Ldp 1/2016

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APPROFONDIMENTO

Adozioni

Libertá di Parola 1/2016 ——

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

«Adottiamo un bambino?». E' questa una domanda che può entrare nei progetti di famiglia di una coppia e che apre un mondo complesso di gioie e di dolori, impossibile da riassumere. Punto di partenza di questo viaggio è il comprendere che l’adozione risponde al bisogno di una coppia di avere un figlio ma, prima di tutto, al bisogno fondamentale di un bambino di avere una famiglia. Se è un diritto del bambino quello di avere dei genitori, non è un diritto degli adulti adottare. a pagina 9

NON SOLO TEATRO A Pordenone sperimentazione e ricerca con "Interazioni" e "Speakeasy" di Milena Bidinost Questa volta parliamo di teatro ed in particolare di teatro contemporaneo, di ricerca, teatro sperimentale per tutti siano questi “tutti” attori talentuosi, più o meno noti, siano questi “tutti” il pubblico. Non di un teatro sperimentale per folle di spettatori, e nemmeno per spettatori necessariamente eruditi. Semplicemente di un teatro capace di parlare a chiunque si trovi di fronte, di mantenere viva la comunicazione con lo spettatore, di toccare tematiche d'attualità, di portare in scena giovani artisti, e di fare tutto ciò

nell’ambito del rinnovamento dei linguaggi espressivi. A Pordenone città, questo teatro c'è ed è rappresentato da due progetti distinti, con padrini distinti, ma che non disdegnano di incrociarsi tra loro. Parliamo, ancora, non di un teatro sociale nel senso che agisce direttamente sulla società, ad esempio coinvolgendo in scena determinate fasce sociali, ma piuttosto di un teatro che di società parla, che in drammaturgia traduce l'esperienze del vivere contemporaneo dell'uomo e che dalle problematiche attua-

li prende spunto per creare soggetti, situazioni e riflessioni. Un teatro che agisce sulle coscienze degli spettatori. Quindi parliamo di un fare teatro, che diventa intimo con il suo pubblico, coinvolgente, e che in questo senso ripensa ai luoghi, all'ambientazione delle storie, alla caratterizzazione dei personaggi. Ricerca e teatro, un binomio che a Pordenone città è il filo conduttore della rassegna “Interazioni” promossa dal Teatro Verdi e del progetto “Speakeasy” realizzato all'interno degli spazi di Pnbox.

CODICE A S-BARRE

Questa è per noi la famiglia: riflessioni dal castello di Pordenone a pagina 4

INVIATI NEL MONDO

Viaggio di nozze a Cuba, l'isola dai mille volti a pagina 13

PANKAKULTURA

Immigrazione ed integrazione, i primi quattro anni de Il dialogo creativo a pagina 14

NON SOLO SPORT

Quartamarcia, il sito web dedicato alle auto del passato pagina 13

PANKAROCK

Omaggio a David Bowie, il Duca bianco a pag.ina 16-


IL TEMA

Interazioni: una finestra sulla realtá La rassegna del Teatro Verdi che porta in scena giovani artisti e drammaturgia contemporanea di Irene Vendrame Si chiama “Interazioni” ed è una delle rassegne che il Teatro Verdi di Pordenone propone ormai sistematicamente all’interno della stagione culturale che va da settembre a maggio. E’ nata nel 2005 con l’intenzione di presentare una serie di spettacoli in grado di mettere in scena giovani artisti e drammaturgia contemporanea, senza preclusione di generi. Emanuela Furlan è il direttore organizzativo ed artistico del settore prosa del Verdi e della stessa rassegna Interazioni, per la quale sono passati anche artisti di calibro, che fanno parte ormai di quello che è considerato il teatro di ricerca. Direttore, Interazioni però non vuole essere solo questo. Infatti, è soprattutto una finestra aperta su un percorso meno tradizionale rispetto a ciò che viene presentato in sala grande. L’obiettivo è quello che la nostra città possa avere una varietà di proposte teatrali in grado di dare una panoramica su ciò che succede in Italia e a volte anche all’estero in ambito teatrale, stimolare e raccogliere gli interessi di un pubblico

sempre più eterogeneo e che non risponde ad un identikit preciso. Qual è la filosofia che guida questo tipo di percorsi, che tipo di teatro proponete? La filosofia è quella di presentare delle nuove proposte che abbiano dei contenuti, dei significati e che siano qualitativamente validi e stimolanti. Abbiamo portato sul palco artisti molto giovani che in seguito hanno trovato posto nel panorama teatrale italiano, come Pippo Delbono, oppure gruppi che si occupano di teatro sociale, come la Compagnia della Fortezza, la quale lavora con i carcerati ed è riuscita a vincere anche diversi premi Ubu. C’è un tema, un filo conduttore che lega tutti gli spettacoli? Non c’è un tema solo, ma piuttosto uno sguardo sulla società. Parlando di Interazioni 2015-2016 è impossibile non imbattersi in temi che ci toccano da vicino il pubblico, a partire dallo spettacolo messo in scena a novembre durante la giornata contro la violenza sulle donne, passando per

il tema dell’anoressia in “Per una biografia della fame”, fino alla figura degli hikikomori nello spettacolo “Rooms 2.0”. La vostra può essere definita come una scelta di teatro che guarda al sociale? Diciamo più che altro di spettacoli che guardano all’uomo. Gli spettacoli che guardano al sociale li abbiamo fatti e li facciamo, perché sono appuntamenti molto importanti e significativi, ma non ci limitiamo a questo. Il teatro sociale è un tipo di teatro che agisce direttamente sulla società, con il coinvolgimento di detenuti per esempio; noi non presentiamo solo questo, ma anche spettacoli che parlano della società e che quindi agiscono sulle coscienze.

ne rendiamo conto o meno, c’è uno scambio tra uomini. Ed è diretto, non c’è il mezzo della pellicola, dello schermo o di internet. È per questo che il teatro ha ancora un seguito, perché questo scambio, questa relazione, è insostituibile per l’uomo

Che ruolo riveste oggi il teatro, qual è la sua importanza? Il teatro è importante perché ci parla da vicino. Quando si guarda uno spettacolo in un palco spesso scatta qualcosa dentro di noi, qualcosa di particolare, di speciale: questo succede perché ci troviamo in una comunità e, che ce

Cosa può dare il teatro alle nuove generazioni? Ogni anno partecipano alla stagione del teatro migliaia di ragazzi, anche con il progetto “Adotta uno spettacolo”, la soddisfazione di quest’anno è che tantissimi ragazzi hanno scelto spettacoli non convenzionali, cioè non sono stati spinti da esigenze scolastiche a guardare Shakespeare o Čecov, ma si sono diretti verso nuovi stimoli, come “Per una biografia della fame” o “Rooms 2.0” , questo vuol dire che è presente un interesse per queste tematiche. I ragazzi devono venire a teatro perché vale la pena, anche se costa fatica, poiché sicuramente ognuno di loro troverà lo spettacolo della vita: le emozioni che lascerà loro li accompagnerà per tutta la vita e sicuramente la arricchiranno.

empire il vuoto che sente nello stomaco. Tuttavia sembra non essere mai completamente sazia: questo bisogno, mai del tutto appagato, le crea sofferenza, tanto che decide di reprimerlo. Reprime la sua fame, smette di mangiare. L’attrice ci guida in un viaggio lungo la sua vita, all’interno di se stessa svelandoci, con ironica confidenza, le sue zone d’ombra, i suoi conflitti, i demoni in-

teriori e le gioie più pure. Lo spettatore analizza se stesso. Si accorge che la fame che la protagonista tenta di mettere a tacere non è altro che la tensione dell’uomo verso la vita, ciò che ci muove. Il lieto fine quasi commovente corona uno spettacolo capace di affrontare tematiche profonde mantenendo un clima ironico e leggero, in grado di toccare l’intimo delle coscienze. (i.v.)

Per una biografia della fame Lo spettacolo che parla di anoressia e di noi stessi Nell’ambito della rassegna “Interazioni” 2015-16, a gennaio è andato in scena lo spettacolo “Per una biografia della fame”, liberamente ispirato al romanzo autobiografico “Biografia della fame” della scrittrice belga Amèlie Nothomb. A portarlo sul palco é stata la “Compagnia le Brugole”, formatasi nel 2009 con due attrici e due autrici. Unica interprete dello spettacolo Annagaia Marchioro, che ha creato anche l’originale sceneggiatura. La parete retrostante il palco spoglio ha preso vita grazie alla tecnica del live-dripping: Anna Remini, munita di computer collegato a proiettore, vi

disegnava in tempo reale la scenografia fatta di segni e di forme che traducevano i sentimenti espressi dall’attrice. Sentimenti profondi, tormentati, poiché il delicato tema della rappresentazione, l’anoressia, si lega con quello dell’adolescenza e della crescita individuale non priva di ostacoli. La storia è quella di una bambina la cui esistenza è caratterizzata da una fame insaziabile, fame di cibo, in particolare di zucchero e di cioccolato. La protagonista, raggirando i divieti della madre, consuma queste sostanze come se avesse sviluppato una forma di dipendenza, cercando di ri-


Speakeasy, contenitore di contenuti forti Il progetto, nato nel 2013, vuole essere un tampolino di lancio per attori e spettacoli teatrali di livello, altrimenti sconosciutiFilo di Cristina Colautti e Chiara Zorzi Il progetto Speakeasy nasce nel 2013 dall’incontro tra Irene Botteon e Lisa Moras, attrice, regista ed ora direttrice artistica di Speakeasy. L’intento era quello di portare una rassegna teatrale su un palco particolare, dedicato soprattutto alla musica, quello di Pnbox. In questi anni il Un altro grande regalo per gli affezionati del Teatro Off. Il 28 gennaio una serata dal gusto fiabesco ha colto di sorpresa gli spettatori del palco di Speakeasy con la rappresentazione "Groppi d’amore nella scuraglia", interpretata maestosamente da Silvio Barbiero. Il linguaggio grottesco di Tiziano Scarpa, autore dell’omonima saga, da cui la sceneggiatura è stata tratta, ha diffuso in sala nebbie di dubbio, curiosità, incomprensioni e, infine, incantesimi di una lingua che non esiste, eppure trasmette perfettamente quello che vorrebbe dire. Eh sì, perché l’opera del grande autore veneziano è scritta in un dialetto fittizio, dalle assonanze meridionali, una genuina imitazione di espressioni popolari. Un linguaggio ingenuo e poetico che ha portato in scena temi eterni e profondi, con i mezzi di uno spettacolo comico, tenero e commovente. L’amore, la sincerità nei rapporti umani, il mondo e la sua salvezza sono stati raccontati in una bellissima storia dalla trama semplice e coin-

progetto si è sviluppato, e oltre alla rassegna sono state realizzate altre attività attorno alle quali si è creato un gruppo coeso, che nel 2015 ha fondato l’associazione culturale Speakeasy. «Oggi - ci racconta la direttrice artistica - Speakeasy ha quattro anime: la prima è la rassegna;

la seconda è quella didattica che prevede i corsi di teatro; la terza anima è rappresentata dalla produzione teatrale professionale, con Porn up comedy, e l’ultima, la più recente, è quella della creazione di una compagnia amatoriale stabile, che lavora sui linguaggi teatrali legati al contemporaneo». Il filo conduttore che lega le diverse attività di Speakeasy è il territorio, ciò in particolare per quanto riguarda la rassegna. «Il Triveneto – spiega Moras - è ricco di bravi professionisti che sono sconosciuti ai più e che nella maggior parte dei casi si auto producono: il nostro intento è quello di metterli in luce». Al contempo, l’obiettivo del progetto è anche quello di selezionare degli spettacoli che presentano delle tematiche d’attualità o che hanno una messa in scena e una drammaturgia, come “Groppi d’amore nella scuraglia” interpretato da Silvio Barbiero, assolutamente contemporanei. Si tratta di rappresentazioni, inoltre, strutturate per arrivare al pubblico anche attraverso la vicinanza fisica degli attori e una scarsa scenografia. «Ci piacerebbe - sostiene Moras - che Speakeasy fosse un trampolino di lancio per questi attori e per i loro spettacoli, tale da farli arrivare a rassegne come Interazio-

ni, proposta dal teatro Verdi, che offrono la stessa tipologia di rappresentazioni, ma sono all’interno del circuito teatrale ufficiale». Speakeasy, quindi, vuol essere un trampolino di lancio per attori emergenti, ma anche un ponte attraverso il quale sempre più persone si possono avvicinare al teatro, un’arte che ha il potere di arrivare al cuore del pubblico, di traghettarlo verso un luogo diverso da quello in cui vive, di far viaggiare la sua immaginazione e di regalargli racconti ed esperienze uniche. «Il teatro – dice infatti Moras - ha la grande capacità di mettere insieme le persone, di creare contatto, di generare dialogo e, con la frequentazione ai corsi, ti permette di metterti in gioco e di affrontare te stesso in relazione. Una situazione, quest’ultima, davvero importante soprattutto in un momento in cui la gran parte dei rapporti è mediata e le persone sono disabituate e si sentono inadatte alle relazioni». Speakeasy è quindi «un contenitore di contenuti forti», che abbracciando il territorio e dialogando con le realtà in esso presenti, vuole farsi portavoce di pensieri e assumere un ruolo sociale attivo creando dialogo e sensibilizzando le persone ai temi che caratterizzano il nostro contemporaneo.

Temi eterni in una lingua che non esiste Comico e commovente lo spettacolo “Groppi d’amore nella scuraglia” interpretato da Silvio Barberio di Janna Voskressenskaia

volgente. Il protagonista dal goffo nome, Scartocchio, aiuta il sindaco del suo piccolo paesotto a trasformarlo in una

discarica e questo soltanto per indispettire il suo rivale in amore per Sirocchia. Non sveliamo la storia che auguriamo

a tutti di scoprire in prima persona, diciamo soltanto che ci lascia un importante messaggio, che la sala ha colto ed espresso negli applausi finali. E il messaggio è questo: negli errori traluce la speranza. Una speranza forse un po’ amara che soltanto noi stessi possiamo darci, in un mondo che talvolta sembra lasciato in balia della creatura. Questa speranza si nasconde dietro ai semplici rapporti umani. Il Palco accogliente di Speakeasy ha mostrato ancora una volta che il teatro non è un luogo elitario ed erudito per pochi adepti, ma un’arte ospitale e aperta per tutti i viandanti in cerca di una sosta per guardare e ascoltare.


Prosegue il lavoro della redazione del nostro giornale nata all'interno della Casa circondariale di Pordenone. “Codice a s-barre” è uno spazio interamente gestito dai suoi detenuti.

Riflessioni personali sulla famiglia e sulle unioni civili «La nostra identità di figli deriva dall’identità dei nostri genitori e famiglia per me è quella sancita dalla Costituzione» di Ubaldo La famiglia costruisce la nostra identità perché da essa apprendiamo tutto quello che siamo. Così è stato per me e per i miei fratelli. I valori portanti della nostra vita ci sono stati insegnati dai nostri genitori che, nonostante le difficoltà e fragilità comuni un po’ a tutte le famiglie, sono stati per noi un valido esempio. Ci hanno insegnato ad andare avanti, perseverando nel giusto, dandoci ascolto, aiutandoci a superare le prime difficoltà, caricandosi anche dei nostri insuccessi o delusioni, rincuorandoci ed aiutandoci a rialzarci e ad andare avanti. Non era e Quando ero piccolo la mia famiglia d’origine non era molto presente. Mio padre lavorava sulle navi come cameriere e stava lontano da casa tanto tempo, anche per questo da lui ho ricevuto poco affetto ed amore. Inoltre, anche da mia madre mi sentivo distante perché non avevamo un buon rapporto. La vera figura di riferimento era ed è stata a lungo mia nonna Norma, che è stata per me come una madre. Fin da piccolo, infatti, ero molto attaccato a lei e passavamo tanto tempo insieme. Durante la settimana mi seguiva nei compiti, la aiutavo nelle faccende di casa, mi insegnava a cucinare e, vedendo che mi piaceva quest’attività, mi faceva preparare diversi piatti e mi incoraggiava in questa passione, facendomi mille complimenti. Nel tempo libero giocavamo, mi portava a fare lunghe passeggiate per Venezia, mi accompagnava alle giostre e,

non è facile fare i genitori: è un compito arduo. Sebbene i nostri genitori ci abbiano insegnato quello che a loro volta era stato insegnato, l’unico risultato è rappresentato da noi oggi: noi figli siamo l’espressione vivente di tutti i loro sacrifici, rinunce, successi o insuccessi. E’ fondamentale avere una famiglia che con il suo amore e sapere ti guida e ti aiuta a vivere, ad avere un’identità precisa (per non essere alla mercé di nessuno) e ad avere le tue proprie idee; una famiglia in cui trovare un rifugio sicuro, nei momenti di difficoltà, dove ci si possa consolare e consultare

trovando conforto, ma soprattutto, dove trovare l’amore di una mano tesa, anche quando non si è più bambini. Però è pur vero che questa fortuna non è per tutti, perché molti trovano faticoso donare il proprio tempo, i propri spazi ai figli, i quali diventano una seconda o terza priorità. Talvolta si privilegiano, infatti, la comodità e l’egoismo, dando come motivazione a questa scelta i costi, i rischi e la rottura di scatole. I quali a mio avviso sono però poca cosa rispetto alla gioia, all’allegria, alla tenerezza, alla dolcezza, sia pur faticosa, di una genitorialità paziente e presente.

Nonna Norma, come una mamma

«Con mio padre sempre via per lavoro e mia madre con la quale non andavamo d’accordo, è stata mia nonna la mia vera mamma, la persona che c’era sempre e che mi ha cresciuto» di Piero ogni domenica, andavamo a mangiare il gelato. Passavamo ore a parlare e lei mi raccontava della guerra, delle difficoltà, ma anche della solidarietà e della collaborazione che c’erano tra le persone, e che ora, forse, non ci

sono più. Mi piaceva stare con lei perché, anche se era severa e pignola, mi potevo confidare su tutto ciò che mi succedeva e lei mi consigliava e mi correggeva quando sbagliavo. Mia nonna è stata presente nei momenti più

Oggi poi, l’argomento famiglia è ritornato prepotentemente d’attualità parlando di unioni civili. A tal proposito, secondo me, l’ambiente di sviluppo più armonioso per un bimbo è quello rappresentato dalla relazione con i genitori e questo sin dai tempi di Freud, maestro della psicanalisi, che affermava l’indispensabile presenza della cosiddetta “triade genitoriale” formata da bambino, mamma e papà. Quindi credo che si dovrebbero tutelare i diritti dei minori, cercando per loro quanto sia meglio. Le unioni sino ad oggi contemplate, secondo il mio parere, non possono essere considerate alla stregua di una famiglia così come prevista dalla Costituzione, perché l’unione civile non è un matrimonio, che è contratto da un uomo e da una donna ed è legato alla procreazione, alla genitorialità. Quest’ultima a sua volta è un diritto naturale: se si applicassero norme di tutela dei diritti della famiglia a situazioni diverse dal modello costituzionale, esse verrebbero a menomare il senso del matrimonio eterosessuale. importanti della mia giovinezza, come quando mi hanno consegnato il diploma di terza media e, quando da piccolo vivevo in colonia, era sempre lei che mi veniva a trovare. Forse proprio in quei momenti è scattata quella fiducia, quell’affetto e quel legame che si provano tra una madre e un figlio. Anche da adulto è stata un punto di riferimento per me e quando lavoravo a Venezia in un ristorante mi fermavo da lei durante la pausa pomeridiana, per chiacchierare e mangiare insieme qualcosa. Mi è stata vicino fino alla sua morte, quando io di anni ne avevo 30 anni. Da quando non c’è più mi manca davvero tanto perché forse solo per lei ero davvero come un libro aperto e la consideravo come una mamma, perché mi insegnava con la sua esperienza, mi istruiva, mi amava ed io mi sentivo sollevato. Ci volevamo bene come madre e figlio.


Famiglia, un concetto allargato «Non ci sono differenze tra etero ed omosessuali nel crescere un figlio, se lo si fa in modo corretto» di Gianluca Cos'è la famiglia? Per definizione è un nucleo costituito da genitori e figli, ma può anche avere letture diverse. Ad esempio una famiglia può essere monogenitoriale, cioè un solo genitore con uno o più figli. Questa nasce da una separazione, un divorzio o dalla morte di uno dei genitori. Oppure possono esserci le cosiddette “famiglie arcobaleno”, formate da due genitori dello stesso sesso, magari con i figli di uno dei due o di entrambi, anche se queste non sono ufSono un “ragazzo” di 36 anni, detenuto da otto mesi. Quando mi sono costituito, mia moglie era al quarto mese di gravidanza. La sua era una gravidanza difficile per vari problemi di salute e, inoltre, esattamente un anno prima avevamo perso un figlio nello stesso periodo e per gli stessi problemi di salute. Entrato in carcere, data la situazione di mia moglie, è iniziato un vero e proprio calvario fatto di pensieri, ansie, paure, preoccupazioni, ma con impegno e forza di volontà è arrivato il 20 novembre 2015, giorno in cui mia moglie ha messo al mondo una bellissima bambina. Sul momento non ho realizzato e mi sono posto tutta una serie di domande che non potevano avere risposte. Poi, quando sono venuto a sapere che, nonostante il parto cesareo, sia la bimba che la mamma stavano bene, mi sono tranquillizzato e ho capito davvero di essere diventato papà. Non mi vergogno a dirlo, dopo la notizia, mi sono isolato in bagno e mi sono

ficialmente riconosciute. Una famiglia non è composta per forza da due genitori sposati, infatti, esistono le famiglie di fatto composte da conviventi con eventuali figli. Le famiglie possono anche essere semplicemente legate da uno stesso vincolo o aventi un ascendente comune, come nel caso delle famiglie mafiose e si usa dire “uno di famiglia” ad un amico che frequenta assiduamente la casa o la coppia. In una famiglia, per essere definita tale, devono convivere

intimità e confidenza e anche complicità tra i membri. Ci sono anche le famiglie allargate, composte da uno o da entrambi i genitori reduci da precedenti matrimoni, divorziati o vedovi, con figli che si uniscono sotto lo stesso tetto della nuova famiglia. Più ampiamente, si parla di famiglia anche nel caso di zii e nonni e ancora più in generale di tutto il parentado, siano essi di sangue o acquisiti. Il legame di parentela è biologico e giuridico ed unisce persone discendenti una dall’altra o con ascendente comune. Io sono dell’idea che una famiglia, per essere tale, deve essere capace di crescere i figli in modo corretto ed educarli bene. Ultimamente si parla molto di unioni tra persone dello stesso sesso e di adozioni che le riguardano. Credo sia giusto riconoscere i diritti ad avere una famiglia anche a chi non è sulla stessa linea impostaci dalla religio-

Diventare papà mentre si è in carcere «Mia figlia ha tre mesi: la prima volta che la vidi provai una tempesta di emozioni» di Andrea lasciato andare ad un pianto che sembrava non finire mai, e così è stato anche nei giorni successivi. Tutte le volte che pensavo alla mia famiglia erano lacrime, di gioia ma anche di dolore, perché non ero presente al momento della nascita di mia figlia e non ero vicino a mia moglie quando aveva bisogno; l’unica cosa che mi dava un po’ di tranquillità era sapere che al loro fianco c’erano i miei genitori. Passavano i giorni ed io attendevo con ansia

il momento in cui avrei visto mia moglie e mia figlia a colloquio. Arrivò il fatidico sabato, ero agitato ed ansioso fino a quando vidi mia moglie entrare nella sala colloqui con un batuffolo di coperte in braccio. Curioso come non mai aprii le coperte e vidi quell’angioletto che dormiva serenamente e senza neanche accorgermi mi scese una lacrima di gioia nel vedere per la prima volta mia figlia, un angelo bellissimo. Mia moglie la tolse dalle coperte

ne e dal senso comune. Credo che, come nel caso degli eterosessuali, esistano famiglie buone e famiglie cattive: come ci sono genitori etero incapaci di crescere i figli, così ci possono essere genitori omo incapaci. Ma allo stesso tempo se ci sono buone famiglie etero, mi domando perché non ci possano essere buone famiglie omo. Sono convinto che non ci sono differenze nel crescere un figlio. E’ evidente che ci sono discriminazioni per gli omosessuali, ma quando si darà parità di diritti anche a loro, non sembrerà più una cosa strana. Allo stesso modo ormai sono comuni le famiglie composte da nazionalità o religione diverse. Sinceramente preferisco che un bambino cresca con l’amore di due padri o di due madri, piuttosto che cresca in una famiglia classica dove i genitori litigano di continuo o abbandonano i figli a loro stessi. e, mentre il mio cuore batteva all’impazzata, me la mise in braccio; la guardavo dormire e pensavo: «Quanto sei bella amore di papà». Smisi di piangere e iniziai a parlare con mia moglie, ma senza mai staccare gli occhi da quel batuffolo. Ad un certo punto, la piccola si svegliò, aprì gli occhi e mi guardò. Ci fissammo per qualche minuto. Non sentivo più niente attorno a me, era come se fossimo solo io e lei. Provai una sensazione di pace e tranquillità, che non avevo mai sperimentato prima. Sentivo il crearsi di una sorta di legame, una tempesta di emozioni e di sensazioni, che penso solo un padre può provare. Le due ore volarono, ma finito il colloquio mi sentivo strano. Tutte le volte che penso a mia figlia vedo i suoi occhi davanti a me e le lacrime iniziano a scendere incontrollate. Adesso la piccola ha poco più di tre mesi e tutti i sabati la vedo a colloquio, è sempre più grande e bella ed ogni volta provo emozioni meravigliose.


Astrid e Asso, dodici anni dopo il loro arrivo Storie di due miei amici, che da quando sono entrati nella mia vita sono parte di essa di Patty Isola Ne ho sempre avuti, di cani. C’è stato un periodo che tra me e il mio ragazzo ne avevamo 14 (5 suoi, 9 miei), nelle nostre relative case d’origine. Non ho mai fatto preferenze tra loro. L’unica che ha un trattamento speciale in famiglia è Astrid che portai a casa un giorno di dodici anni fa in cui invece di andare a scuola feci altro. Quando tornai a casa appresi che quello stesso giorno mio padre aveva portato a casa una cucciolo di Breton, Asso, che aveva tre mesi. Da allora festeggiamo il compleanno di Astrid il giorno in cui nacque Asso, perché si vedeva che i due cuccioli avevano ad occhio la stessa età. Asso è un cane

da caccia con il pedigree. Astrid sembra invece proprio un incrocio bassotto-pincher. È piccola e buffa, ma ha uno sguardo dolcissimo. Con il passare di anni e storie, mio padre ed Astrid sono diventati un “unico organismo”, lei è la sua ombra. Asso è ormai vecchio e cieco. Mi si spezza il cuore a guardarlo, è troppo vecchio per cacciare, è stanco e anche i suoi occhi ormai sono diventati tutti bianchi. Però ha ancora una sua dignità. È triste vedere che, quando suonano al citofono, gli altri cani arrivano ed Asso no, perché non spreca le sue forze per correre al cancello. Ha imparato a non correre più, per non andare a sbat-

tere, ha imparato a memoria il perimetro della casa, come arrivare al recintogabbione, alla porta sul retro dove ormai passa gran parte del suo tempo e dove c’è una cuccia nel caso piovesse o ne avesse bisogno. Ormai lui non viene neppure chiuso nel recinto dei cani, cosa che eravamo abituati a fare, quando ad esempio arrivavano ospiti, perché i cani sempre ti saltano addosso anche se è per giocare, e in questo possono sporcare, infastidire o addirittura spaventare. Ma da quando è diventato cieco, Asso, non salta più, provava a correre quando lo chiamavo, e correva da me. Ora se non c’è nessuno con lui preferisce stare tranquillo, fiuta sempre dove mette i “piedi”. Mi ricordo delle scene, all’inizio della sua cecità, poverino, andava a sbattere oppure si spaventava per uno scalino. Adesso dopo anni sa a memoria dove metter i “piedi”, ma no, non corre, questo non

lo fa più. E ogni volta che accarezzo Asso, Jolly, il figlio, mi salta addosso per farsi coccolare ma lo tengo lontano e con l’altra mano accarezzo il vecchio cane. lo aiuto anche quando gli do da mangiare, da solo indisturbato, perché gli altri cani sono più veloci di lui. Solo due volte ho dovuto portarlo nel recinto in braccio. Poi non l’ho più rinchiuso, tanto è talmente tranquillo che non infastidisce nessuno e si merita di passeggiare dove riesce. Fino a quando, ci riuscirà!

produzione di latte, formaggi e ricotte, che consumiamo e vendiamo. La giornata prosegue fino alle 16.30, poi ognuno può dedicarsi alle attività che preferisce, riposare o fare altro. La maggior parte di noi, dopo l’orario di lavoro, può usare il telefono per allacciare e saldare legami positivi con l’esterno, anche attraverso l’uso dei social network. Molto importante, poi, parlando di legami, è la possibilità che la comunità offre ai nostri amici e parenti di venirci a fare visita in struttura per passare qualche ora in compagnia. Questa per me è la quinta esperienza comunitaria: in occasione delle visite mi sento rafforzato sia

dal punto di vista caratteriale che da quello clinico, perché quando ero fuori ero sicuramente molto a rischio. Per me questa esperienza è stata e continua ad essere un’opportunità di rinascita; sono qui da quasi 6 mesi, e il bilancio di questo periodo non può essere che positivo. Per me questo articolo rappresenta infine anche l’occasione per ringraziare gli operatori de “La Mordaresca” – che hanno la pazienza quotidiana di seguirmi ed aiutarmi a superare i momenti negativi dandomi gli strumenti necessari per farlo –, ma anche la mia famiglia, che mi ha appoggiato e supportato in questo mio percorso.

La mia vita in comunità, un’esperienza positiva «Da sei mesi sono ospite della fattoria sociale La Mondaresca dove le giornate sono scandite da attività, lavoro e relazioni umane costruttive» di Mauro P. Da alcuni mesi vivo nella fattoria sociale "La Mondaresca" ad Arfanta, una frazione del comune di Tarzo in provincia di Treviso. Si tratta di un ex agriturismo acquistato e risistemato dalla Piccola Comunità di Conegliano per farne un centro nel quale completare il percorso di recupero di persone con dipendenze o disagi sociali. Come potete immaginare la vita in comunità porta con sé tutta una serie di regole e di comportamenti da mettere in atto a cui ogni utente deve sottostare. Qui a “La Mondaresca” l’organizzazione della giornata è standard: si parte con la colazione alle 7.30 (posticipata di un’ora la do-

menica), dopo di che iniziano le varie attività con i laboratori. La cucina prevede dei turni a rotazione, mentre altri impegni come le pulizie, la cura del verde e degli animali sono fissi. Per tutti, alle 10 arriva la pausa caffè. Io, come altri ospiti, sono addetto alla manutenzione straordinaria e mi occupo anche del piccolo orto botanico che abbiamo creato. La maggior parte delle attività comporta benefici a noi in primis, come ad esempio lo stesso orto, che ci dà le verdure per tutto l’anno. In particolare, l’arrivo alla fattoria delle capre (alcune delle quali hanno anche già dato alla luce primi piccoli) ha dato il via anche alla


Ambiente di vita pulito: iniziamo a rieducarci «Ben vengano le nuove sanzioni per chi sporca la città, ma prima di tutto famiglia e scuola devono educare» di Giuseppe Micco Finalmente sanzioni pecuniarie per i maleducati, portatori insani di cattive abitudini e purtroppo persone di qualsiasi fascia d’età. Siamo arrivati all’eccesso, la città è invasa da sporcizia, mozziconi di sigarette, cartacce, rifiuti di ogni genere e non dimentichiamo gli escrementi degli animali, che già da tempo non dovrebbero trovarsi lungo i nostri marciapiedi cittadini. Con l’entrata in vigore di queste sanzioni amministrative contro chi deturpa con la sua maleducazione la nostra città spero di vedere dei miglioramenti, ma credo ci vorrà molto tempo, perché il problema ha radici troppo profonde e c’è troppa ignoranza a riguardo. Serve una campagna a 360 gradi. Purtroppo bisogna educare la persone e le nuove generazioni al senso civico e al rispetto di chi ci è vicino e di tutto quello che

ci circonda. Bisognerebbe coinvolgere le scuole, associazioni ed in primis le famiglie. La famiglia ha un ruolo fondamentale per debellare questa piaga sociale che affligge tutta la nostra bella Nazione e non solo il Pordenonese. Ma come tutte le cose si inizia con piccoli passi per arrivare a grandi risultati. Vi racconto un fatto accadutomi trent’anni fa come esempio di quanto dico: eravamo nella bellissima città di Salisburgo ed un mio amico gettò a terra una carta, un bimbo lo vide, la raccolse e la mise nel cestino dei rifiuti poco più avanti. Quel bambino ci diede una grande lezione di senso civico ma soprattutto di vita! E’ per questo che sono convinto che la famiglia possa veramente dare un contributo fondamentale perché le cose cambino nel verso giusto; se i genitori amassero veramente

La Panka che ti cambia «La scelsi per il tirocinio e non sapevo a cosa andavo incontro. Ho trovato una famiglia» di Sara Lenardon E’ passato un anno da quando, all'università, mi veniva consegnato un modulo nel quale avrei dovuto scrivere dove avrei svolto le mie 250 ore di tirocinio accademico. All'inizio la scelta era tutt'altra

ma, dopo tante riflessioni, tante titubanze, c'è stato il cambio di programma che mi ha portato alla Panka. Desideravo fare esperienza nell'ambito delle tossicodipendenze anche se non sapevo cosa

i propri figli insegnerebbero loro a rispettare ciò che li circonda anche per avere nel loro futuro un ambiente pulito, sano e non pieno di immondizia. E’ questo che vogliamo lasciare in eredità? L’amante della montagna che lascia il mozzicone di sigaretta acceso? L’automobilista che lo getta dal finestrino? La scampagnata nei parchi lasciando tutte le cartacce e mozziconi a terra? Sappiamo tutti che non fumare gioverebbe alla nostra salute ma chi per scelta vuole fumare rispetti almeno gli altri e l’ambiente che lo circonda. Per sconfiggere queste abitudini sbagliate bisogna ricominciare, ma da dove? Da una giusta educazione data dalla fa-

miglia e dalla scuola, così da far crescere le generazioni future nel rispetto dell’ambiente e delle persone, così da poter ritrovare il piacere di vivere una vita sana e di ritrovare un ambiente pulito. Non perdiamoci in chiacchiere inutili, iniziamo a rieducarci. Perché fino ad ora in pochi ne sono stati capaci. Auguro a tutti i lettori di Ldp di fare una riflessione sul senso civico nella misura in cui siamo convinti che il mondo appartenga a tutti e quindi vada rispettato. Grazie.

aspettarmi; desideravo scoprire quel mondo che da un lato mi spaventava e dall'altro richiamava la mia attenzione. Partivo veramente con poche armi a mio favore, sulle dipendenze ne sapevo poco e niente, c'era molto da scoprire e imparare. Così, a metà luglio cominciava l'avventura a Pordenone. Ricordo il primo giorno in cui sono entrata un po' timorosa in sede, non sapevo cosa aspettarmi e come potermi muovere nell'ambiente. Al di là di queste esitazione iniziali, però, ho capito fin dai primi giorni che lì non avrei semplicemente svolto il mio tirocinio ma, giorno dopo giorno, sarei entrata in una nuova grande famiglia. Dicono che quando piace fare una cosa il tempo voli, beh, anche per me è stato così. Il primo periodo è servito per inserirmi nelle dinamiche presenti, conoscere i ragazzi, informarmi a livello conoscitivo su ciò che non sapevo. Da subito mi ha stupito la “naturalezza” degli educatori, che mi hanno accolta e coinvolta con fiducia essendo pazienti nello spiegarmi ciò che non conoscevo, e dei ragazzi, che

si approcciavano a me con tranquillità e spontaneità. Infine anche la mia naturalezza poiché, sentendomi a mio agio, ho cercato di vivere al massimo e senza riserve ogni giorno nuovo. Da luglio a fine ottobre ho potuto assaggiare il sapore dell'Associazione vivendo tante piccole esperienze formative, dal punto di vista professionale e personale, che porterò sempre nel cuore. L'aspetto che conservo di più, però, è la relazione. Prima di entrare alla Panka non avrei mai pensato che un ambiente del genere mi avrebbe aiutato a crescere, non avrei mai creduto che anche solo attraverso una partita a tresette o di calcetto o fumando una sigaretta avrei potuto, in punta di piedi, entrare nella vita dell'altro, un “altro” che ha semplicemente bisogno che tu sia lì per ridere, per sostenerlo o per ascoltarlo. I mesi vissuti alla Panka restano vivi nei miei pensieri come lo restano tutte le persone conosciute che mi hanno dato l'opportunità di entrare nella loro vita: chi in un modo, chi in un altro mi ha regalato qualcosa di bello. Grazie a tutti!


L'ANGOLO DELLA FRANCA

Migranti: dalla diffidenza all’accoglienza

pre può aiutarci a crescere in umanità. Trovo illuminante una preghiera letta al Giubileo degli immigrati: “Sperimentiamo tempi difficili, in cui il pericolo di essere defraudati dalla cattiveria della gente ci fa vivere tra porte blindate e sistemi di sicurezza. Non ci fidiamo più l'uno dell'altro. Vediamo agguati dappertutto. Il sospetto è divenuto organico nei rapporti col prossimo. Il terrore di essere ingannati ha preso il sopravvento sugli istinti di solidarietà che pure ci portiamo dentro. E il cuore se ne va a pezzi dietro i cancelli dei nostri recinti. Disperdi, ti preghiamo, le nostre diffidenze. Abbatti le nostre frontiere: le frontiere culturali, prima di quelle geografiche. Queste ul-

time cedono ormai sotto l'urto dei popoli “altri”, ma le prime restano tenacemente impermeabili. Visto allora che siamo costretti ad accogliere gli stranieri nel corpo della nostra terra, aiutaci perché possiamo accoglierli anche nel cuore della nostra civiltà”. Per rendere concreta questa preghiera io adesso insegno italiano in una classe di immigrati e cerco di entrare nel loro mondo, in punta dei piedi. E ho percepito la loro presenza tra noi come UN DONO. Una grande opportunità da cogliere, una spinta a oltrepassare i nostri limitati orizzonti. La paura ci avvisa della diversità, il cuore la può interpretare come un invito all'accoglienza, e nell'accoglienza sentiamo dilatarsi il nostro cuore, e pulsare l'infinito dentro di noi. Non a caso in tutte le civiltà antiche l'ospite era considerato sacro. Che accettiamo o no questi stranieri, essi arrivano; noi possiamo intralciare il cammino della storia, oppure farne occasione per crescere in umanità e percepire il divino che c'è in noi. E la nostra civiltà, l'intero nostro Occidente ne uscirà rigenerato.

ogni vita, anche quella spirituale (siamo battezzati con l'acqua). Eppure l'uomo non ha rispetto nemmeno per questo elemento, meraviglioso e indispensabile, che viene quindi inquinato, sprecato, imbrigliato, venduto. Ciò anche se nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di esserne padrone, perché, come l'aria, è un bene comune. Molti scienziati, associazioni e cittadini lungimiranti e saggi ci mettono continuamente in guardia da quello che potrebbe accadere quando avremo inquinato fino all'ultima risorsa idrica pulita, ed è una vera catastrofe, un disastro ambientale senza possibilità di ritorno per la specie umana e per quella degli animali che ve r re b b e ro trascinati, innocenti, in questo deserto. Eppure lo scempio non si ferma. Non so perché l'uomo sia così perverso

e distrugga proprio le cose che permettono la sua stessa sopravvivenza, però così è. Quello che possiamo fare, ciascuno di noi nel nostro piccolo potrebbe tuttavia essere la chiave per un cambiamento di rotta. Piccoli consigli sono già di dominio pubblico e li conosciamo, basterebbe cominciare a metterli in pratica e, se qualcuno volesse approfondire, non ha che da scegliere l'associazione a cui rivolgersi tra le moltissime che si occupano di questo. Concludo quindi ancora, come la volta scorsa, con un accorato appello: non distruggiamo la nostra stessa casa, siamo attenti, e amiamola! Farlo porta felicità e non mortificazione come si potrebbe pensare. Io, vi confesso, sono felice ad esempio ogni volta che non mangio una bistecca, e sapete perché? Perché amo gli animali, certo, ma anche perché so che per produrla, negli allevamenti intensivi, servono 10.000 litri d'acqua potabile. Informarsi quindi è la prima cosa da fare, e ne vale la pena se vogliamo ancora vivere in armonia, o forse anche semplicemente vivere, sul nostro “Pianeta Azzurro”.

«Non possiamo fermare il loro arrivo, ma possiamo scegliere di farne un’occasione per crescere in umanità» di Franca Merlo I migranti che arrivano tra noi da ogni parte del mondo in numero sempre crescente hanno creato una situazione imprevista, per certi aspetti inquietante. E i mass media non ci aiutano a fare qualche riflessione che vada sotto la superficie della pura cronaca o di considerazioni socio-economiche. Io ci provo, partendo dalla mia recente esperienza personale. E' cominciata una sera dello scorso dicembre quando, rincasando con la borsa della spesa, sono quasi inciampata in un gruppetto di uomini abborracciati per terra sotto il porticato della chiesa, mentre sopraggiungeva la notte; fortunatamente sono arrivate anche diverse persone da ogni parte di Pordeno-

ne con thé caldo e coperte, una solidarietà spontanea e commovente. E così ho saputo di quest'ultima ondata di migranti: giovani afgani e pakistani fuggiti dall'inferno che troppe guerre interessate hanno portato nelle loro terre, migliaia di chilometri a piedi, mesi di cammino attraverso terre sconosciute, a volte picchiati dalle polizie locali, qualcuno morto per strada. Abdul per esempio è fuggito dai talebani che volevano arruolarlo, ha visto ammazzare suo padre. Che noi lo vogliamo o no, nulla potrà fermare chi scappa da distruzione e morte e non ha più casa né patria. Possiamo solo decidere in che modo vivere questa situazione nuova, perché tutto, sem-

SPAZIO AMBIENTE

Chiara fresca dolce acqua E’ ovunque ed è un bene comune per la sopravvivenza dell’intero pianeta di Paola Doretto Terra, acqua, aria, fuoco, questi sono gli elementi primari, sui quali già i filosofi dell'antica Grecia facevano le loro riflessioni, quelli su cui tutta la nostra vita si fonda, anche se ultimamente forse qualcuno pensa che sia invece lo smart phone. L’acqua è un bene che tutto tocca, infiltra, sfiora o travolge, noi per primi, il nostro corpo, che è fatto per il 70% di questo elemento prezioso. La prima cosa che mi viene alla mente allora è quella sensazione meravigliosa che tutti noi conosciamo: bere d'un fiato un gran bicchiere d'acqua fresca e limpida quando siamo assetati. Poi però penso anche all'acqua che bolle mentre aspettiamo gli amici per una spaghettata in compagnia, o alla pioggia, alla sua benedizione quando

scende e lava via lo sporco del mondo rendendo di nuovo luminosi i colori. E ancora, alla rugiada, al candore della neve, alle nuvole che abitano il cielo, penso alle cascate altissime che in montagna scendono da un dirupo all'altro, maestose, per raggiungere il nostro fiume che poi sempre più ampio e lento si va a perdere nell'eterno movimento del mare. L'acqua è qualcosa che ci abita profondamente, fonte di vita, di


L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————

Adottiamo un bambino? Le ricerche, le esperienze sul campo degli operatori che si occupano di adozione e le testimonianze dei genitori ci dicono che i rapporti in un famiglia adottiva hanno la stessa importanza, la stessa profondità e lo stesso valore affettivo di quelli che si creano all’interno di una famiglia “biologica”. Tuttavia esistono delle differenze importanti di cui è necessario tenere conto per non sottovalutare dei problemi. La prima differenza è che l’adozione è un “evento sociale”, regolato dalla legge che, pur nascendo da un desiderio intimo, richiede il “consenso” di istituzioni al di fuori della coppia e della rete famigliare, come il Tribunale per i Minorenni. E’ inoltre necessario ricordare che l’inosservanza delle leggi sull'adozione può costituire un reato. L’adozione risponde al bisogno di una coppia di avere un figlio ma, prima di tutto, al bisogno fondamentale di un bambino di avere una famiglia. E’ un diritto del bambino avere dei genitori, l’adozione non è invece un diritto degli adulti. Attualmente il numero delle coppie che presentano la loro disponibilità all’adozione al Tribunale per i Minorenni è di gran lunga superiore al numero dei bambini adottabili sia in Italia che all’estero. Nel 2014 i bambini adottati in Friuli Venezia Giulia sono stati 50, di cui 39 stranieri; le coppie che hanno presentato domanda di adozione 119. Di questi, in provincia di Pordenone i bimbi adottati sono stati 22 di cui 17 stranieri, le famiglie che hanno fatto domanda di adozione 32. La selettività del percorso adottivo è necessaria perché ad essere prioritario è il diritto del bambino e non quello degli adulti di diventare genitori. Ai coniugi che intendono adottare si richiedono, infatti, capacità aggiuntive rispetto ai genitori biologici, perché oltre a crescere un figlio, devono aiutarlo ad elaborare i traumi subiti, che sono sempre presenti, aiutarlo a inserirsi nel nuovo ambiente e accoglierlo totalmente come figlio proprio con le differenze somatiche, genetiche e culturali che il bambino porta con sé. La non esistenza di un “legame di sangue” è infatti un aspetto da non sottovalutare nella creazione dei legami nella nuova famiglia. La non somiglianza fisica, soprattutto per i figli, può incidere sul senso di appartenenza;

vi sono inoltre dei limiti legati per esempio all’impossibilità di ricostruire la storia di eventuali malattie ereditarie o familiari e il rischio di attribuire alla genetica del bambino eventuali suoi problemi comportamentali, rendendoli così immodificabili. Diventare genitore di un bambino adottivo implica quindi una capacità di accoglienza, fisica e mentale, di un figlio generato da altri, con una sua storia pregressa che non può, e non deve, essere “cancellata”. Richiede la consapevolezza dell’esistenza di un’appartenenza che è “doppia” e non è “possesso” da parte del genitore adottivo. Nel caso dell’adozione di un bambino straniero questa disponibilità si estende anche all’accoglienza della sua terra di origine, con la sua cultura, la sua lingua, le sue abitudini e le sue tradizioni. Attualmente, inoltre, i bambini segnalati per l’adozione internazionale sono sempre più grandi di età, e con vissuti e situazioni sanitarie spesso complessi. Diventare genitori attraverso l’adozione costringe anche a fare i conti con la “variabile tempo”, che non si riferisce solo al tempo richiesto dalle procedure, ma anche al tempo necessario alla costruzione della relazione con il figlio, al quale viene richiesto un enorme “impegno psicologico” per conoscere, affrontare e sviluppare dei legami nella nuova realtà, a partire dalle esperienze avverse che lo hanno portato in adozione. La “buona riuscita” dell’adozione è frutto di tante componenti che riguardano il bambino, la coppia, il contesto familiare e sociale, le istituzioni, i servizi, gli enti autorizzati e anche le associazioni di volontariato presenti nel territorio. Saranno però le capacità di accoglienza della nuova famiglia, insieme alle sue capacità di cogliere precocemente i problemi e di mettersi in discussione, chiedendo anche l’aiuto ai servizi, a costituire la maggiore risorsa nel caso di adozioni particolarmente difficili. La dedizione e l’amore, pur sempre presenti nelle coppie che si rendono disponibili all’adozione, non bastano, infatti, a vedere e capire i problemi di cui è portatore un bambino adottivo. Va tenuto sempre presente che l’adozione resta a “fare compagnia” per tutta la vita di chi ne è coinvolto, genitore o figlio che sia.


Diventare genitori "di cuore" Alessia, «Guardo mia figlia negli occhi e non sono come i miei. Ma il mio compito è tutelare il suo diritto di essere una bambina come le altre» di Moreni T. Quando la vita non ti permette di esser una madre naturale capisci che puoi essere una “madre di cuore”, magari mantenendo fede ad una promessa che ti eri fatta, quando eri ancora una ragazzina. E' questa la storia di Alessia, 44 anni, e di suo marito Christian che da pochi mesi sono diventati genitori adottivi di una bimba di 8 anni, nata in India. Alessia, quando è cominciato tutto e perché l'India? «L'India mi è entrata nel cuore fin da quando ero adolescente. A 15 anni, mentre studiavo in un convitto di suore, fui presente all'incontro con Madre Teresa di Calcutta. Ci spiegò che bisognava voler bene a tutti i bambini. Fui profondamente colpita e mi ripromisi che, avessi potuto, da grande avrei portato a casa un bambino dell’India. Io e mio marito siamo sposati da 15 anni e abbiamo fatto di tutto per aver un figlio naturale, finché non abbiamo capito che dovevamo chiu-

dere una porta ed aprirne un'altra: quella dell'adozione. E' successo a fine 2008 e il mio pensiero andò subito all'India”. Un iter impegnativo, che vi ha portato lo scorso autunno a diventare una famiglia. Com'è stato il primo incontro con la vostra piccola? E’ stato bellissimo. All’istituto, data la presenza di molti bambini, mi sforzai di sorridere. Ho pianto poi, una volta fuori, e quando la mia bambina mi ha detto “ti ho visto piangere” le ho spiegato che ero dispiaciuta perché aveva dovuto lasciare i suoi amici. In quell’istituto, però, i bambini sono preparati, vengono mostrate loro le foto di chi li adotterà e viene fatta una festa: cercano di non far pesare il distacco, ma di far loro comprendere l’adozione come parte di un ciclo naturale. Come sono stati questi primi mesi con la bambina e l’inserimento della stessa nel

Chi può adottare In Italia esistono due tipologie di adozione, la nazionale e l'internazionale. Requisiti e percorso sono disciplinati dalla legge. A Pordenone l'iter è seguito dall'Equipe dell'AAS5 In Italia esistono due tipologie di adozione: quella nazionale e quella internazionale. La Nazionale è l’adozione di uno o più minori che vivono in Italia, mentre l’Internazionale corrisponde all’adozione di uno o più bambini stranieri,

che vivono in un Paese straniero. In entrambi i casi si tratta di minori dichiarati in “stato di abbandono”. Questa condizione di abbandono può sussistere nei casi di figlio di genitori ignoti, orfano di entrambi i genitori e privo di altri

nuovo contesto? Da quando è arrivata a casa viviamo sulle montagne russe. Non ci sono le coliche, ma ci può essere la tristezza, le paure, il non riuscire a fare subito alcune cose con lei. Tanti sono stati i cambiamenti da affrontare, a partire dalle abitudini e dall’ambiente di vita, molto diversi da quelli nei quali la bambina era nata e cresciuta. C’è voluto del tempo. Inoltre c’era, ed in parte c’è ancora, l’ostacolo della lingua anche se attraverso i gesti siamo subito riusciti a comunicare. Lei è stata bravissima, ha iniziato immediatamente ad imparare l'italiano. E’ una bambina orgogliosa e ha mostrato subito la necessità di sperimentarsi nelle cose, come l’andare a scuola in corriera assieme agli altri. No-

nostante questo, ha dei momenti in cui sembra tranquilla ed altri in cui, poco dopo, il suo passato ritorna e lei scoppia a piangere. Dice di essere italiana, ma credo che le manchi tanto il suo paese.

parenti, ma anche nelle situazioni in cui un bambino, pur avendo una famiglia, non riceve un'assistenza morale e materiale necessaria per la sua crescita psicofisica. In quest’ultimo caso il Tribunale per i Minorenni, dopo l’apertura di un vero e proprio processo, con la partecipazione delle parti interessate, dei loro avvocati e un’istruttoria che serve a raccogliere le prove sui fatti e gli approfondimenti, decreta l’adottabilità del minore. I requisiti per l’adozione internazionale sono gli stessi dell’adozione nazionale, e sono previsti dall’art. 6 della legge 184/83 (come modificata dalla legge 149/2001) che disciplina l’adozione e l’affidamento. «L’adozione è permessa ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni, o che raggiungano

tale periodo sommando alla durata del matrimonio il periodo di convivenza prematrimoniale, e tra i quali non sussista separazione personale, neppure di fatto, e che siano idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che intendano adottare». Riguardo all’età, secondo la legge italiana la differenza minima tra adottanti e adottato è di 18 anni mentre la differenza massima tra adottanti ed adottato è di 45 anni. I limiti di età, introdotti dalla legge, hanno lo scopo di garantire all’adottato dei genitori idonei ad allevarlo e seguirlo fino all’età adulta, in una condizione analoga a quella di una genitorialità naturale. Nel caso di adozione internazionale, i limiti che il nostro legislatore ha spostato molto in avanti, per permettere an-

E se lei a 18 anni volesse tornare in India alla ricerca delle sue origini? Siamo consapevoli che la differenza di essere un genitore adottivo, rispetto ad uno naturale, sta nel fatto che dobbiamo crescere un bambino che può avere un'altra famiglia alle spalle. L’India resta la sua terra ed il suo sogno è diventare una maestra ed insegnare ad altri bambini come lei. Io stessa le dico che metà del mio cuore è in Italia e metà in India e, forse, anche lei da adulta si sentirà


così. Non desidero affatto che lei si senta solamente italiana e spero che l’India le rimanga nel cuore, perché è quella la sua origine. Vi siete mai dimenticati di essere genitori adottivi? All’inizio ti dimentichi di non essere un genitore di “pancia”, ma spero di ricordarmi sempre che questa bambina non è una mia proprietà. Probabilmente esiste un'altra mamma che l’ha mandata qui perché sapeva che qualcuno avrebbe potuto crescerla ed amarla. Ogni giorno, quando la guardo negli occhi vedo che non sono come i miei, ma il mio compito di genitore è insegnarle tante cose e tutelare il suo diritto di essere un bambino come gli altri. Voglio essere in grado di amarla come fosse mia, rimanendo cosciente del fatto che non è una proprietà. Dopo aver vissuto tutto questo, qual è la valutazione dell'iter necessario per adottare un bimbo? E’ stato un percorso faticoso, tuttavia non abbiamo mai pensato di mollare, perché consideriamo l’adozione la nostra chiamata. Gli incontri che abbiamo fatto all’inizio ci hanno formato tantissimo, pertanto sapevamo a cosa andavamo incontro. Per cui se nell’iter di adozione hai dei professionisti che ti mostrano la realtà per quella che è, non hai bisogno di nessun consiglio. E’ come se avessimo dovuto scalare l’Himalaya, ma grazie a persone che ci sono state vicine, io e mio marito non ci siamo mai sentiti soli. Se potessimo, partiremmo anche ora per adottare un altro bambino in India. che a coppie non giovani di adottare, potrebbero non coincidere con quelli stabiliti dall'autorità straniera, perciò la coppia, che vuole adottare all’estero, dovrà seguire le indicazioni della legislazione del Paese di origine del minore. Per tutelare i diritti dei bambini che vanno in adozione internazionale la normativa risulta più complessa ma, in cambio, offre la sicurezza sia sull’esistenza del reale stato di abbandono del bambino che va in adozione, sia offre una migliore preparazione e più sostegno alle coppie che scelgono di adottare all’estero. Perché l’adozione internazionale sia efficace in Italia è necessario seguire le procedure, stabilite sia dalle leggi italiane che continua a pagina 12

«La mia vita da figlio adottivo» Luca, 27 anni, è in Italia da quando ne aveva 6. Il racconto del suo percorso di integrazione nella società. Gli ostacoli più grandi: la lingua e il colore della pelle di Cristina Colautti Luca, nome di fantasia, è nato a San Paolo, in Brasile, 27 anni fa ed è arrivato in Italia all’età di 6 anni, adottato da una famiglia della provincia di Pordenone. I suoi pochi ricordi di quel periodo sono legati alle persone, alle abitudini, ai luoghi ed al clima molto diversi da quelli caratteristici del Paese in cui aveva vissuto fino a quel momento. «Quando sono arrivato in Italia – racconta Luca, oggi adulto - ero frastornato, perché dovevo abituarmi ad ogni cosa e non ero affatto preparato a questo: per me è stato un cambiamento radicale». Nella sua vita questo sradicamento dal suo luogo natale portò con sé alcune difficoltà. Tra queste ci fu lo scoglio determinato dalla lingua. «Avendo parlato per sei anni il portoghese – spiega rimuoverlo, strappare la mia lingua d'origine e cominciare ad apprenderne un'altra non è stato semplice». I limiti nella comunicazione, che rendevano difficile il relazionarsi con le persone, hanno cominciato a risolversi con la frequentazione della scuola e l’aiuto dei genitori. Ma per quel bambino, che aveva da poco trovato una nuova famiglia in un paese così lontano e diverso dal suo, ciò che in quegli anni rappresentava

l’ostacolo più grande nel percorso di adattamento ed integrazione al nuovo ambiente fu soprattutto il colore della sua pelle, diverso da tutti gli altri. «Essere un ragazzo di colore – ricorda infatti Luca - nel corso degli anni è stato motivo di stupore, ma anche di scherno ed offesa da parte delle altre persone. Quando arrivai in Italia mi guardavano tutti in modo strano: era il 1994 e io ero tra le poche persone di colore nella mia città. Alle scuole elementari, ad esempio, ero l’unico e questo mi faceva sentire diverso». Questo disagio si acuì in particolare durante l’adolescenza. «Il mio non accettarmi – dice - era dovuto al colore della pelle, perché gli altri mi guardavano male ed usavano dei nomignoli per discriminarmi». Oggi Luca a 27 anni ha superato il peso delle offese grazie alla maturità e attraverso la vicinanza ed i consigli di chi gli è stato accanto in questo suo percorso. Tra questi un ruolo essenziale è stato ricoperto dai suoi genitori, sempre pronti ad ascoltarlo e consigliarlo, oltre che, quand’era piccolo, ad accompagnarlo ed introdurlo nei diversi contesti di cui faceva esperienza. Oltre a loro, anche i nonni ed i fratelli hanno rappresentato

una guida importante, perché, come lui stesso racconta «ogni persona che hai intorno ti aiuta per cose diverse, ogni persona è un pezzo di un puzzle che ti completa». Un'altra figura fondamentale per Luca è stata un’insegnante delle superiori che lo ha sostenuto nell’accettarsi, nel non sentirsi diverso dagli altri e con la quale mantiene tuttora un buon rapporto. Ora che è adulto, a chiedergli cosa ne pensa dell'adozione e dell'iter burocratico che l'accompagna, Luca riconosce che «è sicuramente lungo, ma necessario, in quanto si tratta della vita di un bambino». La sua esperienza di figlio adottivo, malgrado le difficoltà di integrazione vissute in passato, è stata positiva. «Se avessi le possibilità economiche - dice per questo Luca - sarei felice di adottare perché ciò che ho ricevuto potrei restituirlo a chi ha bisogno e, sapendo cosa vuol dire essere adottato, forse potrei capire meglio gli stati d’animo di un mio eventuale figlio adottivo». Per essere un buon genitore, secondo Luca, «l’importante è far sentire il bambino uguale agli altri, un membro naturale della famiglia, amarlo e stargli accanto; bisogna essere anche consapevoli che le parole che si utilizzano hanno un peso notevole e, se usate impropriamente in un momento di rabbia, possono ferire e ricondurre il bambino ad un passato doloroso». Luca è consapevole che, se non fosse venuto in Italia, sarebbe potuto andare incontro ad un destino estremamente difficile, ma resta orgoglioso delle sue radici. Del Brasile ha vivido in particolare il ricordo del senso di comunità, generosità e solidarietà che esiste soprattutto tra la popolazione più povera. «Quando hai tutto – è ciò che la sua vita gli ha insegnato - come nel mondo occidentale, sei troppo influenzato da ciò che hai attorno, il tempo è contato e monetizzato, quindi difficilmente hai tempo da dedicare agli altri, mentre quando non hai nulla è più facile donarsi».


Il percorso dell’adozione prevede diverse “tappe” che partono dalla maturazione di una scelta consapevole, da parte della coppia, fino alla realizzazione della genitorialità adottiva, che manterrà sempre delle peculiarità e che, in quanto tale, potrà avere bisogno di un supporto, anche a lungo termine, da parte dei servizi socio-sanitari. A Pordenone, dal 2002, è attiva un’Equipe Adozioni dedicata, composta da psicologi e assistenti sociali, uno a tempo pieno e tre a part-time, che accompagnano le persone durante tutte le tappe sottodescritte. PRIMA TAPPA: fase conoscitivo-informativa. La coppia, che sta prendendo in considerazione l’idea di adottare, può accedere ad un colloquio informativo presso l’Equipe Adozioni e, successivamente, al Corso Formativo-Informativo per aspiranti genitori adottivi, tenuto ogni tre mesi dall’Equipe, e necessario per valutare la propria motivazione all’adozione e decidere se presentare la propria disponibilità presso il Tribunale per i Minorenni. SECONDA TAPPA: presentazione della documentazione presso il Tribunale per i Minorenni. Chi desidera adottare un bambino deve presentare la propria disponibilità all’Adozione nazionale e/o internazionale presso il Tribunale per i Minorenni competente continua da pagina 11

internazionali; solo in questo caso il bambino potrà entrare nel nostro paese. Per poter adottare all’estero le coppie devono scegliere un Ente, autorizzato dalla Commissione Adozioni Internazionali (Cai) che ha sede a Roma, ad operare con le autorità straniere (Istituti, Tribunali, Uffici pubblici) e a sostenere la coppia durante tutto l’iter adottivo sia dal punto di vista procedurale, che concreto e psicologico. Fra i requisiti necessari per poter diventare genitori adottivi, gli aspiranti genitori devono essere inoltre idonei ad educare ed istruire, e in grado di mantenere i minori che intendono adottare. Per poter verificare la presenza di queste condizioni il Tribunale per i Minorenni conferisce ai Consultori familiari, o alle Equipe Adozioni, delle Aziende per l’Assistenza Sanitaria, il mandato di effettuare un’indagine psicologica e sociale sulla

comparativi. QUINTA TAPPA: incarico all’Ente autorizzato, in caso di Adozione internazionale Per quanto riguarda l’Adozione Internazionale, la coppia deve iniziare la procedura rivolgendosi ad un Ente autorizzato entro un anno dal rilascio del decreto di idoneità.

IL PERCORSO ADOTTIVO Dalla maturazione di una scelta consapevole alla realizzazione della genitorialità adottiva. Obiettivo: la tutela del minore per il territorio di residenza. Generalmente è presente nel capoluogo di ogni regione. In Friuli Venezia Giulia è a Trieste.

QUARTA TAPPA: decreto o graduatoria L’Adozione internazionale

prevede l’emissione di un decreto di idoneità. Il Tribunale per i Minorenni, dopo aver incontrato la coppia, decide se rilasciare un decreto di idoneità o se emettere invece un decreto attestante l'insussistenza dei requisiti all’adozione. Il decreto di idoneità può contenere anche, nell'interesse del minore, ogni elemento utile a completare il quadro delle caratteristiche della coppia, per favorire l’incontro con lo specifico bambino, o con più bambini, da adottare. L’Adozione nazionale, invece, prevede che la coppia possa essere sentita da un giudice e che venga inserita, dal Tribunale stesso, in una graduatoria, elaborata in base a criteri

coppia che ha presentato la sua disponibilità ad adottare. Il Servizio incaricato, attraverso le figure dello psicologo e dell’assistente sociale, effettua la valutazione della coppia. Il percorso è piuttosto articolato, prevede colloqui individuali, di coppia, visita domiciliare

ed eventuale utilizzo di test, e fa riferimento all’approfondimento di aspetti indicati dagli stessi Tribunali, in quanto riconosciuti validi dagli studi sul campo e dalla letteratura specialistica. Tale approfondimento ha l’obiettivo di verificare la presenza nella coppia

TERZA TAPPA: indagine psico-sociale. Il Tribunale chiede al servizio Adozioni dell’Azienda Sanitaria competente un'indagine psico-sociale. I servizi hanno il ruolo importante di conoscere la coppia e di valutarne le potenzialità genitoriali, inviando al Tribunale una relazione, che fornirà al Giudice elementi di valutazione sulla richiesta della coppia.

SESTA TAPPA: l’attesa di una proposta di abbinamento Nel casi dell’Adozione internazionale tale proposta è coordinata dall’Ente autorizzato in collaborazione con l’autorità giudiziaria straniera e la supervisione della CAI. Per quanto riguarda l’Adozione nazionale, invece, è il Tribunale per i Minorenni a curare l’abbinamento minore-coppia, attingendo dalla graduatoria. SETTIMA TAPPA: adozione L’Adozione del minore avviene con modalità e tempi diversi a seconda che si tratti di Adozione nazionale o internazionale e sempre attraverso dei decreti del Tribunale per i Minorenni. OTTAVA TAPPA: post-adozione Sia nell’Adozione nazionale che internazionale la legge prevede che i Servizi Adozioni e gli Enti Autorizzati monitorino l’inserimento del minore in famiglia per un certo periodo di tempo: minimo un anno, o molti di più in caso di Adozione internazionale, come previsto dagli accordi internazionali con lo stato straniero. della capacità di svolgere la funzione genitoriale adottiva, che non è del tutto sovrapponibile alla genitorialità naturale. Si ringrazia per la collaborazione nella realizzazione di questo approfondimento: Equipe Adozioni – Azienda per l’Assistenza Sanitaria n.5 “Friuli Occidentale” Via De Paoli, 21 – Pordenone tel. 0434 237816, email adozioni@aas5.sanita.fvg.it Operatori: Psicologi: dott.ssa Anna Maria Assab, dott.ssa Marina Moro Assistenti Sociali: dott.ssa Alessandra Quattromini, dott.ssa Manuela Zilli.


INVIATI NEL MONDO

Cuba ti ubriaca e non ti sazia mai Viaggio di nozze nell’isola del Che e di Fidel, dove storia, musica e colori rapiscono il visitatore di Andrea Lenardon E’ il 12 aprile 2015 e mentre io e mia moglie stiamo per metterci in viaggio per le nostre nozze, non porto con me solo la trepidazione della giornata ma anche la valigia pronta per affrontare il sole dei Caraibi. Domani, quasi senza il tempo di respirare, ci aspetta infatti La Habana. Atterriamo intorno alle 22.30 in suolo Cubano. La transvolata oceanica, nonostante le dodici ore di volo, trascorre velocemente documentandoci sulla ricca storia di Cuba per colmare le lacune della nostra ignoranza, dall'epoca coloniale ai giorni nostri. Quando arriviamo è sera e intuiamo solo vagamente l'aspetto della città, ne cogliamo il rumore chiassoso, il profumo dolce e il calore dell'aria ma gli occhi possono solo vedere le fioche luci di illuminazione notturna e lasciarsi affascinare dai cartelloni tinti rosso-bianco-blu con le scritte spagnole innegianti alla "revoluciòn". Il viaggio è stato organizzato con una

compagnia e prevede due giorni e mezzo nella capitale seguiti dallo spostamento a Varadero nel quale passare dieci giorni. La Habana è incantevole, a posteriori avremmo volentieri rinunciato a un po' di turismo tradizionale per trascorrere più giorni tra i vicoli della Habana vieja, immersi nella musicalità delle strade e nel via vai internazionale di persone affascinate dall'atmosfera di una delle perle dei Caraibi. Il nostro hotel si chiama "Palacio San Miguel" ed è un edificio in stile coloniale sito nell'Habana vieja con un grande patio dal quale ammirare la lingua di oceano che entra nel porto della città, sorvegliato da "El morro", il faro slanciato nell'Atlantico che ha visto passare la storia: incursioni dei pirati caraibici, galeoni spagnoli e corazzate americane. Il primo giorno ci immergiamo subito nella parte vecchia della città alla scoperta delle quattro splen-

dide piazze e dei vicoli che le collegano, animati da musica latina fuoriuscente da ogni locale e profumo di Caraibi; l'atmosfera della città è elettrizzante e passeggiando davanti ai palazzi coloniali coloratissimi il visitatore rimane affascinato con tutti i cinque sensi coinvolti. Passiamo per la Plaza de armas, dove si riuniva l'esercito e arriviamo poi in Plaza de la Catedral; immancabile la foto con la piazza alle spalle davanti alla "Bodeguita del Medio", locale preferito da Hemingway per il miglior Mojito della città. Il via vai di persone è impressionante e si resta colpiti dalle band improvvisate, dai bambini che giocano a pallone o dai più anziani che fumano un "cohiba" seduti sui marciapiedi, le donne vestite con abiti locali cercano di vendere foto ai visitatori e si può vedere fare lo stesso anche da qualcuno vestito da Che Guevara o Fidel. L'Habana Vieja è ubriacante di colori e sensazioni e quasi non ci rendiamo conto di aver girato per ore e ore, sono obbligatorie le tappe shopping e refresh col trinomio più famoso della nazione rumsigaro-caffè. Il pomeriggio lo dedichiamo al lungomare fortificato, il "Malecòn", senza poter però visitare "La Cabana", casa del Che sita dall'altro versante. Passeggiando si possono vedere le fortificazio spagnole da entrambi i lati dell'insenatura e ci si immerge nel lento ritmo della vita quotidiana trovando bambini pescare, innamorati passeggiare e immancabilmente musicisti che con voce calda intonano guantanamera and co. La sera stessa ci concediamo una cena tipica su una terrazza dalla quale vedere tramontare il sole sull'oceano

e aspettare il famoso colpo di cannone delle 21, sparato a salve ogni sera dal forte spagnolo. Si dice che il colpo arrivi all'unico orario puntuale della città, per il resto lo strombazzare dei clacson delle cadillac colorate è incessante e la città non va mai a dormire. Il giorno dopo prendiamo il tour con bus a due piani per vedere la parte nuova, la mattinata trascorre così scarrozzandoci per la capitale. La parte nuova non si può definire romantica come la vieja però Plaza de la Revoluciòn è assolutamente da vedere con i famosi murales giganti del Che e di Cienfuegos troneggianti sull'immensa piazza. La seconda parte del viaggio si può facilmente sintetizzare: mare stupendo, cocktail, feste, sport sulla spiaggia bianchissima e relax totale a contatto con la vegetazione e la fauna locale. Cuba ti lascia la sensazione di non aver visto abbastanza, la sua ricchezza storica, il suo romanticismo e le paesaggistiche mozzafiato rapiscono il visitatore che ne vorrebbe sempre di più e magari come noi preferirebbe spogliarsi dell'abito del turista e avere un'altra occasione per conoscere da vicino l'essenza cubana, soggiornando in una delle "Casas Particulares" e girando l'isola a bordo di una cadillac d'altri tempi.


PANKAKULTURA

Volontariato e giovani al centro della quarta edizione de Il dialogo creativo La rassegna è stata promossa in città dall’Associazione Altrametà e dall’Assessorato alla cultura di Pordenone di Elisa Cozzarini, Andrea Fregonese e Alessandra Gabelli

La partecipazione dei giovani alla vita della città e l'impegno nel volontariato sono stati i temi al centro della quarta edizione della rassegna culturale "Il dialogo creativo", a febbraio in biblioteca e a Cinemazero. A livello nazionale, Pordenone è tra i comuni con maggiore presenza di bambini e ragazzi con cittadinanza straniera nelle scuole, oltre il 16 per cento del totale. Immaginare e costruire il futuro, secondo noi, è possibile solo considerando l'esistenza di questi nuovi cittadini, figli "Il dialogo creativo" è nato da una domanda semplice: è possibile parlare di immigrazione oltre i sensazionalismi, senza sbandierare la difesa di mitiche identità né santificando lo straniero a ogni costo? È possibile, insomma, affrontare questo fenomeno per quello che è: una realtà consolidata nelle nostre città, dove è parte della vita quotidiana in tutti i suoi aspetti? A Pordenone la percentuale dei residenti regolari con cittadinanza straniera supera da anni il 15 per cento. Sono famiglie, giovani che diventano grandi accanto a noi, che hanno diritto di immaginare il loro futuro nel posto in cui spesso sono anche nati. Con "Il dialogo creativo" noi stiamo provando a creare spazi per il dibattito e la riflessione, per l'incontro e lo scambio tra persone, più

dell'immigrazione. Quelli che, «se fossimo in un paese normale, sarebbero già italiani», come ha detto uno degli ospiti de "Il dialogo creativo" di quest'anno, Antonio Dikele Distefano. A 23 anni, questo ragazzo, nato a Busto Arsizio da genitori angolani, è diventato una star grazie a Facebook. A Pordenone ha presentato il suo secondo libro, che è già un best seller, "Prima o poi ci abbracceremo". Quel sabato pomeriggio la sala conferenze della biblioteca era piena di adolescenti, un sogno per noi organizzatori, che sin

dall'inizio abbiamo voluto puntare sul coinvolgimento di un pubblico giovane. Ad ascoltare Antonio c'erano ragazze con i capelli variopinti, dal platinato al blu e altre con il velo, c'erano italiani e stranieri, bianchi e neri, passando per svariate sfumature. C'era la Pordenone del futuro. L'Italia che ha voluto raccontare anche il regista Nicola Campiotti, che ha presentato il suo film "Sarà un Paese" a conclusione della rassegna. È l'Italia di Merisa Pilav, brillante studentessa al quinto anno di Medicina all'Università di Trieste, per cui la guerra in Bosnia è un triste ricordo d'infanzia. Vive ad Aviano da quando era bambina e non è ancora cittadina italiana. Merisa ha partecipato come relatrice all'incontro dal titolo "Volontariato e guerra". Abbiamo parlato anche del potere delle immagini. Marco Tonus, vignettista e grafico pordenonese, ci ha regalato un'appassionata

I nostri primi quattro anni sul campo «Mettiamo a confronto esperti e artisti per creare un dialogo costruttivo su un fenomeno che è parte delle nostre città» di Elisa Cozzarini, Andrea Fregonese e Alessandra Gabelli che tra culture e religioni. Non abbiamo la pretesa di dare risposte definitive. Cerchiamo di dare un contributo per una migliore conoscenza dell'altro, ma anche di noi stessi e di ciò che saremo, visto che ci concentriamo e cerchiamo di

coinvolgere soprattutto le seconde generazioni, i figli degli immigrati. La formula degli appuntamenti della rassegna è costruita proprio sulla volontà di far parlare, dialogare, esperti, scrittori, giornalisti, artisti, registi, psicologi, sociologi,

lezione sulla satira, aprendo al dibattito sulla necessità di educare alle immagini, potente mezzo per rafforzare la paura del diverso, gli stereotipi, oppure per contribuire a smontarli. La media education è al centro dei laboratori di cui ha parlato Marta Meloni, dell'associazione bolognese Africa e Mediterraneo. "Il dialogo creativo" è un progetto dell'Altrametà, associazione per il commercio equo e solidale, con l'Assessorato alla Cultura del Comune, grazie al sostegno, per questa edizione, del Centro Servizi Volontariato del FVG, con il patrocinio della Provincia e la collaborazione di Cinemazero, il Circolo della Stampa, il Comitato Unicef, Voce Donna, la Carta di Pordenone e Roi onlus.

antropologi, con cittadini che raccontano la propria esperienza nel contesto plurale del territorio pordenonese e del Friuli Venezia Giulia. Alla fine di ogni edizione, inoltre, organizziamo un incontro di valutazione: invitiamo chi ha partecipato agli appuntamenti a restituirci la sua opinione, a fare proposte per il futuro, suggerendo tematiche e ospiti, perché non sia una rassegna calata dall'alto, ma un vero e proprio laboratorio democratico, a cui ciascuno può dare liberamente il proprio contributo. Quest'anno, poi, per la prima volta abbiamo voluto lanciare un concorso di scrittura creativa dedicato alle scuole superiori, per coinvolgere maggiormente i ragazzi, e per ricordare Touria e Hiba, uccise a Pordenone un anno fa dal marito e padre.


NON SOLO SPORT

Quartamarcia, il web racconta il passato dell’automobilismo Fondatori del progetto due giovani pordenonesi, Daniele Boltin e David Da Ros di Cristina Colautti «Trovarsi di fronte ad una Ferrari 250 Gto è stata un’emozione incredibile, ma nulla in confronto a quello che suscita in noi la Fiat 131 Mirafiori di papà». Queste le parole di Daniele Boltin e David Da Ros, 32enni di Pordenone e, rispettivamente, giornalista freelance e videomaker. E’ in questo modo che i due ci introducono nel mondo di “Quartamarcia”, il progetto on line (www.quartamarcia.it) che hanno creato e che da poco ha compiuto un anno. L’idea innovativa che ne sta alla base è quella di «utilizzare nuove tecnologie per raccontare qualcosa di vecchio» perché, come spiega Daniele, «il mondo delle auto d’epoca è da sempre legato soprattutto alla carta stampata, mentre Quartamarcia vuole parlarne attraverso un sito e diversi social network». Lo stesso nome “Quartamarcia” ci riporta indietro nel tempo, perché le automobili un po’ di anni fa non avevano la quinta «e le macchine più belle sono quelle che hanno la quarta», afferma Daniele. Lo stesso sottolinea poi che il loro intento è presentare non tanto le auto di lusso, quanto le utilitarie d’epoca «che hanno un miliardo di storie da raccontare, perché sono macchine che hanno mosso l’Italia, dove il viaggio era la vera esperienza e dove è stata concepita metà della popolazione italiana». Gli articoli, ma anche i videoclip, sono gli strumenti che Daniele e David utilizzano per divulgare questi racconti e per trasmettere al pubblico le suggestioni provate. «Nei

video cerco di mettere l’emozione che provo nel vedere queste auto e nel sentire le esperienze vissute dai proprietari, quindi non sono molto televisivi, ma più sottili dichiara David -. Ogni video, però, è una cosa a se stante, perché ognuno ha storie diverse, che noi vogliamo raccontare». Tra queste, quella di Bruno Dorigo è sicuramente una tra le vicende più belle a cui “Quartamarcia” ha dato voce. La grande passione per il marchio Abarth, ha permesso a quest’uomo di realizzare un museo a Campagna di Maniago dove conserva ed espone la sua collezione privata, la quale comprende oltre a numerosi pezzi ed accessori, anche nove vetture.

Molteplici sono le storie come quella di Bruno che, in poco più di un anno, Daniele e David sono riusciti a raccogliere, ma di certo uno dei maggiori traguardi è l’intervista a Tonino Lamborghini, figlio di Ferruccio fondatore della celebre casa automobilistica. Tutto iniziò da un articolo, “Lite tra Lamborghini e Ferrari: una grande bugia”, che a distanza di poche ore dalla pubblicazione, provò il commento puntuale di Tonino Lamborghini; immediata la proposta di replica degli autori di “Quartamarcia”, che lo stesso

marcia”. L’accreditamento ed i risultati ottenuti sono, però, frutto di un lavoro costante che prevede in primo luogo un aggiornamento frequente del sito e dei social network attraverso articoli e video sempre nuovi e la correzione dei racconti che gli stessi lettori inviano a "Quartamarcia". Questo progetto, infatti, come i suoi ideatori lo definiscono, è “un laboratorio aperto”, dove qualunque appassionato di auto d’epoca può contribuire portando la propria storia. «È un’emozione ricevere questi articoli e permettere alle per-

accettò e che si concretizzò nell’incredibile opportunità di videointervistalo. Una tappa importante per i due giovani autori del sito, che s’inserì in un calendario sempre più fitto di impegni, tra i quali diversi raduni e fiere del settore. «A settembre abbiamo partecipato ad “Auto moto d’epoca” di Padova, come ospiti dello stand dell’Alfa Sud Club Italia, dove abbiamo mostrato i nostri video -spiega Daniele-. A gennaio, invece, alla fiera “Auto e moto del passato” di Ferrara siamo stati relatori ad uno degli incontri” ci racconta Daniele. Da parte sua invece David evidenzia la soddisfazione di essere ormai riconosciuti in diverse occasioni come “quelli di Quarta-

sone di diffondere i loro racconti, che difficilmente sarebbero pubblicati in altre testate del settore - sottolinea Daniele - . Questa gente è animata da grande passione». Il team di “Quartamarcia”, a cui sono arrivati numerosi curriculum di aspiranti collaboratori, si sta lentamente ampliando con nuove collaborazioni. Vi collabora ad esempio anche Flaminio Massetti, che dopo aver conosciuto il progetto tramite la propria vettura d’epoca, lo ha sposato ed ha iniziato ad occuparsene, scrivendo della parte più tecnica. Tali collaborazioni sono però tutte a titolo gratuito, perché «per ora non c’è budget», ma solo tanta passione, entusiasmo e competenza a fare da traino a questo progetto, che ha vissuto un anno di piena crescita. Per il futuro sono tantissime le migliorie ed evoluzioni che gli ideatori di “Quartamarcia” hanno in mente, tra le quali la realizzazione di un evento in città ed il sogno di trasformare questa passione in un vero e proprio lavoro.


PANKAROCK

DA SPACE ODDITY A BLACKSTAR David Bowie, l'uomo che cadde sulla terra per risalire come "stella nera" di Silvia Bandini Gli esseri umani muoiono. E’ una delle poche certezze della vita. Ma Bowie nel mio immaginario non è mai stato completamente umano. Se poteva esserci un extraterrestre al mondo quello era lui, ed anche se nella finzione è morto mille volte, da Ziggy Stardust al Maggiore Jack Celliers, lui non doveva. Per me è stato il primo amore musicale, quello che non si scorda mai. Prima di Bowie ascoltavo i 45 giri di mia madre in un mangiadischi: Presley, Beatles, Armstrong, Sinatra, Platters... La maggioranza della musica però la sentivo alla radio e proprio alla radio incontrai Starman. Non riuscivo a tradurre le parole e ricordo che per un lungo periodo ho fatto la posta a quella canzone per poterla registrare e ascoltarla tante volte quante ne servivano per trascrivere il testo. La supplente di inglese delle medie diceva che con le canzoni le lingue si imparavano divertendosi e ci fece ascoltare e tradurre Blowing in the wind di Bob Dylan. Peccato fosse solo una supplente. Bowie infatti è stato anche il mio primo insegnate di inglese. Poi un giorno, nel negozio di dischi, vidi quella copertina. Bianco e nero, un viso incredibile, diafano ed inquietante e quegli occhi. Fu colpo di fulmine. Rotto il

salvadanaio e acquistato il disco. Il mio primo disco. Era il 1977, avevo 12 anni. Da quel giorno i suoi dischi sono diventati un appuntamento fisso. Una certezza. Non era la sola musica che ascoltavo, ma era una mia scoperta, a casa non lo conoscevano e alla fine anche mia nonna doveva ascoltarlo. Ciò valeva anche per le amiche, e non tutte gradivano. A quell'età si piange e ci si dispera per la morte di un idolo. Molti di quelli che ascoltavo, per motivi anagrafici o altro erano già defunti ed altri lo furono

poco dopo: Bob Marley e John Lennon. Un vero peccato e una tristezza infinita, ma gli anni ‘80 sono stati generosi con le meraviglie sonore. Poi arrivava un nuovo disco di Bowie e tutto era splendido. Heroes è ancora adesso la mia canzone preferita, soprattutto nella versione tedesca, molto più espressiva ed emozionante, da brivido. La sua voce inconfondibile ha un solo rivale nel mio cuore: Freddie Mercury. Ricordo ancora quella notte di luglio del 1985 quando, emozionatissima, ho guardato il Live Aid in diretta da Wembley e c'erano entrambi nel coro finale con Let it be. Li avrei mai visto dal vivo? Chissà, il destino è stato vicinissimo a dire no. Mamma dice che è meglio non immischiarsi col Maggiore Tom* Ma quanti ascoltano ciò che dice la mamma? Però sono stata fortunata e nel luglio 1987 ero a San Siro a vedere The Glass Spider Tour. Bowie scende dal ventre di un ragno gigante mentre canta al telefono vestito di rosso, 70 mila spettatori per 23 canzoni. Ero al settimo cielo e contemporaneamente sull'orlo dell'abisso. Chi mi conosce sa di cosa parlo: avevo in tasca un test HIV positivo e niente che potessi fare** se non provare a vivere. Gli anni 90 mi hanno avvicinata a Mercury più di quanto avrei potuto o voluto pensare. Certamente non lo avrei mai visto dal vivo e restava solo il suo testamento musicale. Da adulti piangere per un cantante è da idioti, ci sono ben più grandi tragedie, è roba per adolescenti solitari e depressi. Questo è il giudizio comune. Ma da brava fan di Bowie sono sempre stata fuori luogo***. E per Freddie ho

pianto. Per lui, per quel che rappresentava per me, per gli altri morti dello stesso male, per gli altri colpiti dallo stesso male, per la perdita di un talento artistico così grande. E per me che ancora vacillavo. Ho apprezzato quel Padre Nostro recitato sul palco da Bowie nella commemorazione di Freddie. Ho pianto durante il suo duetto con Annie Lennox in quell'Under Pressure registrata con Freddie in studio ma mai interpretata insieme dal vivo. Sono passati tanti anni e dischi e, anche quando ho perso il mio papà, David era ancora lì a dirmi che possiamo essere eroi solo per un giorno****. Un'ipotesi scientifica prevede che i corpi celesti identificati come buchi neri sarebbero un altro tipo di oggetto astronomico, chiamato ‘stella nera’ che sarebbe abbastanza densa da provocare molti degli effetti associati ai buchi neri come la possibilità di accedere ad altre dimensioni. Cosa poteva esserci di più adatto per un nuovo disco? Sarebbe uscito per il suo compleanno, pochi giorni prima di quello di mio padre, che mi aveva regalato lo stereo per ascoltare quel famoso 33 giri. Però quando ho visto il video Lazarus, ho provato una strana sensazione: ero impressionata dall'espressione del viso. La stessa sofferenza che avevo visto in mio padre all'ospedale. Poi i versi : Ho cicatrici che non possono essere viste …Tutti mi conoscono adesso Non ho niente da perdere …Sai, io sarò libero Proprio come l'uccello azzurro. Immediatamente mi è tornato in mente Freddie, La mia anima è colorata come la ali delle farfalle ........ Posso volare, amici miei***** Bowie è sempre stato un passo avanti, un camaleonte che vedeva il futuro e lo ha fatto anche per la sua morte nel modo più elegante possibile. Maggiore Tom a Torre di Controllo, Sto uscendo dalla porta E sto galleggiando nello spazio in modo strano E le stelle sembrano molto diverse oggi**. Ci resta una stella nera con tutta la meraviglia che può nascondere in altre dimensioni oltre lo spazio e il tempo. E una speranza: Lazarus Grazie * cit. Ashes to ashes – Bowie 1977 ** cit. Space Oddity – Bowie 1969 *** cit. Thursday's Child- Bowie 1999 **** cit. Heroes- Bowie1977 ***** cit. The show must go on- Queen 1991


Il ritmo multiculturale di Rachid Taha ha conquistato il pubblico del Verdi Il musicista Pop-raï franco algerino ha chiuso in bellezza l'edizione 2016 della rassegna culturale Dedica in onore dello scrittore algerino Yasmina Khadra di Guerrino Faggiani

Finale in musica per una bellaª edizione di “Dedica”, che quest’anno ha scelto come protagonista lo scrittore algerino Yasmina Khadra. La rassegna, promossa ogni anno dall’associazione Thesis di Pordenone, si è chiusa infatti con il concerto al teatro Verdi del franco algerino Rachid Taha, uno dei maggiori esponenti della scena rock multiculturale francese. Il musicista è stato accompagnato dal “Couscous Clan”. Dalla fama di artista estroso ed imprevedibile, Rachid Taha del suo spettacolo aveva anticipato solo che sarebbe stata una festa, ed ha fatto centro. Non era facile, ci sono platee che non si scaldano neanche con le stufe, e sappiamo tutti che “non bisogna dire gatto finché non ce l’hai nel sacco”. Ma ha fatto centro e si sa che quando si fa goal si ha sempre ragione, anche se si è andati contro gli ordini dell’allenatore, in questo caso rappresentato dal buon senso. La serata infatti, dopo un inizio di raccolto ascolto, è entrata nel vivo con ritmiche di penetrante empatia. Percussioni e timbriche dalle origini arcaiche che da sem-

pre hanno elevato lo spirito dell’uomo verso quello strano coinvolgente piacere per il ritmo. Che sia fatto battendo su un legno millenni or sono o su di una percussione di ultima generazione, ancora oggi il ritmo attrae e coinvolge. Se poi ci mettiamo i virtuosismi degli strumenti affascinanti del nostro tempo ecco che il risultato diviene una danza carica di espressioni, una voglia di muoversi,

un’allegria a cui non è facile sottrarsi. Insomma una festa. Le percussioni dicevamo, affidate a Franck Mantegari, erano l’ossatura dello spettacolo. Durante il concerto gli occhi manco a dirlo erano soprattutto puntati su di lui in vistoso movimento, e sulle occhiate di intesa work in progress che si scambiava con i compagni di musica per stacchi e cambi fatti all’istante al servizio di improvvisazioni ed estri. Ma la vera colonna portante sono state le tastiere di Kenzi Bourras. Cosa non è uscito da quelle sue dita è difficile dirlo. Bassi, fiati, corde e naturalmente tastiere, una big band tutta in uno strumento e in un musicista. Preponderante la sinergia tra i due per il sound “maschio” e accattivante che tanto ha fatto ballare i presenti. Ritmi orientali e occidentali con suoni che parevano provenire ora dal deserto ora da un’arena metal, ma anche assieme. È proprio questo il sound Pop-raï che ha reso famoso Rachid Taha e con cui ancora si fa apprezzare. Poi c’era Hakim Hamadouche all’oud, una particolare chitarra acustica con timbri-

ca prettamente orientale a dieci corde (cinque doppie) e, nonostante ciò, suonata indifferentemente per accompagnamento o come solista essendo il musicista in possesso di tecnica notevole, arricchendo il sound con prestazioni da eccellenza. Dotato di una innegabile personale personalità ha eseguito anche pezzi in solitudine possedendo pure una buona voce. Juan de Guillebon si cimentava alla chitarra elettrica, pur nato come bassista, e purtroppo si sentiva. Lo ha fatto meglio che poteva e devo dire non bene. Con tecnica tutt’altro che virtuosa non ha mostrato padronanza dello strumento e delle sue sonorità. Accompagnamento e poco altro per una prestazione d’ufficio. E poi lui: Rachid Taha, che sembra vivere alla giornata la sua storia artistica come un giocattolo che continua a non rompersi, ciondolante sul palco e se vogliamo anche traballante, ma all’altezza e consumato ai palcoscenici ha catturato l’attenzione di tutti, e poi li ha guidati a liberarsi dagli schemi, sembra essendone esperto sul come fare, e a lasciarsi andare a balli in piedi o da seduti ognuno a proprio modo, ma a vivere comunque il ritmo. Il risultato finale è stata una serata come poche altre. A mio modo di vedere, e contrariamente a quanto dichiarato da Rachid ovvero che «la musica non unisce i popoli», ha invece accomunato nell’euforia e nel divertimento persone di diverse culture, unendole almeno in quella musicale in un’unica prorompente onda di pluralismo scevro da preconcetti e status.


LA STORIA

La scalata alla presidenza di JFK Gli esordi politici del presidente americano che per primo intuì il potere dei media di Emanuele Celotto J.F.K.: born in Brookline 05.29.1917 killed in Dallas (Texas) 22.11.1963. John Fitzgerald Kennedy, il 35° presidente degli Stati Uniti, decise di darsi alla politica dopo la perdita del fratello Joseph, morto in guerra, su cui erano inizialmente riposte le speranze politiche di famiglia. Per indole ed idee era diverso dal fratello, ma anche dal padre. Prima iscritto a Princeton poi ad Howard, per lui l'idea della politica era assai lontana. Dopo la guerra gli verrà conferita una medaglia al valore per aver salvato, con le sue azioni, gran parte dell'equipaggio della PT 109 (una moto-silurante che si dimostrò inutile durante il conflitto). Questo creò un'aura di fiducia attorno alla sua persona, ma la guerra lo lasciò debilitato, con la malaria e molti strascichi. Nel 1947 il deputato democratico Curley lasciò; JFK corse per il seggio e vinse. Fu eletto deputato a soli 29 anni e si riconfermò alle elezioni successive. In entrambe le camere la maggioranza era repubblicana. Lui si sentì con le mani legate e trovò quella vita assai noiosa; le poche proposte da lui presentate non passarono o finiro nel cassetto. Nella seconda metà del '51 Kenndy girò un po' il mondo e grazie a questo cambiò il suo atteggiamento nei confronti dell'Europa. Inizialmente contrario e scettico sul piano Marshall, ne divenne poi un convinto sostenitore. La ripresa economico politica dell'Europa sviluppata nella democrazia andava aiutata. I suoi crucci furono la sicurezza nazionale e la paura di un conflitto atomico. La Nato quanto un'Europa sicura erano ottimi alleati contro il pericolo russo-comunista. Nonostante i guai fisici perenni non perse la sua verve. Sposò Jaqueline Bouvier nel 1951. In quel matrimonio c’era sia attrazione che convenienza per entrambi (lui per lo status politico, lei per un futuro con i dollari). Nel ‘54 Kennedy era indeciso se correre per diventare governatore dello stato del Massachusett o senatore. Non voleva neanche correre

contro l’allora governatore Drever, per non spaccare il partito. Drever era indeciso tra ricandidarsi o tentare il Senato. Alla fine corse come governatore (perdendo) e JFK tentò la via del Senato con il motto: «Lui farà di più per il Massachusett». L'industria e la pesca andavano male e l'economia dello Stato era in netto declino; c'era bisogno di idee nuove e gente nuova. JFK coinvolse molte donne nella sua campagna elettorale e alla fine battè il favorito repubblicano Lodge per soli settantamila voti, ma vinse in tutti i distretti. Pochi mesi dopo in Senato Ralrh Flanders presentò una mozione di censura contro Mac Carty e Jenner per le falsità e le esagerazioni del periodo oscuro del maccartismo. JFK scrisse il suo parere (favorevole) ma non poté leggerlo causa guai alla schiena che lo tennero in ospedale. Tra operazioni ed infezioni passò un periodo molto travagliato tra l'estate del ‘54 e aprile ‘55 ma a maggio di quell’anno (magro e ingrigito) tornò in Senato. Durante la malattia scrisse il libro: "Profil of corige" poi premiato con il Pulitzer. Recuperata in fretta la verve politica e fisica, Kenned decise di correre come vice presidente del partito democratico nelle primarie del 1956. Alla fine, a lui fu preferito l'altro candidato, Esters Kafauver. Eisenhover distrusse il democratico Stevenson alle presidenziali e quella sconfitta, si rivelò un vantaggio; i delegati democratici ebbero modo di conoscere meglio JFK ed il fratello Bob. La covention del partito nel '52 fu seguita da 4 milioni di persone, quella del ‘56, grazie alla televisione, da 40 milioni. Questo aumentò la sua notorietà all'interno del partito e crebbe in lui la voglia di arrivare alla Casa Bianca. Come senatore riu-

scì a far approvare la legge sul minimo salariale (da75 cent a 1$ all'ora), firmò il Civil Right Act, che permise ai neri perseguitati per motivi razziali di andare per vie legali, dando loro la possibilità di far parte della giuria. Disse apertamente che la segregazione non solo era deprecabile ma inaccettabile in una società civile. Cercò di far passare una legge che prevedeva pari stipendio per le donne a parità di lavoro degli uomini. L'obbiettivo finale era chiaro (la presidenza), alcune idee erano in via di formazione. Diritti civili e maggior giustizia sociale saranno parte del suo programma. Ma la sicurezza nazionale era ciò che gli premeva di più; aveva la "fissa" che l'Urss stesse armandosi per una guerra contro gli Usa. Intuì che la prossima "polveriera" sarebbe stata l'Indocina (che la Francia lasciò di lì a poco) e che la politica estera per gli Usa sarebbe diventata molto più importante che in passato. Kennedy impiegò alcuni esperti del suo staff in una ricerca sull'impatto della televisione nelle elezioni. I riscontri furono più che ottimisti; cambiò modo di vestire, curò molto il suo aspetto (lo stesso fece la moglie) ed iniziò da apparire in tv. Col suo sorriso bucava il video e la sua fama cresceva. Nel ‘57 riuscì a farsi assegnare nella commissione Affari Esteri. Si arrivò così al

'58, quando Kennedy si ricandidò come senatore del Massachussett: vinse ottenendo quasi 900mila voti. Fu spesso invitato a tenere discorsi in giro per gli Stati e nelle Università; fece colpo sulle platee, strinse mani, si mise davanti ai cancelli delle fabbriche per farsi conoscere dagli operai del primo turno. Non parlò della sua candidatura, ma si fece vedere spesso in Wisconsin, caposaldo del candidato democratico alle primarie H. Humprey. Annunciò la sua candidatura il 2 gennaio 1960. Ormai il quadro si stava delineando; H.Humpley, L Jonson, A.Stevenson erano i candidati "credibili" con cui avrebbe dovuto vedersela. Nonostante le pressioni dei sostenitori, Stevenson aveva più volte dichiarato di non volersi presentare e che nemmeno avrebbe appoggiato altri candidati. Le primarie del '60 si sarebbero tenute in 16 Stati. Kennedy era sicuro che la prima cosa da fare era battere Humprey nel Wisconsin e che questo gli avrebbe aperto la strada. Alle primarie del Wisconsin ottenne un 6 a 4 a suo favore, che però non eliminava Humprey. Doveva vedersela di nuovo con lui nel West Virginia. Come cattolico, in uno stato con 95 per cento di protestanti, schivò la questione religiosa. Improntò la campagna elettorale promettendo aiuti ed interventi nelle zone più svantaggiate dello Stato, dove il reddito pro-capite era il più basso degli Usa. Il 10 maggio gli exit pool serali davano JFK oltre il 60 per cento. Vinse con quel risultato e a ruota anche in Oregon. Dall'11 al 15 luglio si tenne la convention democratica a Los Angeles. Stevenson lo preoccupava; non avrebbe ottenuto la nomination ma avrebbe potuto spaccare il partito. All’ultimo momento il suo antagonista si presentò alla convention con i sostenitori che gridavano "vogliamo Stevenson", ma fu informato che ormai i delegati erano quasi tutti per Kennedy. La prima sessione di voto si svolse il 13 luglio. Kennedy contava già 700 voti dei 761 necessari. Alla fine degli scrutini Kennedy ne aveva 750, mancava solo il Wyoming che contava 15 voti. «Wyoming offre i suoi voti al futuro presidente Kennedy» disse il delegato democratico del Wyoming dopo lo spoglio. Kennedy aveva vinto! Era il candidato presidenziale dei democratici


Hanno collaborato a questo numero

LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost

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Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli

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Irene Vendrame E’ arrivata in redazione una cucciola! Giovanissima, timida e delicata, ma altrettanto determinata e ambiziosa. Sogna di diventare una famosa giornalista come Oriana Fallaci, così è stata arruolata da LDP per farsi le ossa. Benvenuta Irene!

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Paola Doretto Lettrice d’altri tempi, si narra che abbia dichiarato che ci sono troppi pochi autori al mondo per fare in modo che lei riesca a leggere sempre libri nuovi! Si spende ogni giorno per cercare di dare il proprio contributo verso un mondo più giusto e quindi, con naturalezza, scrive sul nostro giornale.

Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Irene Vendrame, Cristina Colautti, Chiara Zorzi, Janna Voskressenskaia, Ubaldo, Piero, Gianluca, Andrea, Patty Isola, Mauro P., Giuseppe Micco, Sara Lenardon, Franca Merlo, Paola Doretto, Moreno T., Andrea Lenardon, Elisa Cozzarini, Alessandra Gabelli, Andrea Fregonese, Silvia Bandini, Emanuele Celotto. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto Impaginazione Ada Moznich

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Cristina Colautti È arrivata in sede in punta di piedi, adesso non le sfugge niente, anzi. Dottoressa in sociologia Bis, porta a casa un 110 e lode a mani basse! Pare che “ansia” sia il suo secondo nome, ed infatti è la nostra donna per Codice a s-barre, così almeno lì, si sente al sicuro!

Patty Isola L’immagine che la identifica è quella di un folletto. Eterea, nel bene e nel male mai banale, sfuggente, pungente, che appare dal nulla lasciando segni colorati di pennelli e sensibilità per poi scomparire nel suo mondo. Mondo che un po’ la protegge ed un po’ la mangia.. ma i folletti vivono così, ricercando equilibro dentro la rischiosa magia del buio.

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Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia

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Giuseppe Micco Bepi: secco come un terno, Monsieur Le Bepo è il lottologo della compagnia. Dategli la vostra data di nascita e ne farà una fonte di reddito. Una volta all'anno da Monsieur diventa Mister: dei leoni indomabili, i Kullander United.

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Mauro Paludetto Forse l’ultimo dei romantici, innamorato delle donne e dei loro difetti, ha momentaneamente abbandonato il regno. Una piccola e salvifica pausa di riflessione tra le colline per riprendere lo smalto, comunque solo sbiadito, di uomo d’altri tempi. La panchina è donna, si amano a vicenda.

Emanuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili

Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 5, 9, 11, 17 e 18 dal sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pagina 2 di Giovanni Giacomelli Foto a pagina 3 di Speakeasy Foto a pagina 13 di Andrea Lenardon Foto a pagina 14 di Il Dialogo creativo Foto a pagina 15 di Quartamarcia Foto a pagina 16 dal sito ufficiale di David Bowie Foto a pagina 17 di Luca D'Agostino Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle dipendenze di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539

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Moreno T. Nonostante la sua giovane età vanta un curriculum di esperienze di vita da libro. Entra alla panka con l’impegno di venirci qualche volta ed ora è presenza immancabile della sede. Eclettico, canterino demenziale, alla ricerca di un giro vita invidiabile mentre si mangia una fetta di torta. Si muove in sede come fosse casa sua, si muove nel mondo come fosse casa sua.

Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930

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Sara lenardon Seguendo le orme del fratello decide di fare il tirocinio da noi. Pazza. Per cui perfetta. Ginnasta di professione, studentessa per cultura, panchinara per passione. Scrive il suo primo articolo dall’altra parte del mondo, adesso scrive perché da noi ha scoperto un altro mondo.

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Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.

La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00


TU AMALI, ARMALI. SE LA STRADA E' SBAGLIATA, TROVERANNO QUELLA GIUSTA DA SOLI. FABIO GEDA

I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA


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