APPROFONDIMENTO
Una foto Una storia
Libertá di Parola 1/2013 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
Questa volta si cambia, con un concorso. Quello che abbiamo lanciato in Facebook, mescolando l’idea di una foto-ritratto rubata alla quotidianità e una storia di fantasia che da questa scaturisse. Un concorso per mettersi alla prova e per divertirsi, di cui pubblichiamo alcuni dei racconti arrivati in redazione. Ora è tempo di un'altra sfida. Fotografate, dunque, guardate ciò che ne è uscito e lasciatevi ispirare. Il tema questa volta saranno i luoghi. a pagina 9
IL TEMA
Faber Academy Box, quando le idee diventano impresa a pagina 2
il ricordo
«Cara amica Base, addio. La tua Maddy» a pagina 8
INVIATI NEL MONDO
Viaggio in Australia, nella terra dove vivono i nostri emigranti a pagina 13
non solo sport
Nuova sede per i Ragazzi della Panchina I locali sono stati inaugurati l’8 febbraio in via Selvatico. Sono aperti tutti i pomeriggi di Stefano Venuto In quattordici mesi di lavoro svolto senza la possibilità di avere un luogo di accoglienza per i ragazzi in difficoltà, l’associazione “I Ragazzi della
Panchina” ha dovuto far fronte a problematiche enormi, sia in termini di efficacia lavorativa, sia in termini di equilibri interni. Nonostante questa
grave situazione, ci siamo sempre sforzati di mantenere i contatti con i ragazzi in strada e di tenere alta l’attenzione verso un problema che non riguarda solo l’associazione, ma tutto il territorio della città e della provincia. Con l’inaugurazione della nuova sede, venerdì 8 febbraio, si è potuto dare l’ufficiale inizio della nuova storia de “I Ragazzi della Panchina”. Non che con questo il passato resti nella nebbia del dimenticatoio, anzi. Per un’esperienza di vita come la nostra, la storia resta elemento imprescindibile dal quale trarre sempre esempio e linfa vitale. Ma lo sguardo è proiettato al futuro e a maggior ragione ora che, dopo 14 mesi senza una sede, si riapre. Una nuova storia è essenziale però, perché in qualche misura il tempo trascorso ha modificato, limato, eliminato, rinnovato, delle traiettorie di continua a pagina 8
Una giornata con il Rugby Pordenone, dove lo sport unisce padri e figli a pagina 14
Il personaggio
Margherita Hack,«Non penso mai ai misteri dell'aldilà, ma al mondo in cui viviamo» a pag. 16
il tema
Il Faber Academy Box che trasforma le idee su uomo e ambiente in imprese Progetto di Itaca, permette a chi è in cerca di occupazione di rimettersi in gioco di Fabio Della Pietra e Christian Gretter La costruzione di Fab, il progetto Faber Academy Box, è stata un percorso veloce ed entusiasmante con una sua radice profonda e matura nel tempo che l’ha preceduta e che potrebbe riassumersi con la locuzione “fare cooperazione” e più nel dettaglio "fare cooperazione sociale". Fab è un’idea della Cooperativa Itaca di Pordenone che, in occasione del suo Ventennale (1992-2012), ha voluto restituire alla comunità di appartenenza un contenitore capace di creare progetti di sviluppo e di occupazione. Il senso primo di Fab è di intervenire
operativamente sul tema urgente del lavoro e dello sviluppo, scommettendo sul sapere, sulle potenzialità e sulle idee di persone che nessuno sa più dove “collocare” e impiegare e che necessitano di una rete forte di relazioni e di collaborazioni per veder realizzata la propria intuizione e i propri talenti. Per una Cooperativa sociale come Itaca, lanciare un progetto come questo ha significato anche proporre un modello di mondo e di comunità sociale nuovo e coerente con la mutevolezza del contesto economico: inclusivo e aperto
Bom di partecipanti al primo bando Fab Ben 23 da tutto il Nordest le idee proposte. 35 i “creativi” che hanno accolto la sfida di Milena Bidinost E’ dedicato a chi, singolo o gruppo, sente di avere l’idea buona, alle persone disoccupate, in forte instabilità lavorativa, ma anche a chi è pronto ad investire le proprie professionalità in progetti di sviluppo sociale e ambien-
tale. Il progetto Fab, completamente finanziato da Itaca, cooperativa sociale di Pordenone presieduta da Leo Tomarchio, seleziona a sua volta progetti innovativi per la cui realizzazione e trasformazione in impresa i proponen-
a chiunque, basato sull’idea di valorizzazione delle caratteristiche che rendono unico ogni essere umano e mirato ad un effettivo progresso sociale. Fab è principalmente un luogo di innovazione sociale, uno spazio di incontro e lavoro fra donne e uomini provenienti da contesti culturali differenti che vogliono scommettere sul proprio sapere, concretizzare un’idea in un nuovo prodotto o servizio per la comunità, grazie al supporto della rete messa a disposizione dai partner e dei soggetti promotori del progetto e farla diventare impresa.
Quindi un progetto con l’obiettivo principale di costruire opportunità di lavoro per soggetti fuoriusciti dal mercato, o non ancora occupati, o precari, che abbiano immaginato soluzioni innovative a tutta una serie di bisogni della collettività, o soluzioni creative e sostenibili a bisogni, capaci di diventare impresa e/o lavoro. Un luogo di concretizzazione dei valori del modello cooperativo dove si ri-mettono al centro la persona e il lavoro considerandoli un nuovo motore di sviluppo e cambiamento del nostro sistema, in uno spazio vivo
ti sono affiancati nella fase di sviluppo, da uno staff di professionisti. Con Fab si possono sviluppare idee imprenditoriali suddivise in tre temi principali: uomo, ambiente, comunità. E’ aperto a tutte le professionalità e si propone come luogo di elaborazione. Fab ha una sede fisica, quella storica di Itaca in via San Francesco 1/c, e un sito internet dove si possono reperire tutte le informazioni: www.ifab.it. Lanciato a giugno dello scorso anno, il primo bando di presentazione delle idee è scaduto a fine agosto: 23 i progetti embrione presentati, 12 a firma femminile e 11 maschile, 35 le persone coinvolte nel complesso, interessati prevalentemente territori del Nordest quali le province di Bel-
luno (1), Udine (4), Pordenone (3), Pesaro-Urbino (1), Bolzano (1), Milano (1), Verona (1), Padova (1). Ben 10 i progetti mirati sulla città di Pordenone. Dalla libreria e caffetteria con animazioni alla comunicazione sociale (social messenger); dalla rivalutazione del borgo montano, ai pizzaioli in carcere, dall’arte terapia, alla banca virtuale e così via: tanti i generi di idea raccolti. Selezionati da una commissione, sette sui 23 progetti hanno avuto diritto ad accedere alla Accademy, un vero e proprio incubatore dove dalle idee, con il supporto dell’equipe di professionisti messi a disposizione da Itaca, si è passati alla progettazione vera e propria in ogni suo dettaglio. I sette si sono poi trasformati
e condiviso. Un luogo dove i contatti diventano relazioni significative generatrici d’imprenditorialità. Un luogo d’innovazione sulle domande e i temi emergenti del territorio attraverso la qualità come componente relazionale e motivazionale. In sintesi Fab è rivolto a persone o a gruppi di persone che abbiano un’idea imprenditoriale ad ampio impatto sociale, che siano disoccupate o in condizione di forte instabilità lavorativa e che siano disposte a dedicarci il loro tempo e il loro impegno. Fab cerca progetti e idee sui temi uomo, ambiente e comunità che dimostrino di avere possibilità di trasformarsi in impresa e creare una reale occupazione nel tempo, attraverso la generazione di prodotti o servizi capaci di dare risposte efficaci e sostenibili a bisogni critici emergenti che non sono soddisfatti dalla collettività, ovvero di promuovere e riattivare beni comuni e generare risorse aggiuntive, utilizzando anche le nuove tecnologie. Il tutto sempre relazionato all’impatto rispetto alla comunità, tanto in termini dimensionali quanto degli interlocutori coinvolti. in sei per la fusione in uno unico di due progetti. Così elaborate nell’ambito del laboratorio di Fab, queste sei idee imprenditoriali a gennaio, nella sede di PnBox, sono state presentate a numerosi stakeholders (potenziali clienti e finanziatori). Tre infine (riportati qui a fianco) sui sette, i progetti che verranno immessi nel mercato. Un quarto, cui è andata una menzione, verrà fatto proprio da un’altra importante Coop sociale B del territorio.
Fab è un progetto che gode della collaborazione di Dof Consulting e del supporto di diversi partner, fra cui l’Università degli Studi di Trento nella persona del prof. Luca Fazzi, di Aiccon (Associazione Italiana per la promozione della Cultura della Cooperazione e del Nonprofit) nella persona del suo direttore Paolo Venturi, DMav. Dalla maschera al volto – Social Art Ensemble, Provincia di Pordenone e Comune di Pordenone. Tra i partner recentemente si è aggiunta la Fondazione Crup che finanzierà sei borse di studio per l’intera durata del progetto.
FAB, DALLE IDEE AI PROGETTI Itaca annuncia i primi tre progetti che entreranno nel mercato Il “Parco naturale sinergico”, lo “Scambio intelligente” e “Open land” sono i tre progetti che hanno superato l’ultima fase di selezione di Fab, il generatore d’impresa sociale lanciato lo scorso 29 giugno a Pordenone dalla Cooperativa
sociale Itaca in occasione delle celebrazioni per il proprio Ventennale di fondazione. «Delle sei idee che avevano superato il primo esame di settembre e frequentato la Village Academy (da cui i progettisti sono usciti con una
strutturazione dell’idea di impresa, sia in termini di impatto economico ma anche di impatto sociale)- spiegano dalla Cooperativa - Itaca ha scelto le tre che rispondono meglio ai requisiti di impresa a forte impatto sociale».
OPEN LAND di Tiziana Perin
Open Land è una scuola dell’infanzia bilingue (italiano e inglese) che nasce per favorire il bilinguismo come struttura neurolinguistica, in virtù dei molteplici vantaggi cognitivi che questo comporta. Usare l’apprendimento dell’inglese in età prescolare, come parte integrante di un percorso volto ad educare alla multiculturalità, può garantire la crescita di ogni bambino nella curiosità, educandolo attraverso il gioco alla responsabilità e al rispetto. Tra gli obiettivi, anche la promozione della ricerca e formazione in ambito pedagogico, attraverso la creazione di reti con enti, fondazioni e altre scuole di eccellenza.
LO SCAMBIO INTELLIGENTE di Federica Morsanuto Si tratta di un sito web dedicato allo scambio di beni e competenze con un occhio particolare al Terzo settore che nasce per mettere in comune le risorse connettendo, attraverso la rete, i privati e il mondo del non profit, le aziende e le istituzioni pubbliche. Obiettivo è scambiare, gratuitamente e per un tempo determinato, risorse materiali e risorse umane (prestazioni, consulenze, ecc. verranno valutate con dei crediti a seconda del valore commerciale), favorendo il welfare di comunità, con la possibilità di dar vita a progetti inediti che portino a migliorare i servizi.
IL PARCO NATURALE SINERGICO di Julia Mamolo, Jessica Martinuzzi, Giulio Micelli, Giovanni Stefanutti. Il progetto del Parco Naturale Sinergico è destinato ad occupare um’area di circa 50 ettari nel comune di Trasaghis (Ud) e punta all’integrazione fra più dimensioni: agricola, didattica, di valorizzazione del territorio e sociale. Il piano d’impresa prevede la produzione di humus, orticole, alboreti e allevamento di ovini. Nella medesima area verranno proposti percorsi di fattoria didattica per valorizzare i magredi. Il modello organizzativo previsto è quello della Cooperativa sociale di inserimento lavorativo (tipo B).
Drogarsi è come suicidarsi, gesto egoista che fa soffrire chi resta «Combatto ogni giorno per dare un senso alle morti di tanti miei amici, per mia figlia e per chi mi vuole bene» di Tina «Gioventù bruciata non è soltanto un film, dicevano le parole di una canzone, gioventù bruciata vive nella merda!» Avevo 23 anni quando a ruota, il mio migliore amico e poi io, ci ammalammo di endocardite. Per lui fu massacrante, lo affettarono per bene: perse le dita dei piedi, la cistifellea, un pezzo di cervello. Così non appena riuscì a tornare a camminare si trascinò chilometri e chilometri fino al ponte nuovo e da lì si gettò. Aveva 32 anni e per me è stato il colpo più duro,
restare con mille parole da dire e non poterne più dire una. In questi anni ho visto morire quasi tutti i miei amici più stretti, chi di suicidio, chi di cirrosi, chi di Aids e di altre orribili morti. Se ne sono andati tutti in modo diverso, ma c'è una costante che riunisce le loro vite e morti ed è la droga. E' come se fossero morti tutti di droga. Sai, dalla morte non si può tornare, per quello secondo me si può cercare di non provocarsela. Vabbè puoi pensare «tanto dovrò morire prima o
L’amore, la droga naturale che non dà rimpianti «Ho capito dopo che si può essere al top anche senza sostanze chimiche» di Luca Ecco ancora una volta mi ritrovo a pensare alla droga; di sicuro lo faccio perché è un modo di sfogarmi e perché mi sono reso conto che farà sempre parte di me. L’ho amata, ma l’ho soprattutto odiata. Andava alla grande
quando con fare sbarazzino è senza troppi pensieri ho cominciato a fumare le canne. Ricordo perfettamente le prime sensazioni: la voglia di parlare e allo stesso tempo i pensieri che ti sfuggono sulla punta della lingua, la boc-
TUTTI LIBERI di Tina
Anno nuovo,vita nuova, vene vecchie e cerume nelle orecchie. L'anno che è fuggito in un soffio è passato x colpa del minias l'ho già dimenticato. I giorni corrono e gli anni vanno avanti, mi sembra ieri che di anni ne avevo solo 20. Ma c'è qualcosa che ha il potere di tornare indietro, è la dipendenza nella sua bolla di vetro. Anno nuovo,posso cambiare, non ho più vene ormai da bucare, e se del vecchio mi posso sbarazzare dalle mie catene mi voglio liberare, la tossicodipendenza la si può fermare, la morte non ti da l'occasione di tornare. poi» ma se non vuoi suicidarti, allora devi sapere che ogni volta che ti fai rischi la vita anche per una semplice setticemia, quindi non è per niente diverso dal suicidio; e sai cos'è un suicidio per chi ti ama? E' come uno sputo in faccia, come dirgli «non sei abbastanza importante per farmi vivere», «mi nego a te perché non vali». Il suicidio è estremo, egoista, ti fa sentire inutile. Io sono una tossica in conflitto con la vita, che spera e cerca di non predicare bene e razzolare male, che
chiude fuori casa il mondo con tutto il suo mal stare per cercarsi un mondo migliore nell'interiorità del proprio cuore e nella mente. Ma il mondo malato è sempre là, fuori dalla finestra che ti attira come le luci colorate attirano gli allocchi. Una paranoica? Forse sì, ma che ce la sta mettendo tutta per diventare una ex tossica, per mia figlia, per chi mi ama, per non far essere inutili tutte quelle morti. Vorrei un giorno poter dire che mi hanno fatto riflettere e quindi salvato la vita.
ca impastata, e l'insaziabile fame chimica, ma soprattutto il senso di pace e il piacere di far correre la mente su pensieri di ogni tipo che alla fine senza controllo mi uscivano dalla bocca senza rendermene conto. E tutti i miei amici finivano per ridere a crepapelle e prendermi in giro; passavamo i pomeriggi cosi senza pensieri e senza guardare mai l'ora. Essendo una compagnia di ragazzi e ragazze a cui piaceva divertirsi e, perché no, trasgredire decidemmo di partecipare ad un rave party, o meglio, qualcuno di noi c'era già stato e non ci aveva messo molto a convincere gli altri descrivendo ciò che aveva provato e visto a quella festa. Che dire a riguardo...la prima festa non si scorda mai. Ero assieme alle persone con cui passavo la maggior parte del mio tempo ed è stato pazzesco per le sensazioni che ho provato e che ora in questo momento sto cercando di descrivere e spiegare con le parole più giuste per tradurre nero su bianco un vortice di sensazioni e uno stato di coscienza superiore dove mi sembrava di essere la parte fondamentale di un ingranaggio che senza di me non avrebbe mai potuto funzionare. E fu a quel punto che, dentro di me, iniziò
a crearsi quel conflitto per il quale tutt’ora combatto e cerco una risposta. E’ la risposta al perché non ho avuto la fortuna di provare certe emozioni in modo naturale senza l'aiuto di un agente chimico esterno: ciò mi avrebbe senz’altro risparmiato un senso di colpa che negli anni ha sempre più preso piede in me. Si, perché per quanto io abbia amato la droga, anche se preferisco chiamarla “sensazione" mi sono sempre domandato se fosse giusto o sbagliato. Alla fine ho concluso che per quanto mi riguarda mi sento fortunato ad aver provato simili stati di empatia e di pace interiore, ma allo stesso modo sono certo che non sia giusto abusare di queste sensazioni e anzi, se si ha la fortuna di voler o ancora meglio se non si sente la necessità di sperimentare, tanto meglio. Adesso fortunatamente ho capito il significato che c'è tra uso e abuso di droga; e sono felice di aver in parte dato una risposta alle mie domande, ora non mi resta che sperare di continuare a provare queste emozioni in modo naturale con la ragazza che amo, insieme alla mia famiglia e alle persone che mi vogliono bene; senza nulla togliere a ciò che ero è a ciò che sono diventato.
l'angolo della daniela
VOTO O NON VOTO. PENSANDO ALLE LEZIONI POLITICHE Dopo anni trascorsi a mantenere governanti gli italiani sono diventati degli esperti nel far quadrare i conti di Daniela Russo Certo che come riusciamo noi cittadini comuni a far quadrare i conti, è talvolta sorprendente. Anche dove le entrate dei nostri stipendi sono minori rispetto alle uscite, noi abbiamo la capacità di continuare ad andare avanti, ma non solo, riusciamo anche a mantenere la grandissima famiglia del Parlamento, e unendo tutti insieme le forze garantiamo loro stipendi spropositati, viaggi, cene in ristoranti lussuosi, centri benessere, auto blu. Che non sia proprio questo il problema del nostro impoverimento? Ma no!! Loro fanno un lavoro di grande re-
sponsabilità, e hanno bisogno di questo, e dato che sgobbano tutto il giorno per noi, mi pare il minimo ricompensarli. Il grande problema siamo noi furbetti che evadiamo le tasse, portiamo i nostri risparmi all’estero, tendiamo a non farci fatturare le spese per pagare meno i nostri conti. Non si fa così! Le tasse vanno pagate, altrimenti loro come fanno a pagare il debito pubblico? Dovrebbero privarsi di una fetta del loro stipendio, ma noi non vogliamo che accada ciò: loro, tutto quello che hanno se lo sono sudato. Anche se ultimamente proprio
Andreas Tille
Se il Bene si arrende al Male Ovvero le dimissioni del Papa di Ferdinando Parigi «Le dimissioni del Papa sono un atto di resa delle forze del Bene alle forze del Male», ho detto un giorno. «Tu dai i numeri», mi hanno risposto. E io i numeri li do sul serio: 105 mila cristiani massacrati nel 2012 nel mondo (trafiletto in prima del Corriere nel gennaio 2013); $ 900.000.000.000 (si legge novecento miliardi di dollari, circa 1.350 milioni di miliardi delle vecchie lire) è il giro d’affari della criminalità organizzata in un anno; 200 milioni di tossicodipendenti nel mondo, e 205 mila morti per droga nel solo 2012. I proventi della criminalità organizzata che “salvano il sistema bancario mondiale” (sono tutte fonti ufficiali, quindi corrotte, quindi i dati sono per difetto). Questi sono solo alcuni dei numeri del Male nel mondo. Un mondo in cui è ufficialmente sancito
bene non viviamo! Ma niente paura, con le elezioni dovrebbe risolversi tutto, ci sono tante proposte, tra cui togliere la tassa dell’Imu. Dicono addirittura che torneranno fino all’ultimo centesimo versato nell’anno precedente per questa tassa. D'altronde abbiamo solo fatto un prestito, va bene, ci ha costretti a rinunciare per un po’ alla nostra libertà di spesa, ma qualche sacrificio è anche normale in periodi come questi. Ci teniamo o no al nostro Stato? Ci hanno anche promesso che dimezzeranno il numero dei nostri parlamentari: manderanno a casa politici per garantire più liquidità alle nostre tasche. Ma allora tutte quelle persone che abbiamo pagato fino ad ora, non erano proprio così necessarie? No, queste cose non si dicono, tutte le loro forze le hanno unite lavorando duro per noi, dando buon esempio e futuro agli italiani. Anche se talvolta lo stress del loro duro lavoro li ha portati a tirarsi qualche ceffone, qualche sediata in testa, ma fa parte del gioco. Se li vedesse la mia mamma! Ne sarebbe contrariata, penserebbe che
l’insegnarmi a parlare sempre e comunque, oggi come oggi non porta poi così lontano. Magari se mi avesse insegnato ad ottenere le cose a suon di tirate di capelli avrei potuto entrare anche io in Parlamento. Ma non importa, anzi, sono felice di darmi da fare tutto il giorno per garantire loro una bella vita. Va bene, qualcuno ha perso il lavoro, la sua attività, la sua dignità, ma vedrete che vi rifarete in fretta se adempirete ai vostri doveri elettorali, insomma i brutti periodi capitano a tutti, ma non per questo dovete perdere le speranze. E a chi le ha perse trovando come unica soluzione il suicidio? Bhe, lo Stato ha altro a cui pensare, non può accollarsi sempre tutte le responsabilità. L’unica cosa che può fare è stare molto vicino alle famiglie vittime della tragedia, meno male che ci sono loro, altrimenti chi pagherebbe i debiti lasciati! Va bene, quest’anno mi avete convinta, voterò anche io. Chi? Bhe, ovviamente chi si avvicina di più alle mie esigenze! Scusate, non me ne vogliate, io ce l’ho messa tutta, ma non me la sento proprio!
che i diritti di due adulti omosessuali contano più del diritto di un bambino che nasce ad avere una mamma femmina e un papà maschio, e guai a quel “reazionario” che si permettesse di discutere in merito. Un mondo in cui si deve togliere il crocifisso dalle aule scolastiche in nome della libertà di religione, mentre è sancito il diritto di costruire le moschee (dove si prega “affinché gli infedeli siano annientati”) in pieno centro di Milano, per parlare di casa nostra. Un mondo in cui appena il Papa si azzarda a citare il passo di un discorso fatto nel 1.400 dall’imperatore bizantino Manuele il Paleologo circa la naturale tendenza dei musulmani ad usare la spada per difendere la propria fede, la frase viene estrapolata dal contesto, indegnamente criminalizzata e genera una sollevazione violentissima da parte del mondo islamico con conseguenti roghi di luoghi sacri cristiani (coi Cristiani dentro, però, ma questo si trova in qualche sparuto trafiletto). E’ in atto un genocidio di cristiani, e tutto passa sotto silenzio. A causa del conformismo, a chiunque è concesso dileggiare la fede cristiana, cancellarne i simboli, che sono i simboli di Dio che si è fatto uomo attraverso Cristo Gesù, cioè il primo nella storia dell’Umanità ad affermare l’importanza di curare gli ammalati, sfamare gli affamati, visitare i detenuti, solidarizzare con gli ultimi, parteggiare per i deboli. Il primo a sancire che cosa è Bene e che cosa è Male, ad affermare che esiste il perdono; il primo ad insegnare che alla violenza non si reagisce con la violenza, ma addirittura “porgendo l’altra guancia”. Per noi sono tutte cose scontate, ovvie, nate con noi, ma prima di Gesù tutto ciò non esisteva. Non tutti i Papi sono uomini santi e martiri come Giovanni Paolo II, che si è speso fino all’ultimo rantolo per affermare questi sacri ed eterni valori, dopo avere giocato un ruolo-chiave affinché la barbarie del comunismo scomparisse dall’Europa e fosse messa in crisi nel resto del mondo. Joseph Ratzinger non se l’è mai sentita di affrontare, in qualità di successore di Pietro, di Vicario di Cristo, tutti gli orrori che ho descritto, e mille altri ancora. Mai. Io prego affinché il prossimo Papa sia un uomo soprattutto forte, prego perché sia nero, cioè abbia “assaggiato” che cosa significa essere cristiani in paesi dove questa è una buona ragione per essere sgozzati, fatti a pezzi, o arsi vivi, o fatti saltare per aria, nell’indifferenza del resto del mondo. Se è vero, che qui vige la “Libertà di Parola”, voglio sentirmi libero di sperare in un Papa che non stia sui libri, ma che combatta contro le forze del Male.
l'angolo della franca
Una canzone, un personaggio: Amazing Grace di John Newton «Cercando una canzone, ho incontrato una storia» di Franca Merlo Tra i canti che ho ascoltato qualche tempo fa in una chiesa londinese, uno mi è rimasto impresso perché aveva qualcosa di struggente, toccava le corde del cuore senza essere sentimentale od enfatico. Uno di quei canti che ti si conficcano dentro e non vogliono più uscire dal tuo profondo. Troppo bello per perderlo. Allora l’ho cercato su youtube e l’ho trovato. Mi era anche vagamente familiare e infatti, in Italia, era stato a suo tempo un best seller dal nome “Il gabbiano infelice”. Forse qualcuno lo ricorda. L’arrangiamento era de “Il Guardiano del faro”, pseudonimo di un autore divenuto famoso negli anni ’70. Compiendo una ricerca su questo canto, ho incrociato la storia di un interessante personaggio settecentesco. Il brano originale infatti è “Amazing
Grace” ed è opera di John Newton. Egli nacque nel 1725 vicino a Londra, a Wapping, paese di mare e di tradizioni marinare e ancor giovane si imbarcò su navi negriere che facevano la spola tra Africa e America; chissà da quante generazioni la sua famiglia si dedicava al traffico di schiavi e il giovane John amava il mare e il suo lavoro, ritenendolo un lavoro normale. Ad un certo punto della sua vita Newton ebbe una conversione religiosa. Qualcuno dice sia avvenuta durante una tempesta: John chiese aiuto a Dio e si salvò. Tempesta o no, quel che è certo è che non fu un fuoco di paglia. Newton fu toccato nel profondo e cambiò la sua vita. Doveva essere una persona colta, perché compose inni religiosi (testi e musica); sono inni che
piacciono tuttora. Lasciò il suo lavoro, divenne pastore e predicatore nella chiesa inglese e fino alla fine dei suoi giorni lottò per l'abolizione della schiavitù, dedicando la vita a questa missione. La tradizione vuole che sia stata la sua conversione a fargli capire, immediatamente, quanto fosse disumana la tratta degli schiavi, ma uno storico scozzese, Niall Ferguson, fa notare che le date non collimano. Siccome “Amazing Grace” è un inno appassionato di conversione a Dio, ci si immagina Newton che improvvisamente vede la luce anche riguardo allo schiavismo e quindi abbandona la sua indegna professione. Ma lo storico invece afferma che fu proprio dopo il suo risveglio religioso che Newton diventò capitano di navi negriere e che soltanto
più tardi cominciò a mettere in dubbio la moralità di comprare e vendere i propri fratelli. La storia di Newton mi convince (e mi piace) proprio così: egli fu un uomo con i suoi limiti, come tutti. Crebbe in un determinato ambiente e ne assorbì valori e disvalori. La sua conversione fu sincera, ma egli ebbe bisogno di tempo per capirne la portata, per capire le richieste implicite in questo nuovo modo di vedere la vita. Se può essere immediata una determinata comprensione, non può essere immediato un cambio radicale di mentalità, che investa tutti gli aspetti della vita fino allora vissuta. Newton ebbe bisogno di tempo, come tutti. Però ci arrivò, e fu coerente. Proprio per questo il personaggio mi parla nell’oggi, così come i suoi inni che mi toccano, perchè li sento veri.
Amazin Grace si trova su youtube in molte interpretazioni (consiglio quella solo strumentale, suonata dalle “Scottish Pipes”). Il testo è su Wikipedia. Il brano è stato interpretato da moltissimi cantanti e musicisti, tra cui Diana Ross con Placido Domingo e Josè Carreras, Joan Baez, Aretha Franklin, Elvis Presley, le Celtic Woman (accompagnate da suonatori di cornamusa ed orchestra), gli U2 , i Nirgilis in Sakura (usata anche come quarta sigla di apertura dell'anime Eureka Seven) e molti altri fino ad arrivare, nel 2011, ad Andrea Bocelli. Parte della storia è raccontata nel film Amazing Grace diretto da Michael Apted nel 2006, dove Newton viene interpretato da Albert Finney.
celox
Una risata al giorno toglie il medico di torno Sempre di corsa, pessimisti e stressati, mangiamo pure male di Emanuele Celotto Ciao, come state? Bene mi auguro! Quando parliamo di salute pensiamo allo stare bene fisicamente, invece lo stare poco bene lo associamo alla parte del corpo che ci fa male, finendo col non considerare tutto l’insieme. Ci dimentichiamo che il corpo è il riflesso della mente e dello spirito e che l’armonia tra i tre (mente-corpo-spirito) determina la nostra salute così, più siamo in armonia, migliore è la nostra salute. Quanto siamo in armonia? Scienza e medicina hanno fatto notevoli progressi negli ultimi 50/60 anni e sono state scoperte un sacco di malattie di cui non eravamo a conoscenza. Vero,
ma ben pochi dicono che la qualità dell’aria e dell’acqua sono notevolmente peggiorate negli ultimi 50/60 anni, che per troppo tempo abbiamo usato diserbanti, pesticidi e fertilizzanti, senza alcuna preoccupazione e poi o.g.m. conservanti, coloranti ecc. La maggior parte di queste malattie sono la conseguenza di tutto ciò. L’uomo ha smesso di essere in sintonia con il suo ambiente e mangia in modo meno sano. Ma così si finisce col non vedere molte altre cose. Adesso si sente dire che abbiamo una migliore qualità di vita rispetto ad una volta. Può essere. Abbiamo molti più beni materiali e più
possibilità di acquisto, ma che tipo di vita viviamo? Quanta gioia c’è nella nostra vita? E nei nostri pensieri? Un esempio? «Ciao come va?». «Così così, mi è venuto un dolore». «Pensa che a me è da un po’ che fa male». E vai di sfiga, finendo col crearsi un clima di negatività. Invece abbiamo un sacco di difficoltà a parlare del tal momento di serenità e gioia che abbiamo vissuto. Fate un po’ caso quando vi capita di fare zapping in Tv. E’ facile imbattersi in una o più trasmissioni che parlano di malattie e altre che parlano del tal dramma o della tal catastrofe. Ma la nostra vita è fatta per la salute e la gioia. Nutrire la mente con tanta negatività non porta verso l’armonia. Anche il nostro sistema di vita basato su possesso e consumo tende a creare molta infelicità, ma siamo così presi dentro che nemmeno ce ne accorgiamo. Spesso di corsa: per strada, al lavoro, a far la spesa, alla posta ecc. Frustrati e un po’ delusi, non possiamo avere, ne comprare. E non abbia-
mo mai tempo! Non abbiamo più tempo per prenderci cura di noi, per rilassarci e fare una passeggiata o per gustare il cibo che abbiamo davanti e, soprattutto non abbiamo tempo nemmeno per ridere. Ridere?? Si! Una sana risata ci fa sentire meglio e fa vedere i problemi in un’ottica più leggera e meno fastidiosa. Fino a 50/60 anni fa ridevano quasi un’ora al giorno adesso solo sei minuti. Eppure bastano una mezz’ora di attività fisica ed un quarto d’ora di risate al giorno per restare in buona salute. Visto che ci siamo: quando ci incazziamo attiviamo oltre 150 muscoli, quando sorridiamo poco più di 60 e allora: risparmiate fatica, ridete e sorridete che fa buona salite!
L'intuizione di Keshe fa discutere gli scienziati Reattori che producono energia pulita a costo zero, ma di essi non c’è ancora il brevetto. L'inventore è un ingeniere nucleare iraniano di Simone Pajaro Da un po’ di tempo a questa parte un signore di nome Keshe fa parlare di sé, da quando ha cominciato ad annunciare al mondo di aver scoperto e realizzato una tecnologia per produrre energia pulita. Tale tecnologia avrebbe centinaia di applicazioni, dai viaggi spaziali alla medicina. La cosa più sconvolgente è che lo stesso, proclama di voler regalare tale tecnologia. Siamo di fronte ad un benefattore dell’umanità? A dire il vero molti fattori fanno sorgere qualche dubbio, ma spesso nella storia della scienza alcuni pionieri sono stati tacciati come “ciarlatani” dagli esponenti più autorevoli del mondo accademico e scientifico del momento. Si pensi sola-
mente al medico ungherese Ignác Semmelweis che intorno al 1846 introdusse il lavaggio delle mani con particolari soluzioni disinfettanti per il personale medico, al fine di ridurre l’incidenza delle morti delle partorienti ricoverate negli ospedali. La sua intuizione, per altro suffragata da una buona statistica, impiegò una quarantina d’anni per essere accettata e applicata in modo diffuso e nel frattempo venne osteggiata e disattesa. Di Mehran Tavakoli Keshe sappiamo che è un ingegnere nucleare iraniano. Egli afferma di avere brevettato una tecnologia per la costruzione di un “reattore” in grado di produrre energia pulita, ma in realtà di tale brevetto non
c’è traccia mentre esiste una richiesta di brevetto rifiutata e qualche schema non propriamente definibile tecnico. Tale reattore avrebbe centinaia di applicazioni: dalla realizzazione di mezzi di trasporto velocissimi (una decina di minuti per andare dall’Europa agli Stati Uniti) alla propulsione di navi spaziali (per un periodo sul sito della fondazione no-profit , dallo stesso fondata, era possibile acquistare biglietti per viaggi sulla luna); il reattore opportunamente “tarato” permetterebbe di guarire ogni (o quasi) malattia, permetterebbe di essere applicato nella produzione in agricoltura e ovviamente in campo militare. Sicuramente il signore in questione ha la capacità di far parlare di sé, riuscendo a coinvolgere anche esponenti governativi di vari paesi, inclusa l’Italia, organizzando eventi e conferenze. L’esito di tali eventi è di sollevare domande più che di chiarire i dettagli tecnici delle sue invenzioni, tanto da far sorgere il dubbio se qualcuno abbia mai visto effettivamente in azione uno dei reattori di Keshe. Gli esperti del settore si dividono in contrari o scettici e “possibilisti”, c’è chi dice che
la persona in questione non sa di che cosa sta parlando e chi invece, in nome di un “non si può mai dire”, appoggia le teorie dell’ingegnere iraniano. Di là della mia posizione personale, credo che entrambi gli atteggiamenti, ma soprattutto le teorie di Keshe, debbano passare il vaglio del metodo scientifico che richiede applicazione e rigore, mente aperta e critica (soprattutto verso se stessi e le proprie posizioni), sperimentazione per provare che una teoria è valida, confronti incrociati. Insomma un bel po’ di lavoro … eppure l’intuizione geniale esiste e a volte viene portata avanti senza troppi mezzi. In fin dei conti (scusate la banalità) Einstein riusciva a descrivere i segreti dell’universo con il solo ausilio di una matita e del retro di una busta usata su cui scrivere i suoi appunti.
semplicementegiÒ
Riflessioni mentre aspetto la primavera Camminando nella natura, penso alla crisi che come l’inverno ingrigisce gli animi di Giovanna Orefice Siamo ancora in inverno ahimè, ma già fortunatamente le giornate si stanno allungando. Ogni volta che esco da casa prendo la macchina e mi dirigo verso la Pedemontana, osservo le montagne innevate del Piancavallo ed il cielo tinto di rosa, oltre a meravigliarmi di così tanta bellezza e a ciò che è nulla a confronto dello spettacolo naturale, penso che tra un po’ verrà primavera. Per una persona celebrale e riflessiva come me, l’inverno solitamente mette un po’ di malinconia (anche perché non vivo alle Bahamas) con le sue giornate grigie, fredde e un po’ tristi. Sono stata concepita in primavera e compio gli anni in gennaio, in pieno inverno,
qualche giorno prima i giorni della merla, e così “rinasco” ogni anno proprio in primavera. Eh si, io muoio e rinasco come l’Araba Fenicie. Camminando per la città, osservo i volti delle persone: volti preoccupati, di chi fatica a salutare o dare un sorriso. Possibile che questa crisi ha messo così tanta gente al tappeto?
Mi chiedo spesso. Girando qua e là guardo, comprendo, penso, parlo e mi faccio tante idee, una soprattutto: credo che torneremo a vivere come una volta, ognuno in una casetta con il proprio orticello, la legna, il caminetto.Insomma con semplicità! Ora c’è troppo consumismo! Ritorneremo così a parlare con i vicini di
casa, a scambiarci un favore ed essere di nuovo un po’ più umani. Quando ero piccola, riguardando le foto in bianco e nero, vedo una bambina sul fasciatoio pronta per essere cambiata, vicino alla stufa a legna per tenerla al caldo, e mi ricordo di me stessa felice, con poche cose a disposizione ma contenta, serena. Credo, nel profondo del mio cuore, che abbiamo bisogno tutti di una vita più semplice, più sana e più vera, un ritorno alle origini, al centro di noi stessi. Ora che siamo ancora in inverno, mi piace stare per conto mio accoccolata sul divano, come una gatta o a volte camminare tra gli alberi nei i boschi. Tra pochi giorni, il 21 marzo, inizierà inesorabile la primavera: stagione delle viole, degli alberi di pesco, di un mix di colori. Sembrerà ad ognuno di ringiovanire, di rinnovarsi per poi “esplodere” in estate, sotto il sole cocente. Addio Inverno, ti lascio alle spalle, ci rivediamo il prossimo anno, spero non più in città ma in un luogo più vicino a me, alla mia natura.
il ricordo
«In memoria della mia più fedele amica Base» L’adorato cagnolone della nostra Maddy non c’è più. Erano una cosa sola loro due e il vuoto che le ha lasciato oggi è ancora tanto di Maddalena Mia amata amica Base, ti ricordi quel giorno quando ti promisi che non ti avrei più abbandonata? Ebbene, questa promessa - accidenti a me - non l’ho mantenuta. Avrei pagato qualsiasi cosa pur di farlo, perché ora non ci sei più e io sto terribilmente male. Tu, quando avevo più bisogno di te, ci sei sempre stata. Mi ricordo bene sai! Quando stavo male e magari piangevo perché ero giù di morale tu ti sedevi davanti a me, mi guardavi con i tuoi occhioni pieni d’amore, mi mettevi la tua zampina sul ginocchio e mi leccavi via le lacrime come per dirmi «dai padroncina mia non piangere, ci sono io qua con te!». Adesso sono qui, che piango ogni giorno come una fontana (sembra che mi scendano le Cascate del Niagara) perché tu non ci sei più, sento dentro di me un vuoto incolmabile e sono arrabbiata con me stessa perché io, quando tu avevi più bisogno di me, non ci sono stata. Ancora mi chiedo perché il Signore ti abbia voluto con sè, portandoti via da me! Sai, quando è venuta mia mamma a colloquio e mi ha riferito (anche lei con gli occhi lucidi) che tu, amore mio, non eri più in vita, ho avuto una crisi isterica, non ho fatto altro che piangere e disperarmi per tutto il tempo. Ad ogni colloquio parlavo sempre e solo di te, non mi interessava nessun altro tipo di argomento. Base, ti ricordi i bei momenti passati assieme? Io sì e vivo di quelli. Ti ricordi ai laghetti di Navarons? L’acqua era gelida e mentre nuotavamo io ad un certo punto non ce la facevo più, tu sei venuta verso di me, io mi sono aggrappata a te e mi hai portata a riva (anche se quella sbagliata). C’era un trampolino e tu abbaiavi perché volevi tuffarti. Ah, la mia “Federica Pellegrini”! Quando andavamo al mare, ti piaceva venire a nuotare insieme a me: quando tornavi sulla
spiaggia, anche se ti mettevo il tuo asciugamano, tu, piena di sabbia, ti stendevi sul mio, ma io ti lasciavo, tanto per un po’ di sabbia… poi se io rimanevo in acqua, ogni tot venivi a vedere se stavo bene e se era tutto a posto tornavi a riva. Quante risate quando ti mettevamo sul materassino e andavamo al largo. Eri una regina, ti guardavi intorno maestosamente. Cara la mia golosona, mi chiedo se lassù dove sei in questo momento ti diano la pizza che tu tanto adori, anche se a te basta pure un semplice panino, purché con il prosciutto! Spero anche che ti facciano giocare con i tuoi amati bastoni (se non hanno la pallina). A volte prendevi dei bastoni più grandi di te, o prendevi quei rami fini: quante frustate sulle gambe mi hai dato! E con la neve? Un giorno aveva nevicato e il pomeriggio alcuni bambini avevano fatto un pupazzetto di neve: quando ti ho portata fuori era verso l’imbrunire e quando l’hai visto nell’oscurità ti sei spaventata, non so dire per quanto gli hai abbaiato contro, tenendoti a debita distanza finché non ti ho fatto capire che era innocuo, allora ti sei avvicinata,
ma sempre con un punto interrogativo sul tuo musetto. La neve ti piaceva tanto, cercavi sempre di mangiarla con gusto. Quando la mattina uscivamo per andare al Ser.T. e tu rimanevi indietro perché dovevi annusare e curiosare dappertutto, ti chiamavo e tu, con fare spensierato, mi correvi incontro felice con i tuoi chiletti di troppo, ma che per me ti stavano benissimo. Quando arrivavamo e magari ti facevano stare fuori, tu ti mettevi davanti al cancello, che qua-
si quasi sembravi un utente. Non c’era persona che non ti volesse bene. Tutti ti amavano, non quanto me di sicuro, ma tutti quelli che hanno avuto l’onore di conoscerti si sono innamorati di te, tutti! Piccola mia, ogni giorno quando esco dalla cella, vado davanti ad un'immagine di Gesù, gli metto una mano sul cuore chiedendogli di proteggerti e di starti sempre accanto e lo “ringrazio” per non averti fatto soffrire, visto che avevi un tumore al fegato. Dormo sempre abbracciata ad una tua foto dove sei splendida, sai? Ogni sera mi addormento con il pensiero di quando dormivamo insieme nel mio letto sotto le coperte (cavoli, dovevo aggrapparmi a te per non cadere, perché tu dovevi stare comoda) e mentre sono nella mia branda, ora cerco di farti un po’ di posto, col pensiero che tu, mentre dormo, vieni accanto a me. Poi, quando sto per addormentarmi mi auguro che tu venga a trovarmi in sogno! Sarò matta, ma non so cosa farci! Il Signore mi ha portato via la mia bellissima e dolcissima Base e quindi una parte di me, ma tu vivi nel mio cuore e nella mia anima. Cucciolona mia di ricordi tuoi ne ho una carovana e vivo di quelli. Ricordare tutto ciò mi fa male, ma allo stesso tempo mi strappa un sorriso! Con il cuore colmo d’amore spero di rincontrarti in una vita futura, per questo non ti dico addio ma solo arrivederci! Mi hanno spiegato che ognuno ha bisogno di un breve periodo di cordoglio prima di passare ad un’altra fase, ma la sofferenza è necessaria: soffrire senza ritegno prima di poter ricominciare. Con infinito amore.
continua dalla prima pagina
lavoro e di obiettivi che senza una scossone come quello subito, difficilmente sarebbe stato possibile scardinare. Se si possiedono intelligenza e forza, da ogni momento di difficoltà, da ogni momento di necessaria o imposta ristrutturazione, si costruisce cambiamento positivo. Il giorno dell’inaugurazione ci sono state circa 90 persone, provenienti da diversi settori del pubblico e del privato sociale, amici dell’associazione, vicini di casa, forze dell’ordine, rappresentanti delle maggiori realtà del territorio, noi, i ra-
gazzi. La casa della Panka è stata rimessa a nuovo lustro, grattata, stuccata, dipinta, riempita, colorata, amata. Si trova in via Selvatico 26 a Pordenone ed è aperta La sede sta prendendo corpo, si sta piano piano “colorando” di suoni e parole per troppo tempo lasciate in lontananza, per troppo tempo messe in uno scatolone imballato ed impilato all’interno di un magazzino. Siamo ripartiti e siamo contenti, di esserci ancora e di poter dare ancora, di poter ricevere ancora, in vicinanza, con vicinanza.
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
...che storie! di MIlena Bidinost
Ogni volta che nel panorama storico di una data epoca entra in scena una nuova tecnologia legata alle comunicazioni di massa, anche la lingua, le forme stilistiche e le espressioni artistiche vengono sollecitate a cambiare e ad assumere nuovi caratteri e nuove qualità. Fu così nel caso della carta e della stampa nel Medioevo; fu così agli inizi dell’800 con la fotografia e dopo di essa anche nel caso del cinema, della radio, della televisione. Di internet. Non solo il mezzo espressivo cambia, ma è la stessa commistione tra le diverse arti ad ampliare il potenziale della comunicazione. L’ispirazione si moltiplica all’ennesima potenza. C’è l’ispirazione che dà vita a ciascuna arte specifica e c’è l’ispirazione che nasce da un’arte per essere traferita in un’altra: che nasce, di fatto, da un’altra ispirazione. Il gioco è affascinante! Ad esempio. Come nascono un libro, un racconto, una poesia? E’ una domanda importante, visti i milioni di libri in circolazione. Prima di scrivere l’autore li avrà necessariamente pensati: ma partendo da dove? Esiste infatti un momento nella storia di un testo, una fase di passaggio tra il suo non esistere e il suo esistere se non ancora su carta almeno nella mente del suo autore. E’ la decisione di scrivere, la scelta razionale cioè di mettere su carta un'idea. Una sorta di concepimento letterario che segna l'inizio di una storia che forse ci sarà o forse no, forse venderà milioni di copie o forse non sarà mai pubblicata, ma in qualche modo esiste già in forma potenziale. Dunque, da cosa nasce questa idea? A volte da un’esperienza diretta o di altri che per qual-
che ragione si vuole “buttare fuori”. Si parla in prima persona, o si inventano dentro quella nostra esperienza dei personaggi, un ambiente e si ripercorre la trama del vero. A volte invece è il personaggio che viene in mente per primo, oppure in altre è la trama. Insomma scrivere è un arte, non per tutti forse, ma che da tutto può prendere ispirazione. E perché no da una fotografia? Fotografia e scrittura sono infatti arti diverse, per gli strumenti e la tipologia di dialogo che utilizzano, ma affini. Entrambe partono da un’ispirazione. Il percorso va spesso dallo scritto alla fotografia. Molti sono ad esempio i libri illustrati che lo confermano. Ma invertendo i fattori, cosa succede? Succede che dietro ad un soggetto che ha toccato il nostro stato d’animo tanto da volerlo immortalare per descriverlo e “parlare di esso” attraverso quello specifico scatto, si può “sentire” la sua storia, che non necessariamente è la nostra, ma che con noi ha qualcosa di “affine”. Una storia che non è indispensabile conoscere, ma che può essere immaginata. Questo avviene nel momento in cui spezziamo quel filo sottile della comunanza tra noi e quella fotografia, facendola diventare un nuovo contenitore, ripulito da tutto. Esso diventa cioè il perimetro entro il quale “giocare” con la nostra fantasia, per lasciare fluire all’esterno, in parole scritte altro e altro ancora, in un percorso infinito di nuovi elementi. Non è facile e non è da tutti, ma può essere terapeutico o, al limite, anche solo divertente. Questo concorso “Una foto-Una storia”, lanciato dal profilo Facebook della Panka, nasce da questa intuizione.
scatti capaci di sfidare la fantasia Limonata dolce di Giovanna Orefice
UNA FOTO. . .
Nei lontani anni Sessanta del secolo scorso, una bimba camminava vicino casa, quando un bimbo la vide, la chiamò e le chiese come si chiamava. Lei lo guardò timida, ma direttamente negli occhi, e rispose: «Il mio nome è Giovanna, ma mi chiamano Giannina. E tu come ti chiami?». E il bimbo rispose sicuro: «Io mi chiamo Giuseppe». Era una splendida giornata estiva che invitava a stare all’aperto. I due bimbi si misero cosi a passeggiare insieme e a parlare tra di loro. Giuseppe le raccontava che amava il calcio, mentre Giovanna gli diceva soltanto che le piaceva la musica e il disegno. La giornata stava giungendo al termine e Giovanna pensò di invitare il nuovo amichetto a casa sua. Insieme, mano nella mano, si diressero verso la casa di Giovanna. La casa di Giovanna era piccola, ma accogliente, con un giardino
dove fiorivano le rose. Giunti vicino all’ingresso, la madre li vide e uscì a chiedere ai bimbi se avessero sete. Ne avevano. La donna allora portò a loro delle limonate. I due bambini, seduti sul dondolo, continuarono a chiacchierare sorseggiando le limonate. Giovanna scrutava il suo nuovo amico con i suoi grandi occhi marroni, che avevano un lieve taglio orientale. Giuseppe, dal canto suo, la guardava con ammirazione – aveva indosso un bel vestitino bianco - e pensava che quella bimba era un po’ strana. A Giuseppe Giovanna appariva gracile e indifesa, invece, lei celava una grande forza e una certa grinta. I due bimbi cominciarono cosi a stringere una bella ed intensa amicizia, che sarebbe durata nel tempo. Questa foto lo conferma. Giovanna sta davanti dritta con lo sguardo fiero e un po’ assorto, di chi dimostra di ave-
re un carattere forte, seppur sensibile. Nonostante questo Giuseppe da dietro l’abbraccia come a proteggerla dal mondo. Questa foto è proprio bella. Scusate, ho mentito un po’: non è vero che sono due amichetti. I due bimbi nella foto sono fratello e sorella.
gorie di artisti. E poi, quando lei leggerà la mia, pardon, la sua storia? Cioè, mi sono confuso, la mia storia su di lei, come reagirà? Beh, son proprio spaventato da questa idea, però l'ho promesso ai miei amici che avrei partecipato a questo gioco, ora non posso più tornare indietro. Mi sembra abbastanza a fuoco, si coglie anche la spontaneità del momento ed ho voluto
farla in bianco e nero, come le foto di un tempo, il digitale permette anche questo. La cosa bella della fotografia è che un attimo rimane per sempre, indelebile. E poi, è molto semplice, non come scrivere, o meglio, descrivere. E quindi di raccontarvi una storia non ne ho voglia, non ne sono capace, mi fermo qui, ora tocca a voi inventarne una”.
Ora scatto! di Fabio Passador
“Ecco, credo che da qui non mi possa vedere! Le scatterò una foto a tradimento, così da coglierne la spontaneità. Certo, è difficile descrivere la storia di una persona semplicemente cogliendone un attimo della sua vita, ma così mi hanno chiesto di fare. E quindi, mi toccherà utilizzare il flash?! Io non sopporto utilizzarlo, appiattisce qualsiasi prospettiva ed alcuni particolari nel viso di una persona. Va bene ci provo, tanto mica vinco il premio Pulizer. Però ci tengo a fare una buona fotografia, non posso fare brutta figura, mi leggeranno in molti. Ok, trattengo il respiro, colgo l'attimo in cui lei sarà ferma davanti a me, senza che si accorga della mia presenza e click! Ora mi chiedono di scriverci sopra una storia, che impresa difficile. Da dove parto? Che coraggio ci vuole ad inventare la storia di una persona reale, che è qui difronte a me. Ma d'altronde così fanno anche i registi, i musicisti, gli scrittori. Peccato che io non sia nessuno di queste cate-
di Vito Digiorgio Carlo si alza ogni mattina col sole dentro. Si sposta da una zona all’altra della città in cerca del migliore punto di osservazione. Carlo sa quanto sono importanti l’angolo prospettico, la visuale ottica, la rifrazione della luce. Quando frequentava l’istituto d’arte aveva seguito numerose lezioni sulla pittura en plen air. Ma il professore di arte non aveva saputo accendere l’entusiasmo del giovane per la materia. Così Carlo, una volta terminate le scuole superiori, aveva deciso di frequentare un corso professionalizzante per lavorare nel mondo della ristorazione. E aveva trovato occupazione presso un ristorante come cameriere. Tutto il giorno a spostare piatti e bicchieri, a sparecchiare tavoli. Quando ce n’era bisogno, Carlo doveva fermarsi a lavare i piatti. Le giornate trascor-
revano frenetiche al servizio di clienti pretenziosi. Quando prendeva le ordinazioni ai tavoli, doveva spesso sorbirsi le lamentele degli avventori. A volte criticavano la lentezza del servizio, altre volte la scarsa appetibilità dei piatti. Carlo aveva provato a cambiare ristorante, a spostarsi in un’altra città. La musica non cambiava, il servizio ai tavoli era un’attività poco stimolante. Fare di necessità virtù, si sentiva ripetere dagli amici e dai parenti. Riuscì a fare anche il salto di qualità, ottenendo il posto di caposala presso un ristorante di una nota località turistica. Nel tempo libero usciva per lunghe passeggiate solitarie. Amava osservare il mare, lo sbattere delle onde sugli scogli. Fu in quelle occasioni che si ricordò delle forme della natura immortalate dagli artisti, plasmate dalla loro
immaginazione. Il richiamo all’arte era troppo forte per essere ignorato. Il lavoro d’altro canto si faceva sempre più stressante. Fu quasi sull’orlo di una crisi di nervi. Una mattina decise di interrompere il servizio e ritornare nella città natale. Fu una scelta sconvolgente per i suoi genitori. Non per lui. Si sentì rinato. La mattina Carlo si alza, imbraccia il cavalletto, la valigia con i colori a olio e i pennelli. Indossa anche un paio di jeans con le toppe dipinte, una delle sue invenzioni da artista. Carlo si sente artista, fin nelle fibre dell’animo. Anche quando faceva il cameriere si sentiva artista. Ama dipingere il paesaggio. La città offre tanti scorci appetibili. Si posiziona sul marciapiede che costeggia un canale. È una giornata grigia, ma nella sua tela spiccano colori di fuoco.
ultimi sette anni aprì l'imposta a nord della sala. La luce era perfetta. La tela sul cavalletto si svegliò. Lei era li, come ogni giorno. Elias riusciva a dipingere solo il mattino, quando la mano era ferma e la memoria viva. Lo stridore acido dei freni lo distolse dalla luce, scese dirigendosi all'uscita. La neve cadeva in diagonale pungendo gli occhi. Era già buio a Montmartre, anche a casa sua il sole scendeva presto d'inverno. Pochi passi lo separavano dal Cafè du Lycée. Camminò radente ai muri. Entrò scrollandosi di dosso la neve bagnata. Tolse il cappello, piegò il cappotto sul-
lo schienale della sedia. Doveva attendere ancora quindici minuti. Il cameriere accennò l’uscita da dietro il banco, Elias si affrettò a fermarlo, avrebbe atteso un po’ per ordinare. Estrasse dalla tasca interna della giacca il suo taccuino nero e la stilografica, li posò sul tavolo. All'ora del cambio di turno, la porta del bar si aprì e Amerita entrò, rompendo il silenzio. La osservò mentre appendeva il soprabito e si ravvivava i capelli color ambra. Elias sentiva esattamente quei capelli scivolargli tra le dita. La ragazza si avvicinò per l'ordine - Che cosa desidera questa sera, monsieur? - Una crepe al formaggio e un bicchiere di Borgogna andranno bene, grazie - disse lentamente, prendendosi il tempo per guardarla negli occhi e registrarne il blu oltremare. Amerita prese nota. - Desidera anche un caffè? Il suo sguardo scivolò sulle labbra di rosso pallido, brillavano, - Si, certo, un espresso, corto magari. La notte era sprofondata nel viola e la neve aveva cessato di tagliare i passanti, si rivestì, indossò il cappello, pagò e uscì stringendosi forte nel pastrano, trattenendo al caldo i colori per il suo dipinto.
Lei era lì di Andrea Venerus Alla fermata di Chatou-Croissy si aprirono le porte della RER, e come ogni pomeriggio degli ultimi sette anni, escluse le domeniche, Elias occupò il primo posto libero. La linea rossa cambiava a Charles de Gaulle-Etoille e lo scaricava in meno di quaranta minuti ad Anvers. Il tempo del viaggio lo spendeva osservando un punto in movimento, una luce oltre i palazzi, sulle montagne che a Parigi non c’erano. Nevicava quel lunedì. Si era alzato tardi, prima di preparare il caffè pisciò nel lavandino, si sciacquò il viso e pettinò con le mani i lunghi capelli bianchi. Come ogni mattino degli
. . .UNA STORIA
Il pittore en plen air
QUANTE STORIE
Il tè dei Tuareg è un sorso dolce amaro di Elisa Cozzarini
Le luci della città galleggiano nel blu elettrico post tramonto. Filtrano tra le tapparelle abbassate al sesto piano. La prima volta che Assalo ha preso un ascensore, tremava di paura: aveva circa trent'anni e tre figli. Fino allora aveva vissuto nel deserto del Sahara, dove esiste solo il piano terra. Ancora oggi un brivido la sfiora, ogni volta che sale e scende nella grande scatola di metallo, più volte al giorno, per fare la spesa, accompagnare i figli a scuola. È come buttarsi dentro a un grande secchio e tuffarsi in fondo a un pozzo per prendere l'acqua. Haddoe lavorava in Italia già da anni, prima che arrivasse Assalo. In cerca di una vita migliore, lui era passato per la Libia ed era risalito fino a Pordenone, con il sogno dell'Europa. Lei intanto stava in Niger, in attesa. Le donne tuareg sono le vere custodi della famiglia, nella cultura nomade, dove è normale che l'uomo passi mesi e mesi lontano, per le carovane nel deserto. Gli uomini, quando tornano, è come se fossero ospiti delle donne. Solo che Haddoe non era partito per una carovana. Una volta pronti i documenti, Assalo e i figli hanno fatto il grande salto per l'Europa. E nulla è stato più come prima. Lo vedi
dal salotto, con divano e poltrone, senza più l'obbligo di togliere le scarpe quando si entra in casa. Lo vedi dalla domenica pomeriggio in famiglia, passata davanti alla tv, con attorno i bambini che giocano, i figli più grandi che fanno la fila per il pc, si incollano allo smartphone, mentre il campanello annuncia l'arrivo degli ospiti. La casa di Haddoe e Assalo è sempre aperta, accogliente. E anche se non ci si siede più a terra, in salotto, qui si intuisce ancora qualcosa del deserto. È nell'intensità dello sguardo di Haddoe, che attraversa ogni cosa con distacco, perché ciò che veramente conta è oltre i miraggi, all'orizzonte. È nel suo dimenticare l'orologio, al-
meno nel week end, perché il tempo passa anche se noi non lo inseguiamo. Sidi, il primogenito, va in cucina a preparare il tè di benvenuto agli ospiti. Porge al padre il vassoio d'argento, con la piccola teiera rossa e i bicchierini. Haddoe è il padrone di casa, spetta a lui versare il tè, sollevando il più possibile la teiera per far cadere il liquido bollente dall'alto. Così si formano tante piccole bollicine che emergono in superficie, dense, quasi come la schiuma del cappuccino. Haddoe versa di nuovo il tè nella teiera e ripete il gesto con maestria, senza versare una goccia sul vassoio. Dura un attimo, il tè è un sorso caldo, forte, dolce e amaro allo stesso tempo.
AL VIA LA SECONDA EDIZIONE Scadono il 15 maggio i termini di presentazione dei nuovi racconti. Segui l'evento su Facebook Ragazzi, con la prima edizione del concorso dedicato ai ritratti abbiamo rotto il ghiaccio! Bene, la redazione è già al lavoro in vista del prossimo numero del giornale, che uscirà a giugno. Non perdiamo tempo quindi e, fin da ora, diamo il via alla seconda sfida. Questa volta contiamo di leggervi ancora più numerosi. Di nuovo quindi “Una foto, una storia”, ma questa volta vi chiediamo di cominciare non più dai “personaggi”, bensì dai “luoghi”. Che siano una piazza, un vicolo, un paesaggio o anche solo una stanza: fate voi, purché da lì nasca una storia. Scattate e lasciatevi ispirare, ma soprattutto divertitevi con
i generi: romantico, triller, giallo, fantasy...e perché no, anche con quello letterario per ragazzi o bambini. Tutti i racconti che ci invierete, assieme alle rispettive foto, verranno pubblicati nel profilo Fb de La Panka Pordenone, dove troverete anche quelli della prima edizione. La redazione ne selezionerà poi alcuni per pubblicarli nel prossimo inserto del giornale. Sceglieremo quelli più simpatici, fantasiosi, profondi o pazzi! Ricordate: non è un concorso a premi, perciò non aspettatevi targhe o denaro. Vogliamo solo dedicare ai nostri lettori del buon relax e soprattutto dare spazio a chi sa scrivere bene, a chi non sa se sa scrivere ma ci vuole
provare, a chi semplicemente vuole scrivere...nello spirito di Ldp. L’evento lo trovate anche in Fb. Qui di seguito, infine, quello che vi manca sapere: Foto. Foto di un luogo o di un suo particolare. Racconto. Lunghezza massima del testo di 3.000 battute word spazi inclusi (conteggio parole nell'opzione strumenti nella barra delle applicazioni) Tema Qualsiasi Genere Qualsiasi Invio foto e racconto All’indirizzo mail panca. pn@gmail.com entro e non oltre il 15 maggio 2013. Dati personali Per la pubblicazione potete chiedere l'anonimato o firmarvi con nome e cognome, età e città di residenza o al limite anche siglando il nome e cognome.
inviate nel mondo
Australia, il paradiso che in tanti anelano
Hanno lasciato il cuore in Italia, ma i nostri emigranti non rimpiangono la scelta fatta. Grazie ad un ambiente da sogno e al lavoro che laggiù non manca
linconia che ognuno di loro ha nei confronti dell’Italia si limita a poche -sensazioni-. La maggior parte di loro rimpiange la distanza siderale con la famiglia, certo le nuove tecnologie permettono di tenersi in contatto, ma come ripetono molto spesso: «No sè la stessa cosa, li adess staran dormendo tutti». Il cibo, nostro punto di forza sia a livello lavorativo che culturale, è un altro aspetto che a loro manca molto. La quasi impossibilità di reperire a prezzi economici alimenti tipici del nostro fabbisogno alimentare porta a sperimentare qualsiasi tipo di condimento o pietanze che tendano a ricordare le grandi abbuffate alle quali erano abituati nelle rispettive regione. Questa malinconia però non scalfisce più di tanto i loro animi: infatti appena possono non smettono di raccontare quanto si trovino bene e siano felici della loro scelta. Come non dargli torto. Stiamo parlando di un Paese
un posto come l’Australia ha i suoi piccoli difetti. In Aussie infatti, come gli indigeni chiamano l’Australia, si registra la più grande varietà di animali, insetti, molluschi e rettili mortali per l’uomo. In alcuni periodi dell’anno capita di non poter fare il bagno nell’oceano per via degli squali o delle Jelly-Fish (meduse di ridottissime dimensioni che paralizzano i muscoli solo con il
dove la disoccupazione nel 2012 è stata inferiore al 5%, il sistema lavorativo eccelle in ogni suo ambito permettendo a chiunque provvisto di un visto lavorativo di trovar lavoro in pochi giorni, naturalmente in regola e ben retribuito in base alla meritocrazia. Temperature tropicali, spiagge selvagge, animali di ogni genere e un posto di lavoro fisso, come molti dicono o potrebbero pensare si tratti quasi di un paradiso. Ma anche
tatto) o di non poter attraversare parchi pubblici a causa di avvistamenti di serpenti. Tutto questo però sembra non scalfire nemmeno in parte il carattere e la baldanza degli italiani emigranti. Appena possono si ritrovano in uno dei tanti barbecue organizzati in casa dove passano ore e ore a ricordare l’Italia, ma con la consapevolezza che in questo momento nessuno di loro vorrebbe far ritorno, se non per le tanto sognate ferie!
di Fabrizio Sala Tutti ne parlano, tutti ci vogliono andare. Ormai chiunque di noi ha un parente, amico, vicinante che ha deciso di partire, chi per lavorare, chi per cercar fortuna o solo per farsi una meritata vacanza. Diciamo la verità, l’Australia - sia come meta turistica che come frontiera per l’immigrazione - offre molto e ti riempie di esperienze che per noi, abituati al solito tram-tram della vita pordenonese, possiamo solo immaginare o sognare attraverso il grande schermo. Io fortunatamente ho avuto la possibilità di andare in esplo-
razione nel “nuovissimo Continente” e, ormai passato più di un mese dal mio rientro, posso assicurare che i nostri emigratni non se la passano male e non sono pochi, anzi il più delle volte camminando per le strade ti ritrovi a sorridere udendo quei vari dialetti che tanto ti riportano alle origini del nostro bel paese. Parlando, discutendo e ascoltando le varie vicissitudini che hanno spinto molti dei nostri ex conterranei a spostarsi in maniera quasi definitiva nell’emisfero australe, ci si rende conto che la ma-
non solo sport
ANCHE IL RUGBY È UNO SPORT PER BAMBINI Alla partiti degli under 8 del Rugby Pordenone. Sport di regole e divertimento
Anche il linguaggio infatti ha un significato in questo sport. Qui si impara soprattutto il rispetto dell’altro e delle regole del gioco. Un altro esempio? Non si contradice mai l’arbitro, perché i piccoli campioni devono riconoscere in lui il detentore delle regole. E questo vale anche per i genitori! Una volta in campo la squadra, saluta l’avversaria, a turno le due lacciano degli “hip hip hurrà!”, con tanto di colpo con i piedi a terra per ritmare il canto: è per gli avversari, per augurare loro buona partita. Ogni match si divide in due tempi di otto minuti ciascuno, con altrettanti giocatori per squadra in campo. Tutti i giocatori giocano a turno: nel rugby ciò che conta è l’affiatamento del gruppo. Una delle prime regole e fare squadra. Ecco perché anche oggi gli incitamenti che arrivano dal fondo campo sono: “aiutalo, aiutatelo”. Al Rugby Pordenone, tre sono gli allenatori
del settore bimbi: Michele D’Auria, Daniele Blancuzzi e Fabrizio Tomada. Daniele è il responsabile per l’educazione motoria, colui che insegna ai bambini a muoversi in campo, a correre, a cadere, scivolare, rotolarsi e a come gestire il contatto fisico con gli altri. «A differenza di un tempo – spiega - quando i bambini erano abituati a giocare nei prati e nei campi e tutto ciò lo imparavano da soli, con l’avvento dei videogiochi, le attività motorie di ciascun bambino sono rallentate. Per questo hanno bisogno di allenarsi con i movimenti base». Ad evidenziare come i bam-
vero – ricorda Paolo – ormai erano anni che non praticavo più sport e ho voluto provare anche il rugby. Ho fatto fatica ad ingranare all’inizio, ma adesso ogni allenamento va sempre meglio. Ora faccio anche cambi di turno nel mio lavoro pur di non mancare». C’è anche chi è tesserato con altre società, ma che comunque scende in campo con “Quei de na volta”. E’ il caso di Ivano Olivetto che ha anche lui il figlio nelle giovanili, che è tesserato con la Old Rugby Ravedis, ma che al venerdì sera si allena a Por-
denone. «Fa parte dello spirito di fratellanza tipico di questo sport – afferma Ivano –, dove non c’è rivalità tra club, ma ci si aiuta tutti. Non è una questione di vincere e arrivare primi, ma di goliardia, di spirito del gioco, di divertimento e di divulgazione del nostro movimento». Il gruppo è aperto a tutti. «Non solo agli over quindi – afferma Dri, 41 anni – con noi si allenano anche un gruppo di ragazze e dei giovani che non trovano spazio in prima squadra o che ancora non conoscono lo sport. Fanno i primi allena-
di Ada Mozncih E’ la classica domenica mattina d’inverno, dopo una nottata di pioggia, il campo è fangoso ed è una gioia per i bambini. Il cielo minaccia pioggia, ma per loro l’importate è esserci e giocare al meglio. La mini squadra della società Rugby Pordenone,
l’under 8, è in campo al completo e aspetta che scendano anche gli avversari. I genitori lungo i lati del campo sono pronti a fare il tifo, ma senza esagerare, perché sono severamente vietati inneggiamenti violenti. Ad esempio: non si dice “atterralo”, ma “placcalo”.
Padri che tornano in campo grazie ai figli Ex giocatori e non, si rimettono in gioco nella nuova squadra degli Old di Guerrino Faggiani Da pochi mesi sui campi di gioco di via Andrea Mantegna a Pordenone c’è un nuovo gruppo in azione. Sono i Rugby Old, “Quei de na volta”, categoria di amatori che va dai 35 anni in sù. La squadra è nata il 7 novembre 2012, da un’idea e dal desiderio di Matteo Dri, che ne è il responsabile, di Vidali Carlo e di Andrea Toffolo. I tre hanno pensato «di andare oltre la nostalgia», come affermano, e di organizzarsi in una squadra Old con la guida tecnica affidata a Claudio Scandurra, allenatore giocatore, simbolo
e bandiera del Rugby Pordenone. E qui per la società si è aperto un mondo: oltre ai “vecchi” giocatori anche gli appassionati si sono avvicinati, molti papà di bambini praticanti nelle squadre giovanili, che a forza di accompagnarli hanno messo pantaloncini e maglietta e si sono avventurati sul campo a provare. Chi in assoluto per la prima volta come Paolo Pighin, 43 anni, che non era mai andato oltre all’appassionato. Fino a quando Dri non ha aperto una porta alla sua voglia di provare. «Non mi è sembrato
bini imparino a stare insieme e soprattutto a sacrificarsi per gli altri e dare una mano ai compagni, è Michele. «L’ideale della squadra è molto forte – dice - e unitamente all’esistenza delle regole di gioco, il rugby bene insegna loro a crescere. Il contatto fisico consente al bambino di apprendere il rispetto verso l’altro: è sì uno “scontro”, ma in una dimensione non violenta». Difficoltà non c’è ne sono, questi bambini infatti sono nell’età in cui più facilmente si assimila. Lo stesso “contatto” viene insegnato come un’azione di gioco. Michele, Daniele e Fabrizio lo insegnano anche fuori dal campo, quando entrano nelle scuole. Dodici scuole tra elementari e medie, in tutta
la provincia, partecipano alle lezioni di sensibilizzazione al rugby. La partita continua ed è emozionante vedere questi cuccioli affiatati. A volte risultano titubanti al placcaggio. Ma quando ci riescono, si divertono a cadere nel fango e finalmente sporcarsi senza problema. Al termine della partita, tutti in spogliatoio rigorosamente da soli, anche qui per imparare ad arrangiarsi senza genitori: fare la doccia, rifare la borsa e soprattutto darsi una mano. Con loro c’è un unico genitore che fa da supervisore. Riesco ad intrufolarmi. Incontro Federico, 6 anni, Lorenzo, 7 anni, e Samuele, 6 anni, che mi dicono: «Anche il rugby è uno sport da bambini come il calcio, e
menti imparano le regole e si ambientano. Poi se hanno voglia proseguono». Va bene, tutto molto bello, ma come si può tenere insieme un gruppo di persone che va da giovani aitanti, a meno giovani, a soggetti che vengono da anni di scrivania? Daniele Blancuzzi è il preparatore atletico della squadra. «Diciamo che con noi – racconta – ci si dedica alla parte più intellettuale e piacevole dell’allenamento. Cerchiamo di mantenerci in una via di mezzo tra le esigenze prestative, che non sono espressamente richieste ma che è bello che ci siano, ad altre che possono essere semplicemente quelle di riprendere una attività fisica. Può destare timore il fatto che il rugby sia etichettato come sport violento – rileva , ma in realtà è alla stregua di altri sport in cui il contatto fisico non è previsto, ma che alle volte finisce per esserci e, proprio perché non previsto, risulta più pericoloso perché si fa meno attenzione». Scott Matthews è un paramedico
militare statunitense con trascorsi di Football Americano, anche per lui galeotto è stato il figlio militante nelle giovanili del Rugby Pordenone. Ha aderito subito al progetto Old. Imperdibile l’occasione di avere il parere di un diretto interessato come lui sulle differenze tra i due sport.
a noi piace perché possiamo rotolarci nel fango». Samuele ci tiene a precisare: «Qui non si danno i calci nelle gambe e ci piace il gioco di squadra tutti insieme». «Non abbiamo paura di farci male – si inserisce Lorenzo - anche se ci è successo qualche volta. Tutti dicono che le cose più belle sono placcare, fare meta e mangiare insieme al terzo tempo, insomma ci piace divertirci». Per loro il sogno più grande è andare a giocare con gli All Blacks, e il giocatore della nazionale Italiana preferito è Castrogiovanni. Il loro entusiasmo è contagioso. Tant’è che alcuni padri, per condividere lo sport, hanno cominciato a giocare con la squadra degli Old, over 40.
«Oltre alle protezioni e al gioco spezzettato del football – spiega - nel rugby c’è un clima di fratellanza che solo ai livelli dei campus universitari ha eguali nel football. Non trova riscontri invece l’abitudine di ritrovarsi dopo le partite, amici avversari e famiglie a mangiare e bere e passare del tempo assieme, in quella che è una legge non scritta».
Trent’anni di storia del Rugby Pordenone Minirugby, Under 14, 16 e 20, Seniores e, da novembre, anche la squadra degli Old “Quei de na volta”. Questa oggi è la composizione della società rugbistica di Pordenone del presidente Alberto Turrin. Una realtà che ha attraversato la storia del rugby in provincia. I primi passi vennero mossi nella metà degli anni Settanta da un gruppo di ragazzi, al campo dell’oratorio Don Bosco, dove a portare quel primo pallone ovale fu un insegnante di ginnastica delle medie, Paolo Quirini. Poi nel 1977 a Udine si tenne lo spareggio per lo scudetto tra la Sanson Rovigo di Elio De Anna e il Petrarca Padova del fratello Dino. Quella partita fu un’illuminazione per i pionieri del rugby pordenonese, che decisero di iscriversi per l’anno dopo al loro primo campionato ufficiale con il nome di Amatori Pordenone. Cominciarono così gli anni ruggenti dei derby con il Polcenigo ed il Maniago. Poi le due società pedemontane si sciolsero e confluirono nel capoluogo, dove nacque l’Union Rapps Pordenone, sodalizio che ancora esiste e che si occupa dei settori giovanili. Il rugby pordenonese, che nel frattempo aveva messo radici nel quartiere di Borgo Meduna, visse la sua prima stagione d’oro nel 1990; la seconda nel ’97-’98, quando militò in Serie B. Il 2002 fu l’anno della ri-fondazione per iniziativa di Renato Della Ragione; prima a braccetto con il Lemene Portogruaro e con il nome di Concordia Rugby Pordenone e poi nuovamente solo con forze pordenonesi. Nel 2004 il Concordia Rugby Pordenone ha assunto la denominazione di Rugby Pordenone 1978.
IL PERSONAGGIO (letterato che lei definisce un’enciclopedia vivente) da ben 62 anni. Astrofisica, da sempre per le certezze della scienza piuttosto che per le risposte della religione, è notoriamente atea a differenza del marito, che è cattolico. «Io non ho mai avuto turbamenti religiosi. Non ho mai pensato troppo all’aldilà, mi sono sempre preoccupata più dell’aldiquà».
L'astrofisica che non ha turbamenti religiosi «Non mi interrogo sull'aldilà, ma spiego il mondo in cui vivo» di Guerrino Faggiani Con Margherita Hack, la novantenne astrofisica fiorentina di nascita e triestina di adozione, ci eravamo sentiti qualche giorno prima al telefono per chiederle la cortesia di un’intervista. Fu subito disponibile e così ci accordammo per andarla a trovare, io e Daniela, nella sua casa di Trieste. Noi due eravamo onorati di incontrare una scienziata della sua fama ed Margherita Hack nasce a Firenze il 12 Giugno del 1922. Frequenta il liceo classico Galileo Galilei nella sua città. Si iscrive alla facoltà di lettere, ma sentendosi portata per la fisica, ci rimane poco, e cambia facoltà. Si laurea nel 1945 in astrofisica presso l’Osservatorio di Arcetri dove, in seguito lavora precariamente come assistente, oltre che come insegnante all’istituto di Ottica dell’Università di Firenze. Nel 1947 si trasferisce in Lombardia per un lavoro alla Ducati di Milano, dove si occupa di ottica. Nel 1948 torna all’Osservatorio di Arcetri per un impiego come assistente incaricata, guadagnandosi la cattedra di astronomia nel 1950. Negli anni seguenti il suo lavoro la porta a girare il mondo. Nel 1959 scrive il trattato Stellar Spettroscopy, testo importante ancora oggi, con Otto Stuve,
entrare nella sua casa ci metteva un po’ in soggezione, ma lei con grande naturalezza ci ha fatti accomodare nel salotto di casa sua, al quale si accede percorrendo pareti di libri. Ovunque c’erano scaffali ricolmi. «Mi servono per documentarmi», ha confidato sorridendo. Nata a Firenze il 12 giugno 1922, la Hack vive con il marito Aldo De Rosa il direttore del Dipartimento di Astronomia a Berkeley. Nel 1964 vince il titolo di Professore Ordinario all’Istituto di Fisica dell’Università a Trieste, che la Hack porta in seguito a livelli internazionali, e il suo lavoro viene gratificato, riuscendo a creare all’interno un istituto di Astronomia che dirige fino al 1990. Oltre alla ricerca scrive diversi libri e lavora per riviste importanti con noti nomi della scienza. Il suo impegno le fa guadagnare un posto tra la giuria del Premio Atkinson. Dopo aver divulgato la sua sapienza nel mondo, va in pensione nel 1997 dedicando il suo tempo allo sport. Ora novantenne confessa di essere un po’ affaticata, ma la voglia di sapere ed imparare persiste sopra ogni cosa. Nel 2012 riceve dal Presidente della Repubblica il titolo di “Cavaliere di Gran Croce”. (d.r.)
L’abbiamo sentita dire spesso che più la scienza ha cominciato ad evolversi e a spiegare i fenomeni un tempo attribuiti alle divinità, più queste ultime hanno cominciato a scomparire. Significa che con il tempo arriveremo a non averne neppure una? «Ora siamo già rimasti con una divinità, perché chi crede, in generale crede in Dio. E crede in un essere meno antropomorfo di come lo si pensava una volta: nessuno infatti se lo immagina più con la barba bianca su un trono. Quello di oggi è un Dio più spirituale. Ma posso capire che questo succeda. Noi oggi siamo a conoscenza di molte cose, ma non di tutte». Ci spiega meglio? «Sappiamo che all’epoca del big bang l’universo era una “zuppa” di particelle elementari. Non sappiamo però se il big bang sia stato l’inizio o se
prima di esso ci fosse dell’altro ancora. E’ però certamente l’inizio da cui noi possiamo studiare l’evoluzione dell’universo, ed è sorprendente che da questa “zuppa” si siano potuti formare passo a passo le stelle, le reazioni nucleari, i pianeti, per arrivare ad esseri così complessi come siamo noi umani. E la scienza ancora non spiega neanche come mai il nostro cervello possa essere cosi tanto più potente di quello delle scimmie, sebbene il Dna di entrambi sia quasi identico. E per spiegare tutto ciò in tanti pensano a Dio. Ma è troppo comodo spiegare tutto con Dio». A questo punto suo marito Aldo è entrato in salotto, quasi in punta di piedi, e ai nostri timidi saluti ha risposto: «Marga chi sò sti rompi hoioni?». Noi, superato il primo momento di empasse, abbiamo capito che potevamo ridere. «Che - ha continuato l’uomo - li hai invihati te?». «E certo», ha ribattuto la Hack divertita. «Che guaio, che guaio. Ma di dove siete?», ci ha chiesto il signor Aldo. E noi in coro: “Di Pordenone”. «E avete deciso di venire qua!!». Intanto sua moglie ridacchiava mostrando di godersi ancora suo marito dopo 62 anni di convivenza. Quando il signor Aldo ha fatto ritorno nelle sue stanze l’intervista è ripresa.
Margherita, donna moglie scienziata Nei libri cerca ancora la conoscenza, ma è nell'esperienza fatta nei suoi 90 anni di vita che ha trovato la saggezza di Daniela Russo Entrando a casa di Margherita Hack, non si può fare a meno di guardarsi attorno. Librerie ricolme di cultura accerchiano il suo salotto, ricordi e riconoscimenti fissi al muro raccontano solo una parte della vita dell’astrofisica. Ma la vera consapevolezza del mondo è riflessa
tutta nei suoi occhi azzurro cielo. Margherita, pur essendo atea convinta, per volere dei genitori di suo marito Aldo, si è sposata in chiesa nel 1944, e ancora oggi, dopo sessantotto anni, i due continuano a condividere le loro giornate nella casa a Trieste. La completa diversità
Dunque, dicevamo. Più la scienza sa spiegare i fenomeni, meno gli uomini hanno bisogno di Dio. Ma lei ci ha anche detto che la scienza non spiega ancora tutto. Quindi religione e scienza possono coesistere e l’una compensare l’altra? «No, direi di no. Certo uno può anche essere scienziato e credente, nel senso che cerca di capire le leggi che regolano l’universo e allo stesso tempo credere in una entità superiore, chiamiamola Dio. Ma chi fa scienza non può pensare che un fenomeno avvenga perché Dio l’ha voluto. Chi fa scienza cerca le ragioni fisiche, non si chiede chi l’ha fatto, ma come è fatto». Un altro tema delicato è il rapporto tra scienza e vita. Lei è per la libertà delle persone di decidere su quello che le riguarda. È a favore anche dell’eutanasia? «Oggi la scienza è in grado di tenerci artificialmente in vita anche quando la condizione è insopportabile, e questa è una tortura. Trovo che il fatto di poter decidere di non essere sottoposti ad accanimento terapeutico sia un segno di civiltà. Se uno è credente e crede che la vita sia un dono di Dio, è disposto ad accettare anche le sofferenze, ma se non è credente perché deve essere obbligato? Questa è una violenza che si fa all’individuo». dei loro caratteri, non è mai stata un limite per Margherita, che ha sempre sostenuto con forza la libera espressione di ogni individuo. Anche da ragazza, è stata a favore dei diritti degli uomini; anche in tempo di guerra, dove si è sempre opposta alle leggi fasciste, posizione che l’ha portata per un soffio a giocarsi la maturità. Grazie ai grandi sacrifici della famiglia si è laureata in astrofisica. La sua devozione al lavoro e la passione per la ricerca, le hanno consentito di viaggiare molto e di collaborare con importanti nomi della scienza. Tutto contribuisce a trovare oggi in Margherita una donna di grande forza e cultura, che non si ferma alla superficie delle cose e che non smette mai di imparare, nonostante i suoi novant’anni. Il suo grande rispetto per il prossimo, l’ha portata a riconoscere delle grandi violenze che la Chiesa fa nei confronti degli uomini. Una di queste è
IO CREDO
ta un modo per giustificare anche alcune mancanze o delegare le nostre azioni (se Dio vuole). Allo stesso tempo l’astrofisica rileva come i valori di base della sua vita siano stati: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” e “ama il prossimo tuo come te stesso”. Di Piazza, invece, si sente laico anche se può sembrare un con-
trosenso; dice che c’è una carenza generale di laicità, l’essere cattolici diventa una pregiudiziale quando si parla di etica e di altri argomenti delicati invece più dialogo porterebbe a idee e soluzioni più ampie e soddisfacenti per tutti: spesso invece si tende ad arroccarsi sulle proprie idee e convinzioni. Entrambi dicono che la Chiesa deve essere di tutti ed al sevizio dei bisognosi, dei poveri. Di Piazza parla di Gesù, del Vangelo che è parola viva e come tale va vissuta; la Chiesa è troppo spesso un’istituzione ed è lontana dalla gente. Mi dispiace di essere così sintetico, ma gli spunti sono parecchi e non posso toccarli tutti. Visto che mentre scrivo siamo in piena campagna elettorale, riporto tale e quale un passaggio del libro. Quali dovrebbero essere le qualità di un politico e della politica oggi? Margherita: «Le qualità che dovrebbe avere un politico sono: possedere un’etica, un’onestà intellettuale, una formazione politica ma anche culturale, dimostrare attenzione agli altri, essere vicino alla gente». Pierluigi: «Le qualità di un politico? La penso come te Margherita: cultura, etica, competenza, trasparenza, dedizione. Quello del politico non può essere un mestiere che diventa privilegio ed arricchimento; dev’essere un servizio».
nella scarsa educazione che suscita discriminazioni e derisioni di ogni minoranza, la quale viene messa spesso in difficoltà. Un altro neo della Chiesa è il divieto all’eutanasia, che obbliga anche chi non è religioso a dover accettare la sofferenza di uno stato vegetativo, toglien-
dogli la padronanza della propria vita, costringendolo a riconoscerla come un dono di un Dio a cui magari non ha mai creduto. Per la scienziata molte battaglie sono state vinte nonostante l’opposizione della Chiesa, come l’aborto, il divorzio, la convivenza prima del matrimonio, dando poi libertà di scelta all’uomo sulla propria vita. Secondo lei, il Papa vede gli scienziati come presenze arroganti che vogliono sostituirsi a Dio, ma Margherita sostiene che il lavoro degli scienziati sta solo nel capire com’è fatto l’Universo senza dover per forza attribuire certi fenomeni ad spirito sovrannaturale. Uno scienziato può essere un uomo di fede, ma il suo lavoro è comunque quello di cercare risposte concrete a fenomeni dell’Universo. L’astrofisica dall’alto dei suoi novant’anni definisce gli uomini dei “figli delle stelle”, perché sono fatti di materia
Dialogo tra un'atea e un prete. Hack-Di Piazza recensione di Emanuele Celotto Nel libro fatto di dialoghi e scambi di opinione tra un’atea (Margherita Hack) e un prete (Pierluigi Di Piazza) emergono molti punti di contatto pur avendo i due idee di base completamente diverse. Vengono toccati svariati argomenti e parlano un po’ di tutto, finendo poi col toccare anche il loro passato e l’ambiente in cui sono cresciuti. Interessante come, su alcune cose tipo l’ambiente, siano sulla stessa linea di pensiero; entrambi vedono che l’ecosistema mondiale si altera sempre più e che ormai servirebbe una presa di coscienza collettiva a livello mondiale che parta da politici ed istituzioni e finisca per coinvolgere tutti quanti indistintamente, visto che il mondo è patrimonio di tutti. Non poteva mancare poi uno scambio di opinioni sulla religione. Pur vedendo l’argomento in modo diverso, la Hack da atea vede in Dio un appiglio su cui perpetrare crimini nel passato come nel presente e per tanti diven-
considerare l’omosessualità come un peccato, facendo sentire chi omosessuale è il peso della diversità, privandolo della possibilità del matrimonio, dubitando della sua capacità di crescere un figlio. Per Margherita il vero problema dell’emarginazione sta nella non abitudine e
PANKAKULTURA
Il Galileo Galilei di Marco Paolini
L’attore in tournée al Verdi di Maniago di Linda Dreon «Or ecco quello ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle dicendo eppur si muove». Comincia con una citazione dalla Cena delle ceneri di Giordano Bruno l’epitaffio che Marco Paolini dedica al suo Galileo Galilei (testo di Francesco Niccolini e Paolini) al termine dello spettacolo: l’attore, dopo una narrazione appassionante e sempre in bilico tra passato e presente, dondola appeso ad una grande palla, che è insieme cosmo copernicano, vaso di Pandora, bomba atomica. Ha guidato il pubblico, caricando ogni gesto, ogni parola di energia emotiva, a oscillare tra l’ammirazione per un grande uomo che ha cambiato la prospettiva con
cui la ragione si accosta alla realtà e la simpatia per le sue debolezze, le sue paure, gli errori. Paolini è riuscito per più di un’ora a spogliare Galilei di tutta l’aura di riverenza scolastica con cui ciascuno di noi ha ammantato la sua figura, per poi restituircelo, al termine dello spettacolo, in tutta la sua grandiosità: un osservatore, uno che vuole capire come funzionano le cose, un meccanico insomma, che si è spinto oltre, al punto in cui cambiare idea non è un lusso ma una necessità. Paolini vuole mostrarci l’evoluzione di una delle più profonde crisi delle idee vissute dall’uomo occidentale, quella che ha condotto alla nascita della scienza moderna. Ce la mo-
stra con tutte le sue contraddizioni: all’interno dell’uomo Galilei che, mentre rivoluziona l’approccio verso i fenomeni naturali e fonda la fisica moderna, sopravvive per gran parte della propria vita facendo oroscopi; contraddizioni interne alla dialettica tra scienza e fede anche, con un papa incline allo studio delle scienze naturali come Paolo V, o come il ritardo di settant’anni con cui l’Inquisizione si accorge della pericolosità delle tesi di Copernico. Una presenza costante, implicita, sempre appena sotto la superficie del testo è quella di Giordano Bruno, filosofo geniale anacronistico bruciato vivo dall’Inquisizione a Roma nel 1600. Rimane nella
memoria dello spettatore la domanda «sarà arrivata fino a Padova la puzza di bruciato del rogo di Campo dei Fiori?». Vista la risonanza dell’evento in tutta Europa, Paolini suggerisce che sì, Galilei sa fin dall’inizio quello che rischia e oscilla tra la prudenza e la necessità di divulgare. Opta sempre per la seconda possibilità perché, suggerisce ancora Paolini, nella storia delle idee, quando si raggiunge il punto di crisi l’individuo ha possibilità di scelta molto limitate, la rivoluzione va fatta. Quando pare che tutto sia perduto, che l’oscurantismo della Controriforma e della cultura libresca abbia trionfato sulla scienza nascente, Paolini ci racconta, con poche battute emozionanti, la vecchiaia di Galilei, prigioniero, cieco, minacciato, solo. Il vecchio non è finito, no. Tutta la dignità del grande uomo è qui: mentre dà alla luce il suo metodo, mette in moto la storia della scienza.
pankarock Immaginate un vecchio furgone che percorre le lunghe e desolate strade dell'America più rurale, la sua sosta in una di quelle stazioni di servizio poco frequentate, se non da viaggiatori di passaggio e da solitari contadini del luogo che trovano in una birra il sollievo dopo una lunga giornata di lavoro. Da quel furgone ora scendono tre ragazzi provenienti dal Colorado, vestiti con camicia a quadri, jeans e stivali, che entrano nel locale dell'autostazione togliendosi i larghi cappelli ed appoggiano i loro strumenti su di un piccolo palco in legno poco illuminato. I tre ragazzi si chiamano Wesley, Jeremiah e Neyla e suonano insieme dal 2005 in lungo e in largo per gli Stati Uniti d'America, con le loro chitarre, il mandolino ed il violoncello, facendo impazzire tutti coloro che ancora amano la tradizionale musica folk americana, sulle orme dei Talking Heads e dei Fleetwood Mac. I primi due sono due amici d'infanzia provenienti dai sobborghi di New York, trasferiti a Denver, capitale del Colorado, per suonare la musica che avevano
Sachyn
The Lumineers
Tributo alla musica popolare stelle e strisce di Fabio Passador in testa. Lì incontrano Neyla Pekarek, violoncellista, con la quale formano il trio originale dei The Lumineers. Il loro successo arriva nel 2011, grazie al singolo che solo ora è arrivato al successo in Italia Ho Hey, scelto come colonna sonora di una famosa serie televisiva statunitense. Il
loro primo disco è l'omonimo “The Lumineers”, che subito si piazza stabilmente nelle prime posizioni delle classifiche di vendita americane, ma anche europee, nel 2012. Il disco di debutto è un inno alla tradizione della musica popolare a stelle e strisce, con forti influenze musicali tipiche
delle brughiere irlandesi, che già hanno fatto la fortuna di artisti di fama mondiale come Bruce Springsteen e Leonard Cohen. Il primo brano Flowers in your hairs ci introduce subito a quello che sarà tutto il corso del disco: intimismo e tanto ritmo da ballare. Infatti il suono ed anche la voce vanno a braccetto, senza grandi virtuosismi ma con tanta semplicità, quasi come se stessimo ascoltandoli dal vivo in un piccolo pub di provincia. A tratti, specie nel singolo Ho Hey ed in Big Parade, alcuni coretti e facili ritornelli rendono qualche canzone orecchiabile. La malinconia di Stubborn Love e Dead Sea ci porta a rallentare il ritmo davanti alla pace ed alla bellezza degli ambienti bucolici dove nasce questa musica d'altri tempi.Un disco che scorre via veloce in 42 minuti piacevoli, da ascoltare nella propria autoradio, in attesa di ascoltarli dal vivo il 27 luglio a Milano, al Club Magnolia. Un consiglio: se volete a tutti i costi sentirli in concerto affrettatevi a comprare il biglietto perché i loro concerti europei sono tutti sold out!
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost
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Pino Roveredo Penna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. Toscano, non di origine ma fedele compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.
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Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli
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Fabio Passador Attualmente panchinaro di lusso! Come ogni giocatore di calcio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di testa, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist
Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Andrea Picco, Franca Merlo, Stefano Venuto, Fabio Della Pietra, Christian Gretter, Tina, Luca Gaspardis, Daniela Russo, Ferdinando Parigi, Emanuele Celotto, Simone Pajaro, Giovanna Orefice, Maddalena, Vito Digiorgio, Fabio Passador, Andrea Venerus, Elisa Cozzarini, Fabrizio Sala, Ada Moznich, Linda Dreon. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone
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Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”
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Daniela Russo Giovane Amica di vecchia data. Spirito etereo e garbato si è incendiata alla notiazia dello sfratto. Ma quando la rabbia diventa potenza, si è capaci di qualsiasi risultato. Lei si è sfogata con penna e foglio ed ora... non può più fermarsi!
Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia
Creazione grafica Maurizio Poletto mpaginazione Ada Moznich Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 1 e 2 Fabio Della Pietra Foto a pagina 5 e 18 da sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pagina 13 Fabrizio Sala Foto da pagina 10 a pagina 12 fornite dagli autori dei testi Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it
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Manuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili
Stefano Venuto Mimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!
Daniela Russo Astrologa, futurista, impaziente, sorridente, sognatrice ad ogni costo, innamorata. Si presenta in sede iniziando a parlarci ancora fuori dalla porta e dopo due ore le uniche parole che ti concede sono: ah.. si.. da mai.. davvero?.. il resto è suo! Desidera partire ma non trova i biglietti, a volte il viaggio fa più paura dell’arrivo.
Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo del Comune di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00
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Luca Gaspardis E’ il più piccolo della compagnia ma non certo per l’altezza! Quando ci ha incontrati per la prima volta sembrava impaurito anche della sua ombra, adesso è diventato un fiume in piena! Siamo sicuri che abbia molte cose da dare, anche se per ora non ricorda dove le ha messe!
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Ferdinando Parigi Voce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si trovano raramente, la nostra nuova penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800
Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.
Cio' che accade a un altro accade ate stesso OscarWilde
I ragazzi della panchina campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale DEI RAGAZZI DELLA PANCHINA CON IL PATROCINIO del comune di pordenone