LDP 2/2018

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APPROFONDIMENTO

Passione Tattoo

Libertá di Parola 2/2018 ——

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

La creatività, lo studio, l'abilità, la passione e la fatica sono gli ingredienti dell'arte del tatuaggio. Etnico, simbolico, religioso, d'amore, qualunque sia il significato che uomini e donne danno ai simboli che si fanno incidere sul corpo, il tatuaggio è un'espressione di sé. Per coprire cicatrici fisiche ed emotive, per celebrare gioie e dolori: è un'arte e un modo di comunicare che ha una storia antica. a pagina 7

PANKANEWS

Montagnaterapia, quando il terapeuta esce dallo studio e si mette in cammino con i suoi pazienti a pagina 6

INVIATI NEL MONDO

Lungo la "Greeway" del Sile in bicicletta, ottanta chilometri da Treviso a Venezia e ritorno a pagina 11

PANKAROCK

Da antico porto della città, il fiume è tornato ad essere al centro di un rinnovato interesse

Al concerto di Bob Dylan con papà per il suo compleanno: la musica che unisce due generazioni

di MIlena Bidinost

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PORDENONE RISCOPRE IL NONCELLO “Portus Naonis”, ovvero Porto sul fiume Noncello, è il nome antico di Pordenone. Sullo stemma della città, in cui sono riportate le porte aperte sull'acqua, sono conservate le radici della sua storia, nella quale il fiume è stato a lungo il protagonista assoluto. Il Noncello nasce dai Magredi nel territorio di Cordenons (alle sorgenti del Venchiaruzzo), formati dall'inghiamento del Cellina e del Meduna, e poi si getta nel rinato Meduna che, a sua volta, entra in un grande fiume, il Livenza, lungo il quale sono sorte nel tempo numerose civiltà, dal-

le sorgenti della Serenissima e da Sacile, fino all'attuale Caorle nel mare Adriatico. Il sistema fluviale NoncelloMeduna-Livenza è stato fin dai tempi preistorici la fonte di una vita e di una cultura che rappresenta la storia stessa dell'uomo in questo territorio. Per secoli le popolazioni hanno vissuto sul fiume e di ciò che esso ha prodotto; questa idrovia è stata veicolo di contatti e di interscambi economici, culturali e sociali, grazie alle imbarcazioni, che nel tempo sono passate dalle più primitive alle più evolute. Proprio nel momento in

cui le imbarcazioni hanno potuto muoversi più velocemente, grazie al motore, la vita lungo i fiumi si è spenta: è iniziata cioè un'inversione di tendenza con le abitazioni che hanno cominciato a volgere il loro sguardo verso l'entroterra dove la civilità moderna creava strade, case, fabbriche, uffici e negozi. Tutto questo ha portato all'abbandono e al degrado del sistema fluviale e dell'ambiente circostante. Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, quando ancora il

Ramarri: il racconto di una stagione sempre al seguito della nostra squadra del cuore

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PANKAULTRÀ


IL TEMA

Piccoli assaggi di Noncello: cosa ne pensano i pordenonesi A spasso lungo il fiume e in navigazione sulle sue acque, alla scoperta di un ambito naturale che meriterebbe di essere conosciuto di più di Gianluca Giannetto Quando dalla redazione della “Panka” è arrivata la proposta di scrivere un pezzo sul Noncello, ho accettato subito: nonostante sia nato e vissuto a Pordenone, sono anni che non “frequento” il fiume che attraversa la nostra città. Con l'intenzione di indagare sul rapporto contemporaneo che lega i miei concittadini con il fiume che dà il nome e la storia alla nostra comunità, in una bella domenica di sole mi avvio verso l'imbarcadero del Noncello. La Rivierasca è chiusa al traffico e la zona intorno al fiume inizia a riempirsi di pedoni e vita, rompendo la quotidianità che la vede solo come via di passaggio e di smog, mentre la banchina naoniana “casa” da qualche decennio dall'Associazione Gommonauti Pordenonese, inizia a riempirsi di curiosi e ospiti. L'occasione la dà l'evento “Noncello Sunday. Domeniche in riva al fiume”. Sono soprattutto le famiglie con bambini a popolare la mattinata ed è con Barbara e Mirko che scambio le prime parole poco prima di imbarcarci. «Abbiamo approfittato della bella giornata per fare un giro sul fiume. È la prima volta che partecipiamo e siamo molto curiosi di co-

noscere meglio questa parte di città. Forse sottovalutiamo un po' il Noncello, andrebbe reso più vivo sia a livello turistico che scolastico», mi dicono, insistendo anche sulla pulizia dell'acqua e degli argini. Il tempo di finire questa conversazione e il capitano ci invita ad imbarcarci sul battello: il giro sul Noncello durerà una ventina di minuti e coprirà la zona che va dal Ponte di Adamo ed Eva (o meglio Giove e Giunone) fino alla zona della ex Dogana/ Fiera. A bordo incontro Paolo con la sua famiglia, pordenonesi, o meglio del quartie-

re di Vallenoncello come lui tiene a precisarmi, alla loro seconda esperienza sul battello. «Il fiume è sottovalutato – è la sua impressione - ma può essere una ricchezza per tutti i pordenonesi e magari anche a livello turistico. Bisogna pensare al fiume in tutta la sua interezza, non solo il centro, ma anche la periferia ed i bei parchi limitrofi». Il viaggio prosegue tranquillo e ci permette di ammirare le sponde e le particolarità del Noncello, con tanto di contrattempo emozionante, l'urto con un tronco sugli argini, che crea un po' di preoccupazione a Martina, mia compagna di avventura. A giro finito mi intrattengo a parlare con Giorgio, arzillo o t t a n t a q u a t t re n ne, pordenonese “adottato” e anche lui alla sua prima volta sul Noncello. «Tanti anni fa - mi racconta - era impensabile partecipare a giornate così, le ultime amministrazioni stanno lavorando bene:

vivere il fiume vuol dire vivere la città e la sua cultura in tutta la sua interezza. La città deve continuare ad aprirsi al fiume». Sull'avventura della giornata mi lascia con una battuta: «La mia impressione? Diciamo che questa mattina mi sono goduto un assaggio di natura in città, il piatto forte, magari sarà tra qualche anno». Quest'ultima affermazione racchiude anche l'impressione avuta da me e dai miei compagni di viaggio: il percorso e l'iniziativa sono molto interessanti, ma il primo è troppo breve per rendere giustizia al Noncello. Poco prima di riavviarmi verso casa è il mio amico Riccardo, impegnato durante la giornata nel ruolo di guida nelle escursioni lungo gli argini del Noncello, a sbrogliarmi qualche dubbio: «Il giro che faccio normalmente con le scolaresche è più lungo e comprende più zone di città», mi dice. E ancora: «Turisti sul Noncello? Ben vengano, ma l'importante è preservare l'unicità del corridoio ecologico naoniano, della sua flora e della sua fauna come la Folaga, simbolo del parco fluviale del Noncello». In conclusione, questa giornata mi ha invogliato a saperne di più sul nostro fiume e c'è sicuramente bisogno di far conoscere questa singolarità a tutta la cittadinanza, dai più piccoli ai più grandi, e di preservarne le sue particolarità. Rispettando e considerando di più il Noncello si arricchirebbe tutta Pordenone.


La città e il suo fiume, tra cura del verde e manifestazioni Su entrambi i fronti c'è la sinergia del Comune e di molte associazioni del territorio di Milena Bidinost I pordenonesi lo hanno sempre avuto nel cuore, le associazioni – con il supporto del Comune di Pordenone - negli ultimi anni lo stanno facendo rinascere. Il Noncello è un grande anfiteatro naturale che si sta cercando di riportare alla vita di comunità. Ci sono i due giorni e mezzo della Festa del Nonsel organizzata a giugno da ProPordenone, Sei di Pordenone se e Pro loco Pordenone in collaborazione con altri diciotto sodalizi e il Noncello Sunday, l'evento organizzato in riva al fiume ogni terza domenica del mese (prossimo appuntamento il 22 luglio) dal Comune in collaborazione con l'associazione Gommonauti Pordenonesi. Quest'ultimo ha preso il posto di “Porte aperte sul Noncello”. Nel 2016 per questa zona c'era passata inoltre anche la manifestazione Marcolin Urbangreen della Marcolin Covering, che

aveva “riaperto” un ambito percepito ma non fruito davvero, il parco Flu, il sentiero delle operaie e il vecchio lavatoio. Concerti come quello dei Dik Dik alla Festa del Nonsel, con oltre duemila persone nell'area dell'imbarcadero e sulla rampa della Rivierasca, oppure il concerto di solo

pianoforte del 2014 all'alba del musicista pordenonese Remo Anzovino. Via Rivierasca e il ponte di Adamo ed Eva animati dagli stand; l'imbarcadero al Marcolin punto di partenza ed arrivo per gli immancabili giri sul fiume sul pontoon boat dei Gommonauti, le attività didattiche

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Era una riparazione doverosa dei danni da guerra, con fondi del Governo, che però non trovò seguito. Per lungo tempo sono state quindi le associazioni nautiche e quelle naturalistiche – con forme spesso contrapposte tra loro – a mantenere da sole l'amore per l'ambiente fluviale e a cercare di farlo rinascere tra la popolazione. Negli ultimi

anni però, grazie alla spinta ambientale e turistica data dalle ultime amministrazioni comunali alla rivalorizzazione del fiume Noncello, qualcosa si sta muovendo e la zona che un tempo fu il porto della città oggi è al centro di una rinata attenzione da parte di enti ed associazioni e di inziative che puntano a restituirgli quel ruolo di protagonista che

Noncello era percorso dalle chiatte che trasportavano le merci da e per l'Adriatico, si tentò di creare un porto nella zona che oggi corrisponde all'area della Riviera del Pordenone (ex Rivierasca) e di ingrandire il preesistente scalo merci con l'annessa area doganale di Vallenoncello.

con le scuole. «Si sta cercando – dice l'assessore comunale al Turismo, Gugliemina Cucci – in collaborazione con le associazioni di creare un ampio progetto di valorizzazione del fiume, per farlo diventare il biglietto da visita della città per i turisti. Per questo – aggiunge - puntiamo a rendere questa zona un punto di riferimento stabile per eventi». A questo sta lavorando, assieme al Comune, anche l'associazione Vivere il fiume. Non c'è evento sul Noncelo, inoltre, che non veda partecipi i Gommonauti, associazione che da quarant'anni vive il fiume utilizzando tutta l'idrovia, lunga un centinaio di chilometri, che da Pordenone porta a Caorle. Fiore all'occhiello delle sue attività, alcune anche a sfondo solidale, è la “Gommonata europea da Pordenone al mare” di settembre. «Il fiume quarant'anni fa era totalmente abbandonato, noi lo abbiano scoperto e valorizzato prendendocene cura – dice il presidente Gaetano Solarino -. In questi ultimi anni la città sta riscoprendo il Noncello grazie alla sensibilità delle amministrazioni comunali, che ora si occupano anche della sua manutenzione». «La Regione – conferma l'assessore all'Ambiente, Stefania Boltin – ha demandato al Comune la manutenzione del verde trasferendo all'ente ogni anno circa 40 mila euro di fondi. Recentemente c'è stato anche un intervento straordinario della Protezione civile, che riprenderà in autunno e, ad esempio, per la Festa del Nonsel, l'intervento di Vivere il fiume. Stiamo lavorando molto – aggiunge – anche con Hydrogea sui collegamenti fognari della città, perchè non scarichino sulle acque e con i Gommonauti per effettuare le discese fino a Prata di Pordenone. Senza contare che – conclude - il prossimo anno partiranno i primi progetti di riqualificazione: tra tutti la realizzazione del percorso pedonale dal ponte alla ferrovia». un tempo ebbe. Lo si sta facendo in chiave moderna, riconoscendogli il valore di habitat prezioso di incontro tra la Natura e l'Uomo. Tratto da "Ritorno al Fiume. Navigare su Noncello, Meduna e Livenza" di Pietro Angelillo e Alessandra Betto, edizione Associazione Gommonauti Pordenonesi 2001


RUBRICHE

Dove sta andando l'uomo contemporaneo Con l'insorgenza di intelligenze artificiali, i dati creano e condizionano identità e scelte di Marlene Prosdocimo I sistemi di valori sono relativi e spesso non sono il fondamento di una determinata cultura o società, ma ne costituiscono il prodotto. Ciò avviene perché quei sistemi sono in costante evoluzione e, dunque, seguono il percorso e la direzione che gli individui intraprendono nelle civiltà. La frase di matrice hegeliana “Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale” può dar adito a due interpretazioni. La prima implica che la realtà segua un principio di razionalità e che, essendone conforme, non necessiti di particolari cambiamenti non ancora reali che la renderebbero per definizione “irrazionale” (questa visione

è propria, logicamente, di una posizione conservatrice). La seconda interpretazione, invece, sostiene che la realtà, per giungere ad essere considerata razionale, deve essere flessibile ai mutamenti. I mutamenti nella storia ci sono inevitabilmente stati, e questi hanno chiamato in causa la fluidità dei valori e la loro razionalità. Attualmente l’uomo vive in una particolare forma di Umanesimo, frutto di svariati fattori quali l’Illuminismo, il Positivismo, la creazione della psicanalisi e via dicendo. L’uomo è ivi considerato il parametro assoluto di riferimento per comprendere la validità dell’azione, a differenza del passato. L’uomo non è inteso come

“specie umana” o “popolo”, ma “singolo”. Prima di queste “rivoluzioni Copernicane” l’autorità veniva attribuita ad un Dio o alla sua Parola, dunque l’ente che dettava legge era esterno. Ora invece l’azione viene rapportata all’effetto che infonde nel singolo per essere compresa e messa in dubbio, senza più far riferimento alla correttezza assoluta di essa, senza generalmente domandarsi se un Creatore o Motore Immobile la possa approvare. La centralità dell’individuo con il suo apparato d’emozioni è il protagonista della storia, ormai non più interessata alle figure degli eroi perché non v’è nessun valore da portare all’estremo e da far incarna-

re in una persona che assiduamente lo persegua. La mistificazione del concetto di Individuo può portare a sua volta alla creazione di una religione, in questo caso di quella da Harari battezzata “Dataismo”. Nel mondo virtuale mettiamo più o meno consapevolmente all’asta i nostri dati, dati che delineano i nostri profili ma che possono arrivare a delineare, di rimando, noi e le nostre scelte future. Come? Tramite un processo induttivo (ragionamento che parte dal particolare per giungere al generale) è semplice fare supposizioni su quale opzione sia più affine alle caratteristiche di un individuo, e dunque le scelte possono divenire prevedibili e, chissà, inutili da compiere perché un algoritmo le potrebbe già intuire. Riguardo a questo le elezioni o la scelta di un partner o uno di shampoo, l’idea è la medesima. Il commercio dei dati potrebbe mettere in discussione il libero arbitrio, ma i fattori coinvolti sono molti e il dibattito è per questo ancora aperto.

PANKADOG

La differenza tra limite e rimprovero Il cane non è un umano con cui discutere. Perchè non faccia qualcosa basta dirgli un "no" deciso di Giorgio Achino I sentimenti dei cani non sono proprio uguali ai sentimenti di noi umani: è questo un aspetto da tenere sempre presente nella relazione con il proprio amico a quattro zampe. Al cane non interessa se il vaso che ha appena rotto risaliva al 1888 e si tramandava da generazioni; né che il vestito di Armani con cui si è divertito era un pezzo unico; che proprio quelle ciabatte in spugna che ha addentato per voi rappresentavano un ricordo di un’emozione irripetibile. Al cane basta sapere che quel determinato oggetto non lo deve toccare, che in quella data stanza non deve entrare. Diventa perciò fondamentale creare un limite fisico al nostro amico, che sia per lui una zona di comfort e per noi di sicurezza. Come glielo comunichiamo? La modalità più semplice è dirgli un no deciso, senza tanti discorsi di con-

torno. Lui assocerà il “no” a qualcosa che non deve fare e con il tempo e la ripetizione quella cosa non la farà. Il rimprovero come lo intendiamo noi quando lo esplichiamo nei confronti di un figlio, marito o moglie che siano, nei confronti di un cane non ha nessuna efficacia. L'animale

comprende e capisce il significante, cioè il suono a cui è applicata un’azione, e non il contenuto (il significato) della parola. Dunque sfogarsi con il cane urlandogli contro non serve a nulla se non a metterlo in uno stato emotivo negativo di cui probabilmente non ne capisce l’origine. Tenete sempre a mente che il cane non è un umano con cui potete discutere. Con il cane potete condividere uno stato emotivo, ma prendersela con lui, fidatevi, non serve a nulla. Ricapitolando: diventa fondamentale creare un limite che ci/lo protegge all’interno del quale sia il cane che il conduttore stiano bene e sereni. Un banco di prova nel quale testare il nostro stato emotivo nei confronti del nostro amico è il caso in cui lui ci

scappa. Se il cane scappa e non risponde ai nostri richiami un buon metodo – seppur le prime volte potrebbe essere difficile applicarlo - è quello di andare esattamente dalla parte opposta alla sua direzione. Generalmente il cane vedendo allontanarsi il suo padrone si riavvicinerà a lui. Nel momento in cui questo succede, proprio quando vi sentite percorsi da sensazioni di rabbia e di sollievo nei suoi confronti, fate un’altra cosa fondamentale: coccolatelo e rinforzatelo sul fatto che sia venuto da voi. Lo so, la prima reazione che potrebbe venirvi in mente potrebbe essere quella di rimproverarlo, ma riflettete: cosa pensa il vostro cane che vi ha appena ubbidito venendo da voi mentre vi stavate allontanando, se assecondate questa vostra reazione esclusivamente umana? «Bau, io gli ho ubbidito, a lui che invece se ne stava andando via senza di me; Bau gli ho ubbidito e lui mi sgrida arrabbiato. Bau, ma perché si arrabbia?». Ricordatevi quindi: quando interagiamo con i nostri amici a quattro zampe abbiamo un'opportunità unica, ovvero quella di poter pensare da cani senza che qualcuno ci rimproveri.


PANKA AMBIENTE

Pordenone ritrova le sue "amnesie" urbane Il progetto di Legambiente che valorizza gli edifici dismessi di Elisa Cozzarini Basta una passeggiata lungo le strade attorno alla sede de "I ragazzi della Panchina" per notare case semi-abbandonate, con saracinesche abbassate da anni, la vernice dei cancelli che si scrosta, la vegetazione che cresce. Intanto, uscendo dalla città, tra un capannone vuoto e l'altro, si continua a costruire e a consumare suolo. In Italia si contano ben sei milioni di edifici inutilizzati. Nell'autunno del 2017, il circolo Legambiente "Fabiano Grizzo" di Pordenone ha mappato 154 luoghi abbandonati in centro città: edifici inutilizzati, negozi vuoti, spazi che hanno perso la loro funzione e che, per questo, diventano quasi invisibili, buchi neri, dimenticati. Per

ognuno è stata realizzata una rosa, riciclando la moquette della tappa pordenonese del 100° Giro d’Italia, passato l'anno scorso. La distribuzione di queste rose ha rilanciato il progetto "Amnesie urbane" dell'associazione ambientalista: lo “scarto”, anche quello fatto di edifici e strutture abbandonate, può trasformarsi in risorsa. La rigenerazione urbana è un modo di riappropriarsi degli spazi del-

la città, di costruire progetti e percorsi condivisi e creativi, dal basso. È il lato positivo dello stop al consumo di suolo. Infatti, lasciare libera la terra non ancora cementificata significa anche volgere lo sguardo al costruito, agli spazi delle nostre città, per dare loro nuova vita e far crescere progetti, negli angoli ancora verdi, perché non vengano cementificati, e negli edifici vuoti, per restituire loro una funzione. Sono queste le "amnesie urbane" su cui si concentrano le molte attività del progetto di Legambiente, finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia, in collaborazione con una rete di soggetti del territorio: Cinemazero, Aruotalibera, Il Filo Urbano, La Compagnia delle Rose, Ubik Art, Te r r a è , Associazione Comunità San Valentino. Dalle passeggiate ai giri in bicicletta, dal cinema ai

dibattiti, il progetto Amnesie Urbane, che proseguirà anche nei prossimi mesi, suscita crescente interesse tra i cittadini pordenonesi. La sfida è porre le basi per iniziative concrete da realizzare anche a Pordenone, trasformare la curiosità in partecipazione, per riprendersi la città. Si può fare: lo dimostrano alcune realtà geograficamente vicine a noi. A San Stino di Livenza, il circolo Legambiente Veneto Orientale ha recuperato una parte dismessa della stazione ferroviaria, facendone la sede dell'associazione, ma anche un piccolo ostello per ciclisti, con ciclofficina fornita di quanto serve per proseguire la strada su due ruote. A Belluno l'ex Caserma Piave è diventata Spazio EX, grazie a un percorso che ha visto lavorare assieme l'amministrazione comunale e il Comitato Acqua Bene Comune.Queste esperienze dimostrano che, sapendo incanalare bene le energie, sporcandosi le mani, condividendo un progetto reale e visionario allo stesso tempo, la volontà dei cittadini può fare la differenza. info su Amnesie urbane: pordenone@legambientefvg.it

GLI ALBERI DELLA PANKA

Le mille sfumature delle piante Dalla spietata edera, al resistente pungitopo alla gentile vinca: a ciascuna il suo caratterere di Antonio Zani Questa volta voglio partire dal colore verde che caratterizza molte delle nostre amiche piante: trasmette amore per tutto ciò che riguarda il regno naturale. Oltre ad avere un effetto calmante, questo colore infonde senso di giustizia e grandezza d’animo. Conferisce, inoltre, tenacia e perseveranza nel seguire i propri progetti. È il colore della speranza e della vitalità. Verde è il colore della natura, del mondo vegetale, della fertilità e abbondanza. Detto questo possiamo continuare la panoramica e la conoscenza di alcune piante che possono essere avvicinate ad alcune caratteristiche umane. Dal colore verde scuro con cui nasconde le proprie emozioni c’è l’edera: pianta senza scrupoli che allunga le proprie

propaggini avviluppando altri vegetali per autosostenersi e succhiarne gli elementi nutritivi. E’ una pianta che si appoggia agli altri, vivendo sugli altri. La sua natura infestante fa di lei un’approfittatrice seriale e spietata. È resistente ad ogni temperatura ed esposizione, non ha paura di nulla e può vivere in ogni luogo. Un’altra pianta che nasconde i propri sentimenti, ma in maniera assolutamente diversa dall’edera, è il pungitopo: è una pianta schiva, rude e rigida. Con le sue fo-

glie a forma di aculeo sembra quasi voglia tenere lontani gli altri ma in realtà sta difendendo il proprio essere parco ed austero. Sembra essere un uomo dal passato difficile, da nascondere, ma che ora ha raggiunto un suo equilibrio che deve mantenere. Il pungitopo sta in un angolino, nascosto, non ricercando clamore e visibilità; vuole accontentarsi di poco, vive tra le roccie; ha un carattere temprato, non teme il freddo ed il suo essere quasi eremita lo fa sopravvivere in ogni

condizione. La sua resistenza è celeberrima: anche se reciso o rovinato tende a sopravvivere a lungo senza mutare il suo aspetto esteriore. L’unico momento di tenerezza al quale si lascia andare è nella primissima primavera, quando fa uscire i nuovi germogli che gli danno un aspetto più tenero e accogliente. Sucessivamente nascono anche dei frutti molto piccoli, tondi e di colore rosso intenso. Non facciamoci ingannare dalla loro bellezza estetica, perché sono altamente velenosi e possono, se ingeriti, causare pericolose convulsioni. L’ultima pianta che oggi vogliamo prendere in considerazione è la vinca. Pianta delicata, gentile e strisciante, genera dei discreti fiorellini lilla. Predilige gli ambienti freschi e rigogliosi d’acqua. Ha una fogliolina di un verde sereno e con una vegetazione generosa, ma al contempo delicata. Anche lei non disturba nessuno, ha poche pretese ma riesce ugualmente a creare armonia con la sua presenza semplice e discreta, come il suo profumo. Ha una natura delicata, ma se scoperta non lesina di donarsi in tutti i suoi aspetti.


RUBRICHE

Montagnaterapia, considerazioni di un terapeuta sui passi in quota «Ho accetto la sfida, cambiando la visione della relazione con i miei pazienti: nelle escursioni abbiamo condiviso insieme fatiche ed emozioni» di Giovanni Santeramo, psicologo CSM Sud di Azzano Decimo Come operatori del Dipartimento di Salute Mentale dell'Azienda per l'assistenza sanitaria n.5 Friuli Occidentale, abbiamo iniziato da poco la partecipazione all'attività di Montagnaterapia, oramai consolidata per gli operatori del SERD. Ho iniziato io. Volevo un po’ riprendere l’attività delle escursioni in montagna in modo regolare, con un esperto. Volevo riprendere a fare qualcosa di diverso; avevo condiviso con i colleghi del SERD, con i quali si fa formazione da anni, la possibilità di strutturare qualcosa assieme, per una utenza che, sempre più, presenta problematiche di pertinenza dei nostri reciproci Servizi. Mi pareva giunto il momento e poi volevo tornare a sentire me stesso in una condizione nuova: riprendere in mano alcuni aspetti di me, come gli interessi, come certe modalità della mia attività professionale. Ho voluto riconsiderare l’attività escursionistica, che svolgevo precedentemente con chi sceglievo io, i miei amici, o talvolta da solo. In questa attività invece mi ritrovo con volontari, esperti di montagna e ambiente, operatori, soprattutto di altri servizi (prevalentemente del SERD), utenti, principalmente del SERD, ma anche nostri. Non avrei mai pensato di dover condividere la mia fatica, la mia emozione nel trovarmi in ambiente montano, il mio battito cardiaco e il mio panino, la mia cioccolata, con dei pazienti. Provengo da una scuola di specializzazione rigorosa, dove la relazione ha regole precise e prevede la giusta distanza da chi si vuol aiutare. E non è sbagliato, perché questo vuol dire riconoscere l’identità dell’altro, che è diversa dalla mia e per questo lo posso aiutare. Presto compirò trent’anni di esperienza professionale e ventisei di servizio in Istituzione; ho deciso di accettare la sfida, di cambiare la visione del set-

ting introducendo delle novità, che ora so di saper gestire anche in quota e all’aperto. Sentire il passo dell’altro, stare sui passi degli altri, qualcuno sta poi sui miei passi; ricalcarne le impronte e sentire il medesimo attaccamento alla vita di una Persona altra. Questo titolo, Persona, mi appassiona perché rappresenta il nocciolo del nostro lavoro: riconoscere l’altro in quanto Persona, dignitosa, ma altro da me. Ecco, quando in montagna ho ricalcato le orme di un’altra persona, le mie orme sulle sue e sulle mie le orme di qualcun altro, ho sentito forte tutto questo, tutta l’emozione che stava dietro a quella fatica condivisa. Ho sentito molta vicinanza a chi

definiamo “paziente” e quel titolo, così profondamente umano, mi è parso non idealistico ma reale: io persona con loro persone; io respiro loro respirano; passi verso la medesima meta. Passi come passaggio, verso nuova condizione, evoluzione. Mi sono ancora interrogato su cosa sia terapeutico e quanto il terapeutico possa essere svolto anche fuori dal mio setting. Mi sono chiesto se andare in quota con i miei pazienti, oltre a farmi bene e darmi la possibilità di riascoltarmi, potesse essere anche terapeutico per loro. Riflettendo, ho ricordato alcuni dei miei maestri: Antonello Correale, quando diceva: - “…noi dobbiamo saper stare con i nostri pazienti!…”;

Ferdinando Barison, mio supervisore per alcuni anni, era stato direttore dell’Ospedale psichiatrico di Padova, mi raccontava di trascorrere molto tempo ricalcando i passi degli alienati, ottenendo di destarli da una condotta autistica, suscitando la loro curiosità e iniziando così una relazione terapeutica; Giorgio Ferlini che portava fuori dalla struttura gli schizofrenici anche in stato catatonico, per rompere il loro isolamento; Salomon Resnik e Franco Fasolo, entrambi appassionati di montagna, hanno inserito nei gruppi terapeutici dei pazienti psicotici, i quali, come avviene in cordata, hanno sentito la fiducia e si sono affidati alla cordata gruppale, giungendo così talvolta a spezzare il circuito patologico del pensiero bizzarro; o quanto meno a ridurlo. Questi insegnamenti mi hanno confermato la convinzione che i momenti trascorsi con i pazienti in quota sono terapeutici, e sono arricchenti anche per noi: persone prima che terapeuti. Ho pensato molto a questi maestri nei momenti di silenzio durante le uscite; ai miei passi che hanno voluto ricalcare i loro passi per crescere come persona e come professionista. Oggi sono contento di aver affrontato anche questa nuova sfida, seguendo ancora altri passi, che mi hanno portato ad accogliere le escursioni montane con i pazienti come una opportunità anche per me: ho ascoltato il silenzio e ho pensato all’importanza di osservare sotto altre prospettive il nostro lavoro e le persone delle quali ci occupiamo. Ho pensato ai miei colleghi della mia equipe; agli infermieri in particolare, più esposti a stanchezza e stress. Mi piacerebbe sapere: loro cosa ne pensano, quali opinioni hanno o fantasie su questa attività? L’augurio che faccio ai miei colleghi è di superare l’impasse delle varie resistenze per rispolverare la curiosità verso una attività che pone intensamente ed emotivamente ciascuno davanti ai quesiti fondanti della nostra attività professionale: cosa faccio per queste persone? Chi sono realmente, al di là di ciò che di loro mi fanno vedere? Chi sono io per loro? Sto bene nel fare ciò che faccio? Potrei cambiare qualcosa? Dove voglio arrivare? Se qualcuno cerca gratificazione e risposta a queste domande, credo che questa attività sia l’opportunità giusta.


L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————

Il tatuaggio ieri e oggi di Milena Bidinost Sulla schiena, sulle braccia, sul piede, a volte anche in viso: ne vediamo di ogni forma e dimensione, minimal o colorati. Sono tanti e senza limiti di età, estrazione sociale, razza o religione, coloro i quali hanno un loro segno tatuato sulla pelle. I tatuaggi sono diventati oggi un fenomeno di massa trasversale, ben lontano dalla convinzione diffusasi agli inizi del secolo scorso - e che a volte crea ancora tabù e preconcetti nei loro confronti - che fossero prerogativa dei carcerati. Le ragioni psicologiche alla base della scelta di tatuarsi sono le più disparate, dalla ricerca della propria identità, all'immortalare sulla pelle il superamento di un momento difficile oppure di uno particolarmente bello, o semplicemente il desiderio di comunicare qualcosa. La pratica del tatuaggio è poi applicata anche nell'ambito estetico, come alternativa permanente per essere sempre belli, e paramedicale per nascondere ad esempio le cicatrici. Il tatuaggio è cioè un mondo. Ma quali sono le sue origini? In un suo scritto, pubblicato sul sito dell'Associazione piercers e tatuatori professionisti italiani (Aptpi), Luisa Gnecchi Rusconi le ritrova fin dall'antichità: scavi archeologici hanno riportato alla luce corpi di uomini e donne tatuati vissuti fino a sei mila anni fa appartenenti a popolazioni sudamericane, nordamericane, esquimesi, siberiane, cinesi, egiziane e anche italiane. La pratica del tatuaggio esisteva tra gli Egizi, gli Ebrei, i legionari Romani e tra i Celti. «I tatuaggi presso le varie popolazioni – scrive Gnecchi Rusconi - avevano significati e motivazioni diverse, ma avevano in comune il fatto di essere “messaggi sociali”: chi si tatuava, si incideva dei segni sul corpo che dovevano comunicare un “messaggio” a chi li vedeva. Il tatuaggio poteva comunicare che chi lo portava era un re, un nobile, un valoroso guerriero, oppure uno schiavo o un delinquente, o che apparteneva a una setta religiosa, a un esercito, a un gruppo politico, a un movimento culturale. Il tatuaggio poi, a parte quello punitivo imposto ai delinquenti e agli schiavi, è sempre stato considerato un modo per abbellire il corpo, per diventare più belli». «Il tatuaggio a volte proibito, altre ordinato dalle Sacre Scritture è stato comunque praticato dai credenti per secoli fino ad oggi. Tra i primi cristiani era molto diffusa l’usanza

di tatuarsi un tau, la figura della croce di Cristo, sulla fronte. (…) I Crociati e i Cristiani in visita al Santo Sepolcro di Gerusalemme si tatuavano simboli religiosi per garantirsi una sepoltura in terra consacrata, sepoltura vietata a chi morendo per infortunio o di morte violenta non portava su di sé un segno religioso (…) L’uso di tatuaggi sacri nei pellegrinaggi era in voga fino a pochi decenni fa non solo a Gerusalemme, ma anche nel Santuario di Loreto e ancora oggi essi sono molto diffusi tra i Copti dell’Europa orientale. (…) La pratica del tatuaggio in Europa scomparve quasi completamente quando nel 787 Papa Adriano I la vietò con una bolla papale. (…) Fu solo molti secoli dopo, in seguito alle esplorazioni dei grandi navigatori, che il tatuaggio riapparve in Europa. (…) Nel 1774 il Capitano James Cook, al ritorno da un viaggio nell’Oceano Pacifico per primo portò a Londra un indigeno, Omai, il cui corpo era coperto di tatuaggi: lo presentò a corte, poi lo mostrò in pubblico suscitando un’ammirazione e un fascino immensi soprattutto tra l’aristocrazia. Anche il nome “tattoo” è stato coniato da Cook: alcuni dicono derivi dalla parola tahitiana “da” (disegnare), altri dal “tac-tac”, il rumore prodotto dalle bacchette di legno usate dagli indigeni per tatuare. Dopo Omai furono tanti gli indigeni tatuati riportati ed esibiti nelle fiere e nei circhi d’Europa e d’America. E' nato così il tatuaggio moderno occidentale: i marinai si facevano tatuare durante i loro viaggi in oriente, imparavano le tecniche cominciavano a tatuarsi tra di loro e nel giro di pochi anni in tutti i grandi porti europei e americani si poteva trovare un tattoo shop. (…)». Se il tatuaggio primitivo era spesso parte di riti iniziatici o religiosi tribali, quello moderno occidentale è un atto individuale e prevalentemente estetico. «Negli ultimi trent'anni – conclude l'autrice - si è assistito ad una diffusione e a una sempre maggior interesse per il tatuaggio in tutto il mondo occidentale e non solo, accanto ai disegni della tradizione classica marinaresca sono comparsi tanti nuovi soggetti, legati allo stile personale dei diversi tatuatori, a un rinnovato interesse per i tatuaggi primitivi e tribali, o alle richieste dei clienti che sempre più scelgono "il loro" disegno o simbolo da farsi tatuare”».


Piacersi per stare bene: il tatuaggio che corregge le imperfezioni del corpo Lisa Peri, tatuatrice medico-estetica: «È un settore in cui è richiesto un aggiornamento continuo» di Giorgio Achino Lisa Peri è prevalentemente una tatuatrice medico-estetica. Il suo talento per l'arte del ritratto l'ha scoperto e coltivato negli anni di studio all’istituto d'arte di Cordenons. Una passione, la sua, che si è poi fusa con un’altra nata fin da quando era piccola grazie a quel tatuaggio del proprio padre che lei non smetteva di guardare e di cui era enormemente fiera. «Mio padre – dice oggi Lisa - me lo ha sempre detto che avrei avuto un legame indissolubile con questo mondo. Tant'è che il primo tatuaggio me lo sono fatto appena compiuti i 18 anni, dal Sadico (storico tatuatore di Pordenone, l’unico all'epoca ndr) e da lì non ho più smesso». La strada percorsa per arrivare a diventare quella che è oggi, una persona che ha perseguito il suo obbiettivo con passione, dedizione e tanta fatica, la rende orgogliosa. Lisa è una donna che è stata in grado di trasformare in una professione la sua vocazione per la ricerca del piacere per il bello, fondendola con il desiderio di aiutare chi ha problemi legati al proprio corpo, alla sua estetica, a stare meglio con se stesso. Lisa è una tatuatrice artistica. I suoi tatuaggi si caratterizzano per l'utilizzo della tecnica del dotwork, che riprende il mondo dei

mandala e non solo. Infatti La parola dotwork rappresenta proprio uno dei termini che suscitano grande interesse tra i neofiti del settore. In questo caso non si fa riferimento a una scuola, né a uno stile, bensì a una tecnica che vede applicazioni in diversi generi artistici nell’ambito della grafica. Il termine ricorda infatti la famosissima corrente del puntinismo, sviluppatasi intorno al 1885 in Francia, che vide ampia espansione in tutta Europa. Il dotwork è precursore della tricopigmentazione. Si tratta di una tecnica piuttosto complessa. L’artista realizza figure geometriche accostando puntini. Sono richiesti molta pazienza e un talento fuori dal comune poiché ogni punto deve essere posizionato al posto giusto, ed è essenziale essere in grado di concentrarsi su un piccolo particolare senza mai dimenticare la visione d’insieme e l’obiettivo che si vuole ottenere (www.

claudiopittantattoo.com). Lisa è inoltre anche una tatuatrice medico estetica. La sua formazione artistiche le ha permesso con estrema semplicità di lavorare sul viso (trattando il tatuaggio estetico), ma è anche una formazione in costante aggiornamento che le ha consentito di ampliare il suo capo professionale. «Continuo a formarmi dal 2005 – dice non ci si può fermare perché il mio è un settore in continua evoluzione dove il confronto, lo scambio e lo studio stanno alla base di una seria crescita professionale ed artistica». Grazie alla tecnologia oggi si riescono a ricreare e a correggere parti del corpo, ripigmentando la pelle deturpata da cicatrici. Lisa da anni collabora con chirurghi estetici completando e partecipando alla ricostruzione non solo estetica del paziente: l'approccio e la cura della componente psicologica del cliente è infatti un tratto fonda-

Come avere cura del tuo tattoo • • • • • • • •

Dopo due ore rimuovere la medicazione Lavare con acqua tiepida e sapone neutro, sciacquare e tamponare con un asciugamano pulito Ungere il tattoo con uno strato di crema idratante neutra Ungere da 4 a 5 volte al giorno fino alla totale guarigione (per 7-10 giorni) Durante la guarigione non esporre il tattoo al sole, lampade abbrozanti, acqua di mare o piscina, polvere o sporco Non togliere assolutamente croste o formazioni di pelle secca e non tenerlo a contatto con lana o fibre sintetiche Durante il periodo estivo, per una migliore conservazione dell’intensità dei colori, è consigliato l’uso di filtri solari ( minimo protezione 20). Curandolo accuratamente otterrai un risultato migliore

Dal sito: www.diatribatattoo.com

mentale del suo lavoro. Le moderne tecnologie aiutano moltissimo in questo senso. Pigmenti che riproducono il colore della pelle, che si riassorbono per permettere un nuovo trucco che si adatti al naturale cambiamento del viso; attrezzi più leggeri ed ergonomici e aghi sempre più performanti fanno sì che il tatuaggio rientri a tutti gli effetti in una specializzazione della cura del corpo lontana anni luce dal tatuaggio dei marinai o galeotti. Se un tempo, infatti, il tatuaggio era legato esclusivamente alla commemorazione di un evento, all'immortalare per sempre sul proprio corpo un’esperienza, una parte della vita da ricordare, oggi questa pratica è molto più legata ad un aspetto estetico, alla ricerca del bello. E' cioè un mezzo per dare la possibilità ad una persona di migliorarsi, di potersi riguardare allo specchio, di piacersi nuovamente o di più. Tecnica ed arte insieme rendono tutto ciò possibile nel lavoro di Lisa.


L'etica nella professione del tatuatore Gaetano Diatriba: «Attenzione anche all'idea che il tatuaggio si possa facilmente rimuovere. È una pratica che non sempre riesce bene» di Giorgio Achino Gaetano Diatriba è un punto di riferimento nel mondo tatoo delle nostre zone e non solo. Dopo gli studi artistici inizia a lavorare come grafico pubblicitario, ma non trova realizzazione nella catena commerciale volendo lavorare direttamente e a stretto contatto con la sua clientela. Decide quindi di cambiare vita e, grazie all’incontro con Bangio (tatuatore di Padova), si inserisce in questo mondo che non lascerà più. Fa tutta la trafila prevista a quei tempi (anni '80-'90). Convince Bangio a suon di disegni: «Allora l’unico modo per imparare era di andare a bottega, ma prima che un tatuatore ti seguisse dovevi convincerlo», dice. Diatriba intraprende una rapida carriera grazie alla collaborazione con lo studio romano “Svicolo” dove si inserisce. Nonostante abbia iniziato a 24 anni (tardi rispetto alla media) apprende e sviluppa le tecniche rapidamente. Grazie alla sua passione per la musica hardcore punk e all’ondata del nuovo tribalismo legata ad essa approfondisce le origini del tatuaggio, legandosi indissolubilmente a questo mondo (www.diatribatattoo.com). Musica e tatuaggi lo portano ad intraprendere un viaggio culturale alle origini della pratica del tatuaggio. «Nasce tutto dalla zone della Polinesia - dice- con significati culturali antichi quanto il mondo. Le popolazioni di quelle zone, dopo la colonizzazioni occidentali hanno utilizzato il tatuaggio per riappropiarsi della propria identità culturale». Gaetano continua raccontando che «Il tatuaggio tribale tradizionale non è altro che la storia della cultura di un paese, nel momento in cui quest’ultima viene conosciuta ed apprezzata non possiamo che onorare coloro che l’hanno creata. Noi stessi diventiamo parte di essa e contribuiamo alla sua continuazione». Con lui approfondisco un argomento complicato come l’etica nella sua professione. Argomento delicato che ogni artista fa suo a seconda della propria moralità e cultura. «Una volta – mi racconta mani, piedi e viso erano off li-

mits, ma oggi la sua diffusione su larga scala ha sdoganato il tatuaggio non relegandolo solo ed esclusivamente ad alcune categorie della società come un tempo. Personalmente cerco di condurre il più possibile il mio cliente in un percorso di scelta al termine del quale posso anche liberamente rifiutarmi di tatuarlo, se il risultato finale non mi convince. Di solito - prosegue - ci sono argomenti che non tatuo per mia scelta, per mia mo-

ralità. Ad esempio, mi rifiuto categoricamente di tatuare qualsiasi cosa inerente a delle tematiche politiche. Più di qualche volta mi sono rifiutato di tatuare soggetti che non incontrassero il mio gusto: per quanto una persona sia libera di tatuarsi ciò che vuole, sono altrettanto libero di tatuare ciò che va bene a me». Altro aspetto è la questione “igiene”. «Oggigiorno – dice Gaetano - i nostri studi sono controllatissimi. Inoltre i costi delle attrezzature monouso e la loro qualità non sono assolutamente un ostacolo, anzi favoriscono le pratiche più sicure». I veri pericoli nel mondo del tatoo si incontrano nel fai da te, dato che oggi tutta l’attrezzatura è reperibile in internet a spese piuttosto basse. «Quando ho iniziato io, invece – prosegue Gaetano - se non venivi presentato da un altro collega al fornitore era quasi im-

possibile reperire il materiale». Infine il nostro tatuatore lancia un appello rispetto alla questione rimozione dei tatuaggi: «Attenzione – dice - la percentuale di rimozione ben riuscita di un tatoo è realmente bassa poiché i fattori che incidono su di essa sono diversi: la qualità del pigmento, il tratto, la bravura del medico e la qualità del macchinario per la rimozione utilizzato, la pelle del soggetto stesso». Anche in questo caso la diffusione e le possibilità di maggior scelta non sempre sono sinonimi di qualità. Le attrezzature hanno un prezzo inferiore, sono quindi più accessibili e diffuse. Questo però non è direttamente proporzionale alla qualità del risultato. Inoltre l’operazione della rimozione ha un certo peso anche economico. Infatti, senza andare troppo nei dettagli, una proporzione valida potrebbe essere il doppio del costo del tatuaggio da rimuovere. Quindi il consiglio che Gaetano dà è che «chi vuole tatuarsi parta con l’idea che è per sempre e non con l’idea che si possa rimuovere».

Stili di tatuaggio Old School: si ispira ai soggetti classici della vecchia scuola occidentale europea e americana (pin up, rose, cuori, pugnali, sirene, navi, ancore). Ha caratteristiche tipiche quali linee nette e decise, stesura piatta del colore priva di sfumature e grande utilizzo di nero. New School: si rifà all'Old School amplificandone le caratteristiche e quindi con linee ancora più grosse e colori vivaci. Realistico: riproduce la realtà attraverso un tattoo, caratterizzato da un minimizzazione estrema delle linee e da un utilizzo massiccio di sfumature su più livelli. Biomeccanico: ispirato ai lavori dell’artista Hans Ruedi Giger. I disegni rappresentano creature composte da organi o membra umane fusi indissolubilmente con parti meccaniche Tribali: disegni astratti di solito riempiti totalmente di nero, ispirati o derivati dai tatuaggi tradizionali degli indigeni delle varie isole del Pacifico. Giapponesi: spesso concepito come piatto e “fumettato”, si è evoluto verso un notevole utilizzo di sfumature. I disegni sono unici, generalmente molto grandi e prendono spunto dalle decorazioni dei kimono. Lettering: iniziali, parole o intere frasi vanno a integrare o a sostituire il soggetto del tattoo.


Paese che vai tatuaggio che trovi Marco Luzz è un tatuatore venezuelano di origine e pordenonese di adozione: dal racconto dei suoi viaggi ecco come il tattoo è vissuto all'estero di Chiara Zorzi traferito in Italia, prima a Padova e da quest'anno a Pordenone. “Il tatuaggio – dice - è come un’incisione su legno, è più simile a quella che non alla pittura e mi piace considerarlo ancora oggi che il nostro settore è cambiato non come un prodotto, una moda. Perchè un tatuaggio è qualcosa che resta sulla pelle”. Dal Venezuela dov'è nato, all'Italia dove oggi vive, continuando a viaggiare per il mondo per perfezionarsi in un'arte che per lui ha anche molti aspetti dell'artigianato. Marco Luzz, al secolo Marco Luzzagni Garbin, classe 1983, è nato a Borquisimeto in Venezuela e ha iniziato a tatuare giovanissimo, a 14 anni, quando nel suo paese il tatuaggio era ancora un genere di nicchia e fare il tatuatore, oltre a non essere considerato un mestiere, era qualcosa che si imparava sul campo. Dopo la laurea in architettura alla Universidad Central de Venezuela si è trasferito in Italia dove ha conseguito il titolo in Design Industriale al SID di Padova. Nel 2008 è rientrato in Venezuela per insegnare Design Industriale all’università UNEY. Dal 2011 si è definitivamente

Che tatuaggi ti piace fare e in quali ti sei specializzato? «È stato un lungo percorso. Quando ho iniziato, il bello di tatuare era il tatuare in sè, non il soggetto. Passati i vent’anni ho scelto il genere illustrativo, che parte dalla “new school”, per poi passare al “tatuaggio tradizionale”, cioè soggetti più semplici ma con un tecnicismo maggiore perché l’importante non è il disegno quanto l’esecuzione. Negli anni lavorare con chi faceva tatuaggio tradizionale mi ha aiutato a cambiare anche il mio modo di disegnare. Io venivo dal design industriale e da un disegno che era molto “sketch” (abbozzato, schizzato) che per le incisioni non va bene. Quando si tatua l’impostazione del disegno deve tenere conto del supporto sul quale si disegna e si deve essere capaci di creare un tatuaggio stabile, solido per moltissimi anni» Il viaggio per te è una costante del tuo lavoro di tatuatore. Ce ne parli? «Mi piace molto girare, trovo il senso solo girando. In generale mi muovo molto tra l’Asia, gli Usa e il Sud

America. L’anno scorso sono stato in dieci Paesi, molto a Singapore, Cina, due volte in Brasile. Mi muovo quasi sempre per Conventions, nelle quali conosco colleghi che poi mi invitano a tatuare nei loro studi. Per Cile e Brasile ho realizzato anche la locandina della Tattoo week» Che differenze ci sono da paese a paese? «La Cina, della quale mi piace molto l’immaginario, cioè la cultura e l’arte, è interessante perché il tattoo non è più un tabù come in Giappone o in Corea del Sud, dove è tollerato ma ancora non legale. In Giappone il tatuaggio è al margine della legalità perché è associato alla Yakuza, la mafia giapponese; ci sono molti tattoo studio ma non è un fenomeno di mercato. Invece in Cina il tattoo è un mercato che è scoppiato e nel giro di tre anni si è bruciato: i tatuaggi costano tantissimo, tre volte rispetto a quanto costano in Italia. Sono un fenomeno di massa e si fanno pezzi di grandi dimensioni (bodysuit) molto costosi. Sono rimasto impressionato dalla velocità con cui i cinesi possono imparare le cose: in pochi anni sono cresciuti tantissimi tatuatori bravi. Il Brasile mi piace molto perché si respira il tatuaggio, la gente è molto tatuata, ci sono due musei del tatuaggio, c’è molta più cultura del tattoo che in Italia e questo non me lo aspettavo. Ho visto gente che ha qualsiasi tipo di lavoro, dal medico al bancario, e che ha collo o mani tatuate e nessuno si scandalizza. Un altro paese interessante sono sicuramente gli Usa, dove il tatuatore è visto come un artista e il cliente lo lascia libero di fare ciò che vuole. Non cercano un tatuatore generico che esegua semplicemente, ma cercano il tatuatore in quanto artista». E l’Italia invece? «In Italia ci sono tanti artisti bravi anche perché solo a

guardarti intorno già respiri arte, quindi nascere o vivere qui è un privilegio per qualsiasi artista, che tu sia un tatuatore, un pittore, un architetto. Hai tanti stimoli e li hai da quando nasci. A livello di tatuaggi il Paese si sta aprendo, la gente non ti guarda più male, ci sono molte Conventions e quindi è un fenomeno già normale e naturale. Il cliente italiano, invece, è un po’ più drammatico. Gli statunitensi ad esempio sono pragmatici in tutto, anche quando vanno a fare un tattoo: se una cosa piace, la fanno. Gli italiani invece sono molto più insicuri, indecisi, non sono mai del tutto soddisfatti». Quali sono le caratteristiche di un bravo tatuatore? «È una domanda molto difficile. In generale io guardo se i tatuaggi sono stabili, se la linea è pulita, il riempimento solido, se il colore è messo bene. Per i pezzi di certe dimensioni è importante come si muovono sul corpo, come sono piazzati, poi per mia formazione valuto molto il disegno, com’è fatto, se ha le proporzioni giuste. Chi parte subito come tatuatore e non fa prima un percorso di formazione rischia di fare errori.


INVIATI NEL MONDO

Wanderlust, pedalare per ritrovare il tempo umano Da Pordenone a Venezia, i miei 80 chilometri in bicicletta lungo la “Greenway” del Sile fino a piazza San Marco di Virginia Bettinelli Un forte desiderio di girovagare ed esplorare il mondo si fa sentire da un po’ di anni in modo insistente, è il mio “wanderlust”. Un mese fa, sotto ai miei occhi è passato un articolo che parlava della “Greenway” del Sile, una ciclabile che da Treviso arriva fino a Jesolo affiancando il Sile e la Laguna per un totale di 52 chilometri. Ha cominciato a solleticarmi l’idea di provare a percorrerla. Ho guardato la mappa ed ho visto che ci sono delle varianti per partire e ritornare a Treviso senza pedalare sulla

stessa via al contrario. L’idea che più mi stuzzicava, però era quella di arrivare fino a Venezia, per un totale di 80 chilometri, immaginando di attraversare il ponte di Calatrava con la bicicletta. Ho continuato a rompere i gingilli a chi ne sapeva di più e mi sono confrontata anche con qualche “negatrone” che, come al solito, sconsigliava di farlo perché: «La tua bicicletta è un rottame; senza allenamento non ce la farai mai; guarda che la strada è lunga; anche se scrivono sui giornali che l’hanno inaugurata non ti fidare, ti troverai a dover scaraventare la bicicletta oltre al guardrail o percorrere strade trafficate; non riuscirai a sederti per una settimana per il dolore causato dalla sella», con ciliegina finale: «Voi donne vi mettete in testa delle cose allucinanti». Era giusto la frase che mi fa sguainare la Katana. Il meccanico di fiducia ciclista “old school”, invece mi ha spiegato che: «No serve na bona bicicletta, ma basta bone gambe». Fiera nella fiducia dei miei quadricipiti pedemontani, ho deciso di infischiarmene

dei “negatrone” e partire lo stesso. Ho coinvolto due colleghi, uno molto esperto e uno alle prime armi come me. Ho messo nello zaino una camera d’aria di scorta, panini con la mortadella, acqua e un paio di birre rosse. Siamo partiti dalla stazione di Pordenone alle 8.42. Il biglietto da Pordenone a Treviso costa 6 euro più 3.5 euro per la bicicletta (biglietto-bici valido tutto il giorno sui treni regionali). Dalla stazione di Treviso abbiamo percorso un breve tratto fino all’imbocco della ciclabile, che a dir la verità non è proprio ben segnalata (seguire indicazione ciclovia E4). Da lì la pista costeggia il Sile e poi la Laguna fino a Jesolo. Fiume verde, ponticelli di legno, fresco di fronde di salici piangenti, ville serenissime con i moli privati e cigni con le uova appena deposte nei nidi enormi, appaiono di tanto in tanto come in un set cinematografico. Lungo il tragitto si passa accanto al cimitero dei “burci” (imbarcazioni da trasporto fluviale a fondo piatto abbandonate nel 1974 all'interno dell'area naturale protetta); piccoli paesi con le piazze fiorite, alti campanili e campi gialli di colza stagliati sul cielo dipinto da Magritte. Da Portegrandi (vicino Quarto D’Altino) si comincia a costeggiare la Laguna fino a Jesolo. Per raggiungere Punta Sabbioni, dove prendere la motonave fino a Venezia, non c’è pista ciclabile e bisogna percorrere qualche chilometro sulla statale fino al Cavallino; non è una bella sensazione sentirsi i SUV sfrecciare accanto (non è consigliabile percorrerla con dei bambini al seguito, secondo me). La motonave arriva fino al Lido. Da San Nicolò (a tre minuti in bicicletta dallo sbarco) si prende un altro traghetto, fino al Tronchetto, (17 euro motonave più traghetto, persona più bicicletta). Il lento navigare lungo il Canal Grande davanti al Ponte dei Sospiri, Piazza San Marco e le gondole affilate. Il rifles-

so rosso fuoco del tramonto e verde del rame ossidato delle cupole sulle onde sinuose dell’acqua. Uno spritz in mano ed i capelli al vento. Ve lo assicuro, tutto questo non ha prezzo. Siamo saliti sul treno delle 19.05 da Venezia fino a Pordenone (7,5 euro biglietto treno). Totale: 80 chilometri, 65 chilometri più o meno su sterrato o ponti di legno o macadam ed il resto asfalto. Pianeggiante per tutta la percorrenza. Dopo i primi 60 chilometri, ho cominciato a sentire i quadricipiti in fiamme e pensavo a mia bisnonna che andava da Costa di Aviano (Pordenone) fino a Trieste per acquistare delle stoffe, senza neanche i cambi sulla bicicletta, quindi: muta e pedalare. Quando ho attraversato il ponte di Calatrava mi sono sentita come il glorioso Bill Murray che entra trionfante sul palcoscenico del Letterman’s show. Ho deciso di chiamare la mia bicicletta Ronzy, ispirata da

Ronzinante, quel ronzino al quale Don Chisciotte, diede il nome prima di diventare un cavaliere errante e che considerava alla pari dei più grandi cavalli mai esistiti. Un’avventura indimenticabile. Tutto quello che non conosco per me è un nuovo universo da esplorare e ho capito che muovermi in bicicletta mi permette di osservare il mondo a quella velocità che mi fa sentire umana. Una sensazione che un poco, forse, avevo dimenticato.


PANKAKULTURA

Il cinema del reale in un festival Tra i film de Le Voci dell'Inchiesta anche “The Work” di Mc Leary, presentato dalla Panka di Giorgio Achino È davvero necessario presentare dopo undici anni “Le Voci dell’Inchiesta”? Forse no, ma credo sia doveroso sottolineare la passione, il senso civico, l’impegno politico di un’organizzazione precisa, pulita e sostenuta da ospiti di sostanza. Credo sia dovuto ricordare “un festival che guarda in avanti, alla cultura del documentario che ha la parola d’ordine della realtà non disgiunta dai sentimenti di responsabilità (…), con uno sguardo che non è convenzionale, non cercando il successo ma qualcosa di insolito, la realtà”, come rileva Italo Moscati. «“This is real” è il claim di questa edizione -

ricorda Riccardo Costantini deus ex machina della manifestazione - in un’epoca di sovrabbondanza di contenuti audiovisivi, in cui spesso è difficile districarsi tra prodotti di scarso contenuto o qualità e opere di livello, c’è bisogno di documentari internazionali di eccezionale valore, per approfondire l’attualità». La realtà proposta dal festival, svoltosi lo scorso aprile a Pordenone, tocca indiscutibilmente tutte le tematiche che i media divulgano con prospettive superficiali o, ahimè, condizionate. Quest’anno il film vincitore è stato “Muhi Generally Temporary” di Rita Castelnuovo – Hollander e

Tamir Elterman. Ha raccolto i favori del pubblico e della giuria che all’unanimità “ha premiato il film per la quotidianità e il fatto storico - dice Fabio Francione – mostrando come questo bambino riesca a superare il suo handicap non voluto, quasi rifiutato, e riesce a vivere e viverlo dandoci un estremo insegnamento, in un mondo come quello di oggi, fatto di molte ingiustizie”. Oltre al film vincitore è interessante menzionare la sezione “Best Lost” che ha proposto film che, nonostante abbiano conquistato pubblico e giurie in tutto il mondo, non sono riusciti a superare i confini nazionali, mostrando le

Sumo & Supo, le porta gioie Una serata al Concordia con Stefania Petrone e Carmen Durì e il loro nuovo progetto tra teatro ed esperienza umana, per riscoprire emozioni nascoste Stefania Petrone, di professione counselor e attrice comica, e Carmen Durì, riflessologa ed esperta in tecniche di riequilibrio energetico, in arte sono “Sumo & Supo”, le “porta gioia”. Ovvero un binomio che si combina in un’alchimia quasi perfetta (dove il quasi è insito nella condizione umana) di fronte ad una platea che diventa il vero spettacolo. Si, avete capito bene, il vero protagonista della serata è stato il pubblico che, condotto in un viaggio introspettivo quanto di condivisione, ha partecipato e vissuto relazioni improbabili, ri-scoperto emozioni nascoste a causa di una quotidianità che appesantisce e il cui unico comune denominatore è (e sempre più ce lo dimentichiamo) la condizione umana. Una condizione da scoprire o risvegliare o semplicemente da lasciar andare, emergere.

La chiave comica (o semi seria) in cui le due conduttrici di questo grande gruppo hanno posto il pubblico è stato partire dal singolo, dalla sue energie, dai suoi pregi per poi metterlo in relazione con gli altri. Affascinante come il potere emotivo del singolo si amplifichi insieme agli altri per creare un’energia collettiva assolutamente positiva, ponendolo nella condizione di una rela-

zione spontanea e liberante. “Sumo&Supo” impersonano l’invito dell’espressione dialettale, “sumo e supo” appunto, che solitamente serve a spronare chi si arena in una condizione statica: si rivolgono al pubblico presente in sala e lo conducono in una condizione sicuramente migliore di quando si è seduto all’inizio della serata. Insomma Stefania e Carmen sono due filantrope

lacune distributive del nostro Paese. I Ragazzi della Panchina hanno presentato, in collaborazione con Cinemazero, “The Work” di Jairus Mc Leary, un grido chiaro ed esplicito: ascoltateci senza giudicarci. Il film narra la storia della prigione di Folson in California, in cui per alcuni giorni dei liberi cittadini partecipano a gruppi di terapia condotti e partecipati dagli stessi carcerati. I temi, o meglio, i pugni che sferra questo docuFilm arrivano diretti, precisi perché la realtà è che ognuno di noi, anche tu che stai leggendo, ha dentro sé conflitti e ingiustizie che condizionano la propria vita. “Apre emozionanti spiragli attraverso le barriere mentali e (…) supera i clichés della terapia riabilitativa con uno stile visivo intenso e immediato”, si legge nel catalogo della rassegna. Accattivante è l’idea che lancia che, per liberarsi dalle proprie prigioni mentali, una persona entri in carcere per farsi curare da dei “liberi” carcerati. a teatro, due persone che si fanno promotrici di consapevolezza e serenità, due amplificatori di gioia, due portatrici sane di relazione. Ora, cosa si potrebbe aggiungere quando uno spettacolo diventa un’esperienza, quando l’obbiettivo non è più il teatro in sé ma la condizione in cui gli spettatori escono? Certo se si dovesse fare una critica teatrale ci sarebbero un paio di cose da tenere in considerazione, ma che importa, non era il loro obbiettivo, anzi con Stefania e Carmen il teatro recupera una delle sue funzioni primordiali: la divulgazione. A conferma delle loro sincere intenzioni, di Carmen e Stefania mi piace sottolineare quanto le abbia trovate uguali a “Sumo & Supo” anche fuori dal teatro. La nostra breve chiacchierata telefonica è stata una naturale conclusione posta dalla mia partecipazione alla serata andata in scena all'auditorium Concordia. Di Pordenone. È quindi con piacere che vi suggerisco caldamente di visitare il blog stefaniapetrone.wordpress.com per seguire le date degli incontri che al di fuori del teatro Stefania e Carmen propongono e l’eventuale ritorno sul palco di “Sumo&Supo”. (g. a.)


PANKAROCK

Papà ti porto al concerto di Bob Dylan «Una voce straordinaria e una musica che sembra capirti, per una serata finalmente tutta nostra» di Greta Zani Il 26 aprile ho regalato a mio padre un sogno che coltivava da sempre: un biglietto per assistere al concerto di Bob Dylan. L'evento rappresentava, però, anche un'occasione per passare del tempo solamente io e lui, in maniera spensierata, come da tempo non succedeva. Attraversare determinate situazioni ti fa vivere solamente i lati negativi a volte, ma non dobbiamo dimenticarci di quanto bello può diventare un rapporto con i propri genitori, se vissuto senza rancori, perchè con il tempo possiamo scoprire di avere vicino degli amici. Ebbene, io volevo andare a quel concerto con mio papà e per questo a quel primo regalo ho aggiunto anche un biglietto per me. E così gli ho fatto una doppia sorpresa. A Jesolo abbiamo trascorso un bellissimo pomeriggio in riva al mare, cosa che non facevamo da tanto tempo, con i

piedi nudi sull’acqua a parlare. Ho provato una bellissima sensazione di spensieratezza e libertà. Quindi giretto per il centro, un gelato e arrivano le 21, il momento di incamminarsi verso il Pala Arrex. Mio padre ha 51 anni, io 21, ma il potere di un artista che possa definirsi tale è anche questo: unire due generazioni grazie a canzoni che sembrano intoccabili, di quelle che restano lì e anche dopo anni hanno sempre una magia che le canzoni di adesso non sanno regalare. Oggi ci sono canzoni belle che durano un’estate e poi, l’anno dopo, ne stiamo già ballando e cantando altre. Sono veramente poche quelle che arrivano per la loro unicità, senza omologarsi con il resto. Ascoltare canzoni di certi artisti, invece, ti riporta alla semplicità della musica e al contempo alla sua vera essenza: si tramandano e ad ascoltarle sembrano capir-

ti. Mio padre mi ha sempre raccontato di questa sua passione per Bob Dylan, le sue sono musiche che lo hanno accompagnato in alcuni dei momenti più belli. Cassette e vinili ritrovati dopo anni me l'hanno tramandata. Perciò la sera del 26 aprile ci siamo ritrovati li, io e lui, davanti ad un palco semplice e ad una luce soffusa che faceva da cornice ad una voce che fa venire i brividi canzone dopo canzone; che lasciava attorno il bellissimo silenzio di chi vuole lasciarsi emozionare ascoltando una delle voci più straordinarie che ci siano. Una leggenda della musica, un premio Nobel, davanti a noi che con la sua semplicità è riuscito a creare un filo unico lungo trent'anni tra quella che è la mia generazione e quella di mio papà. È stata una serata semplice, senza bisogno di apparire a tutti i costi, perché

È il mio mito da oltre trent'anni Assistere al suo concerto con mia figlia è stato un regalo di compleanno indimenticabile di Antonio Zani Era il mio sogno fin da ragazzo assistere dal vivo ad un concerto dell’intramontabile Bob Dylan “il menestrello di Menphis”. Questo cantastorie americano che ha attraversato le epoche con le sue musiche ed i suoi testi mai banali, spesso contro corrente, mi affascina da oltre trent’anni. È capitato questa primavera che durante una visita a mia figlia Greta lei mi ha fatto una sorpresa: due biglietti per il suo concerto che si sarebbe tenuto nel litorale veneto e più precisamente in quel di Jesolo. Tutto questo per il mio compleanno. Sono rimasto senza parole. Ci siamo andati io e lei e quella sera è stata l’occasione, oltre che per stare un po’ insieme, di rivedere

il mare dopo quattro lunghi anni. Ci siamo divertiti molto. È stata una di quelle serate indimenticabili che rimarrà nitida nell’album dei ricordi. L’ingresso del cantautore americano è stato molto semplice ma, nonostante ciò, è stato in quel preciso momen-

to che mi sono emozionato ad essere a due spanne dal mio mito. Il concerto è stato condotto in maniera professionale ed in modo originale dal vecchio Bob. Le canzoni proposte erano quasi tutte recenti a parte la mitica “Blowin in the Wind” che è stato anche il pezzo che ha chiuso il concerto. È stata una serata densa di emozioni forti: essere con mia figlia ad ammirare il mio mito a cui

di apparire non c’è ne bisogno certe volte; senza esagerazioni che nascondessero la vera essenza di un concerto, ovvero la musica e la voce che deve arrivare al cuore delle persone nella maniera più diretta. Un pubblico che, alla fine, con rispetto - quello che poche volte vediamo nei concerti di cantanti della nostra generazione, durante i quali bisogna per forza fare casino e rovinare - ha ringraziato Dylan accompagnandolo nell’ultima canzone e avvicinandosi verso il palco così da creare una bellissima unione tra noi e lui. Con una “Blown in the wind” cantanta in una originale versione, le luci si sono spente lasciando per pochi secondi in silenzio il palazzetto. Il concerto è finito, ma qualcosa di speciale resterà sempre impresso in me, la condivisione con mio padre di un momento autentico ed emozionante. anche lei si sta appassionando è stato fantastico. Il viaggio d’andata è stato condito dalla frenesia del desiderio, dall’attesa. Il concerto una emozione sublime, mentre il ritorno è stato cullato da una sensazione di appagamento. Di questo indimenticabile evento porterò sempre nel mio cuore il fatto di averlo vissuto con Greta e grazie a Greta. Il concerto in sè lo ricorderò come uno spettacolo condotto da musicisti di altissimo spessore che supportavano l’estro inconfondibile di un mito vivente. Oltre alle splendide emozioni vissute, questo concerto ha suscitato delle riflessioni a proposito del famoso cantante in questione: credo che alle soglie degli ottanta anni sia giunta anche per lui l’ora di eclissarsi e lasciare all’eternità la stella del suo mito prima che sia troppo tardi. Il suo tempo lo ha fatto. Ora secondo me è giunta l’ora che anche il “menestrello di Menphis” ceda il passo ed entri, definitivamente, nell’olimpo della storia della musica.


PANKAULTRÀ

UN ANNO DI TIFO NEROVERDE Da Arta Terme fino al decennale dei Supporters, passando per Cagliari e San Siro. Un viaggio con chi è sempre stato al fianco del Pordenone di Gianluca Giannetto La stagione sportiva del Pordenone è stata sicuramente un'altalena piena di emozioni che ha oscillato tra campionato e Coppa Italia. Un viaggio iniziato durante il ritiro di Arta Terme e proseguito con le vittorie in Coppa Italia contro Matelica, Venezia e Lecce durante il mese di agosto, culminato con lo storico traguardo del quarto turno di TimCup. Un inizio col botto, confermato dalla striscia di undici risultati utili consecutivi in campionato, interrottasi solo con lo sfortunato knockou contro la Triestina, in un Bottecchia allagato dalla pioggia. Una partenza sprint che ha fatto ben sperare i tifosi neroverdi, unita agli ottimi risultati dei due anni precedenti ed ai proclami della società, sulla carta molto ambiziosa: la serie B può essere meno di un sogno. Poi il crollo: risultati negativi, per risultato e, soprattutto, per gioco, non più propositivo e offensivo ma confuso e inconcludente; le uniche gioie con il Vicenza, in piena turbolenza societaria, e con il Teramo, appena prima dell'esonero dell'allenatore Leonardo Colucci in favore del pordenonese Fabio Rossitto. Il cambio porta nuovo entusiasmo, qualche vittoria prestigiosa (Reggiana e Samb), ma la situazione non decolla e la stagione si conclude con un anonimo (rispetto ai proclami) nono posto e la fugace partecipazione ai play-off, dove la squadra si schianta contro il Feralpi Salò al primo turno. L'annata, tuttavia,

ha regalato anche momenti destinati a restare nella storia e nella memoria: l'epopea di Cagliari, dove il “Pienne” si è imposto 2-1 sul campo dei sardi e la notte magica di San Siro, dove in 4000 abbiamo trascinato la squadra fino ai calci di rigore contro la blasonatissima Inter, facendoci conoscere ed entusiasmando mezza Italia. Un exploit destinato a rimanere un unico, con numeri per nulla entusiasmanti per tutta la stagione: se la squadra fatica, anche i pordenonesi faticano ad andare allo stadio, anche al netto di promozioni ed offerte da parte della società, testimoniando ancora una volta lo scarso affetto della città nei confronti della squadra. La presenza allo stadio si è dimostrata, dunque, altalenante ed incerta come la stagione sportiva. Fortunatamente i gruppi ultras dei

Supporters e dei Bandoleres si sono dimostrati in nettissima controtendenza, creando tifo organizzato ininterrottamente per tutta la stagione e crescendo a livello di partecipazione e mentalità. Tra le mura del Bottecchia, la presenza è

stata risoluta e perpetua, trascinando tutto il settore della gradinata con entusiasmo e cori, portando tanti giovani per la prima (e non ultima) volta allo stadio a sostenere i colori neroverdi ed anche in trasferta, sia contro le nostre rivali più vicine (Bassano e Trieste, su tutte) che per quelle più lontane, superando gli ostacoli della distanza e macinando chilometri. Una mentalità determinata che ha permesso al gruppo dei Supporters (che quest'anno festeggia dieci anni di vita), un accrescimento indipendente dai risultati sportivi e dalle partite, a cui spesso si danno le spalle per tifare meglio, con l’inserimento di tanti giovani e non tra le loro fila. Un impegno che va oltre il campo: basti pensare alle attività di solidarietà nei confronti dei terremotati o dell'Area giovani del Cro di Aviano. Un'attività di aggregazione sincera

ed autentica che è proseguita nonostante l'ostilità di molti quotidiani e la repressione subita quest'anno, con ben sette daspi comminati ad altrettanti tifosi (ma tanto tornano). Una crescita ed un amore incondizionato che possono solo fare del bene alla città e alla squadra, sperando di trasferire questo entusiasmo anche ai giocatori, presenti e futuri che indossano (e indosseranno) la casacca neroverde. Gli ultras pordenonesi si sono ritrovati il 16 e 17 giugno presso la polisportiva San Lorenzo per il 3° torneo “Pordenone siamo noi” e festeggiare i dieci anni di attività del gruppo dei Supporters Pn per poi iniziare a concentrarsi sulla prossima stagione in vista del nuovo ritiro ad Arta Terme. Verso un nuovo anno di lotta e gioia con i colori neroverdi e il Pordenone in fondo al cuore.


Hanno collaborato a questo numero

LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada de I Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost

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Antonio Zani Quando una persona legge molto, quando poi si accorge che scrivere gli riesce, quando è costretto a fare attività fisica ma non gli riesce e non ne ha voglia, quando in tutto questo conosce la Panka, allora che fa? La risposta è Libertà di Parola! Dopo una gavetta alle rubriche ora esce con l’approfondimento, ma non ti preoccupare Antonio, sempre senza correre!

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Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: "...si bello, ma non si scrive così in Italiano!" S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara

Elisa Cozzarini Liberata dai fardelli del dover fare per gli altri si è messa in proprio, così può scrivere, leggere, scrivere, progettare, scrivere, studiare, scrivere. Non manca di farlo anche per la Panka perché, se è vero che il futuro è, appunto, tutto da scrivere, quello che sei lo ritrovi nei posti che abiti.

Milena Bidinost Per noi avere a che fare con una giornalista di professione non è mai facile: “Milena sai che ho sentito dire che.. vabbè dai, non importa”. Per lei avere a che fare con gli articoli che escono dalla Panka non è mai facile: “Scusate ma non credo che questa cosa si possa scrivere così perché giornalisticamente.. vabbè dai, non importa”. Milena, la mediazione è un’arte! Ben arrivata al MoMA!

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Virginia Bettinelli Scrive scrive scrive, piacere esigenza amore. Non trova pace nella sua vita trafelata, in perenne corsa alla ricerca di stare al passo con l’orologio che invece, implacabile, indica il tempo troppo velocemente. Nella scrittura trova invece la quiete, la pausa, sopra il delirio. Scrive per la Panka anche per questo, tentativo di pace in un mondo ostile.

Stefano Venuto Mimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 18.00!

Creazione grafica Maurizio Poletto

Fotografie A cura della redazione. Foto a pag. 1, 2 e 3 di Milena Bidinost Foto a pagina 4 e 7 dal sito: www.pixabay.com Foto a pagina 8, 9 e 10 a cura degli intervistati Foto a pagina 11di Virginia Bettinelli Foto a pagina 13 di Greta Zani Foto a pagina 14 Pordenone Calcio: Antonio Ros e Vittorio Rainone Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle Dipendenze di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone Tel. 0434 371310 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari

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Giorgio Achino Teatrante per diletto adesso applica la tecnica in Panka. A tutti dice: "Sarò chi vuoi, nella tua personale rappresentazione della vita"; palco e Panka si confondono. Benarrivato in questo teatro! Sempre in scena Giorgio

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Marlene Prosdocimo Se fosse nata in Trentino avrebbe vissuto una adolescenza drammatica ma in Friuli no, meno. Alleggerita da questo peso studia filosofia ed ama le arti. LdP esiste proprio perché è questione di arte realizzarlo ed anche perché senza la giusta filosofia sarebbe impossibile leggerlo. Lei l’ha letto ed ora ci scrive sopra. Perfetta... proprio come la mela!

Editore Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone

Stampa Grafoteca S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN

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Gianluca Giannetto La Panka ha da sempre ospitato la tifoseria dei ramarri con affetto ed entusiasmo. “Out Low” identifica uno dei gruppi storici e quale miglior contesto se non quello della Panka poteva dare voce ai Fuori Legge?! Per LDP Gianluca scrive articoli dalle tematiche più diverse ma... voi non accontentatevi semplicemente di leggerli perché, essendo le parole capaci di un colore, troverete sempre il nero-verde ad esaltarle!

Redazione Gianluca Giannetto, Marlene Prosdocimo, Giorgio Achino, Elisa Cozzarini, Antonio Zani, Giovanni Santeramo, Virginia Bettinelli, Greta Zani, Stefano Venuto.

Impaginazione Ada Moznich

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Capo Redattore Chiara Zorzi

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Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”

Per le donazioni: Codice IBAN BCC: IT69R0835612500000000019539 Codice IBAN Credit Agricol Friuladria: IT80M0533612501000030666575 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00


IL TATUAGGIO È UN’OPERA ETERNA SU UN SUPPORTO EFFIMERO

PASCAL TOURAIN

I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA


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