Ldp 2/2015

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APPROFONDIMENTO

Codice a s-barre

Libertá di Parola 2/2015 ——

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

Venerdì 26 giugno, alla 17 nella sala Teresina Degan della biblioteca civica di Pordenone I Ragazzi della Panchina presentano il video intervista “Tutto quello che abbiamo dentro”, un progetto realizzato nell'ambito della redazione di Libertà di Parola (Codice a s-sbarre) interna al carcere cittadino. Tre interviste ad altrettanti personaggi sul tema “libertà e riscossa personale” in cui i giornalisti-intervistatori sono gli stessi detenuti. a pagina 9

TOP, educativa di strada in città

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INVIATI NEL MONDO

Giappone, modernità e tradizione a pagina 15

Pordenone anni '70-'80, il movimento del The Great Complotto e la sua evoluzione musicale. Caso unico in Italia, unì due generazioni al di là delle divisioni politiche e sociali di Loris Tomasella Sul punk se ne sono dette di cotte e di crude. Di norma a questo termine vengono associati gruppi d'oltremanica, dai Sex Pistola, ai quattro finti fratelli Ramone, il tutto correlato ad un'estetica aggressiva basata su creste variopintechiodi in pelle-jeans strappati. Niente di più banale. Il punk non è solo questo: è attitudine, libertà di pensiero, goliardia giovanile. Ad incarnare perfettamente questo "modus operandi" ci ha pensato il Great Complotto. Su questo movimento si sono spesi fiumi

PANKANEWS

di parole, forti critiche alternate a salamelecchi d'ogni tipo. Al di là del merito artisticomusicale, ai vari Miss Xox (Hitlerss), Ado (Tampax) and co. va riconosciuta la grande capacità nel mettere insieme le menti di molti giovani, ribelliannoiati-stanchi della vita di provincia, facendole confluire in qualcosa che fosse innovativo, dissacrante e soprattutto coeso. Rappresentativo di ciò è l'album omonimo, “The Great Complotto” del 1981. Per la prima volta su vinile vengono immortalati gli sforzi

NON SOLO SPORT

Judo, il modello Maddaloni spiegato ai ragazzi

delle dieci band locali: Sexy Angels, Cancer, W.K.W., Andy Warhol Banana Technicolor, The Little Chemists, Fhedolts, Mess, Musique Mecanique, Waalt Diisney Production e Mind Invader. Da un profilo meramente musicale, la compilation è un pout pourry di post punk grezzo, sporco, con primi vagiti new-wave. Tracce spontanee, sentite. Poca tecnica, tanto impatto. Il vero e proprio manifesto punk rock pordenonese,

Il fascismo e la guerra di chi li ha vissuti

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LA STORIA


IL TEMA

«VI RACCONTO DA DOVE SIAMO PARTITI» Fabio Zigante, in arte Miss Xox, ripercorre con noi i primi passi del The Great Complotto intervista di Chiara Zorzi Il periodo storico tra il ‘76-‘77 è stato, nell’espressione musicale, un momento particolare: emergeva la voglia di esprimere il proprio pensiero prendendo in mano degli strumenti, questo è stato definito punk. Un atteggiamento che, anche nel concreto, dava la possibilità di passare dall’altra parte, di non essere un semplice consumatore di musica, ma di essere quello che metteva se stesso nella posizione di chi raccontava la sua realtà. The Stooges con chitarre distorte, volumi alzati, sonorità dure raccontavano il loro quotidiano, il loro “no fun”. Bastavano due frasi per raccontare un’emozione quotidiana e questo generava anche in altri la voglia di rappresentare la propria realtà. Tutti ave-

Che cosa ha mosso quell’esperienza? La forza d’attrazione del

vano così qualcosa da dire, tutti potevano disegnare il proprio racconto con modalità diverse, perchè non era necessaria la qualità che solo alcuni musicisti riescono a raggiungere. Questo succedeva non solo in America e Inghilterra. Succedeva anche a Pordenone. Tra i fondatori del The Great Complotto c’era anche Fabio Zigante, in arte Xox «Assieme ad Ado Scaini - racconta cantavamo il nostro “no fun”, buttati fuori dalle sale prove dai musicisti “veri”, perché non sapev a -

autoprodotti. Raccontarlo ora non ha un significato rilevante perché oggi siamo sommersi di musica autoprodotta. Credo che il TGC sia nato da questa forza d’attrazione che abbiamo generato, dalla nostra modalità di intendere e fare musica. Forse il fatto di vedere l’entusiasmo e la voglia che c’era, nonostante le difficoltà, di essere presente in un tuo territorio, in un tuo stato mentale, in un tuo racconto, ha generato voglia di avvicinarsi, anche se inizialmente solo come spettatore. Un altro fattore d’attrazione è stato la grande apertura che c’è stata, l’accettare rinforzi da chi c’era attorno, senza porre nessuna barriera, anzi: più scassato eri, più adatto eri. L’idea di base era quella di un gruppo aperto ai contributi di tutti, dove le fatiche comuni generavano opportunità per altri di potersi aggregare. Era un gruppo attrattivo, ricettivo, includente, anche per l’escluso.

mo suonare, ma con la voglia di essere presenti con le nostre modalità. Questo, forse, ha generato forza d’attrazione anche verso altre persone che vivevano le stesse difficoltà, le quali erano viste come possibilità di raccontare e fare delle cose in un modo diverso». Ad esempio? La produzione di materiale. Prima questa passava attraverso i canali standardizzati delle case discografiche, da quel momento in poi invece la produzione delle tue cose te la potevi gestire in modo diverso: sono nati così i dischi

TGC era la possibilità di dimostrare che le tue possibilità e le tue difficoltà diventavano il tuo potenziale, potevi rappresentarti per quello che eri, con il tuo non saper suonare, il tuo non saper fare altre cose, però la tua voglia di farle ti dava la possibilità di realizzarle. Per me il TGC ha rappresentato un momento, che poi si è evoluto. Sono stato uno tra i primi ad aggregare tante persone, a generare attrazione e a supportare le possibilità di ognuno per ciò che era. Ad un certo punto mi sono allontanato da quest’esperienza perché avevo la necessità di nuove situazioni


e questa era diventata troppo fine a se stessa e troppo piccola. Io ho necessità che le cose si muovano molto velocemente e ridefiniscano una situazione che sembra già consolidata. Mi ritengo uno che fa fatica a mettere assieme soggetto, predicato, complemento, perciò compenso attraverso il suono; la parte emozionale, “strana”, artistica del suono: è la forma che uso per cercare di comunicare le cose a chi ho attorno. Delle volte non ci riesco nel modo migliore, ma ci provo in tutti i modi. Non mi bastava più una situazione che si fermava solo ad un aspetto “musicale”, sono andato avanti con l’autoproduzione di una mia forma di comunicazione. C’è stato un dopo The Great Complotto? Dopo, per me, il TGC è rimasto un modo d’essere e di vedere le cose, forse per altri si è esaurito in quei tempi. Io faccio il tifo per tutti quelli che hanno voglia di dire delle cose e hanno delle difficoltà a dirle, mi piacciono quelli con le difficoltà proprio perché posso immaginare quali siano, perché magari le ho provate anch’io nel mio raccontarmi. A volte vengo venduto come un musicista, ma io sono un disastro, sono uno che prova a suonare la chitarra da decenni però sono “handicappato”, eppure mi trovo con una chitarra appesa al collo e racconto i miei pensieri; mi annoiano quelli che vedono la musica solo come un gioco di prestigio, un virtuosismo e non mi emozionano. Mi piacciono delle cose più sporche, ma più emozionali, che arrivano a dire qualcosa, altrimenti se la musica diventa quella da supermercato, non m’interessa. M’interessa lo strumento “musica” per le emozioni che dà. Questo mi piacerebbe trasmettere, ma non come insegnante, mi piace vedere quelli che fanno fatica, mi piace la fatica.

Io adolescente nel The Great Complotto «Per essere figo dovevi solo avere delle idee» testimonianza raccolta da Chiara Zorzi Penso di essere stato l’ultimo ad entrare nel Great Complotto in maniera effettiva, l’ho vissuto dai 14 ai 16 anni, tra l’81 e l’84 circa, poi si è trasformato in altro, non è più stato veramente operativo. Si è trattato di una cosa eccezionale, fuori da ogni pensiero, da ogni regola: prima di quel momento era quasi improponibile pensare che potesse esistere una cosa del genere e per me, ma anche per altri ragazzi, entrare lì ha

spostato completamente gli equilibri. Io, appena adolescente, come molti ragazzi, frequentavo le compagnie dei quartieri che proponevano l’essere “diversi” attraverso le canne e la prestanza fisica. Ad un certo punto, grazie alla musica, sono entrato in questo movimento che non badava più a certe cose. Avevi delle idee, sapevi dimostrarle, allora diventavi il numero uno nel giro di pochissimo. Il The Great Complotto promuoveva un essere “diversi dai diversi” ed è stato speciale, perché facevi cose fino a quel momento continua dalla prima pagina

o naoniano, come direbbero in molti. L'innovazione si vede da un punto di vista sociologico: fino a quel momento era impensabile immaginare che una provincia di dimensioni così ridotte potesse generare un humus musicale così ampio ed omoge-

inimmaginabili ed erano tutte lontane da quello che era il primeggiare dei ragazzi a quell’età lì. Nel TGC se sapevi tirar fuori qualcosa ti consideravano tutti, poco importava che tu avessi 10 anni meno degli altri, da subito c’era rispetto per chi aveva determinate capacità. Questa è stata la forza di questo movimento: dava importanza a tutti quelli che volevano tirar fuori qualcosa e si impegnavano per farlo. Credo che la musica, e in particolare il The Great Complotto, sia stato la mia salvezza perché con il mio carattere, se fossi rimasto nel “mondo” delle compagnie di quartiere, probabilmente avrei preso delle strade dalle quali non so se sarei riuscito a uscire. Era una cosa molto strana il TGC perché era un insieme di gente dai 13 ai 26 anni, quasi due generazioni, che facevano delle cose assieme, fondamentalmente suonare e tirar fuori idee. Si imparava che non era importante saper suonare, ma tirar fuori idee; tutti ci avevano sempre inculcato che “bisogna saper far questo, essere forti, ecc”, balle, da lì abbiamo capito che non serviva a niente; se ti capitava in testa un’idea ed avevi il coraggio di tirarla fuori avevi vinto, tutti ti consideravano e tutti ti avrebbero dato una mano. Entravi lì e diventavi figo e te lo sentivi dentro. Se avevi idee potevi primeggiare. Poteva primeggiare chiunque. E a differenza

di quello che pensano tanti, non c’erano né colori politici, né questioni di classe. In Italia un movimento del genere, un’organizzazione di tanta gente così ben organizzata era ed è ancora riconosciuta come un caso unico. Il TGC, se per tutti quelli che hanno partecipato è stato molto importante, per alcuni di noi lo è stato doppiamente perché ci ha aperto una strada lavorativa. Non è casuale che dalla stessa compagnia 6-7 persone siano riuscite a vivere di musica; difficilmente si trova una concentrazione così alta. Non eravamo solo diversi, eravamo degli extraterrestri in quel momento. In centro le forze dell’ordine ci fermavano ogni due secondi, eravamo fuori dal mondo, ma lo posso capire. Adesso vedi uno con la cresta e non ti fa effetto, ma in quel momento in Italia ce n’erano venti in tutto e dieci persone così solo a Pordenone era allucinante. C’è stato anche il rovescio della medaglia in quell’esperienza. Crescere lì dentro mi ha dato tantissimo, tanto che tutto quello che era fuori da lì o dagli schemi che avevo imparato lì, ha rischiato di essere preso come sfigato. L’aver fatto una grande figata ti fa guardare solo te stesso, ti fa chiudere gli occhi e per un po’ ho patito questa condizione perché, crescendo, ti scontravi con una realtà che non era più solo quella che avevi vissuto lì e vivevi così un conflitto senza nemmeno rendertene conto. Credo che situazioni come quella siano talmente forti che purtroppo quell’effetto collaterale è quasi inevitabile. Io sono uno di quelli che non è riuscito ad affrontarla velocemente, probabilmente perché ero giovane o forse semplicemente meno pronto.

neo negli indirizzi concettuali. Basti pensare che gli associati, affiancavano al semplice fare musica una serie di altre attività organizzate di tipo artistico, logistico e propagandistico. Questa fiamma ardente non era però destinata a durare. Rapporti incrinati, idee differenti o semplice perdita di interesse portarono la sce-

na a modificarsi lentamente. Dal movimento nacquero formazioni come i Futuritmi (Davide Toffolo, Gian Maria Accusani), i più conosciuti Prozac +, il cui singolo “Acida” del 1998 riscosse un notevole successo commerciale, e i Tre Allegri Ragazzi Morti, che tuttora calcano i palchi dell’intera penisola.


Eccomi qua a continuare il mio racconto: possiamo riprendere da dove ci eravamo lasciati l’altra volta. Questa seconda parte del mio percorso all’interno dell’associazione “I Ragazzi della panchina” è mirato a farvi capire come mi è servito il mettermi in gioco con le persone che facevano ancora uso di sostanze stupefacenti. Questa fase è stata la più importante per capire che strada poter prendere per una buona convivenza e mi è servita per acquisire sicurezza nel gestire le mie voglie. La cosa che mi ha colpito di più di me stesso è stato il fatto di riuscire a dire di no alle tentazioni e alle provocazioni e di arrivare al punto di poter dare dei consigli e capire il punto di vista degli altri ragazzi che frequentano l’associazione. Nel mondo della tossicodipendenza è molto difficile creare un’amicizia vera perché, quando si fa uso di sostanze, la realtà

«Ho imparato a resistere alle tentazioni» Prosegue il racconto della rinascita di Moreno verso una vita lontano dalla droga di Moreno T. non è reale e le persone cercano un’amicizia solo se c’è un tornaconto perché la vita da tossico è difficile. Nella vita da consumatore è tutta una corsa nel trovare ogni giorno i soldi per comprare la dose giornaliera, che ti serve per “essere normale “, poi il resto del tempo cerchi sempre lo sballo fino a trovarti disteso e stravolto in qualche parte della città, inconsapevole di quello che ti sta succedendo

in quel preciso istante e con la voglia di non svegliarti più. Quindi la tossicodipendenza è come un impegno quotidiano: consapevolmente sai che ti stai distruggendo da solo e che con l’andare del tempo ti annienterai sempre di più. Per questo ho dovuto cercare un’alternativa per dare una svolta alla mia vita e ho scelto di seguire un percorso qui tra “I Ragazzi della panchina”. Adesso ho raggiunto la parte

finale del mio percorso ed è arrivato il momento di prendere tutti gli insegnamenti che ho acquisito in tutto il tempo che ho passato assieme ai ragazzi ed usarli per poter continuare il mio percorso, sforzandomi di proseguire con la stessa costanza e voglia di fare bene al fine di poter un giorno uscire del tutto dal problema droga. Questo percorso mi servirà a non dimenticarmi di tutti questi problemi che ho superato e a crearmi cosi una seconda possibilità di una vita normale, con una famiglia, un lavoro e soprattutto un posto tutto mio dove passare il resto del tempo con le persone a cui voglio bene. In questo modo riuscirò a far felice me stesso ed anche i miei genitori che finalmente vedranno il loro unico figlio riprendere in mano le redini della propria vita e potranno così tirare un sospiro di sollievo ed essere orgogliosi del suo cambiamento.

FOLGORATO DA MUTONIA «Una volta a casa, ho cominciato a creare maschere in cui esprimo il mio spirito guerriero» di Giorgio Doardo L’arte è una cosa strana. Quando per alcuni è profonda sindrome di Stendhal, per altri può rappresentare un rozzo segno colorato su di una tela. Ma c’è una cosa su cui siamo tutti d’accordo nel guardare un’opera d’arte: la spettacolare manualità con cui viene modellata e la

cattiveria o delicatezza delle forme che ci proietta inesorabilmente all’interno dello stato d’animo dell’artista. Basta un animo fine o una spiccata sensibilità o un cuore impavido come il mio per trasformare linee contorte in “depressione artistica” o ciuffi di colore in felicità eterna.

A questo punto l’arte è una chiara espressione di stati d’animo spesso complessi o incomprensibili, ma sempre rigurgitati da animi grandiosi. Così, facendo leva sulla mia sensibilità artistica ed avendo un po’ di tempo a disposizione, ho scelto con cura l’artistic location da visitare: Mutonia, la comunità dei cyberpunks a Sant’Arcangelo di Romagna. Una vecchia cava di ghiaia dismessa nei dintorni di Cesena mi ha letteralmente proiettato in un cyberspazio alieno; le enormi strutture assemblate con materiali di riciclo mi hanno contorto l’animo, mi hanno aperto una via prioritaria all’interno di questa improbabile forma artistica. Tutt’attorno a me locuste giganti, mezzi meccanici sputafuoco e strani personaggi agghindati come appena reduci da un conflitto nucleare. Si, non c’è che dire: stregato da Mutonia! Quando senti una pres-

sione al petto ti rendi conto che qualcosa te lo sta per squarciare e così, appena rientrato, accovacciato su di uno sgabello in paglia sotto il mio amato loggiato seicentesco, dalle mie vecchie mani, come per incanto, ho iniziato a creare maschere che, usando materiali rigorosamente di riciclo, riesco a forgiare nelle giornate di spiccata paranoia. A volte ricordano dei cinghiali metallici, alle volte facce metallizzate modello terminator, a volte strani copricapi per nottate sadomaso, ma il crearle dà enorme sfogo a quello spirto guerriero che dentro mi rugge.


LE CRONACHE DI CHANEL

Con gli occhi di Chanel Prima puntata della nuova rubrica scritta a quattro zampe di Chanel Giacomelli Ciao a tutti! Io Sono Chanel la pitbull mascotte della sede de I Ragazzi della Panchina. Ho deciso di scrivere una rubrica nel loro giornaletto, spero che possa piacere anche se scrivo da cani! Il nome della rubrica sarà “L’angolo di Chanel”. Nome inusuale Chanel per un pitbull. Molti mi considerano un cane ferocissimo, un autentico “badass Usa style” (culo cattivo), ma è una grandissima stronzata, io sono adorabile, bella con il mio monocolo marrone simil goccia d’acqua. Sul lato opposto, ho una macchia che ricorda l’Africa, almeno secondo il mio compagno umano, che forse era ubriaco quando ha visto l’Africa. Per il resto sono una media taglia di 23,5 kg, agile, muscolosa e slanciata, In questi ultimi anni molti cordenonesi, alla ricerca di un po' di ristoro, hanno trascorso i loro pomeriggi estivi tornando a rivangare il secolo scorso, riscoprendo cioè la bellezza di una particolare zona della nostra provincia: il parco fluviale del Meduna e le grave nella zona di Cordenons. Da tradizione, già dalle prime settimane di maggio, oltre alla classica fauna che lo caratterizza, a popolare il luogo ci sono anche i giovani e meno giovani ricercatori che, esplorando il greto del fiume, si muovono alla ricerca della buca perfetta. La buca perfetta o, in dialetto, "la busa", non è nient'altro che “il buon posto”, quello dove l'acqua è abbastanza profonda e non scorre troppo forte, quella che ti permette di passare un intero pomeriggio di balneazione a due passi da casa, senza spendere nemmeno un euro e senza rinunciare a tuffi, bagni e tintarella. Approfittando della prime giornate di sole, ci si arma di pazienza e, in sella alla bici, si parte per l'esplorazione. La ricerca di solito inizia dalla zona della "sparesera", ultimamente soprannominata "spiaggetta", vista la sabbia presente in alcunei punti del greto del fiume che dà l'impressione di essere davvero al mare.

tutto grazie agli allenamenti che il mio compagno umano mi fa fare. Se li facesse anche lui, sarebbe cosa buona e giusta, almeno smaltirebbe qualche chiletto che male non gli fa! Ma con una testa così, non si può sperare in qualcosa di buono: se avessi io una testa così, me la farei circoncidere! Mi piace troppo correre e rincorrere quei stramaledetti mangia-lische di gatti, ma spesso mi scappano. Purtroppo! Invece con i miei simili spesso vado d’accordo. Le altre femmine però io non le sopporto proprio! Ste smorfiosette ti guardano dalla punta del tartufo alla puntina della coda, ma solo dopo si accorgono che, gentilmente, mostro loro tutta la mia possente dentiera! Mmm… Che

le possino…! Invece con i maschietti non mi trovo male, sarà per il mio sex appeal o la mia fragranza da Diva, ma quando ci provan spudorati è meglio che scappino a zampe levate, Dio perdona, Chanel sbrana! Con gli umani generalmente mi trovo molto bene, anche se per colpa di qualche idiota la mia razza è davvero denigrata. Se solo sapessero la verità, o si levassero le fette di prosciutto dagli occhi, o meglio se le dessero a me, saprebbero tante, troppo cose. Ma infondo è meglio fargliele capire un po’ alla volta, troppe informa-

A caccia del posto giusto sul greto del Meduna Per i bagnanti è una tradizione che si ripete ogni estate, a due passi da casa di Fabrizio Sala

Dopo di che ci si sposta verso "il preduni", noto anche come "i colombiani". Una zona più a est che va verso la vecchia colonia, dove fino a pochi anni fa ci si riusciva a tuffare addirittura con con

le liane e successivamente con le corde. Altro passaggio obbligatorio per il buon cercatore è nelle vicinanze de "il buco di Zoppola", "busa" rinomata da tempo, di facile individuazione grazie ai

zioni subito manderebbero in tilt il loro cervello! Comunque solo chi ha un mio simile sa cosa ha tra le zampe. Tra un po’ andrò con il mio papi alla sede de “I Ragazzi della Panchina”. Il mio papi dice che troverò tanti amici molto simpatici, ma ve lo racconterò la prossima volta. Ciao a tutti. numerosi ombrelloni e gazebo che la circondano. Come ultima tappa, prima di giungere "all'argine", una controllatina va fatta anche nelle zone limitrofe alla chiusa di "Giovanni Pes" (dal nome del vecchio addetto alla chiusa), dove pochi anni fa alcuni avevano allestito un ottimo trampolino, improvvisandolo con pallet, corde e tronchi di varie misure. Dopo aver trovato il posto, molti cercatori decidono di mantenerlo segreto, non tanto per cattiveria ma per potersi godere quello che è difficile da trovare in altri luoghi balneari del Meduna: la tranquillità e la piacevolezza di vivere a pieno contatto la natwura, sapendo di poter godere di questo posto solo per un breve periodo all'anno. Questo strano fenomeno di ricerca de “il posto giusto” per gli appassionati del Meduna si ripete di anno in anno. L'agognata e sudata "busa" cambia infatti posizione in base alle correnti del fiume, in base alle montane, e alle precipitazioni avvenute durante l'inverno: vanno a gravare sulla portata del fiume stesso modificandone il letto e distruggendo le varie installazioni lasciate dagli esploratori mesi prima. E così l'anno dopo si riprende da capo l'esplorazione.


Donne al lavoro: competenza, collaborazione e armonia «Nello studio dei miei commercialisti dodici donne e tre uomini e i risultati si vedono» d Ferdinando Parigi Mi capita spesso di trovarmi in uno studio professionale gestito quasi solo da donne. Per l’esattezza lo staff conta 12 donne e 3 uomini. Per come è stato concepito e manifestato il Femminismo fino ad oggi, sono convintamente antifemminista, ma queste donne sono davvero in gamba. Sopra tutte le altre cose, nello studio in questione regna sovrana la Armonia. Andare in un ufficio, privato o pubblico, mi è sempre seccato. Sono a disagio, se mi tocca portare un gesso di formalismi e liturgie, con code o comunque attese da fare, con sorrisi finti che durano un secondo e sembrano più un momento di stretching facciale che un Con un certo orgoglio nazionale mi sono inoltrato nel mondo del caffè, credendo di far parte di una certa élite di consumatori. Invece mi sono imbattuto in delle sorprese. Davvero inaspettato è il fatto che il caffè sia la seconda merce più diffusa al mondo, dopo il petrolio. Il suo aroma dunque è un piacere planetario, che spazia tra oltre cento specie di piante provenienti da tutto il mondo tropicale. Le più commercialmente note comunque sono tre: l'"Arabica", la "Robusta" e, in minor misura, la "Liberica". Le varietà si differiscono per gusto e contenuto di caffeina, noto stimolante nostra croce e delizia. La caffeina è un alcaloide che alla pianta funge da insetticida naturale, tossico per gli insetti e gli artropodi che vi si cibano. A noi umani non risulta così letale anche se come tutti sappiamo non bisogna sottovalutarla ed abusarne. In dosi ragionevoli è un aiuto a cui molti di noi attingono nell’arco della giornata, sin dal mattino. Quante volte abbiamo sentito dire o detto noi stessi: «Finché non prendo un caffè non connetto»? Ma attenzione, non deve essere la colazione, in quanto una tazzina ed un cucchiaino di zucchero apportano all'organismo solo 45 calorie, mentre i dietologi per una colazione bilanciata ne consigliano

vero sorriso. Qui, tutto questo non esiste. Che si tratti della contabilità di un’attività commerciale o di una grossa vertenza fiscale, di una causa di lavoro o della fusione di aziende, in questo posto tutti sono trattati con uguale cortesia. E’ bellissimo avere donne tutto intorno. E’ gente selezionata, che sa il fatto suo ma non ti fa pesare che è più competente di te. Siamo in periodo di dichiarazioni dei redditi. In uno studio commerciale gestito da maschi, sembrerebbe di essere al fronte durante la prima Guerra Mondiale. Gente trafelata, sudata di caldo e di affanno, che corre da una stanza all’altra con mille cifre in testa

e gran difficoltà. Qui pare che sia Natale, e sì che ne hanno di lavoro. E’ una cosa che soltanto uno staff di quasi solo donne può realizzare. Bisogna dire che le “quote azzurre”, oltre ad essere soci dello studio sono persone molto in gamba. Conosco Giorgio e Bruno da decenni, posso dirlo. Contribuiscono decisivamente alla bontà del clima generale. Vedo Ilaria e Lola (è albanese) al lavoro. E’ pazzesco come ricordano le leggi e collegano eventi, li interpretano, li elaborano, si capiscono al volo. E’ bello da vedere. Entrambe, a casa hanno marito e figli. Qui ciascuna/o ha le proprie competenze, ma sono collegate, abituate

Caffè mi piaci. Ma quanto mi piaci? Alla scoperta delle croci e delizie di una bevanda nota in tutto il mondo d Guerrino Faggiani 400. Anche il caffellatte, o sua maestà il cappuccino hanno delle controindicazioni: il latte ed il caffè, amalgamandosi, grazie al calore sprigionano Tannato di Caseina, composto che ci risulta di difficile digestione. Da qui la sensazione di sazietà che a volte, sbagliando, ci induce a considerarli un sostituto del pasto.

Citazione a parte va fatta per il decaffeinato, ovvero caffè con non più dello 0,1% di caffeina. Fu inizialmente sconsigliato da molti ricercatori in quanto contenente residui di sostanze tossiche usate nella lavorazione per arrivare tale risultato. Ma ormai i più grandi produttori hanno raggiunto livelli di tecnologia tali da non

a frequenti scambi di opinioni, richieste di consigli, brevi riunioni informali. Questo continuo lavoro di consulto insegna molto a tutti: chi si occupa di fisco deve sapere anche di lavoro, chi si occupa di start-up deve sapere di bilanci, e così via. Sono ormai persuaso che le donne diano punti agli uomini sul piano operativo, cioè di organizzazione del lavoro, suddivisione dei compiti, individuazione delle priorità, capacità di coordinamento, gestione delle relazioni esterne, e...risultati. Questa è autentica militanza femminista! Le donne valgono più di quanto loro stesse credono. Chi non avrebbe voluto Emma Bonino come Capo dello Stato? Da rappresentante della Commissione Europea è stata la persona più stimata nella storia dell’Unione. A Strasburgo e Bruxelles stravedevano per lei. Ai poteri forti italiani, quelli che parlano di “quote rosa”, comoda che adesso combatta contro il cancro e si occupi di battaglie perse, come quella per avere condizioni umane nelle carceri. E’ una donna: se le dessero spazio potrebbe fare qualcosa di pulito! richiedere più l'uso di solventi realmente dannosi, quindi il decaffeinato è da considerarsi sicuro. Se però volete dire di aver gustato il caffè più buono e pregiato che ci sia, dovete bere il "Kopi Luwak". E’ una varietà di caffè la cui produzione annuale mondiale è sull'ordine dei 230 kg (all'anno, non al secondo). È un'esclusiva indonesiana e la sua particolarità è rappresentata dai chicchi: vengono raccolti a mano dalle feci di un simpatico animaletto: lo Zibetto Delle Palme. Esso si ciba delle bacche che cadono a terra, ma gli enzimi del suo stomaco riescono a digerire solo la parte esterna, espellendo poi quella interna. Ciò comporta l’eliminazione di alcune delle sue proteine, modifica che al nostro palato si traduce in un particolare aroma dal retrogusto di cioccolato e con una minore amarezza rispetto al tradizionale caffè. Berlo amaro, poi, è il massimo. Tuttavia, il “Kopi Luwak” è il più costoso che ci sia. Al dettaglio da noi può superare anche i 20 euro alla tazzina. Addirittura nel 2012 negli USA veniva venduto a 1330 dollari al chilogrammo, ed una tazzina costava 48 dollari. Quindi, attenzione ad invitare colleghi o amici ad un innocuo break caffè al bar, state bene in campana perché potrebbe finire molto male con il conto.


È il momento di alzarsi e brillare Meglio un tentativo fallito che fallire nella vita per non averci mai provato di Tina Sono un illusa che sa di illudersi e che a volte illude il mondo intero! Vivo mille passioni, sono sempre affamata di nuove emozioni. Sono immersa in un oceano di frenesia, ma quando mi fermo a pensare, tanto caos e baccano non han più alcun senso. Riesco però a sentire la vita, che urla, piange e strilla perché io mi dia una mossa e non finisca i miei giorni senza aver concluso niente, bloccata da timori o indecisioni, sprecando le ore dei miei giorni tra progetti che rimangono sempre e solo idealistici. Come il libro che da una vita devo scrivere, come l’iscrivermi a qualche corso per provare a costruire qualcosa di concreto del mio futuro o

fare un’attività di volontariato perchè il mondo fin'ora mi ha sempre offerto un aiuto esasperato e sento il bisogno di ricambiare un po' del favore, anche solo con un gesto d'amore. Ma non è facile per una che ha vissuto 32 anni alla giornata e con una totale reazione allergica verso le regole e il controllo. Mi sono troppe volte sentita in balia degli eventi e delle decisioni di terzi. Ora però voglio tenere io il timone di questa barca nella tempesta e decidere la rotta. Il fatto è che poi sento il peso delle responsabilità troppo oneroso e come d'istinto cerco di spegnere la testa, ed il narcotico risveglio poi mi costa tutto il tempo: tra salute ballerina, violazioni della leg-

ge e l' adolescente che vive nella mia testa, va a finire che faccio sempre festa. Un giorno Ciba mi disse: Tu Tina vivi come fosse sempre sabato!» Ed io: «E che problema c'è?». E lui: «Che non è sempre sabato!». Queste parole mi colpirono non poco. Immaginavo un inesorabile tramonto che faceva finire il mio “sabato”, la mia felicità e a cosa restava oltre questo: ci ho trovato solo un percorso già scritto da troppi altri tossicodipendenti prima di me, fatto di tanti buoni propositi e pochi fatti, se non fattacci, come carcere o malattie. In questi due anni ho visto il mio corpo crollare, ho perso quasi tutti i denti, ne ho 13 in tutto, 4 sopra e 9 sotto e anche quelli sono instabili, ed

è per me come essere mutilati. Ho vissuto con dolore ogni nuovo crollo del mio corpo e pagato a caro prezzo la mia libertà e da tutto questo non rimane che una riga di anni buttati nel “cazzeggio” totale. Ma non è finita fin che non sei sotto terra! Un passo alla volta riprenderò possesso del mio destino (a proposito il libro l'ho iniziato) e sto facendo riemergere ciò che realmente sono dalle mie vere passioni e tenendo in conto dei miei limiti. E’ giunto il momento di alzarsi e brillare. Meglio un tentativo fallito di un uomo finito, ed anche se spesso mi sono gravemente ferita, non sono ancora sfinita. E' giunto il momento di vivere la vita! P.s.vi tengo aggiornati.

dentro di me- né fanno poveri se ti mancano. Ma anche se non ti cambiano la vita, quello che è mio è mio. E visto che una passeggiata quotidiana fa bene alla salute, domani me ne tornerò nuovamente al negozio. Invece il commesso, convinto dall’evidenza della mia sincerità, ha aperto la cassa e mi ha dato subito i 5 euro. Meglio così, tutto si è concluso subito. E invece no!!! No, anzi è iniziata la telenovela! Infatti, di nuovo a casa, nel piegare la borsa delle scarpe per riporla, mi accorgo che sul fondo c’è qualcosa: il biglietto da 5 euro, sì, quello che mi mancava, scivolato lì chissà come. Altro che memoria, altro che flash preciso della scena! Ho toppato di brutto. Stasera alla chiusura della cassa si accorgeranno di avere 5 euro in meno e il commesso cosa penserà? Accidenti che figura. E’ vero che 5 euro per una ditta sono meno di niente, ma c’è di mezzo una persona che mi ha creduto. E così stamattina eccomi di nuovo lì, ad affrontare la figuraccia. Il commesso non c’è, da un ufficio esce il giovane gestore del negozio e lo vedo piutto-

sto accigliato. Certo le cose non vanno bene se sta per chiudere. Racconto brevemente l’accaduto, ma lui non capisce perché sono tornata lì. «Sì, in effetti ieri sera in chiusura abbiamo riscontrato un ammanco di 5 euro», dice. «Ecco –rispondo io - sono qui per renderli». Allora capisce, e si illumina. I nostri discorsi si sovrappongono, io mi scuso e lui mi ringrazia, mi ringrazia e mi ringrazia ancora: «Non è per la cifra – mi dice - che è esigua, è che è bello incontrare persone che fanno gesti come questo». Si commuove. Allora penso che abbiamo tutti bisogno di giustizia, ma ancor più di umanità, di autenticità. Di bellezza. Penso che i giovani non sono ancora consunti dall’uso (dalla vita), sanno ancora sorprendersi, sanno ancora cogliere la bellezza nascosta tra le pieghe della quotidianità. Penso che la Bellezza può trovarsi anche dietro a un gesto che viene dalla pignoleria e dalla confusione di una vecchietta. E lui continua: «Grazie signora, è bello. E’ bello incominciare la giornata così, mi creda, è bello. Incominciare la giornata così, è il top».

L'ANGOLO DELLA FRANCA

«Cominciare la giornata così è il top» Piccoli gesti di giustizia quotidiana di Franca Merlo Ieri sono andata in un negozio di scarpe che sta per chiudere ed ho fatto acquisti, due paia di scarpe abbastanza buone e a buon prezzo. A casa, contenta, le ho riguardate, le ho riprovate, poi ho preso in mano il portafoglio e ho fatto i conti: quanto il mio gruzzoletto era diminuito, quanto me ne restava. Ed ho scoperto con irritazione che i conti non tornavano, perchè 5 euro mancavano all’appello. Accidenti a me, che non faccio mai i conti al momento, lì alla cassa, li rifaccio dopo e qualche volta i conti non tornano! Non è la prima volta che mi succede. Perchè non sto attenta subito a quanto mi viene indietro? Tornando con la memoria al

momento del pagamento, ho capito cos’era successo: ho pagato con un biglietto da 50 e il commesso mi ha reso delle monetine e un biglietto da 5 anzichè da 10. Nella mente avevo il flash preciso della scena. Allora sono ritornata al negozio, ho ricuperato il commesso in questione e con tutta l’educazione e il garbo possibili ho fatto presente la cosa. Ho soggiunto: «Guardi, capisco che può succedere, senza intenzione, e neanche pretendo che lei mi creda sulla parola; però stasera alla chiusura della cassa quando farete i conti vedrà che vi sono 5 euro in più. Domani io torno qui e lei me li ridà». Cinque euro in più non fanno ricchi - rimuginavo


PANKA NEWS

Progetto Top, una rete a sostegno dei giovani dai 14 ai 28 anni Bilancio dei primi cinque mesi del 2015 di attività a Pordenone e dintorni di Alice Calligaro e Stefano Venuto

A maggio, sono stati presentati i risultati dei primi cinque mesi dell’anno di lavoro della nuova edizione del progetto Top (Teen Opportunity Project), progetto di educativa di strada, finanziato dall’Ambito Urbano 6.5 e gestito dall’associazione I Ragazzi della Panchina, finalizzato ad intervenire a favore dei giovani tra i età 14 e i 28 anni, attraverso la prossimità . Tre sono gli assi di intervento progettuale: l’educativa di strada, gli adulti significativi e le istituzioni ed infine le scuole secondarie di primo e secondo grado. Nell’ambito dell’educativa di strada gli educatori incontrano i ragazzi in contesti informali in città, a Pordenone, per raccogliere eventuali situazioni di disagio e mediare tra queste e possibili interventi di carattere preventivo. Cosa ci chiedono

Adulti significativi e istituzioni è invece la parte del progetto in cui gli educatori promuovono una maggior conoscenza del mondo giovanile da parte di tutti coloro che a diverso titolo lo avvicinano, partendo dai baristi, passando per gli allenatori sportivi per arrivare ai Servizi pubblici e privati preposti a dare delle risposte socio-sanitarie alle situazioni di disagio. Inoltre gli educatori sono disponibili a momenti di confronto e mediazione con i genitori dei ragazzi. Infine le scuole secondarie di primo e secondo grado: qui gli educatori, costruendo una rete di rapporti con insegnanti e dirigenti e facendosi conoscere dagli studenti, si prefiggono di intercettare situazioni che meritano di essere prese in carico per organizzare diverse tipologie di intervento che

riguardino l’intero istituto, le singole classi, i singoli studenti. Tutti e tre gli assi vengono realizzati contemporaneamente dagli educatori: l’obiettivo è divenire così uno dei punti di riferimento sia della quotidianità adolescenziale, sia dei servizi pubblici e privati, contribuendo e concorrendo, da un osservatorio privilegiato, all’attuazione di interventi e risposte più mirati nelle situazioni di disagio. Si mira ad implementare la rete, con inclusioni dal basso, con e verso obiettivi ed azioni condivise. Grazie anche alla forte collaborazione con gli istituti scolastici di Pordenone, gli educatori sono potuti entrare in contatto con 2823 ragazzi di età compresa tra i 12 e i 22 anni con una media d’età di 16. Per far capire la portata d’intervento del progetto vi evidenziamo i dati principali: utilizzati tre cellulari smartphone attivi 24 ore su 24, 7 giorni su 7; presenti sui social network quali Ask, Instagram e Facebook; 365 i ragazzi che hanno contattato gli operatori rispetto a temi quali: amore, sessualità, amicizia/relazioni, scuola, sostanze, legalità, pensieri di suicidio. Sono invece 18 i ragazzi che sono stati inviati o accompagnati dagli educatori ai Servizi di riferimento del territorio. Questo ultimo dato va a sottolineare la sempre più intensa collaborazione tra progetto Top e i Servizi socio sanitari locali. Nello specifico, nella rete, vediamo coinvolti attivamente Consultorio, Dipartimento per Le scuole

le Dipendenze, Neuropsichiatria Infantile, Dipartimento di salute mentale. Stretta è la collaborazione anche con i Servizi sociali (committenti del progetto), l’Informagiovani, le Associazioni sportive, i Cag, la Prefettura e varie associazioni del territorio. Importante è anche sottolineare che il 75% dei contatti arriva dall’intero territorio dell’Ambito Urbano, evidenziando l’importanza di un lavoro che parte da Pordenone ma che arriva in tutti i Comuni limitrofi. La presentazione, avvenuta il 25 maggio all’interno di “Palazzo Badini” a Pordenone, ha visto la presenza di oltre 50 persone che collaborano con Top e che rappresentano quasi l’intero panorama dei Servizi pubblici e privati, delle scuole, delle società sportive e dell’associazionismo, che a diverso titolo hanno a che fare con ragazzi. I giovani sono cittadini di questo territorio, hanno valori e prospettive, lottano e cadono, si rialzano e si aggrappano, cercano risposte e le chiedono. Lo fanno da adolescenti del 2015. Quello che deve cambiare è lo sguardo e l’azione di chi deve saper comprendere, per poi saper proporre, accompagnare e quindi rispondere alle esigenze dei ragazzi. Il progetto Top si pone in mezzo, nella funzione di traduttore, traghettatore, facilitatore, perché quando le persone si incontrano con consapevolezza, si trovano sempre strade da percorrere, assieme.


L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————

TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO DENTRO di Cristina Colautti A settembre 2013 ha avuto inizio la nuova avventura, all’interno della Casa Circondariale di Pordenone, targata “I Ragazzi della Panchina”. Da questa data, infatti, ha preso il via il progetto “Codice a s-barre”, che vuole essere uno spazio di condivisione, dibattito ed elaborazione di testi, quindi una redazione, parallela a quella presente in associazione, di “Libertà di Parola”. Una redazione, quindi, che possa dar voce anche a coloro che vivono, da reclusi, nella nostra stessa città. Questa proposta, accettata di buon grado da diversi detenuti, è diventata un appuntamento settimanale e da quasi due anni “Libertà Di Parola” raccoglie i loro pensieri in una rubrica chiamata proprio “Codice a sbarre”. Da questo percorso, lo scorso anno, ha visto la luce “Non Giudicare!! Pensieri di uomini non liberi” un libro-antologia nel quale sono stati raccolti gli elaborati realizzati dai partecipanti alla redazione del “Castello” (il carcere della città di Pordenone n.d.r.). Quest’anno il gruppo ha voluto mettersi nuovamente alla prova e, quindi, ha pensato di implementare la normale attività di redazione attraverso alcuni particolari appuntamenti. I ragazzi, dopo un primo incontro-lezione con un giornalista professionista, Daniele Boltin, che ha dato loro alcune dritte su come strutturare correttamente un’intervista ed il conseguente articolo, si sono potuti sperimentare in questo ruolo, intervistando e confrontandosi con Elton, Marco e Margherita. Queste tre persone, esortate dalle domande del gruppo, hanno ripercorso insieme ai ragazzi i momenti più critici della loro esistenza e, attraverso i loro racconti, hanno esplicitato le difficoltà che hanno caratterizzato la loro storia di vita, ma anche il coraggio, la

forza e la determinazione che hanno permesso loro di andare avanti e raggiungere obiettivi importanti. In questo modo, i partecipanti al laboratorio hanno potuto riflettere su problematiche altre da quelle che vivono quotidianamente, ma anche ripensare a loro stessi ed alla loro storia personale. Gli incontri hanno centrato l’obiettivo che ci si era posti: accorciare le distanze con l’altro da sé e trovare in questo nuovo stimolo, nuova linfa per il proprio percorso, nella comprensione che il carcere non è la fine, ma è un momento dell’esistenza. Un momento dal quale è fondamentale riuscire a ripartire, possibilmente più forti e consapevoli dei propri limiti, come delle proprie capacità. Dopo un confronto all'interno della redazione, i giornalisti del “Castello” hanno raccolto negli articoli, presenti in questo approfondimento, i pensieri e le emozioni frutto di questa nuova esperienza. Gli incontri hanno portato alla realizzazione di interviste che sono state videoregistrate da un videomaker professionista il quale, grazie ad una precedente esperienza professionale, già conosceva l’ambiente carcere e sapeva muoversi con il dovuto tatto, al suo interno. L’elaborazione filmata delle interviste si è concretizzata nel cortometraggio “Tutto quello che abbiamo dentro”, che verrà presentato al pubblico il 26 giugno, alle 17 nella sala “Teresina Degan” della biblioteca civica di Pordenone. E' un video attraverso il quale mostrare come il “fuori” può incontrare il “dentro” e viceversa, una contaminazione attraverso la quale le distanze possono diventare motivo d’incontro e dove l’incontro si trasforma in in un'occasione per uscire e far vedere il dentro che c’è in ognuno di loro ed in ognuno di noi.


NOI CI RACCON La magia dell’informazione all'interno di un carcere «Io giornalista ex detenuto intervistato da chi detenuto lo è ancora» di Elton Kalica Recentemente mi sono trovato a vivere un’esperienza singolare. Sono stato invitato nel carcere di Pordenone ad incontrare un gruppo di persone detenute che, insieme ad un’associazione di volontari (I Ragazzi della Panchina ndr), producono un giornale che poi viene distribuito come inserto di un giornale locale (Libertà di Parola ndr). Ad accogliermi di fronte al carcere ho trovato Cristina, la volontaria che segue più da vicino il gruppo dei “ragazzi”. Eravamo nel centro della città e il carcere era nascosto bene tra i palazzi, se non fosse per le mura e le finestre con le inferriate. Di fronte al portone

principale abbiamo trovato ad accoglierci il comandante degli agenti penitenziari. Una ragazza dal viso familiare. Ritornato con la mente indietro di qualche anno, l’ho ricordata in servizio mentre mi trovavo detenuto nel carcere di Padova. Sono sempre condizionato nei rapporti con le persone conosciute durante la detenzione, ma dal suo sorriso capisco che incontrarmi in altra veste non la infastidisce: una manifestazione d’intelligenza questa, che suscita tutta la mia simpatia. Attraversiamo il portone e lasciamo borse e telefonini a degli agenti altrettanto cordiali. Una volta dentro, ci troviamo in mezzo a

un cortile di pochi metri quadri. Intorno ci sono tutti gli uffici che fanno funzionare il carcere: la matricola, l’infermeria, la sorveglianza, la cucina, la lavanderia e la sala colloqui. Abituato agli spazi enormi delle carceri nuove, quel cortile per un attimo mi sembra persino accogliente. Giusto il tempo di entrare nella sala colloqui però, e la galera mi piomba addosso con tutta la sua crudeltà: cinque tavoli di ferro fissati sul pavimento e una piccola finestra con le solite sbarre mi riportano ai miei colloqui mentre mia madre guardava l’orologio, sempre sorpresa di quanto veloce fosse passata l’ora. Mi dico-

no che quando non ci sono i colloqui, la stanza diventa un’aula dove si può riunire la redazione. Per fortuna i redattori arrivano subito dandomi un motivo per sfuggire alla melanconia. Dopo una breve presentazione mi dicono che vogliono intervistarmi per il loro giornale e che hanno preparato una serie di domande, hanno una scaletta e si consultano per dividersele. Mi chiedono della mia storia, prima, durante e dopo il carcere, così come dei miei studi accademici e della mia attività giornalistica all’interno di Ristretti Orizzonti. Il loro entusiasmo mi trascina facilmente e l’intervista assume toni cor-

Qualcosa da condividere che ci accomuna tutti «La libertà e la sua assenza: non è necessario il carcere per conoscerle» di Marco Zanin Vivo all’estero da un paio d’anni ormai e rientrando a casa in un giorno di primavera colsi l’invito di una vecchia amica. L’invito non era dei soliti però. Niente aperitivo in piazza XX Settembre o discussioni sui massimi sistemi questa volta. Quel venerdì si andava un po’ più in là del piazzale, verso il carcere. Era la prima volta che entravo tra le mura di un penitenziario italiano. La prima volta che avevo l’occasione di vedere come ci si vive, come ci si parla, come ci si respira. Chi ci respira dentro. Tornando da Ginevra, dove vivo, mi chiedevo come sarebbe sta-

to. Il viaggio lungo che divide i due luoghi che chiamo casa si era fatto sempre più affollato di pensieri. Pensieri di presente, di futuro, ma soprattutto di passato. Pensieri di amici che avevano fatto errori. Errori che avrei potuto fare da adolescente. Errori che ho fatto da adulto. Errori che non violano il codice penale o civile, ma pur sempre errori. Non c’è un giudice a decretare la tua colpevolezza per quegli errori, ma ci sei tu. Il viaggio dura circa sei ore. E per tutto il tempo mi chiesi chi mi sarei trovato davanti e cosa potevo dire a questi ragazzi. Che cosa avevo da

condividere. Solo una volta arrivato e dopo essermi fatto quattro chiacchiere con l’amico di sempre, una carezza al cane e un saluto a mamma e papa compresi che questo a loro non era più concesso. E capii. Non che prima il concetto di libertà non mi fosse chiaro, ma in quel concetto quasi scontato mancava un qualcosa. E mi chiesi se quella sensazione in qualche modo la potessi relazionare ad un vissuto. Di certo non andavo a parlare con loro pensando di essere moralmente superiore solo perché io in carcere non c’ero mai stato. Giusto perché tu lo sappia vecchio

mio, il fatto di non esserti mai fatto beccare a violare le leggi “hobbesianamente” accettate dalla tua comunità non fa di te un buono! No. Se proprio avevo qualcosa da dire era condividere quella sensazione di prigionia che anch’io avevo provato. I miei quattordici anni. Il mio incidente prima di quella che doveva essere la prima estate lontano da casa. I mesi di ospedale. La riabilitazione. La lontananza dai miei cari per aver corso un po’ più in fretta del dovuto. La voglia di uscire. Di vedere cosa sta facendo il mondo fuori da quel cortile. La famiglia che praticamente


NTIAMO... diali, che coinvolgono tutto il gruppo. Finita la scaletta delle domande cerco di esaurire le loro curiosità sul carcere di Padova, del quale hanno sentito molto parlare. Racconto anche delle battaglie di Ristretti fino a quando l’agente ci ricorda che è l’ora di salutarci. Di nuovo le chiavi e il cancello scandiscono il nostro tempo, riportando loro nelle celle, e noi fuori dal carcere. Ritorno a Padova pensando che avrei voluto conoscere di più, vedere di più e capire meglio come si vive in un carcere da ottanta detenuti. Così come avrei voluto sapere di più di quelle persone che invece erano interessate a scrivere di me, dei miei disastri e della mia sofferenza. Anche se in una casa circondariale i problemi non finiscono mai, quei ragazzi non si sono lasciati andare in lamentele ma hanno fatto parlare me, hanno messo da parte i loro problemi e si sono concentrati sulla loro intervista, sul loro giornale, come ogni bravo giornalista. Ed è forse anche questa la magia dell’informazione dal carcere. non vedi. La famiglia che anche se ti è vicina fisicamente, ti risulta lontana anni luce. Il volere solo un’altra piccola possibilità. E la voglia di conquistarmela. E allora sì che ho trovato il comune denominatore. Sapevo di cosa parlare. Ci abbiamo messo trenta secondi a capirci. Gli sguardi e i loro commenti. Lo sguardo di chi sa di avere sbagliato. Lo sguardo di chi vorrebbe non averlo fatto. Lo sguardo di chi si vergogna. Ma anche quello di chi lo rifarebbe, forse. Il sorriso beffardo ed autoironico di chi ha qualcosa da dire e che vuole vedere fino a che punto sei pronto ad essere sincero. Lo sguardo di chi vuole essere sincero e quello di chi non lo potrà mai essere totalmente. Ho imparato molto quel giorno. Ho imparato da loro quello che ancora non sapevo di me stesso. E nel farlo ho capito loro. Le loro sofferenze e le mie. La loro voglia e la mia. Le loro battaglie e le mie. Il loro bisogno di una seconda possibilità. Ed il nostro dovere di darcela.

Hiv e fine pena mai: un parallelismo ardito ma reale Tra gli intervistati anche Margerita Errico, presidente di Nps Italia Onlus di Margherita Errico Il 24 aprile scorso sono stata invitata ad essere intervistata da un gruppo di detenuti del carcere di Pordenone che stanno partecipando ad un progetto di formazione giornalistica nell’ambito delle attività dell’associazione I Ragazzi della Panchina. Sono stata invitata in quanto “esempio” di persona che non si è arresa agli imprevisti della vita. Io chi sono? Mi chiamo Margherita Errico e sono attualmente la presidente nazionale di NPS Italia Onlus (Network Persone Sieropositive), ma soprattutto da 18 anni sono un’attivista nell’ambito della lotta all’Hiv e allo stigma verso le persone con hiv. Oggi ho 37 anni e la diagnosi di Hiv l’ho ricevuta a 16 anni per cui ormai è passata quella soglia che molti miei compagni attivisti condividono, ovvero sono molti più anni che convivo con l’Hiv che quelli che ho vissuto senza. Ma da allora mi sono rimboccata le maniche ed eccomi qui, oggi, anche con la possibilità di fare questa bellissima esperienza di parlare loro. La mia associazione conta circa 2000 aderenti dalla sua fondazione nel 2004 ad oggi, e ha tra i suoi soci fondatori persone che sono venute da precedenti esperienze di attivismo in altre associazioni. Ci occupiamo di diritto alla salute e qualità della vita delle persone con Hiv che ancora oggi subiscono discriminazioni socio-sanitarie. Le terapie gli antiretrovirali oggi consentono un’aspettativa di vita pari a quella delle persone non hiv e un buon livello di salute, ma tanti anni di silenzio su questa patologia hanno contribuito a far credere o che questo problema non esista più o che sia stato risolto. Quando mi hanno invitata a farmi intervistare da questi detenuti “scelti” l’idea mi è subito piaciuta, an-

che perché mi sono già trovata ad entrare nelle carceri per dei progetti di peer education (letteralmente educazione tra pari ndr) che Nps conduce da anni. Il parellelismo tra una diagnosi che ti accompagna per tutta la vita come l’hiv, o come altri problemi di salute che oggi esistono, è davvero immediato: ad oggi l’Hiv è un po’ simile ad un fine pena mai, ma con la differenza che oggi con l’HIv si convive molto più serenamente di tanti anni fa in cui era molto più simile ad una pena di morte. Lo so che può sembrare azzardato questo paragone tra i detenuti e chi si ritrova suo malgrado con una diagnosi di Hiv, ma il parallelismo è solo relativamente alla convivenza forzata che entrambi si trovano a dover affrontare. La domande rivoltemi dai detenuti che ho trovato più significative hanno indagato soprattutto la parte emozionale di questa mia convivenza: i miei sentimenti verso le persone a me più care, i loro sentimenti verso di me, quanto i miei sogni di prima della diagnosi si siano comunque realizzati o meno. Domande che si potrebbero facilmente traslare all’esperienza emotiva di un detenuto. Domande per lo più rivolte al passato un po’ meno al futuro e domande anche tecniche rispetto alla gestio-

ne della patologia stessa, seppure ho notato un buon livello di conoscenza dell’Hiv grazie alla preparazione che avevano ricevuto prima col progetto in corso. C’è stato un senso di comunanza per un attimo rispetto ai sentimenti di entrambe le parti, sia per la forza dimostrata sia per consapevolezza dei propri ruoli e questo è un bene, fermo restando che uno degli obiettivi che mi sono posta è stato quello di far passare un messaggio corretto rispetto a non discriminare i loro compagni di cella se dovessero venire a sapere che tra loro c’è una persona con Hiv. Questo perché, ora che hanno la conoscenza sufficiente in merito, possono allontanare i mostri e i pregiudizi ed essere persino di supporto, a chi vive una doppia discriminazione: essere detenuto ed essere una persona con hiv. Il pensiero finale lo lascio ad uno di loro che ha citato il mito della Fenice, mito di una bellezza straordinaria. A lui che, paragonandomi a questo mito (direi davvero in modo ardito e di certo lusinghiero), ha dimostrato di aver ben capito che le persone come me , che vivono da tanti anni con l’Hiv, spesso muoiono e risorgono tante volte nella loro vita. Non meno di quanto possa capitare ad ogni essere umano.


Progetto Top, una rete a sostegno dei

... NOI VI IN

Bilancio dei primi cinque mesi del 2015 di di Leonardo Elton mi ha dato l’impressione di essere una persona che ha molto sofferto e per la quale questo stato d’animo è diventato bagaglio del suo quotidiano. Interessante e intenso è stato il nostro incontro con lui ed avremmo anche voluto continuare a condividere insieme dell’altro tempo. Ho visto personalmente un uomo che ha chiuso con la vita passata senza per questo dimenticare i vari aspetti negativi e gli errori commessi durante i suoi primi anni di detenzione. Investito di tanta umiltà e semplicità ha fatto una scelta coraggiosa quando, al conseguimento della laurea durante il periodo di carcerazione,

ha deciso di divulgare agli altri detenuti come, anche attraverso lo studio, sarebbe stato possibile un riscatto reale e costruttivo per ognuno. Elton ha dimostrato tantissima forza d’animo e di volontà ed altrettanta caparbietà, qualità che fanno parte del Dna della sua origine albanese: insistere ed investire su scelte sicure e costruttive, come lo studio, alla fine porta ad essere sempre ripagati. E’ anche vero che la detenzione lascia delle cicatrici indelebili e spesso questi segni traspaiono, ma Elton è andato avanti. Non tutti hanno fatto scelte sbagliate e non tutti hanno avuto la forza e il coraggio di non cedere alle

Carattere e volontà

«Anche nel carcere si può diventare uomini migliori» di Valerio e Franco Elton, durante uno degli incontri che abbiamo realizzato durante il corso “Codice a s-barre”, ci ha raccontato la sua storia e ci ha spiegato come anche la sua lunga detenzione gli ha permesso di cambiare completamente vita. La sua esistenza è stata difficile e travagliata e a 21 anni ha conosciuto il carcere duro, quello di alta sicurezza, inoltre, all’inizio della sua detenzione è passato da un carcere all’altro ma, nonostante questo, non si è dato mai per sconfitto. La sua trasformazione è iniziata leggendo dapprima dei libri, auto-isolandosi anche mentalmente dalla sua condizione carceraria, quindi riprendendo gli studi universitari. Elton è poi entrato a far parte della redazione di “Ristretti Orizzonti”, giornale del carcere di Padova, dove ha cominciato a scrivere come giornalista ed è cresciuta così la sua passione per la letteratura e quindi per la scrittura. Ha avuto grande determina-

zione, forza e coraggio nel riprendere gli studi, laurearsi ed impegnarsi nelle attività di “Ristretti Orizzonti” e ci ha fatto capire, così, che ognuno di noi con una buona dose di volontà può riuscire ad ottenere importanti risultati, come quelli che lui è riuscito a raggiungere. Ora, finita la sua condanna, aiuta altri carcerati anche collaborando con il giornale, ma ogni volta oltrepassando quei cancelli, che grazie alla sua volontà lo hanno fatto un uomo migliore, prova angoscia. Le parole di Elton, dette con parecchie pause di riflessione, ci portano a pensare che, anche in un ambiente carcerario, dove è molto difficile dimenticare quello che si è e perché si è li, una persona può cambiare se ha la volontà di farlo e, quindi, può diventare un uomo migliore, un uomo che poi si dedica agli altri. L’importante è affrontare la situazione e combattere per raggiungere la nostra personale riabili

tentazioni, Elton sicuramente rimane un esempio concreto di chi da una mano tesa è riuscito a costruire il proprio riscatto. Tutt’oggi, da uomo libero, presta la sua esperienza presso la redazione di Ristretti Orizzonti presente nella Casa Circondariale di Padova, luogo, quest’ultimo, dove, a suo dire, ancora oggi, tutte le volte che percorre i corridoi, il cuore gli si stringe e l’angoscia compare. Il bilancio della sua vita forse non arriverà mai ad una parità. Ma quei pochi vantaggi raggiungi anche da un detenuto, tra le tante problematiche che non vengono mai affrontate né dagli addetti ai lavori, né da chi sta fuori da

queste realtà, l’hanno ricompensato. Elton ha lasciato in me la sensazione che nella vita nulla mai si perde e ogni situazione positiva o negativa che sia, serve a ognuno per migliorare se stesso e i rapporti con il prossimo. L’incontro con lui mi ha lasciato anche la tristezza che traspariva dal suo volto, dalle sue parole, da come i suoi occhi cercassero di filmare il suo racconto e i tanti ricordi. Nelle sue parole ho visto un po’ della mia vita e delle mie scelte, anche errate. Le vicissitudini della vita e i propri errori possono servire a migliorarsi e a trasmettere ad altri la propria esperienza e la chiave per viverla meglio.

CAMBIAMO PROSPETTIVA Quando l'essenziale è l'ascolto dell'altro di Davide Pettarini Il mio lavoro è fare video e lo faccio di mestiere da quasi sette anni. In questo periodo di tempo mi è capitato molte volte di accogliere, attraverso l’obbiettivo della mia videocamera, il racconto di altre persone, intrappolando per un istante la loro voce, il loro sguardo e i loro gesti. Sono sempre momenti molto intensi, soprattutto quando, come è accaduto in carcere in questi ultimi mesi, le “vittime” del mio sguardo elettronico erano spronate a parlare di quello che, nel gergo dei narratori di professione, si chiama punto di non ritorno; ovvero quel momento della vita in cui devi fare i conti con qualcosa che non potrà più essere cancellato. Da quel momento dovrai conviverci per sempre e ti si aprirà davanti un bivio: soccombere, subire l’accaduto, oppure ricostruire tutta la tua vita proprio a partire

da quel momento, vivendo il domani come un’opportunità e non come una condanna. Elton, Marco e Margherita sono entrati in carcere per raccontarci quel momento e per testimoniare, con la loro stessa, potentissima presenza, che il loro domani avevano deciso di affrontarlo a testa alta. Sono le loro storie, certo, quelle raccolte nel video che abbiamo deciso di intitolare Tutto quello che abbiamo “dentro” ma, come in un complesso gioco di specchi, sono anche, di riflesso, le storie di Rachid, di Peter, di Leonardo e di tutti gli altri detenuti che, per l’occasione, si sono improvvisati giornalisti. Sono le loro storie, perché trovare le domande più giuste da fare a qualcuno significa impegnarsi a comprenderlo e, per capire davvero l’altro, è sempre necessario scavare bene dentro noi stessi e avere il


NTERVISTIAMO ... Marco e la disabilità dimenticata

«Ha abbandonato gli alibi ed è tornato a vivere» di Massimo Difficilmente mi è capitato nei miei 40 anni di vita, quello che mi è successo oggi, mentre intervistavamo Marco, un 31 enne che non si può definire persona comune: una laurea in tasca, un master in Svizzera, oggi un lavoro di responsabilità all’estero, dall’età di 14 anni in carrozzina. In carrozzina? Credo che non se ne sia accorto nessuno, lui per primo, visto che alla domanda «Come ti sogni?» risponde «In piedi». Pur stando seduto sulla sua due ruote ed incalzato dalle nostre domande sull’argomento, ci ha fatto dimenticare completamente il suo handicap. L’ho trovato

un personaggio incredibile, per volontà e simpatia. A 14 anni era un ragazzo vivace e sportivo, poi un incidente gli ha causato una paralisi agli arti inferiori. Il suo primo ricordo, dopo il tragico evento, è il momento in cui si trovava nel fosso; già in quel frangente aveva capito che qualcosa non andava, in ospedale però nessuno aveva il coraggio di dirgli la verità. Dopo un mese una psicologa gli comunicò che da quel momento in poi avrebbe dovuto aver più cura delle sue gambe, frase che lo lasciò un po’ sconcertato. Curioso è il modo con cui ha superato il suo “problema”

a livello mentale. Quando ha deciso che non si dava più alibi ha smesso di pensarci, il suo cervello ha fatto un reset e da quel giorno la carrozzina è diventata normale. Tutti di fronte a qualcosa che non va siamo bravissimi a trovarci degli alibi, a giustificarci. Penso che di fronte a delle problematiche riuscire a fare questo step, cioè “smettere di darci degli alibi”, sia fondamentale. Questo processo mentale, infatti, gli ha permesso di non essere condizionato dal passato, ma di ripartire con slancio e buttarsi su nuovi obiettivi. Se riflettiamo su questo punto troveremo mol-

te analogie nella nostra vita. Oggi suona la chitarra, gioca a basket, scia, gioca a tennis, odia il pietismo e, più che per il suo handicap, s’incazza per la poca attenzione che viene data ad altre patologie invalidanti come la dislessia, la depressione e le malattie mentali. Il detto “non tutto il male viene per nuocere” trova la sua massima espressione in questo caso. Lo stesso Marco dice che l’handicap lo ha migliorato non come calciatore, ma dal lato umano indubbiamente. La storia di Marco può essere paragonata con la situazione che molti carcerati vivono. La situazione al limite della tortura che i detenuti vivono può far male, ma può anche aiutare a riportare ordine nella propria vita a livello umano, cambiare in meglio, capire che nulla può essere dato per scontato. Molte persone possono trovare nelle proprie disavventure lo stimolo per cambiare la propria vita in meglio. Anche nella notte più buia si può trovare la luce di un sorris

Mai arrendersi Autoironia e determinazione: la lezione di Marco di Peter

coraggio di porre domande che non ci lascino indifferenti. Sono le loro storie, soprattutto, perché, al contrario di quello che accade normalmente, in questo caso il giornalista non è andato dall’intervistato ma è avvenuto esattamente il contrario. Questo ribaltamento di prospettiva non è banale, perché, per esperienza, so quanta influenza abbia lo spazio nel quale qualcuno è chiamato a raccontarsi. Lo spazio carcerario è contraddistinto da un’essenziale nudità, chiude fuori dalle sue pareti spesse tutto il superfluo, isolando l’essenziale: i corpi e le voci dei protagonisti, mescolati solamente, di tanto in tanto, da tutti quei rintocchi metallici che sono l’incessante e ineludibile colonna sonora di tutti i penitenziari. Questo vuoto di luci, di colori e di possibilità esplorative dello sguardo, per chi fa il

mio lavoro, appare come un ostacolo insormontabile. Ci si chiede, non avendo altre possibilità, se la semplice presenza in scena di un corpo e di una voce saranno sufficienti a destare interesse in chi guarda. In quel momento però sei in carcere anche tu, ogni possibile apporto esterno ti è precluso, per entrare hai presentato una lista di materiali, quello che è dentro è dentro e quello che è fuori è fuori. Non hai molte scelte, devi solo sperare che quel poco che hai disposizione riesca a sorprenderti, allora posizioni due piccole luci, i microfoni e accendi la videocamera… passa un minuto e comprendi che avevi già tutto, che quando qualcuno si racconta non serve altro e che l’unica cosa che conta, per chi è dentro quella stanza bianca, è essere “liberi”, in quel momento, di ascoltarlo.

All’interno dell’istituto penitenziario di Pordenone, attraverso il corso “Codice a s-barre”, ho avuto modo d’incontrare un ragazzo diversamente abile di nome Marco e devo dire che rispetto a ciò che pensavo delle persone in sedia a rotelle, sono rimasto molto soddisfatto soprattutto per la voglia di combattere e di essere indipendente da tutti che questo ragazzo ha dimostrato. Non avrei mai immaginato che fosse così pieno di vita e che ti trasmettesse tanta vitalità e tanta voglia di condividere la sua positività. Era la prima volta che lo incontravo e dal primo scambio di parole ci siamo capiti; fosse stato per me avrei parlato con lui per ore perchè nonostante non ci conoscessimo mi ha messo a mio agio non facendo sentire il suo problema e usando la sua autoironia mi ha trasmesso tranquillità. Si è creata così una conversazione serena. Inoltre, dal primo impatto si è

stabilito quel feeling e quella complicità che caratterizzano un’amicizia. A parte le sue condizioni, mi ha fatto subito capire che lui era un ragazzo normale, che non aveva niente fuori posto. Per me, nonostante lo vedessi li seduto nella sua “prigione”, non era per davvero limitato, perché è condannato sì a stare su quella sedia, ma quello non gli impedisce di fare tutte le cose normali, come guidare o cucinare, ed anche fare sport, perché è completamente autonomo. Ho parlato con lui per poco, ma in quel prezioso tempo mi ha lasciato una speranza e una prospettiva di vita diversa: non arrendermi mai neanche quando mi sembra che il mondo mi sia crollato addosso. In questo momento della mia vita, in cui ho bisogno di nuove speranze e stimoli, Marco mi è stato di grande aiuto psicologico. Ora voglio solo ringraziarlo e augurargli il meglio. Grazie Marco.


... IN UN VIDEO Perché la vita va comunque vissuta «Margherita ha avuto il coraggio per affrontare ciò che avrebbe annientato altri» di Alessandro Certamente aver avuto l’opportunità di conoscere tre ragazzi che nei giorni passati si sono prestati a raccontare le loro rispettive forti esperienze di vita e di come, con spirito di abnegazione e di sacrificio, da queste situazioni ne siano potuti uscire vittoriosi, mi hanno dato un nuovo stimolo di positività per affrontare l’avvenire. L’esposizione di Margherita mi ha colpito perché è stata una più completa, decisa, amplificata e voluta ribellione al male.

Colpita nell’età adolescenziale da uno dei virus più terribili, l’Hiv, la stessa Margherita ha avuto il coraggio, la tenacia, e forse anche l’incoscienza giovanile per affrontare un “verdetto” che avrebbe annientato chiunque, la sieropositività. Criticata e additata dall’ignoranza di certe persone, la stessa, però, non ha mai smesso di credere nel miglioramento della medicina e quindi della malattia, dimostrandosi, nei suoi comportamenti, più filantropica

dei suoi delatori. Margherita, infatti, oggi è una donna realizzata e felice, che tramite il racconto delle disavventure passate cerca di aiutare gli altri, provando a infondere quella che può essere la sua parola chiave: “vivere è bello”. Personalmente l’incontro con Margherita, che ha mostrato un forte desiderio di riscossa contro le avversità che la vita può proporre, ha avuto in me un effetto significativo a livello emozionale e accrescitivo a livello mora-

le. Il racconto di Margherita, che ha parlato apertamente delle sue disavventure, mi ha dato un nuovo impulso e un nuovo interesse nello scoprire che un qualcosa ritenuto fino a pochi anni fa distruttivo, può essere, con la forza di volontà dimostrataci dalla stessa protagonista, combattuto e vinto. Inoltre le sue parole hanno trasmesso un nuovo modo di interpretare la vita, la quale ha sempre un significato per essere vissuta.

Donna generosa e determinata «Ha affrontato umiliazioni e giudizi ingiusti pur di testimoniare che con l’Hiv si può convivere» di Franco L’incontro con Margherita è stato sicuramente molto interessante: mi ha aperto la mente sulle difficoltà che incontrano le persone che hanno contratto il virus Hiv. Margherita è una donna molto sicura di sé e generosa che ha messo a disposizione di molti la sua esperienza di ammalata del virus Hiv e si è prestata molto volentieri a rispondere, qualche volta con un po’ d’imbarazzo, ma sempre con sincerità, alle domande che io e i miei compagni le ponevamo. Con le sue parole ha chiaramente toccato il lato oscuro di questa malattia,

Prosegue il lavoro della redazione del nostro giornale nata all'interno della Casa circondariale di Pordenone.

di questo virus, che abbassa le difese immunitarie, portando a gravi problemi di salute (anche con un semplice raffreddore) e che per moltissima gente è ancora un tabù insormontabile. Questo solo per ignoranza, poiché non conoscendo questa malattia non hanno idea di come si può conviverci senza alcun rischio. Quello che fa Margherita è informare la gente comune sui problemi del virus hiv, cosa che le autorità sanitarie non fanno sempre. Il suo calvario è cominciato quando lei era molto giovane, quindi ha maturato in tal

senso una grande esperienza e questa l’ha messa a disposizione di tutti, nonostante le paure, le umiliazioni e soprattutto l’isolamento che ha subito da parte di alcune persone ha avuto il coraggio di far conoscere i problemi relativi alla sua malattia e di affrontare a viso aperto anche le reazioni negative e le cattiverie della gente, a cominciare dalla propria madre che l’ha appellata con termini offensivi. Gli amici che aveva quando ha contratto il virus però hanno continuato ad aiutarla e sostenerla, compreso quel ragazzo del quale si era inna-

morata e da cui ha contratto il virus. La generosità e la determinazione sono le cose che mi hanno colpito maggiormente di lei e dopo le sue risposte ho capito che il virus Hiv, con le dovute precauzioni, non è così pericoloso come molti pensano e che ci si può convivere senza paura. Una cosa che “invidio” a Margherita è la determinazione nel superare gli ostacoli di questa malattia e di porsi al servizio degli altri. Vorrei poter avere la stessa determinazione e coraggio per poter aiutare altre persone che non sono state fortunate.


INVIATI NEL MONDO

«HOHOEMI WA KOKORO TO KARADA NO TOKKOYAKU»

Così dicono in Giappone: «Un sorriso è uno speciale rimedio per ogni ferita della mente e del corpo» di Cla

Sono stata due volte in Giappone negli ultimi anni, la prima volta a Tokyo per una decina di giorni, la seconda volta nella regione del Kansai (Kyoto, Nara, Osaka e Hiroshima). Nutro un profondo amore per quella terra, per quel mondo cosi profondamente radicato nella tradizione eppure cosi magicamente inserito nelle dinamiche più tecnologiche ed avveniristiche. Vorrei iniziare raccontandovi dei veri protagonisti della mie esperienza, i giapponesi. Educati e gentili, salutando ti ringraziano sempre con un piccolo inchino, precisi all'inverosimile sia nel lavoro che nella vita di tutti i giorni, disponibili al punto da arrivare ad accompagnarti di persona se ti sei perso, ma cosi chiusi nel loro mondo e nelle loro regole che osservano alla perfezione. Felici nel mo-

strare, a volte con un pizzico di orgoglio, la loro cultura e le loro tradizioni. Quando torno con la mente a quei giorni giapponesi, immersa in una cultura totalmente diversa dalla nostra, non posso non ricordare le ragazze in kimono che ho incontrato nei templi di Asakusa a Tokyo, alle geishe che ho visto passeggiare per i vicoli di Kyoto, ai giovani vestiti da personaggi dei fumetti manga di Takeshita Street, ai bambini e alle coppie di giovani devoti in preghiera ai templi, agli anziani di Hiroshima seduti nei parchi a giocare a dama all'ombra inquietante degli spettri del passato. Una cosa accomuna tutte le persone che ho incontrato e che mi porto nel cuore: il sorriso, semplice, caloroso, aperto. Il Giappone è tutto quello che ci si può immaginare: si passa dalla caotica e

tecnologica Tokyo, dove tra un grattacielo ed una sala di pacinko sopravvivono ancora le tradizioni e i piccoli silenziosi templi, all'antica e romantica Kyoto, dove le geishe passeggiano con i loro sandali in legno per i vicoli acciottolati; dalla dolcissima Nara, dove i daini vengono a mangiare i biscotti che hai in mano, alla fredda e sospesa Hiroshima, dove il tempo pare essersi fermato. Hiroshima è un pezzo di storia che tutti dovrebbero vedere. Voglio iniziare da questo luogo la mia breve descrizione delle mie principali tappe nipponiche. Troppo spesso infatti chi si reca in Giappone si limita a visitare Tokyo e Kyoto, considerate anche le grandi distanze. Ma non si può capire il Giappone e i giapponesi se non si respira l'immobilità e il fermo grigiore della città dove la bomba atomica ha raso al suolo tutto, edifici, alberi, persone. Hiroshima è una città brutta, grigia, immersa nel cemento ma non potrebbe essere altrimenti. Passeggiare in silenzio fra il “dome” (il palazzo con la cupola, simbolo della città), i monumenti alla pace, le opere commemorative dedicate ai bambini, la fiamma eterna che si spegnerà solo quando verranno abolite tutte le armi nucleari, il cenotafio con i nomi di tutte le vittime accertate lascia senza fiato. Tutto questo mentre attorno la vita scorre, i tram sferragliano nelle rotaie, i bambini giocano, gli anziani si godono l'ombra del parco, tutti vogliono dimenticare e rendere la città “normale”. Kyoto è la città

dei templi, delle tradizioni, delle geishe, della cerimonia del té, delle case basse di legno. Il posto che più mi è rimasto nel cuore è sicuramente il meraviglioso Tempio di Fushimi Inari, con il lungo corridoio di tori rossi che si inerpicano lungo le pendici della collina in un susseguirsi di persone devote che lo risalgono in rigoroso silenzio per ricevere la benedizione al tempio. Nara è famosa per due cose: l'enorme Buddha e i daini che vagano liberi per i parchi della città. Era l'antica capitale del Sol Levante ma

oggi è una piccola graziosa cittadina dove si può passeggiare tra il verde, ammirando tutte le varie pagode e i templi, accarezzando i daini (attenzione che sono animali sacri e loro lo sanno benissimo!). Infine Tokyo, la pazza, caotica, luminosa Tokyo, la città della tecnologia che però sa riservare al visitatore più attento e curioso delle vere e proprie oasi di pace e tranquillità dove poter ancora ritrovare l'essenza più pura e più vera dell'antica cultura giapponese.


NON SOLO SPORT

L’armonia della tecnica trasforma l’arrampicata in una danza «La forza fisica non basta quando si deve affrontare la verticalità» di Barbara Ferrario Spesso ci si avvicina all’arrampicata senza una consapevolezza precisa di come affrontare la verticalità. Si sostengono i primi passi con la certezza che la forza fisica sia un’amica fedele di cui ricercare la continua compagnia. Poi, quando l’ennesimo passaggio si rifiuta di essere vinto e si abbandona, con due braccia trasformate in due tronchi di ghisa, si vede qualcuno affrontare lo stesso passaggio con una facilità intrisa di eleganza. Di fronte a certi movimenti armoniosi sorge inevitabile una doman-

da: come può essere così facile? Buona parte della risposta si concentra in una parola: tecnica. E’ un termine che potrebbe far pensare all’arrampicata come un’attività metodica, ripetitiva e noiosa. In realtà la tecnica di arrampicata fa la differenza quando ci si trova ad affrontare il mondo verticale. Come scrive Paolo Caruso, guida alpina, «La meta finale dell’apprendimento motorio nella scalata deve riguardare l’equilibrio del movimento, costituendo quest’ultimo il principale obiettivo della di-

sciplina, […..] la progressione sulla roccia deve essere intesa non come un esercizio di semplice trazione sugli appigli, ma come una continua ricerca di equilibrio che favorisca la spinta delle gambe». L’apprendimento della tecnica di arrampicata e la ricerca continua dell’equilibrio permettono un minor investimento di forza, consentono inoltre di affrontare le pareti non solo riducendo lo sforzo fisico, ma permettendo di aumentare il grado difficoltà senza trasformarsi in dei facoceri ansimanti, e so-

Arrampicare, tecnica e conoscenza di sé «Grazie ad un corso Cai ho imparato che davvero la montagna è maestra di vita severa» di Rafael Era da molto che sentivo nell’aria le parole “arrampicata libera” o “arrampicata sportiva”, sia dagli amici, sia dai vari canali televisivi che trattano di sport estremi, che mi piacciono molto. Tra un

impegno e l’altro, però, non ho mai avuto l’occasione di praticarla e nemmeno di provarla. Quest’attività è comunque sempre rimasta dentro il cassetto, tra le cose da fare, finché qualche mese fa è venuta fuori l’opportunità di fare un corso “indoor” in una palestra di Pordenone. Non c’ho pensato due volte e ho detto subito di sì, anche per non smentire il mio istinto avventuriero, che mi dice sempre di buttarmi a fare nuove esperienze. Eravamo un gruppo abbastanza variegato di uomini e donne di età differenti, ma una cosa in particolare ci accomunava: era per tutti la prima volt. Sinceramente parlando, pensavo tra me e me, che fosse sì un sport bellissimo, ma non vedevo questa grande difficoltà; dal mio

punto di vista bastava salire e scendere da una parete. Invece mi sbagliavo di brutto, perché l’arrampicata è quel tipo di sport che se non hai la tecnica, o almeno quel minimo che basta, non vai da nessuna parte. Le lezioni in palestra assieme agli istruttori del Cai, il Club Alpino Italiano, mi sono servite proprio a questo: a darmi gli strumenti necessari per prendere il via ed avvicinarmi nel modo corretto a questo sport e devo dire che, nel mio caso, questa situazione mi ha stimolato e mi stimola tuttora molto. È molto bello imparare delle cose nuove, che ti permettono di superare quegli ostacoli che fino a poco prima sembravano impossibili e poi con l’atteggiamento mentale giusto e le tecniche adeguate le difficoltà sono superabili e, talvolta, sembrano cose da niente. Questo corso, poi, mi è servito anche per fare delle nuove conoscenze, con le quali ho fatto alcune uscite in montagna e, con loro, ho

prattutto divertendosi: si può fare di più, meglio e godere del tutto! La tecnica trasforma l’arrampicata in una danza dove il nostro partner è la parete: siamo noi a condurre, scegliendo ritmo e movimenti ma, al contempo, cercando sempre l’equilibrio con la parete stessa. Alcune scuole CAI, tra cui la Scuola Valmontanaia di Pordenone, hanno adottato all’interno dei loro corsi, l’insegnamento di un metodo preciso di arrampicata che, unito a una particolare attenzione per la sicurezza, fornisce gli strumenti base per affrontare piacevolmente il mondo appesi ad un appiglio. La Scuola Valmontanaia propone annualmente corsi di arrampicata libera e di roccia, attraverso i quali veicola una formazione precisa basata su un binomio consolidato: sicurezza e consapevolezza. arrampicato sulla roccia vera. Posso dire che è tutta un’altra sensazione. Il fatto stesso di avere la roccia nuda tra le mani, diversamente della palestra dove gli appigli sono evidenti, il contatto diretto con la natura e trovarsi all'aria aperta per me sono stati molto importanti e motivo di queste nuove sensazioni. Il corso mi ha fatto capire l’importanza del gruppo nei momenti di difficoltà e quando non sapevo più come andare avanti è stato importante ascoltare le indicazioni di chi mi faceva sicura. Inoltre in falesia sono riuscito ad unire due cose che mi piacciono: fare un bello sport e stare all’aria aperta. Non volevo vedere la montagna soltanto come un’impalcatura per arrampicare, ma come un posto dove potevo confrontarmi con le mie paure e con i miei limiti, ma anche con le soddisfazioni di arrivare in cima. È proprio vero quando dicono che la montagna è una maestra severa e silenziosa perché per tante sicurezze che si possono avere, tra imbrago, corde, moschettoni, quando sei lì aggrappato: dipende quasi tutto da te; la concentrazione, la resistenza e la determinazione sono fondamentali per andare avanti e questo è il miglior insegnamento che questa grande maestra ci può dare.


Il modello Maddaloni, da Scampia a Pordenone Il Judo Villanova porta in città il padre dell’olimpionico Pino di Chiara Buono

Scampia è le Vele, un inferno di camorra, spaccio e degrado sociale. E’ così che la rappresentano i media con un certo compiacimento, come una Gomorra perduta per sempre. Ma Scampia, per chi ci vive, è un quartierone di centomila abitanti che ogni giorno vanno a lavorare, mentre i bimbi vanno a scuola. In questo deserto di cemento, lo Star Judo Club Napoli, fondato nel lontano 1980 da Gianni Maddaloni che dal 2004 gestisce la palestra di Judo presente in quartiere, offre corsi a prezzi estremamente ridotti se non gratui-

tamente ai ragazzi disagiati, spesso con padri in galera e madri senza lavoro. Lo fa nella convinzione che un bambino che impara i valori dello sport oggi sarà un killer o uno spacciatore in meno domani. Attualmente la sua palestra conta 1200 iscritti, fra extracomunitari e non vedenti, scugnizzi a rischio e detenuti in affido, ragazzi autistici e campioni olimpici. Un modello, il “Modello Maddaloni”, che funziona e che ha incontrato nel corso degli anni la curiosità e l’interesse di molti, tra cui i nostri Edoardo Muzzin e Franca Bolognin della Polisportiva

«I bambini che allena e vede crescere sono la sua seconda famiglia» Partecipando all’incontro con Maddaloni, a Pordenone di Rachid Martedì 21 aprile, nella biblioteca comunale di Pordenone, in occasione dell’evento “Il modello Maddaloni: sport modello di vita ed avamposto di legalità”, ho avuto l’onore di ascoltare e poi incontrare il maestro Gianni Maddaloni. Quest’uomo è il presidente della Star Judo Club Napoli, una società sportiva fondata nel 1980, che opera nel quar-

tiere di Scampia, uno dei luoghi più problematici di questa città. Il maestro, attento ai problemi della sua realtà, si sta dedicando molto alla sua società sportiva con lo scopo di salvare attraverso lo sport i bambini che vivono in strada e che possono essere vittime della mafia. L’insegnamento, anche gratuito, del Judo offre disciplina e impegno a questi

Judo Villanova di Pordenone. Ed è così che è nato il ponte Scampia-Pordenone che ha portato alla recente visita di Maddalonii in città e agli incontri con gli studenti delle elementari, medie e superiori del Comune di Pordenone. La Polisportiva Villanova e i suoi tecnici si ritrovano su molte delle tematiche e dei principi di cui Gianni è portatore. Anche Muzzin, infatti, quando ha cominciato a lavorare negli anni ‘70 si è trovato ad operare in un quartiere popolare all'epoca assai disagiato e che si è modificato anche attraverso lo sport, proprio come ha ricordato Don Romano Zovatto durante il suo intervento a Cinemazero, il 21 aprile, davanti a 270 ragazzi accorsi per conoscere Maddaloni. In quell’occasione i ricordi del Don (insieme ad un ragazzo alto alto e smilzo appassionato di judo tanto da riuscire con molti sforzi ad aprire una piccola palestra in quartiere raccogliendo e rivendendo ferri vecchi) ad un certo punto hanno cominciato a confondersi con i racconti di Gianni, degli inizi a Scampia, delle difficoltà e delle soddisfazioni, davanti ad una platea di ragazzi pordenonesi di 12 -18 anni, rapiti dalle sue parole, incantati alla visione della vittoria di Pino, figlio di Gianni, alle Olimpiadi di Sidney nel 2000, incuriositi dalla sua storia e catapultati in un quartiere tanto lontano, ma forse anche tanto vicino. Perché, come ha ricordato

spesso Gianni durante la sua giornata a Pordenone, i ragazzi di Scampia sono uguali ai ragazzi di Milano, di Pordenone e di qualsiasi altra città, i ragazzi son ragazzi. Grazie Gianni e grazie Edoardo e Franca per l’oro più prezioso, nelle periferie dell’anima.

bambini e a diverse famiglie, salvandoli così dalla strada; in questo modo i ragazzi diventano parte di una nuova famiglia e si sentono a casa. Anche Marco Maddaloni, figlio di Gianni, è impegnato in questa società, segue la carriera del padre e insieme a lui allena molti ragazzi, tre dei quali saranno in corsa per la qualificazione olimpica a Rio De Janeiro nel 2016. Maddaloni, durante l’incontro, ha raccontato alcune sue esperienze passate vissute con dei bambini diversamente abili, con ragazzi non vedenti, con immigrati in difficoltà, ma anche con diversi detenuti. Il maestro, infatti, ha dato delle possibilità a dei detenuti, la possibilità di respirare l’aria della libertà, attraverso l’articolo 21, cioè facendoli lavorare durante la giornata nella sua palestra. Infine ha insegnato Judo ai detenuti minori che si trovano nel carcere

di Airola. Maddaloni è stato davvero chiaro nei racconti sulle sue esperienze personali, da quando era giovane ad oggi, ed ha esplicitato le difficoltà che ha avuto nel percorso della sua carriera sportiva e nel sociale, inoltre, attraverso le sue parole ha conquistato l’attenzione e ha lasciato così un segno positivo in tutti i presenti. Maddaloni, infine, ha affermato che motivo e forza per andare avanti nei suoi obiettivi sono i bambini che aiuta attraverso il suo lavoro, che vede crescere davanti a lui; questi bambini sono diventati la sua seconda famiglia. Quando mi sono avvicinato per salutarlo mi ha colpito la sua esperienza con le persone e la sua capacità di intuire particolari situazioni. A me ha detto «Mi raccomando, comportati bene». Sono rimasto molto colpito in positivo dalle sue parole e dal suo modo di fare.

”Dimmi cosa non va.” “Ho paura, ma è...”. “Di cosa?” “Che resto solo…” "Certe volte ci vuole un fegato così. Non il cuore, quello ce l’hanno tutti, è facile commuoversi davanti alle paure di uno scugnizzo di dieci anni col padre al 41 bis. E’ il fegato che serve, per sopportare l’incazzatura. Perché a quel punto che fai, gli restituisci il padre? Gli azzeri il passato e lo cambi in bene? Il fegato che ti logori nella fatica di trovare soluzioni e conforto, anche la sera, anche se tieni la famiglia e i figli tuoi, che devi trovare sempre il tempo per tutti. E che fai? A un certo punto dici basta? Come fai, se sai che in fondo a quegli occhi spersi ci sta un tesoro, sepolto dalle colpe dei padri, che merita di splendere al sole. Questo è l’oro di Scampia.”

(G. Maddaloni, “L’oro di Scampia”, Baldini & Castoldi.).


LA STORIA Avete presente la simpatica signora anziana vicina di casa? Quella che vi accoglie con un sorriso semplice e materno, che ha per voi uno sguardo unico, impreziosito dai suoi occhi che sono riflesso di un passato presente e di una conoscenza inestimabile? Per noi l'incontro con lei è stato come un fulmine a ciel sereno, ci siamo resi conto di avere incontrato una fonte storica vivente, capace di raccontarci con semplicità il passato da un punto di vista totalmente proprio ed esperienziale che difficilmente si può cogliere da un libro di storia. La invitiamo per questo ad una chiacchierata con noi ed ecco che lei, volentieri, ci prende per mano e ci accompagna in una passeggiata nella storia. Ci riporta agli anni antecedenti la seconda guerra mondiale e ci sembra quasi di vederla mentre, come consuetudine, va a sfilare, cantare e fare il saluto romano al sabato fascista in piazza a Montereale, vestita da piccola italiana: con la gonna a pieghe nera e la camicia bianca con lo stemma del fascio littorio. I suoi compagni maschietti accanto a lei sono addobbati da balilla con calzettoni alti, pantaloncini neri sotto le ginocchia, camicia nera, fazzoletto celeste e berretto nero con il ciuffo. Abiti simbolo del ventennio fascista, abiti che non suscitavano domande perché parte della normalità. Ogni bambino a scuola doveva pagare le cinque lire per avere la tessera del fascio, non era obbligatoria ma chi non la pagava veniva additato come contro il partito; veniva insegnato dalle maestre che era un dovere verso la patria averla e se non c'erano i soldi per pagarla si doveva saldare con alimenti o pian piano a rate. Una tessera per dimostrare la fedeltà alla patria, quando

Ricordi di guerra di una vicina di casa Il Ventennio fascista e il crollo di Mussolini: la storia raccontata da chi l'ha vissuta di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon

il padre di lei alla patria già aveva dedicato quattro anni di guerra e uno di prigionia. Le sue parole ci danno la dimensione dell'enorme sforzo italiano verso il pensiero unico e l'indottrinamento fascista: «Mi ricordo – ci confida infatti ad un certo punto - di avere chiesto a mia mamma se Mussolini era Dio». La scuola e il pensiero della società andavano di pari passo e le figure autoritarie erano viste come degli esempi massimi di virtù patriottica. «Quando veniva il direttore scolastico in classe – prosegue nel raccontarci - ci faceva impressione. Con la divisa e i decori che portava dava proprio l'idea dell'autorità». Cerchiamo di immaginarci il momento storico, il preludio alla guerra. Visto

con i suoi occhi e raccontato dalla sua bocca sembra tutto più reale, sembra di rivivere insieme a lei, allora dodicenne, la paura e l'agitazione generale di quando la radio dà la notizia: «L'Italia è entrata in guerra». Inizialmente la vita in paese non cambia molto, la situazione evolve negativamente dopo l'8 settembre 1943, quando l'Italia firma l'armistizio con gli alleati. «I tedeschi – dice la nostra amica - ci hanno visti come traditori e quando si sono insediati da noi sono iniziati gli scontri con i partigiani. In quel periodo le persone avevano paura, noi solo una volta abbiamo avuto i tedeschi in casa ma per fortuna non è successo niente, hanno solo scherzato con la nostra carabina giocattolo». Pur essendo allora solo una bambina, i suoi ricordi ci trasmettono la sensazione del clima di paura, incertezza e sospetto causato dall'occupazione nazista. I soldati erano costantemente alla ricerca dei partigiani o di chi avesse contatti con essi, in paese tutti sapevano chi erano ma nessuno faceva la spia e non si sapeva dov'erano di preciso. Se però scoprivano un partigiano o avevano un sospetto, tutta la sua famiglia era in pericolo. «Mi ricordo che hanno bruciato una casa e ucciso uno che avevano trovato in cantina, che era fratello di un

partigiano», le sovviene. Dalla sua memoria affiora l'immagine di un uomo pallido legato ad un camion; difficile per una bambina scordare quella scena. Ci racconta di aver scoperto che quell'uomo fu ucciso e la sua casa bruciata perché partigiano. Un altro episodio significativo riguarda quello che poi sarebbe stato suo marito, il quale, allora diciassettenne, si offrì al posto della madre per essere preso come ostaggio dai tedeschi che cercavano il fratello partigiano. «Hanno preso mio marito ed altri – dice - li hanno messi in fila e li hanno costretti a guardare bruciare la casa di un partigiano». Della guerra non si sapeva granché, solo quello che veniva trasmesso via radio. Si diceva che se la Germania fosse riuscita a scoprire la bomba atomica la guerra sarebbe stata vinta da loro. Non si sapeva niente degli orrori dei lager. Succedeva che qualche partigiano venisse portato via, ma solo a fine guerra si è saputo del rastrellamento degli ebrei e dei campi di concentramento. Parlando della fine della guerra l’anziana rievoca il suono delle campane a festa quando i carri armati inglesi entrarono in paese annunciandone la fine. «La gente – ci fa sapere - era felice, gli inglesi accampati a Malnisio distribuivano cioccolata bianca ma forse le famiglie delle vittime soffrivano ancora di più per il ricordo dei loro cari». La fine della guerra però non ha cancellato per magia la sofferenza, i problemi e gli stenti di un Italia che era chiamata a ripartire: non c'era lavoro, gli uomini andavano in montagna a fare legna per venderla. Si facevano molti sacrifici. Sorridendo la signora ci dice che adesso non ci si sogna nemmeno quei tempi. Lei non ha mai patito la fame perché la sua famiglia era abbastanza benestante, ma ci parla di una solidarietà paesana molto diffusa nella quale chi aveva di più aiutava volentieri i meno fortunati. Ritorniamo sulla figura di Mussolini per chiederle come era cambiata a quel punto l'opinione pubblica su di lui. «Prima era visto come un Dio – risponde - poi come un nemico e una disgrazia, anche se aveva fatto tante cose per lo stato come bonifiche, strade e lavori pubblici. Lui aveva buoni principi però penso che l'evolvere dei fatti sia stato troppo grande e superiore alle sue vedute».


Hanno collaborato a questo numero

LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

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Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli

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Ferdinando Parigi Voce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si trovano raramente, la nostra nuova penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800

Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!

Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Loris Tomasella, Chiara Zorzi, Moreno T., Giorgio Doardo, Chanel Giacomelli, Fabrizio Sala, Ferdinando Parigi, Tina, Franca Merlo, Alice calligaro, Stefano venuto, Cristina Colautti, Elton kalica, Marco Zanin, margherita Errico, leonardo, Valerio, Franco, Davide Pettarini, massimo, Peter, Alessandro, franco, Cla, Barbara Ferrario, Rafael, Chiara Buono, Rachid, Alain Sacilotto, Andrea Lenardon, Ada Moznich. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone

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Cristina Colautti È arrivata in sede in punta di piedi, adesso non le sfugge niente, anzi. Dottoressa in sociologia Bis, porta a casa un 110 e lode a mani besse! Pare che “ansia” sia il suo secondo nome, ed infatti è la nostra donna per Codice a s-barre, così almeno lì, si sente al sicuro!

Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: ”...si bello, ma non si scrive così in Italiano!” S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara

Creazione grafica Maurizio Poletto

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Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia

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Moreno T. Nonostante la sua giovane età vanta un curriculum di esperienze di vita da libro. Entra alla panka con l’impegno di venirci qualche volta ed ora è presenza immancabile della sede. Eclettico, canterino demenziale, alla ricerca di un giro vita invidiabile mentre si mangia una fetta di torta. Si muove in sede come fosse casa sua, si

Rafael Proviene da mondi caldi, riempiti da musiche, danze, sorrisi e sole. Arriva a Pordenone.. e capirete bene che una persona, in un modo o nell’altro, qualcosa si deve inventare! Entra in sede con delicatezza, disponibilità e vestiti puliti.. nuovo educatore della sede? chiedono i più.. lui sorride e dice: no, già sofferto abbastanza!

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Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”

Impaginazione Ada Moznich Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione Foto a pagina1, 2 e 3 dall'archivio The Great Complotto. Foto a pagina 4 di Deofoto Foto a pagina 5, 7, 9 e 18 dal sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pagina 10, 11 e 13 di Davide Pettarini Foto a pagina 15 di Cla Foto a pagina 16 di Chiara Buono Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: panka.pn@gmail.com Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle dipendenze di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930

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Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.

Andrea Lenardon Tirocinante, educatore, psicologo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.

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Stefano Venuto Mimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 18.00!

La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00


LA MUSICA ESPRIME CIO' CHE E' IMPOSSIBILE DA DIRE E SU CUI E' IMPOSSIBILE TACERE VICTORHUGO

I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA


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