotov: nessuna traccia di veleno nel suo corpo (si ipotizza che il cianuro aggiunto agli zuccheri del dolce abbia sviluppato cianidrine, che sono commestibili e non danno avvelenamento) mentre c’era acqua nei polmoni. Vuol dire che dopo il veleno ed i colpi di pistola Rasputin fu gettato nell’acqua ancora vivo. Ma Jusupov non era ancora pago, e dopo la sepoltura, pensò di riesumare il corpo e bruciarlo. Fine della storia? No, o almeno non del tutto. Una sua reliquia è giunta fino a noi, una che meglio non poteva rappresentarlo. Questo grazie sempre a Jusupov, che prima di gettarlo nel fiume (pensate quanto bene gli voleva) lo evirò e conservò gli attributi essicati in uno scrigno. “Rivitalizzati” poi nella formalina, vennero acquistati da un urologo russo per circa 8000 dollari ed ora sono esposti al museo di San Pietroburgo. In modalità relax misura circa 22 cm alla base per 30 di lunghezza. Alla salute. Niente da dire, un gran “carisma”.
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost
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Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli
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Ferdinando Parigi Voce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si trovano raramente, la nostra nuova penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800
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Fabio Passador Attualmente panchinaro di lusso! Come ogni giocatore di calcio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di testa, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist
Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Francesca Cappella, Alberto Quagliotto, Silvia Ersetti, Lisa Lunardelli, Roberto Andrei Danieluc, Rafael, Fulvio, Massimo, Moreno, Leonardo, Moreno T:, Onorina, Andrea Appi, Franca Merlo, Elisa Cozzarini, Roberta Sabbion, Valentina Furlan, Irene Verardo, Fabio Passador, Ada Moznich, Stefano venuto. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto
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Cristina Colautti È arrivata in sede in punta di piedi, adesso non le sfugge niente, anzi. Dottoressa in sociologia Bis, porta a casa un 110 e lode a mani besse! Pare che “ansia” sia il suo secondo nome, ed infatti è la nostra donna per Codice a s-barre, così almeno lì, si sente al sicuro!
Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: ”...si bello, ma non si scrive così in Italiano!” S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara
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Rafael Proviene da mondi caldi, riempiti da musiche, danze, sorrisi e sole. Arriva a Pordenone.. e capirete bene che una persona, in un modo o nell’altro, qualcosa si deve inventare! Entra in sede con delicatezza, disponibilità e vestiti puliti.. nuovo educatore della sede? chiedono i più.. lui sorride e dice: no, già sofferto abbastanza!
Roberta Sabbion Se le giornate durassero 30 ore, a lei non basterebbero comunque! Come ogni ottimo scalatore, conosce perfettamente il significato del gruppo, della fiducia, dell’insieme, dell’obiettivo comune. Legati ma liberi, legati e quindi liberi, per l’Associazione è linfa sempre nuova.
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Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia
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Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”
Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.
Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 4, 5, 10, 11, 12 e 18 dal sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pagina 7 di Andrea Appi Foto da pagina 13 di Valentina Furlan Foto a pagina 14 e 15 di Fabio Passador Foto a pagina 16 e 17 dell'associazione "Anche noi a cavallo" Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle dipendenze di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930
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Impaginazione Ada Moznich
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Irene Vendrame E’ arrivata in redazione una cucciola! Giovanissima, timida e delicata, ma altrettanto determinata e ambiziosa. Sogna di diventare una famosa giornalista come Oriana Fallaci, così è stata arruolata da LDP per farsi le ossa. Benvenuta Irene!
Stefano Venuto Mimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 18.00!
La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00
chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione victorhugo
I ragazzi della panchina campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA