LDP 03-2010

Page 1

APPROFONDIMENTO

Lavori stagionali

Libertá di Parola Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino (Voltaire)

3/2010 —— alla morte il tuo diritto a dirlo.

L’autunno rievoca gli odori della terra. E’ il tempo della raccolta, che ogni anno mobilita un gran numero di lavoratori occasionali. Sono studenti che per pagarsi gli sfizi sfruttano la domanda di aziende locali per il tempo della vendemmia. Sono pensionati che lo fanno per arrotondare o solo per passione. Oppure stranieri, che per un tempo determinato, si dedicano alla raccolta delle barbatelle. Ma anche di ortaggi e frutta. Non solo quindi in autunno. Ecco la fotografia del lavoro stagionale in agricoltura in provincia. a pagina 9

L' EDITORIALE

Non vedo, non sento, non parlo a pagina 2

L'EVENTO

La nuova biblioteca piace ai pordenonesi a pagina 6

COMIX

La storia della panka a fumetti, puntata n° 4

Parlare con le mani, ascoltare con gli occhi…

a pagina 8

di Pino Roveredo I sordi vivono, viaggiano, si riposano, giocano e si rattristano, portandosi sempre dietro l’abbraccio infinito del silenzio: per loro, il rumore è un affare degli udenti. Pensieri, dispiaceri, cronache, sogni, tutto gira senza lo spreco di un suono, perché il verbo “ascoltare” ha congiunzioni inutili. Quel silenzio è trattato come una normale condizione, e vissuto con rassegnazione di chi è stato vittima della dimenticanza di una legge naturale. Qualche volta, sì, per quella mancanza può arrivare il rammarico dell’imprecazione delusa, ma solitamente è uno stimolo suggerito dalla maleducazione sana e, soprattutto, dalla commiserazione non richiesta degli “ascoltatori”. Quegli “ascoltatori” io li ho conosciuti bene, perché sono figlio di genitori sordomuti: io, prima di imparare i rumori, ho conosciuto il silenzio. Quante volte, con i miei cari, perdendoci nei discorsi con le dita, riuscivamo a fermare la pietà intrigante dei curiosi che, con le bocche aperte e indispettite, non riuscivano ad entrare nei nostri discorsi. Quelle erano e sono intromissioni quasi impossibili, perché la comunicazione dei non udenti ha la riservatezza di un codice segreto. Le mani, guidate da braccia veloci, si muovono agili come un solfeggio musicale, mentre le dita scattanti, girando e giocando con l’aria, formano le figure che spiegano un’azione. I loro discorsi, con la scenografia

IL TEMA

INVIATI NEL MONDO

Mongolia, nella terra delle renne a pagina 13

IL RICORDO

Addio Felix, leader gentile a pagina 14 dei movimenti, entrano nella confusione dei rumori con l’intensità che non hanno le parole parlate, quelle che senza il bisogno della presenza si urlano oltre il muro o nel disbrigo superficiale che non richiede il rispetto dello sguardo. Nel mondo del silenzio è diverso, lì, per comunicare, bisogna avere l’educazione della presenza e la cortesia dell’attenzione. I sordomuti parlano con le mani e ascoltano con gli occhi. Le braccia che girano tra di loro spiegano una Fatica, tre dita aperte che scendono dal torace rassicurano un Riposo. Le mani strette e incrociate sul cuore esternano Amore, i pugni battuti sul

petto dichiarano una Sofferenza. Le mani aperte avanti, come a respingere qualcosa, raccontano un Odio, le dita che tremano come fiamme vicino alle guance confessano un Orgoglio. Anche le cose più semplici e care non si possono mandare a dire, è un obbligo dimostrarle, così un Abbraccio abbraccia, un Bacio bacia e una Carezza accarezza. Il cattivo merita un indice picchiato sulla guancia, il buono due dita che formando un anello scendono delicate dalla bocca verso lo stomaco. Per il falso c’è un pugno battuto sul manto, per l’onesto, continua a pagina 2

RDP

Nei cieli della citta’ con i piloti dell’Aereo Club Pordenone a pag. 17


L' EDITORIALE

Parlare con le mani, ascoltare con gli occhi… di Pino Roveredo segue dalla prima pagina

invece, una passata della mano sulla fronte fino a salire sui capelli. Piccoli segni, che agli sconosciuti possono sembrare banali e che, invece, hanno la forza fantastica di costruire e spiegare l’attività dei sentimenti. Ricordo che, da bambino, chiedevo a mio padre “Ma ti dispiace di non poter sentire?” e lui mi rispondeva “Sì… però, io ho qualcosa che voi “ascoltatori” non avete… “, e così mi raccontava dei due occhi che aveva dietro la testa, che gli permettevano di vedere che cosa succedeva dietro le spalle. Io, di nascosto, cercavo di scoprire quei due occhi, ma inutilmente. Solo crescendo capii la confessione del mio genitore: quello sguardo innaturale, che io non riuscivo ad individuare, era il sesto senso, e cioè, quella sensibilità che una legge di compensazione assegna ai proprietari di una dimenticanza. I miei genitori riuscivano ad avere la percezione di una presenza anche se questa camminava in punta di piedi, poi sapevano riconoscere quasi alla perfezione la ricchezza e la povertà morale della persona, ma soprattutto, con una sensibilità incredibile riuscivano a riconoscere gli imbrogli dell’umore: con loro, provare a nascondere il dolore con la recita del sorriso, era come indossare una maschera di vetro. Ora, da quella affannosa ricerca dei due occhi misteriosi è passato molto tempo, un tempo che contiene sempre maggior rumore e sempre meno silenzio, dopo che le mie care premure se ne sono andate, portandosi via tutti i discorsi dalle mani. Così, mi sono adattato a comunicare con la bocca, e ho castigato i gesti nel riposo forzato delle tasche. Ormai, sono anni che ho riacceso l’ascolto, quello che credevo inutile perché disturbava la musica di una quiete con l’intrigante pettegolezzo della voce. Oggi posso dire “Ti amo, ti odio, buono e cattivo” con il gioco intrecciato di poche sillabe, però ogni volta è mezzo entusiasmo che se ne và. D’altronde, il danzare sulle frasi con il movimento agile delle dita non ha più senso, da quando due sguardi affettuosi… non mi ascoltano più! ( Da "Mandami a dire" ed Bompiani 2005)

IL TEMA

CON UN FIL DI VOCE Mentre il mondo grida, a volte è meglio restare muti di Gigi Dal Bon All’ormai consolidata fratellanza con l’Aids da un lustro si è fatto largo dentro di me, aggiunto alla famiglia, un altro virus che di nome fa “Papilloma” e che mi offre la sua fastidiosa compagnia fatta di polipi che s’attaccano alla mia povera laringe e alle corde vocali. Naso, gola, respiro comunicazione: questi i suoi argomenti preferiti. E da buon virus che si rispetti, lo puoi bastonare, tagliare, scorticare, bagnare con l’acqua benedetta, bruciare col laser, niente. Lui non molla. Dopo un po’ si ripresenta, si vede che gli piaccio proprio tanto. Così, tra un’operazione e l’altra, gratta oggi gratta domani, a forza di grattare sono rimasto con “un fil di voce”. Voce flebile e faticosa, difficile da ascoltare e da far uscire, troppo debole per orecchie distratte e voci spesso prepotenti, impertinenti, invadenti, sorde alle altre, a quelle flebili. Essere senza voce automaticamente mi declassa al rango del succube, dell’ignorato. Non posso alzare la voce, neanche al livello di chi sovrasta distrattamente la mia. Ormai non ne spreco neanche un filo per farglielo capire. Provo sempre più sulla mia pelle il significato del detto “fare la voce grossa”. Ma la voce grossa

non ce l’hanno solo i prepotenti, indistintamente tutti i detentori di voce sana giocano e lottano inconsciamente per farsi sentire, o anche solo per alimentare il piacere narcisistico di sentirsi mentre parlano. Mi sento sempre più circondato dalla cultura del parlare, del bla bla, a scapito dell’ascoltare, con attenzione, l’altro in allineamento con la capacità del proprio ascolto interiore. Bla bla bla, aria riempita da voci stridule starnazzanti spigolose e irritanti, a volte orfane del pensiero. Fortuna che la natura mi ha donato un’indole tranquilla e auto ironica, mi spingo a dire semispirituale e accomodante, e ironia della sorte portata al silenzio. Oggi penso che potrei rimanere anche “quasi muto” . Quanta fatica ci vuole per imparare ad esprimersi e farsi ascoltare! O forse no, potrei usare altro per farmi capire: mani, espressioni del volto, silenzio. Stare zitti è un esercizio che molti dovrebbero imparare. I sani parlano a voce forte, ma sovente senza riflettere, che ciò implica una responsabilità forte verso la vita. Ci vuole umiltà e ascolto sincero, soprattutto verso quella voce che ti parla dentro. L’anima delle parole si fa sentire veramente quando vi-

In punta di piedi Oggi vivo la mia altezza semplicemente come una parte di me di Giogia Balducci Non ho mai vissuto la mia bassa statura come un handicap, ma piuttosto come un difetto fisico: per cui non mi sono mai sentita limitata, in nessun aspetto della vita. Con dei piccoli accorgimenti sopperisco ai miei limiti: uso un semplice sgabello per prendere i piatti dalla credenza, ho i pedali allungati della macchina per guidare, ecc. Qualcosa in realtà non riesco a farlo: alcuni bancomat mi risultano inaccessibili non essendo adeguati al servizio dei diversamente abili. Stesso discorso per le bilance elettroniche in certi supermercati o per i bidoni della raccolta differenziata della plastica. Niente di catastrofico

anche se migliorabile: in punta di piedi o schiavizzando qualche amico il problema si risolve. La parte più difficile non è la vita quotidiana, ma il rapporto con gli altri. I maggiori problemi li ho vissuti da piccola. I bambini sono spietati e privi di filtri, la diversità viene notata e fatta notare. Il primo giorno di scuola è sempre stato il più duro, sguardi e parole ferivano l’anima, però durava poco. Di questo devo ringraziare il mio carattere espansivo e socievole ed i miei modi da “comandante”. Per fortuna le condizioni da allora ad oggi sono diverse: ora mi rapporto con degli adulti scelti da me, non bambini, e in

bra con il respiro del cuore e vuole essere ascoltata e rispettata. Il mondo dei sani, così presi da sé stessi,non si accorge di ciò che ha dentro, convinto della propria immortalità. L’ascolto fra malati è altra cosa. Tra loro c’è da subito una tacita intesa. Capisci che sei solo ad affrontare questa prova, e forse è meglio così. Perché è tutto molto più chiaro, da subito, senza false illusioni. Compagni e compagne sono una grandissima forza, al pari di un gran peso, con i loro occhi di paura, in cui sono sempre più presenti i pensieri di abbandono. La malattia mette a dura prova i rapporti far sani e ammalati e spesso succede anche a me, nel mio silenzio afono, di desiderare di gridare tanto da cacciare lontano chi mi ama, e con lui il peso dato dalla sua salute, dal suo diritto ad un presente e ad un futuro senza sofferenze. Peccato però che la mia voce non tornerà più nemmeno a cantare.

37 anni ho imparato a convivere con la mia statura, a piacermi e ad accettarmi. Inoltre mi interessa molto meno che la gente si trovi spiazzata in mia presenza e sono rare le volte in cui ciò mi ferisce. È divertente come alcuni nei primi incontri per parlarmi si abbassino su di me come se non sentissi fino alla loro altezza, per fortuna in genere poi prendono le misure e le distanze, portando così il dialogo sui binari della naturalezza. Ho scoperto che oltre all’imbarazzo che può suscitare, la mia fisicità mi avvantaggia in alcune relazioni; non venendo percepita come un pericolo spesso sono scelta come confidente, con mia grande gioia. Il mio problema dunque sono le persone poco intelligenti non il quotidiano: se non ci fossero loro, con i loro sguardi curiosi, a farmi notare la diversità io non avrei nessun disagio. Mi piacerebbe fosse chiaro il concetto che l’handicap non fa la persona, ma è solo una delle sue sfaccettature. Oltre ad esso c’è tutto il resto, come per chiunque altro.


Occhio di falco

Da quando non ci vedo bene, ho imparato a guardare di Ada Moznich Mio marito mi chiama occhio di falco e non è uno scherzo. Ci vedo da un occhio solo e male, ma lui dice che vedo particolari che agli altri sfuggono ed è così perché di questo ho bisogno per riuscire a vedere, dei particolari. Quattordici anni fa un virus, il citomegalovirus, mi ha distrutto la retina dell’occhio destro e ha fatto un buco su quella dell’occhio sinistro, proprio al centro della retina, nella parte più importante. Mi ricordo che il medico, dopo aver debellato il virus, mi disse che dovevo fare riabilitazione all’occhio e che avrei dovuto imparare ad usarlo, un po’ come un atleta che si rompe rovinosamente una gamba. Egli non tornerà a correre, ma ritornerà a camminare. E’ difficile spiegare il mio problema alla vista. A volte anche a me sembra di non averlo. Poi però me ne accorgo, nella quotidianità, quando guardo una persona e vedo metà del suo viso sfuocato. Devo “scannerizzarlo” tutto per poi ricomporlo nella mia mente e certe volte è imbarazzante perché mi ci vuole tempo e mi serve fissare l’altro. Faccio fatica a riconoscere le persone per strada soprattutto quelle che non conosco profondamente, per questo ho imparato a salutare comunque sempre con un gran sorriso, se poi ho la fortuna di avere qualcuno accanto chiedo delucidazione sull’incontro. I miei amici, quelli che conoscono il mio problema, mi chiamano sempre quando li incrocio per strada perché così facendo li riconosco dalla voce e mi avvicino tranquillamente. La voce è un particolare indistinguibile. Spesso mi capita che persone che frequento poco le riconosco proprio dalla voce. Ci sono anche altri mille particolari: il modo di camminare, i capelli (con la speranza che ci vadano poco dal parrucchiere), il modo di vestire, di muoversi. Qualsiasi sfumatura che serva ad identificare una persona. Anche la macchina non posso guidare perché la mia vista è lenta, e lei troppo veloce, e c’è sempre quella zona d’ombra proprio al centro dell’occhio dove vedo le persone che attraversano la strada e per un attimo spariscono per poi

riapparire più avanti. Ciò a cui ho dovuto rinunciare a malincuore è l’uso della penna e soprattutto della matita: una cosa che non posso più fare è disegnare. Le cose scritte a mano sono illeggibili per me, ho bisogno del carattere stampato nitido e delineato, così il fuoco del mio occhio riesce a correre dietro alle lettere e a ricostruire le parole. I fumetti sono diventati un ricordo, sono troppo piccoli e troppo elaborati. Ma per questo mi è venuta incontro la tecnologia. Sono super attrezzata, con me ho sempre il mio computer, come una appendice, il telefono di ultima generazione che fa dà agenda, blocco notes, rubrica ecc. Chi alle riunioni mi dà della snob perché prendo appunti su computer non sa quanto lo invidio: con le sue cartelline, il blocco per gli appunti e le penne con cui fare piccoli decori ai bordi dei fogli durante le lunghe ore di riunione. Sono ipovedente e ho bisogno di più tempo e spesso tempo, nella nostra società, non ce n’è. Ma ho imparato a prendermelo questo tempo e ho imparato a guardare tutti quei piccoli particolari che agli altri sfuggono, perché hanno fretta. Particolari ai più futili, ma che a me riempiono la vita.

Il mio "caos calmo" Con l'apparecchio acustico vivo circondato da un mondo di suoni amplificati di Manuele Celotto La tecnologia ha cambiato il nostro modo di comunicare, specie negli ultimi 15 anni. Anche per me è stato così, ma per tutte altre ragioni. Fino ai 30 anni non ho avuto problemi di sorta poi, nel giro di cinque anni o poco più, tra una serie di otiti ed infiammazioni varie, ho perso oltre la metà dell’udito. Non ci si chiede di solito quanto sia importante comunicare bene, ed io non ero mai stato nemmeno sfiorato dal problema. Invece, ciò che mi è capitato ha cambiato la mia vita nel giro di poco tempo. Ami la musica e ti ritrovi ad aver difficoltà nel riconoscere le tue canzoni preferite. Dei film, se non sono sottotitolati, fai fatica a seguire la trama e a capire bene la storia.

L’elenco potrebbe continuare. Nel frattempo, visto che il problema si è aggravato, ho messo l’apparecchio acustico, ma questo, pur migliorando di molto la capacità di sentire, non può mai essere come il tuo udito e in certi casi, nemmeno la miglior tecnologia può aiutare. Il problema del riuscire a comunicare bene, per me si è un po’ ridotto, ma non si è risolto. All’inizio, quando il gruppo di amici iniziava ad essere numeroso ed il caos aumentava, finivo con l’estraniarmi perché perdevo il filo dei discorsi. Riuscivo a sentirmi a mio agio fin che eravamo in tre o quattro, poi le voci si accavallavano e nella confusione dei luoghi mi perdevo. Da quando porto l’ap-

parecchio infatti sento meglio le voci, ma sento meglio anche il resto. L’apparecchio amplifica tutto, ma non possiede la qualità naturale che ha l’udito, ovvero la capacità di selezionare e distinguere i suoni che ci circondano. Se prima facevo fatica a seguire perché le voci si perdevano nel caos, adesso mi ritrovo a sentire talmente tante cose che per riuscire a seguire chi parla mi ci vuole uno sforzo non da poco. Ho fatto un sacco di fatica ad accettare questo mio limite e ho finito spesso con l’escludermi e con il sentirmi a disagio. Il fatto di aver avere qualcuno di fronte che ti chiede più volte di ripetere finisce per essere seccante per le persone, così per non interrom-

pere finivo col capire a metà. E poi, fan tutti lo stesso errore: ripetono e partono a voce alta così la prima parte del discorso la sai a memoria e l’altra metà, visto che restano senza voce, non la capirai mai. Per assurdo, l’unico posto dove non avevo di questi problemi era la discoteca. C’è un tale casino che devi urlare sempre. Ciò che mi è capitato ha cambiato le mie abitudini non di poco. Sto di più per conto mio, quando guardo la tv scelgo programmi sottotitolati (dopo le 23 praticamente non c’è quasi nulla), cerco sempre situazioni in cui non siamo in più di tre o quattro persone per non finire tagliato fuori. Se do il numero del telefonino aggiungo: “Solo sms please!”. Per appuntamenti, informazioni o iscrizioni ogni volta devo recarmi di persona perché non posso fare le cose per telefono, oppure devo chiedere che qualcuno telefoni per me. Ciò che più mi manca è la musica, ma per contro ho recitato in alcuni spettacoli teatrali e ho frequentato con profitto la scuola. Unico aspetto positivo di questo coacervo di sfiga è che ho riscoperto il valore del silenzio. Ma avrei preferito farlo in un altro modo!!!!


QUANDO IL DISAGIO È RISORSA "Alla cooperativa Agorà ho imparato a capire gli altri e a sentirmi utile" di Giuseppe Micco

Ambiente Ogm si, Ogm no Questa estate il caso delle piantagioni di mais trasgenico in provincia ha riaperto il dibattito di Gino Dain e Elisa Cozzarini Tutto il mondo ha parlato di Vivaro e Fanna, durante questa strana estate pordenonese, un po’ geneticamente modificata anche lei. Si è acceso uno scontro tra chi è per l’introduzione delle colture Ogm e chi è contrario e la politica non ha saputo dare una chiara risposta. Così la confusione è aumentata.A luglio di sette anni fa, invece, la Regione Piemonte aveva disposto la distruzione di 381 ettari di campi di mais transgenico in provincia di Cuneo. In Friuli al momento in cui scriviamo, niente ancora si è mosso. La Procura di Pordenone ci ha messo un mese a dare una risposta che un normale laboratorio dà in sole 48 ore. Greenpeace, infatti, a fine luglio aveva già dimostrato scientificamente che Giorgio Fidenato aveva piantato mais Mon810, prodotto da Monsanto. Oggi la Procura ha stabilito un’ammenda di 25mila euro per l’agricoltore e la distruzione dei campi, per cui però si attende l’autorizzazione del Gip. Intanto l’incaricata della perizia, la dottoressa Serena Varotto, ha dichiarato che gli Ogm non pongono problemi per la salute umana e animale. Gli ambientalisti e l’associazione per l’agricoltura biologica (Aiab), però, fanno notare che Varotto è ricercatrice proprio del settore Ogm e dunque la sua opinione non è del tutto disinteressata. «Nella comunità scientifica internazionale è in corso una discussione molto animata sull’impatto degli Ogm sull’ambiente e sulla salute umana», affermano Aiab, Legambiente e Wwf, «cosa che ad oggi ci consente solo di concludere che non se ne sa abbastanza e quel poco che si sa lascia spazio alla preoccupazione».Intanto le norme ci sono ma, come accade in altri ambiti, non vengono rispettate. Insomma, chi ci assicura che le grandi aziende alimentari non usino già da tempo mais Ogm? Le multinazionali spingono ovviamente per un’accelerazione. Certo, ne hanno tutto l’interesse. Infatti, considerando solo l’aspetto economico, secondo un’inchiesta del giornalista statunitense Michael Pollan, raccolta nel libro “Il dilemma dell’onnivoro”, «gli Ogm non sono che l’ultimo capitolo di una vecchia storia: un agricoltore che vuole aumentare le rese adotta l’ultimo ritrovato del settore, ma poi si accorge che a profittare della maggiore produttività sono soprattutto le aziende che l’hanno venduto». Noi pensiamo che in questo momento, fortunatamente, il nostro paese non sia messo in ginocchio dalla carenza di cibo o acqua, quindi va da sé che coltivare Ogm sarebbe un di più, quasi una “forzatura vegetale”. Dato che non vi è alcuna certezza, al momento, e le piante si riproducono per via naturale, grazie al vento, gli insetti e gli uccelli, non ci sarebbe (non c’è) maniera di fermare questa catena, se non mettendo le piante sotto vetro. Ve lo immaginate un campo sotto una campana trasparente?

Mi chiamo Giuseppe e da circa due anni lavoro stabilmente alla cooperativa Agorà grazie ad una borsa lavoro erogatami dal Ser.t di Pordenone. Per problemi di salute mi sono visto costretto ad usufruirne in quanto le mie condizioni non mi permettono di svolgere una normale vita lavorativa. Io nello specifico mi occupo di assemblaggio leggero in un laboratorio della Agorà. Oltre a questo la cooperativa si occupa anche di altri settori tra i quali: manutenzione del verde, pulizie uffici, manufatti in plastica, cere aromatizzanti per legno. Il suo organico è composto da 13 soci lavoratori più 4 dipendenti, oltre a vari ragazzi in borsa lavoro. Il mio inserimento è capitato in un momento fortunato, poiché è coinciso con l’inizio di una collaborazione di lavoro tra la cooperativa e il Mosaico di Spilimbergo, azienda che si occupa di arredamenti murali interni con tessere di vari mate-

riali. Nel mio laboratorio ci occupiamo di campionature per fiere e mostre. È un lavoro abbastanza impegnativo ed importante. L’Agorà è presente nel nostro territorio dal 1998 e si vede impegnata in diverse attività mirate al prosieguo della missione di inserimento lavorativo di persone svantaggiate, diversamente abili e con problemi psicofisici e di dipendenza da sostanze varie. Il tutto seguito da servizi sociali e sanitari, comunali e del territorio che si occupano anche di persone con programmi di reinserimento lavorativo dal carcere. Il lavoro di cui si occupa è di facile esecuzione, come la preparazione di cestini plasticati, porta pinze per biancheria, il confezionamento di legno profumato per armadi e di resine in vasi di plastica. Questi lavori sono eseguiti dai soci lavoratori e dalle persone in borsa lavoro sotto la supervisione di responsabili di laboratorio. Questi ultimi

MONDO GIÒ

Riflessioni di un'estate Come è diverso il tempo delle vacanze per chi non ha la fortuna di essere Briatore di Giovanna Orefice L’estate, la tanto agognata estate, la stagione più attesa dell’anno: le giornate si allungano, il sole che scalda la pelle, che scalda anche l’anima, abiti più leggeri, sorrisi che si accendono nei volti della gente… vacanze sognate, giornate più spensierate, leggerezza nell’aria, leggerezza dell’essere e amori estivi, nati al chiaror della luna sotto l’ombrellone. Con il caldo, aumenta però il nervosismo, le liti si fanno più accese anche il vicino è meno paziente e tollerante, cani che abbaiano senza fine, gatte più innamorate. E le tanto sospirate vacanze?!? Non tutti vi possono andare, allora si opta

per la piscina cittadina almeno nei giorni più afosi o sulle rive del Noncello, come facevano un tempo i nostri nonni e bis nonni. Ci si dirige ai monti, il più vicino Piancavallo, a fare pic-nic all’ombra di un albero, al Lago di Barcis e via dicendo. La crisi ha modificato le abitudini. Già la crisi!!! Sempre questa crisi!!! Ma è dagli anni ’80 che sento parlare di crisi. Uffa… che noia e che barba, come avrebbe detto la Sandra Mondaini. Crisi di valori, crisi economica, crisi di qua e crisi di là. Alla fine, sono sempre gli stessi che ne risentono! Di certo Briatore non se ne preoccupa. A lui e a quelli


L'ANGOLO DELLA FRANCA

Essere giovani, per ringiovanire il mondo Il cambiamento è percorrere la strada del nuovo senza avere certezze davanti ai nostri occhi riescono a coinvolgere le persone che, nonostante le loro difficoltà, danno il loro fondamentale contributo all’economia della cooperativa. Le ditte appaltatrici dei lavori sono altamente soddisfatte del lavoro svolto a tal punto che inviano ordini anche nel periodo delle ferie. Penso che nel suo genere la cooperativa dia un grosso contributo a persone con problemi particolari che in altri contesti, anche vittime di pregiudizi non troverebbero alcuna collocazione lavorativa. Con un attento lavoro di gruppo riesce a seguire le persone con particolari attenzioni, con la continua supervisione giornaliera di responsabili del laboratorio. Per quanto mi riguarda ho fatto un’esperienza nuova, la condivisione del lavoro con i miei compagni mi ha aiutato a capire al-

tri tipi di disagio, mentali e fisici. Un’esperienza dalla quale ho ricevuto molto e alla quale credo di aver dato altrettanto. Grazie a questi ragazzi che mi hanno aiutato a capire quanto sia importante e piacevole mettere da parte il nostro io e dedicarsi agli altri senza pretendere nulla in cambio, se non il piacere di un sorriso pulito sul volto di chi è più in difficoltà di te. E grazie a LDP per avermi dato l’opportunità di scrivere sulla cooperativa sociale Agorà e di avere dato un po’ di giusta luce al suo lavoro che è molto importante nel mondo del disagio e che per questo merita un maggiore sostegno e interessamento in questo periodo particolare di crisi. Perché il disagio non sia considerato come un problema cronico, ma piuttosto una risorsa lavorativa e sociale.

come lui, annoiati e viziati, interessa soltanto la vita mondana, prendere il sole all’interno dello yatch più moderno e lussuoso, le serate al Bilionaire, club privè di Porto Cervo, le corse delle auto, ed ora il suo Falco, il piccolo Briatorino, con un nome così insolito! E noi comuni mortali e plebei, dobbiamo purtroppo pensare a cose più spicciole, come far quadrare il bilancio (ardua impresa), ringraziando il Governo, giudicato da molti “ladro”, e sognando tempi migliori. Così

ognuno è dentro ai propri problemi e le proprie preoccupazioni e spesso non vede l’altro, non si accorge della sofferenza altrui. La solitudine aumenta, a parte quella esistenziale così ci vuole molta forza e fede per affrontare tutto questo, per potersi alzare ogni giorno con gioia dal letto ed essere sereni nonostante tutto. Solo il bene può salvarci, il fare il bene e riceverlo, in un mondo così materialista, poco spirituale e lontano da dio. Un dio compassionevole e vero padre.

di Franca Merlo

In questa Italia, questa Europa che invecchia ed è governata da vecchi, si parla di un “ricambio generazionale” necessario per risolvere i gravi problemi che attanagliano il pianeta e ci fanno vivere in un mondo sempre più inquinato e violento. Basterebbe cambiare generazione nei ruoli direttivi, magari incrementare un po’ le “quote rosa” in parlamento, per rinnovarsi? E’ l’età di una persona a determinare la sua giovinezza, o essere giovani è un modo di pensare e di vivere? Penso a un vero “ricambio” come un ricominciare radicale, a partire dalle persone che ne capiscono l’urgenza e a partire dal pensiero: gettar via gli schemi che hanno guidato fin qui il nostro vivere e che si sono mostrati perdenti, sia a livello personale che sociale. Avventurarsi nel nuovo. Un nuovo che, proprio perché nuovo, è ancora sconosciuto, da inventare. E per questo spaventa. Voglio ricordare un uomo di circa 4 mila anni fa, che affrontò questo rischio. Un esempio vecchissimo per parlare del nuovo? Ma sì, la storia ha sempre in serbo per noi qualche perla di saggezza! Il biblico Abramo: ricco possidente e capo tribù, nord-est della Palestina, epoca delle grandi migrazioni del 2000-1800 a.C, quando interi popoli amorrei si sparsero per il Vicino Oriente e fondarono città e civiltà nuove. Si può supporre che la causa sia stata un aumento demografico, che ridusse le risorse a disposizione di ognuno; allora le persone più “giovani” migrarono verso altre terre, spazi dove vivere rico-

minciando da zero. Ma Abramo non ne aveva bisogno; perché partire? Egli sentì qualcosa dentro si sè, a cui non seppe o non volle sottrarsi. Una spinta al cambiamento, a saggiare se stesso in possibilità nuove. La interpretò come voce di Dio, gli credette, andò. Il libro della Genesi racconta: “Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò.” Ma, come… vuoi che parta e non mi dici dove andare? Sì Abramo: tu parti, ti si chiarirà strada facendo. Dovrai restare in ascolto di Dio -della storia- per tutta la vita. Il filosofo Levinàs riflette: Ulisse parte da Itaca e, dopo molte avventure, vi ritorna. Abramo invece compie un esodo: parte e non tornerà più indietro. Ciò che è lasciato è lasciato, si guarda avanti. Quest’uomo non è solo nel suo cammino, ha Dio con lui, forza creatrice di vita. Non troverà materialmente la meta (la troveranno i suoi discendenti) ma segnerà una strada, diventando capostipite di un popolo e modello fondante di tre religioni: ebraica, cristiana, islamica. In fondo, non è quello che i Ragazzi della Panchina stanno facendo? Lasciare gli stereotipi, percorrere la via dell’integrazione e della proposta è la strada che hanno incominciato a percorrere, senza avere davanti sicurezze materiali… passo dopo passo, anno dopo anno… mese dopo mese… Quante volte tutto sembrava lì lì per finire, e invece loro sono ancora qui, esempio per tutti. Tutti dovremmo trovare, ognuno a suo modo, la strada per vivere davvero in novità di vita: abbandonare i luoghi comuni, le modalità violente del proprio vivere, la convinzione sottile che immagine e denaro comprino tutto… e portare questo rinnovamento nella società. Per ringiovanire il mondo!


L'EVENTO

Cultura al passo con i tempi Oltre duemila nuovi tesserati e impennata di presenze e prestiti. La nuova biblioteca civica piace ai pordenonesi di Milena Bidinost

LA PRIMA VOLTA DI LDP IN BIBLIOTECA

E’ una piazza nel cuore della città, dove la parola “cultura” è “cultura a 360°”, multimediale, al passo con i tempi, ma soprattutto capace di contagiare tutte le età e

tutte le classi sociali della popolazione. In soli tre mesi di attività, la nuova biblioteca civica inaugurata a giugno dall’amministrazione del sindaco Sergio Bolzonello

Presentazione a luglio del nostro giornale nei nuovi locali di piazza XX Settembre. Il pittore Renzo Quaglia dona un quadro per una delle sale di Luca Marian Mercoledì 21 luglio 2010, ore 20.45, biblioteca comunale di Pordenone. L'occasione d'incontro è la serata in cui Ragazzi della Panchina sono invitati a presentare il sesto numero di Ldp, il giornale ufficiale dell’associazione, all’interno della splendida cornice rappresentata dalla nuova biblioteca civica di piazza XX Settembre. E' stato un piacere e un onore per il gruppo cogliere una così prestigiosa opportunità, suggellata alla fine della serata e a memoria dell’evento con il dono fatto alla stessa biblioteca di un’opera inedita dell’artista pordenonese Renzo Quaglia, attualmente esposta nei corridoi della struttura. Pittore autodidatta, con alle spalle un percorso di vita non facile, Quaglia proprio a giugno aveva esposto con la collaborazione dei Ragazzi della Panchina la sua prima personale, nella bastia del castello di Torre. Ebbene, la presentazione di Ldp in un contesto di cultura per eccellenza com’è la biblioteca civica cittadina, si è rivelata un’opportunità unica per il gruppo per presentarsi una volta di più alla città in un contesto nuovo, mantenendo pur sempre la propria natura di essere ponte tra realtà in apparenza inconciliabili. La dimostrazione di ciò, non è mancata nemmeno in seno alla serata in biblioteca. Nella storia dei Ragazzi, del resto, la rabbia di chi vive da anni la condizione della strada non è mai stata messa ai margini, ma sempre accolta e fatta propria, cioè com-presa, nel senso letterale di “preso con sé”. Così è avvenuto quindi anche nel corso di quel caldo mercoledì di luglio, quando il pubblico ha vissuto un breve ma di sicuro emblematico scontro di opinioni tra la visione di un frequentatore della sede da un lato e dal’altro il punto di vista di un rappresentate dell’istituzione che ci sostiene. Due facce di una comune realtà, per un’ occasione offerta senza calcolo né annuncio al numeroso pubblico presente di vivere in diretta ciò che quotidianamente il nostro gruppo fa, nella sede associativa di viale Grigoletti e sullo stesso territorio. Ovvero guidare il dialogo, per costruire insieme. Per i Ragazzi della Panchina d’altro canto l'improvvisazione è da sempre ciò che li rende un'entità dialogante diversa, dove ogni cosa prende corpo, dove non ci si esclude (o al più si entra in relazione per calcolo), ma dove la partecipazione è la stessa natura del contatto. La ricetta dei Ragazzi della Panchina è questo mix tra innovazione e continuità, la continuità nel cammino e nel dialogo con tutti, nella capacità di far convivere i vari livelli all'interno di una stessa tematica, tutto questo mettendosi in gioco, mantenendo un piede nello slancio e nel fluire a volte quasi inafferrabile degli eventi, e l'altro nel ricordo di sé. La loro storia non è fatta solo di un muro zeppo di locandine delle iniziative organizzate in questi 15 anni, ma anche di relazioni interrotte, continuate, sviluppate, generate e accolte. Tutto questo come un compasso che circoscrive il desiderio di intesserne delle nuove, con coraggio e curiosità che si rinnovano con un misterioso mescolarsi di volontà e spontaneità.

I numeri della biblioteca Nuova location, nuova struttura, nuovi servizi e nuovo format per una biblioteca che punta a fare il raddoppio su tutti i fronti rispetto al passato e ai numeri di Piazza della Motta. Partendo cioè da una frequentazione media di oltre 300 persone al giorno, da 39.000 pubblicazioni date in prestito mediamente in un anno e da un patrimonio in circolo di circa 85.000 volumi, riviste escluse, il potenziale espresso dalla nuova biblioteca di piazza XX Settembre è di uno sviluppo delle collezioni librarie in prospettiva futura fino ad almeno 160.000 volumi. Dal punto di vista degli spazi, oltre ad un angolo ristoro con servizio caffetteria, l’utente oggi può ascoltare della musica o leggere un romanzo; sfogliare una rivista o navigare in Internet (anche comodamente seduto nel suggestivo chiosco accedendo al sistema Wi-fi gratuito); fare un ricerca scolastica oppure frequentare un corso di scrittura creativa, ascoltare una conferenza, vedere una mostra. Oltre alla sezione ragazzi, altre new entry sono la musica e il fumetto. Senza contare l’aspetto della multimedialità che rappresenta il connotato più moderno

del servizio sul quale l’amministrazione comunale ha voluto puntare e il quale si concretizza in una carrellata di nuovi strumenti a disposizione dell’utente. Si va dal catalogo on-line alle banche dati, dall’e-book alla tecnologia di identificazione a radio frequenza (Rfid). La nuova sede della biblioteca civica è una delle prime in Italia ad essersi dotata di servizi multimediali in campo bibliotecario. Con sala internet, sezione musica, lettura convegni conferenze, sale di ritrovo, di silenzio e scrittura creativa, è una biblioteca moderna attenta alle necessità della nostra quotidianità che sa coniugare assieme benessere culturale e crescita individuale.


in piazza XX Settembre ha centrato l’obbiettivo: quadruplicati gli spazi, aumentata l’offerta per genere e per quantità, sono subito raddoppiati anche i risultati. Tant’è che, al di là del fascino che sempre esercitano le novità, il nuovo servizio ha tutta l’aria di volere continuare in questo modo. Ben 2.095 sono stati gli utenti che tra giugno e la prima metà di agosto si sono tesserati per la prima volta: nuovi rispetto al pacchetto di affezionati che la biblioteca si è portata dietro dalla storica sede di piazza della Motta. In totale le presenze sono state 41.244, i prestiti 9.712, tanti relativi alle sezioni di nuova istituzione ragazzi e musica (cd e dvd). “Un vero e proprio successo di presenze di persone di ogni età – riferisce la direttrice della biblioteca, Ofelia Tassan Caser – dai bambini di pochi mesi con le loro mamme, ai ragazzi, ai giovani, agli adulti e agli anziani. Non solo numeri più alti di tesseramenti e prestiti dunque, ma soprattutto un pubblico più eterogeneo rispetto a quello che frequentava la vecchia struttura”. E’ del resto un salto di qualità determinato gioco forza dalla dimensione multimediale del nuovo servizio e dall’arrivo di sezioni nuove, che si sono aggiunte a quelle storiche. “In piazza della Motta – spiega la direttrice – sia per la ristrettezza degli spazi sia per la tipologia del servizio i

nostri utenti erano per lo più studenti o studiosi di cultura e storia locale. Era una sorta di tempio del sapere chiuso, di vecchia concezione ed estremamente formale”. In piazza XX Settembre, invece, la posizione strategica dell’edificio e il tipo di ristrutturazione data allo stesso (con grande attenzioni agli ambienti, un servizio caffetteria aperto a tutti, un chiosco luogo di incontro e un parcheggio facilmente accessibile sul retro) la biblioteca è oggi occasione di incontro e di scambio prima ancora che di cultura in senso stretto. “L’ampliamento stesso dell’orario di apertura – fa notare la direttrice – passato dalle 28 ore settimanali alle 55 (58 in estate), senza interruzioni dalle 9 del mattino alle 19 di sera, ha modificato il concetto di biblioteca per il cittadino. Ancora di

più nei giovedì d’estate quando la chiusura avveniva addirittura alle 22”. Oggi succede così che all’ora di pranzo gli studenti escano di scuola, mangino qualcosa alla caffetteria della biblioteca e poi salgano ai piani a studiare, consultare internet, piuttosto che ascoltare e prendere in prestito musica o che si fermino a al chiosco per usare il servizio gratuito Wi-fi con il proprio pc. Allo stesso modo i genitori trascorrono il tempo con i loro figli nella sezione ragazzi, adulti ed anziani consultano giornali cartacei o on line di tutto il mondo. La biblioteca diventa oggi l’alternativa al bar e ristorante durante la pausa pranzo al lavoro; al museo o al teatro la sera potendo contare su una sala conferenze e su spazi espositivi. “Si è ampliato anche il bacino geografico dell’uten-

za – sottolinea la direttrice – che arriva numerosa da ogni parte della provincia, con una buona percentuale anche di immigrati”. C’è poi la multimedialità tra i principali punti di forza. In particolare la civica di Pordenone è tra le prime in Italia ad avere un servizio di gestione con tecnologia Rfid (vedi box a lato) basata su tessera magnetica e microchip elettronico, che consente all’utente di muoversi in autonomia all’interno di tutti i servizi. “La natura innovativa di questo sistema – dice la direttrice – e il suo carattere pionieristico in questi primi mesi ha richiesto al nostro personale un notevole sforzo, anche a fronte della grande richiesta di nuove tesseramenti. Ciò sta in effetti rallentando le registrazioni, ma ritengo che a breve entreremo in regime”.

Il palazzo. Fu convento, tribunale e scuola

L’archivio storico, dono del conte di Porcia

Come riporta Teresina Degan, storica locale recentemente scomparsa, nel suo “Un edificio nella città. Il convento dei Domenicani a Pordenone”, lo stabile che oggi ospita la nuova biblioteca civica fu costruito nel 1724, come convento dell’ordine dei Domenicani della Chiesa Del Rosario di Pordenone. Vent’anni dopo i frati furono costretti ad abbandonare la struttura, a seguito di un opera di generale riduzione dei conventi religiosi presenti sul territorio della Serenissima Repubblica. Nel 1771 il palazzo venne nuovamente destinato a luogo religioso, dato in mano alle monache Agostiniane. Il loro ordine, sempre stando alla ricostruzione della Degan, offrì ai pordenonesi un servizio culturale inferiore rispetto al passato, limitandosi alla formazione di ragazze destinate alla vocazione religiosa. Nel 1800 il convento venne definitivamente abbandonato: le truppe di Napoleone infatti se ne impadronirono adibendolo a proprio luogo di ricovero. Cinque anni dopo, un privato abbatté la grande chiesa ed il campanile per usufruire del materiale da costruzione. Nel 1815 furono degli austriaci ad impadronirsi dell’edificio, e anche in questo caso il palazzo fu adibito ad uso militare, trasformato in caserma in cui trovarono alloggio 1200 soldati e 300 cavalli. Dopo l’annessione all’Italia dell’ex Repubblica di Venezia, l’edificio venne finalmente restituito al Comune di Pordenone, che lo destinò prima a sede scolastica e, in seguito, a sede di giustizia. Fino ad arrivare agli anni più recenti quando fu nuovamente utilizzato per ospitare il liceo scientifico cittadino.

La biblioteca civica è nata nel 1935 al palazzo del Monte dei Pegni in piazza della Motta, grazie ad un lascito del conte Alfonso di Porcia e Brugnera, grande appassionato bibliofilo che alla sua morte (1932) donò al Comune 6500 tra manoscritti e libri di natura economica, storica e letteraria. Nato a Porcia nel 1869, il conte fu notaio in vari luoghi del Friuli e sindaco di Porcia dal 1899 al 1904. Fu un grande collezionista di geneologie, stampe, libri antichi e moderni, pergamene e carte geografiche. Alla sua morte, con proprio testamento lasciò al Comune di Pordenone una consistente parte della sua biblioteca privata, oltre alla somma di lire diecimila come punto di partenza per l’istituzione di una pubblica biblioteca. L’inventario e la collocazione del materiale donato li si deve ad Antonio De Pellegrini e a Luigi Pascutti. Tra i libri di pregio ricordiamo quelli degli Amaltei e Aleandro, di Leporeo, del Delminio, dei Flaminio, di Pietro Capretto, del Rorario, del Rosaccio, del Fortunio, l’importante raccolta di opuscoli del Calogerà. Questo originario e prestigioso lascito costituisce tutt’oggi il cuore di un patrimonio in continua crescita, cui è possibile accedere su richiesta. La biblioteca civica fino agli anni Settanta del secolo scorso venne frequentata da una ristretta cerchia di studiosi. Con l’avvento della rivoluzione industriale ci fu un progressivo cambio di mentalità, che finì per allargare l’interesse per le scritture anche alle nuove classi sociali. a cura di Giuseppe Micco



L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————

Ad ogni stagione... il suo lavoro di Milena Bidinost Per la raccolta dell’uva e delle mele in autunno; per quella delle barbatelle tra novembre e gennaio nella zona dei vivai di Rauscedo, così come per le ciliegie, le fragole e gli ortaggi in primavera. Tre stagioni che registrano un continuo turn over di nuove braccia, ovvero quelle che si prestano occasionalmente al lavoro dei campi. L’agricoltura in questo modo continua a sposare la fatica del corpo ai profumi e agli umori della terra, il lavoro del singolo al risultato di squadra e le tradizioni di una popolazione dalle origini contadine alle innovazioni del mondo industriale moderno. Lavorare in agricoltura può essere faticoso, ma è anche una buona opportunità di guadagno nei periodi di vacanza per molti studenti o di arrotondamento del bilancio familiare di fine mese per pensionati, casalinghe ed extracomunitari. Quest’anno, inoltre, i venti della crisi la rendono un occasione, seppur temporanea, di impiego anche per cassaintegrati e operai in mobilità. Il tutto grazie alla regolamentazione apportata nel 2008 dall’introduzione proprio a partire dalla agricoltura del sistema dei vaucher per il pagamento delle prestazioni occasionali di lavoro. Difficile quantificare la manodopera impiegata occasionalmente per il lavoro nei campi, più facile è fotografarne caratteristiche, motivazioni e opinioni come abbiamo cercato di fare nell’approfondimento che in questo numero di Ldp dedichiamo ai lavori stagionali in agricoltura. Un lavoro che non è un vero e proprio mercato, ma piuttosto una sfaccettatura del lavoro in agricoltura. Dal canto suo quest’ultimo resta un settore, come confermano alla Coldiretti di Pordenone, piuttosto stabile di anno in anno, soggetto al volere della meteorologia prima ancora che alla crisi del mercato. Per farsi un idea invece dei numeri del lavoro stagionale, è possibile utilizzare quelli relativi alla vendita dei vaucher, ovvero i buoni da 20 euro o 50 euro staccati dall’Inps e utilizzati dal datore per pagare le prestazioni occasionali dei

propri lavoratori stagionali, secondo quanto preventivamente con loro concordato. Da non dimenticare tuttavia che da sempre soprattutto i piccoli agricoltori anche nella nostra provincia ricorrono a parenti e conoscenti per la raccolta dell’uva o della frutta, aumentando così l’esercito di lavoratori che soprattutto in questa stagione inforcano stivale, cappello e ceste. Come riporta uno dei aggiornati portali internet dedicati all’agricoltura (www.conipiediperterra.com), a settembre di quest’anno il Friuli Venezia Giulia si è confermato al primo posto tra le regioni italiane per l’utilizzo del sistema dei vaucher come forma di pagamento del lavoro occasionale accessorio in agricoltura. Tale sistema è oggi entrato pienamente a regime e da prerogativa di studenti e pensionati, per quest’anno in via eccezionale è stato esteso anche a cassaintegrati e dipendenti in mobilità. Sempre secondo la stessa fonte, durante il mese di agosto i voucher venduti in Friuli Venezia Giulia in tutti i settori in cui ne è ammesso l’impiego sono stati 77.126, corrispondente al 15,9 per cento di quelli complessivi a livello nazionale: di questi poco più di 9.000 sono stati impiegati in agricoltura. Un risultato, questo, che colloca la nostra regione al primo posto tra le regioni italiane ed un record che rispetto all’agosto 2009 segna un incremento del 53%. Sul piano provinciale al primo posto si conferma la provincia di Udine con 53.966 voucher, seguita da Pordenone con 11.672, da Trieste con 8.151 e infine da Gorizia con 3.337 voucher venduti. Tra le diverse categorie di vendita dei voucher al primo posto troviamo i giovani studenti sotto i 25 anni, i pensionati, i percettori di sostegno al reddito con 25.424 voucher venduti. Al secondo posto i servizi con 21.624, seguiti dal comparto del commercio e turismo con 16.667; al quarto posto come anticipato si colloca l’agricoltura con 9.080 voucher seguita, a una certa distanza, dal lavoro domestico con 4.331 voucher venduti.


Dalla parte dell’agricoltore … ora che c'è la crisi ogni giorno c'è qualcuno che ci chiede di lavorare “Fino a qualche tempo fa si faceva fatica a trovare manodopera per il lavoro stagionale. Ora, con la crisi che c’è, è tutta una processione. Purtroppo mi vedo costretto a dire che i lavoratori più affidabili restano gli anziani pensionati”. Come riferisce il titolare Sergio Gelisi, all’azienda agricola a conduzione familiare Gelisi Antonio, noto produttore di vini in località Villotte di San Quirino, ogni giorno arriva qualcuno a suonare il campanello per “chiedere di lavorare”. “Mediamente una persona al giorno – dice Gelisi -. Alcuni sono extracomunitari, ma ci sono anche molti italiani e donne”. Per l’azienda di 23 ettari di podere coltivato a vigneti, il ricorso ai lavoratori stagionali resta tuttavia un evento contenuto nei numeri: qui vi lavorano infatti i cinque membri della famiglia Gelisi più due dipendenti assunti in pianta stabile. “Ricorriamo agli avventizi o a lavoratori pagati con la formula del vaucher – spiega il titolare – solamente in determinati periodi di maggior lavoro. In totale non superiamo i quattro o cinque lavoratori e per lo più per trovarli ci affidiamo alle conoscenze”. Lavori quindi a chiamata o della durata di qualche settimana, spalmati su una media di un ottantina di ore al mese di impegno per ciascuno lavoratore stagionale. “C’è il momento della potatura delle viti – spiega Gelisi – tra dicembre e marzo e quello estivo, da maggio a luglio. Il maggior bisogno ovviamente c’è a settembre, con

la raccolta dell’uva”. Ovviamente anche nel caso della vendemmia, l’automazione della produzione ha ridotto notevolmente il fabbisogno di manodopera: una metà di vendemmia si fa a mano, l’altra invece grazie ai macchinari. “Le persone che assumiamo per il stagionale – dice Gelisi – sono per lo più uomini e pensionati, il resto sono giovani di età inferiore ai quaranta. Come detto per esperienza noto che quanto a serietà e impegno sono da preferire gli anziani. Sono pensionati che per passione o anche per arrotondare un po’ vengono a lavorare qualche settimana. Spiace dirlo – insiste – ma anche nel pieno di un periodo di crisi occupazionale ed economica i giovani dimostrano spesso di avere poca voglia di fare bene. E’ giusto dire che lavorare in agricoltura e in stagione non fa diventare ricchi – conclude il titolare dell’azienda – ma per lo meno è un modo per arrotondare. Tanto più ora che con il sistema dei vaucher anche per noi datori diventa più facile assumere”. Vero è tuttavia che, da che esiste, l’agricoltura è terreno di fatica fisica, di orari precisi e da rispettare, nonché di lavoro di squadra. Lo sanno bene i titolari della Gelisi, famiglia di origini istriane che alle Villotte ha costruito il suo piccolo, ma rinomato Impero. La prima bottiglia con il marchio è stata imbottigliata nel 1987 e ad oggi, esportare in tutto il mondo si sta rivelando per questa azienda una strategia vincente contro la crisi.

Il lavoro stagionale, alla società cooperativa agricola Vitis Rauscedo di San Giorgio della Richinvelda dura otto mesi all’anno: da novembre ai primi di giugno dell’anno successivo. “Si comincia con l’attività di raccolta di quanto prodotto nella stagione precedente e si termina con la nuova piantagione – spiega Beppino Della Rossa -. Il picco massimo del lavoro e quindi la maggiore necessità di manodopera è tra dicembre e marzo, pausa natalizia esclusa”. Nata nel 1985, Vitis Rauscedo è una società cooperativa agricola costituita di 11 soci organizzati in diversi centri di produzione delle barbatelle, ovvero le piccole viti innescate, localizzate tra la zona di Rauscedo e il codroipese. Una realtà che ogni anno mobilita in questo periodo un vero e proprio esercito di lavoratori stagionali. “Sono circa un centinaio in totale le persone che all’anno vengono assunte regolarmente con contratto a tempo determinato dai nostri soci – prosegue Della Rossa -. Alcuni per tutto il periodo, altri solo nei mesi di punta”. Si tratta tra l’altro di numeri che, per colpa della crisi che ha colpito anche il settore del vivaismo viticolo, sono notevolmente scesi rispetto ad un paio di anni fa, quando il dato sfiorava anche le 130, 140 assunzioni annue. “Cala la domanda di manodopera da parte nostra – spiega Della Rossa – e aumenta per contro l’offerta di quest’ultima”. Ma chi sono i lavo-

…i nostri lavoratori sono tutti stranieri. Per lo più rumeni, si fermano da noi alcune stagioni e poi rientrano nel loro paese ratori stagionali alla Vitis Rauscedo? “Sono tutti straneri, per lo più rumeni – dice – gente che, forse per le proprie origini contadine, presenta grandi doti d adattabilità alle condizioni di lavoro della terra. Sono uomini e donne, dai 18 anni ai 40 circa, a cui i nostri soci mettono a disposizione anche l’alloggio, come prevede la legge. Restano da noi mediamente dai 3 ai 4 anni, il tempo per mettere da parte del denaro con cui rientrare in patria e costruirsi la casa”. In passato alla cooperativa a lavorare sono stati anche molti croati, albanesi e anche nord africani, oggi come detto ad andare per la maggiore sono i rumeni. “Per quanto riguarda i canali di selezione - prosegue – i nostri soci solitamente si affidano all’assunzione diretta. Tanto di questi tempi sono sempre più numerose le persone che vengono a chiedere lavoro. Spesso inoltre – aggiunge – si va avanti con il passaparola o con la segnalazione di amici e parenti da parte di quei lavoratori che magari decidono di non tornare più”. Sul fronte dell’inquadramento lavorativo, infine, come già detto si tratta di lavoratori a tempo determinato. “La natura e la durata del periodo di lavoro – conclude Della Rossa – unita anche all’età della manodopera non consente infatti in questo caso di ricorrere al sistema di pagamento dei vaucher”. Sistema che com’è noto è limitato a lavoratori con meno di 25 anni e studenti o a pensionati.


"E' un'esperienza che consiglio agli studenti"

"I vaucher? Alla faccia della semplificazione"

“Basta dire che gli stranieri ci rubano il lavoro”

Mi chiamo Elena, ho 24 anni, sono iscritta all’università e da più di un anno vivo da sola. Per mantenermi faccio la baby sitter e spesso anche altri lavoretti per “arrotondare lo stipendio”. Il primo approccio con il mondo del lavoro l’ho avuto qualche anno fa, finite le scuole superiori. Uscita dall’ambiente scolastico ho trovato davanti a me un mondo del tutto nuovo. Le prime esperienze sono state per lo più stagionali, della durata di qualche mese o comunque a tempo determinato. Ho iniziato lavorando in fabbrica, nel settore del legno e metalmeccanico e, da sei anni, quando arriva la fine dell'estate ho la fortuna di vivere un’esperienza lavorativa molto interessante, particolare e legata alle tradizioni del nostro paese e alla sua terra. Quando il sole è ancora caldo, mi sveglio presto la mattina, vado presso un’azienda del posto a conduzione familiare e insieme con un piccolo gruppo di persone mi dirigo nei vigneti confinanti e inizio quest’attività per alcuni aspetti faticosa ma ricca di soddisfazioni. Il gruppo di lavoro è formato per lo più da signori residenti nella zona che vivono questa occasione lavorativa come un momento di coesione sociale Come me ci sono anche alcuni ragazzi che cercano una retribuzione economica in questa attività. Per la mia esperienza ritengo che il lavoro stagionale sia un’ottima opportunità per gli studenti che vogliono guadagnare qualcosa nel periodo in cui non sono occupati con lo studio, anche se credo che non possa garantire una sicurezza economica, rendendo difficile i progetti a lungo termine. Secondo il mio parere, determina infatti il non avere una posizione all’interno della società ed un ruolo preciso. Di questi tempi, non soltanto gli studenti ricorrono a questo tipo di occupazione, ma ci sono molti signori che a causa della crisi hanno perso il loro posto fisso e molti stranieri. Per trovare un lavoro stagionale è utile rivolgersi direttamente nelle aziende, cercare attraverso internet, le agenzie interinali o semplicemente cercare fra gli annunci della città.

“E’ un esperienza che consiglio agli studenti universitari che in questo periodo non sono sotto esami. Più per l’aspetto umano che non per quello economico. A 6 euro all’ora infatti questo non può essere un lavoro che ti permette di vivere”. Stefano Costanzo ha 26 anni e una laurea triennale in tasca. Originario di Cordenons, da due anni sta andando in giro per il mondo a “fare esperienze”, di vita e di lavoro. Ad ottobre prenderà l’ennesimo aereo, destinazione Brasile. Nell’attesa, a settembre, ha deciso di sfruttare la sua permanenza a casa e si è dato per la prima volta alla vendemmia. “L’ho fatto per prendere qualche soldo – spiega – e per non stare con le mani in mano. Ho contattato alcune aziende dei dintorni, chiedendo se avevano bisogno di manodopera per la raccolta. Alla terza mi è andata bene”. Sessantacinque ore di lavoro in totale, alcuni giorni a tempo pieno, altri a part-time, per un numero finale di vaucher guadagnati pari a 26. “Un mese di lavoro – prosegue il giovane – finito il quale sono andato subito in posta per incassare il compenso. Lì ho scoperto che i tempi sono in realtà più lunghi perché c’è da aspettare che l’Inps registri la posizione. Dopo di che – aggiunge – essendo tanti i miei vaucher alla posta mi hanno detto anche che per incassarli avrei dovuto armarmi di pazienta, dato che per ognuno di essi c’è una procedura piuttosto lunga da effettuare. Alla faccia della tanto decantata semplificazione del sistema ", si lamenta quindi Stefano. Tagliare grappoli d’uva, raccoglierli, caricare e scaricare le cassette e a volte anche acconsentire ad una deviazione sul genere prestando le braccia alla raccolta di pomodori: nel complesso l’esperienza del 26 enne cordenonese è stata positiva. “Il lavoro in campagna è sicuramente faticoso - dice Stefano a bilancio di questa esperienza - e ammetto che nel nostro gruppo di lavoro a distinguersi sono stati i pensionati. Sono infaticabili ed efficienti, diversamte da molti giovani”. Arruolati dalla stessa azienda vitivinicola con Stefano c’erano una decina di persone, dai 17 ai 60 anni.

Sempre meno improvvisazione anche nel mondo delle raccolte stagionali. Non siamo più ai tempi in cui si andava a “mietere il grano e si raccoglieva l’amore” come cantava Louiselle, ora ci sono macchine sempre più efficienti che rendono meno indispensabile la mano dell’uomo. E’ così anche nella vendemmia. Come dice Mario, lavoratore stagionale di 64 anni. “A parte i piccoli vigneti in cui le cose sono cambiate poco, le aziende agricole si muniscono di macchine sempre più produttive che riducono il bisogno di manodopera. La vendemmiatrice automatica ad esempio, aspira gli acini d’uva direttamente dalla pianta eliminando così tutti i passaggi manuali. Nella potatura poi, bastano solo delle forbici elettriche alimentate da una batteria che si indossa come uno zaino, per fare il lavoro di molte persone: i rami vecchi sono legnosi e duri da tagliare ma con quelle è un attimo.” Anche tra le maestranze però c’è chi si organizza, tra gli stagionali di professione si stanno formando dei gruppi che fanno solo un tipo di lavoro: la potatura. “Sono delle squadre - continua Mario - che se necessario si attrezzano anche a proprie spese e si propongono poi alle aziende. In una cosa però le macchine ancora non sostituiscono l’uomo: nell’esperienza, nell’occhio di tagliare i rami giusti al punto giusto e senza rovinare la pianta”. L’esperienza viene riconosciuta a livello economico? “Che sia vendemmia o potatura io ho visto che comunque si viene pagati per quello che si vale – dice - ed è ora di finirla di dire che gli extra comunitari ci portano via il lavoro. Si, loro sono nei nostri campi, ma i nostri ragazzi dove sono? Sai cos’è invece? Che è cambiata la mentalità, nei giovani non c’è più la voglia di portare a casa uno stipendio, hanno comunque soldi in tasca il motorino la macchina e sono spalleggiati da famiglie compiacenti che gridano all’ingiustizia. Per capire la mentalità di adesso basta guardare nella spazzatura della gente, vedere cosa butta via e poi sentire come si lamenta”. Grazie Mario. Chiaro e conciso, a buon intenditor..

lavoratore

Dalla parte del


PIGIANDO L'UVA CON I PIEDI C'era una volta la vendemmia, una festa per grandi e piccini di Elisa Cozzarini A fine settembre tutto il paese si preparava alla grande festa della vendemmia. La casa dei miei bisnonni, e in seguito quella dei miei nonni, si riempiva di gente: uomini, donne, bambini, nessuno escluso. A Provesano, frazione di San Giorgio della Richinvelda, arrivavano anche i “milanesi”, i “francesi”, i “canadesi”, fratelli, zii e cugini emigrati che tornavano per le vacanze. “La sera si preparavano i tini nel sottoportico e la mattina si partiva caricando quello più piccolo sul carro trainato dai buoi. Si portava anche da mangiare e da bere per il pranzo al sacco, uno dei momenti più belli”, ricorda mia madre, che oggi ha 60 anni. Non c’erano ancora secchi di plastica, in quegli anni. I grappoli d’uva si sceglievano uno a uno, scartando gli acini non buoni, si raccoglievano a mano, con delle forbici e si mettevano nelle ceste, che poi si riversavano nel tino. Quando il piccolo tino sul carro era pieno, il nonno prendeva i buoi e portava a casa il carro, con il tino pieno d’uva appena raccolta e la riversava nei tini più grandi. Poi tornava nella vigna. “Cinquant’anni fa in paese quasi tutte le famiglie avevano almeno una piccola vigna per farsi il vino in casa - continua a raccontare mia

madre - tra parenti e amici ci si metteva d’accordo in modo da poter vendemmiare tutti assieme, un giorno in una vigna, un giorno in un’altra. Così il lavoro si faceva più velocemente e la sera era finito”. La vera festa per i bambini iniziava proprio la sera, quando entravano nei tini per pestare l’uva. L’ho fatto anch’io una volta: è un’emozione che non si dimentica, la sensazione dei chicchi che si rompono sotto i piedi, il succo d’uva che ti bagna la pelle e ti si appiccica addosso, mentre il profumo ti riempie le narici. Quando tutti gli acini si erano rotti, la festa era finita e i bambini uscivano dai tini. Su questi grandi recipienti in legno venivano messe delle coperte per favorire la fermentazione e tre, quattro giorni dopo, il mosto era pronto. I tini erano bucati nella parte inferiore, bastava togliere il tappo e il succo d’uva usciva da sotto, separandosi dalle vinacce, che invece servono per fare la grappa. “Il mosto si metteva nelle botti, senza aggiunta di prodotti chimici e a novembre, per San Martino, si faceva il primo travaso di vino novello - prosegue mia madre –. Il vino, senza l’uso di bisolfito, non poteva essere conservato a lungo. Ecco perché in primavera, se rimanevano ancora molte bottiglie, si metteva un ramo ben visibile fuori casa, la “frasca”, e la domenica chi voleva poteva fermarsi a bere o acquistare il vino in eccesso”. Poi anche nelle case sono arrivate le macchine per schiacciare l’uva, i secchi di plastica, i trattori, il bisolfito e la vendemmia è un po’ cambiata. Ma restava una festa, anche quando ero bambina io. A volte c’erano fino a venti persone e la raccolta si faceva ancora a mano, buttando via gli acini marci per il vino da fare in casa. Invece una parte dell’uva si portava in cantina sociale e per quella non si faceva una scelta dei grappoli. Lo sapevano anche i bambini. Io ero molto orgogliosa quando mio nonno mi caricava sul trattore, a cui era agganciato il carro pieno d’uva e assieme a qualcuno dei francesi mi portava a consegnare il raccolto alla cantina. La vigna era proprio dietro casa dei miei nonni, quindi non si portava il pranzo al sacco. Anche se c’erano venti persone, in qualche modo ci si arrangiava e si mangiava tutti in casa. Mia nonna aveva addirittura comprato un pentolone gigante per fare la pasta per tutti e una moka da 16 per il caffé. E poi la porta di casa restava sempre aperta, per chi voleva un bicchiere di vino.

IL VISIONARIO: Yhe italian job Per prestigiose formazioni politiche presenti nell’arco costituzionale la nostra sede di Roma seleziona ragazzi, ragazze e ambosessi per dopolavoro parlamentare. Il/la candidato/a ideale ha maturato precedenti esperienze documentabili nei ruoli di velina, tronista, meteorina, letterina, gieffino/a, ha al suo attivo una relazione almeno bisettimanale con un calciatore di serie A, ha o ha avuto accesso al privèe dell’Hollywood o del Billionaire. Costituirà titolo preferenziale la propria foto

su Chi, Dipiù, Novella 2000 o analoghe testate giornalistiche di scostume. La tipologia di lavoro è a chiamata sulle 24 ore, la sede di lavoro è Roma e, occasionalmente, la Sardegna. Si offre ambiente di lavoro stimolante, enormi possibilità di crescita e alti guadagni, incentivi non contemplati dal CCNL. Retribuzione commisurata all’esperienza. Durata del contratto: 5 anni rinnovabili. Allegare al cv foto e misure. Gradita, ma non indispensabile, la maggiore età.


violentare il loro fragile equilibrio peraltro già messo in discussione dai primi segnali di un turismo non sempre rispettoso ed eticamente corretto. Ci adoperiamo affinché la nostra esperienza sia di utilità e crescita per noi e allo stesso tempo per queste popolazioni. Per questo portiamo con noi dall’Italia medicinali, occhiali, lenti da vista e da sole e apparecchi acustici donati dall’Amplifon, che durante il nostro viaggio lasceremo in piccoli presidi medici o a persone che si occuperanno di gestire la consegna di questo materiale.

INVIATI NEL MONDO

Mongolia, nella terra delle renne La spedizione umanitaria di un gruppo di amici ospiti di un popolo fiero e generoso com'è la sua terra di Alessandra Bubulin In Mongolia c’è un popolo generoso e fiero, duro e delicato allo stesso tempo, che vive in armonia con la natura e le sue leggi. E’ una terra meravigliosamente sconfinata, dai cieli cangianti e da immense praterie di velluto dove l’orizzonte si allontana fino a sciogliersi in un mare di smeraldo punteggiato da minuscole gher di colore bianco, le tende tradizionali mongole. Calde, accoglienti e vivaci, racchiudono tutta la vita. Lì si mangia, si dorme, si nasce, si gioca, si prega, si passano le serate a bere tè e a giocare alla morra mongola mentre gli inverni infuriano con temperature rigidissime e i venti spazzano prati, cieli, pensieri. La vita segue il ritmo delle stagioni e così mentre nel breve periodo estivo svariate occupazioni tengono impegnati più o meno tutti i membri dei villaggi, con il sopraggiungere dei primi venti gelidi le comunità nomadi cadono in una sorta di letargo riducendo al minimo attività e consumi chiusi nel tepore delle loro calde gher. Assieme al mio gruppo, cerchiamo durante questo viaggio di passare accanto alle loro vite in punta di piedi con rispetto per le loro abitudini e le loro credenze. Con l' aiuto di Argonauti Explorers (associazione che promuove il turismo etico e solidale) ci muoviamo con il preciso intento di non invadere e

La capitale Ulan Bataar ci accoglie col suo caos di auto asfittiche che si fanno strada solo a gran colpi di clacson. Grandi palazzoni grigi che si ergono ai lati di larghe strade polverose richiamano alla memoria le antiche vestigia del regime sovietico. Ce ne allontaniamo presto e ci addentriamo in praterie sconfinate ed immense fra cieli e prati dai colori brillanti. Silenzio, gher, cavalli, mucche, pecore e nulla altro. La Mongolia del nostro immaginario comincia finalmente ad affacciarsi con tutta la sua maestosa quiete. Arriviamo a Moron, piccola cittadina dove organizziamo la “spedizione Tsataan”. Qui guidati e consigliati da Mejet, la nostra guida, acquistiamo cibo e materiali per noi e generi di prima necessità da regalare agli Tsataan. Raggiungere i luoghi dove vive questa etnia non è semplice. Servono 15 ore di auto per giungere a Tsaganuur, attraverso piste impervie, spesso difficili da individuare, infangate e melmose oppure costellate da enormi voragini. Da Tsaganuur non è più possibile proseguire in auto, ci si deve per forza servire dei cavalli e attraverso praterie, foreste e passi di montagna giungere in una valle incastonata tra le colline dove in un contesto incontaminato ed intatto vive la comunità Tsataan. A Tsaganuur sembra di stare in un angolo di paradiso, un grande lago abbraccia il villaggio in un via vai continuo di bimbi e donne che con recipienti di tutti i tipi si recano a rifornirsi d’acqua attenti a che durante il tragitto non ne vada versata nemmeno una goccia. L’indomani ripartiamo e piano a piano cominciamo ad inoltrarci nella foresta lungo un sentiero impervio. Il canto dolce e melodioso dei ragazzi mongoli mi distrae dalla fatica e culla la mia stanchezza. Dopo un giorno di viaggio scorgiamo da lontano gli accampamenti Tsataan, piccoli triangoli nella valle, non le gher circolari mongole ma le tende stile “tee-pee”, molto simili alle tende dei nativi d’America. Il nostro sopraggiungere risveglia la valle e la sua quiete. Accettano i nostri doni con la dignità tipica di chi non ha pregiudizio, con un sorriso. Gironzoliamo tra le tende, tra bimbi che giocano succhiando latte di renna da improbabili biberon e donne occupate in mille faccende. Le renne qui rappresentano la vita e le giornate di tutti ruotano attorno ai loro ritmi. Fa davvero freddo quassù, tra qualche settimana comincerà a nevicare, e gli Tsataan smonteranno gli accampamenti e scenderanno un poco più a valle dove le renne potranno trovare i licheni di cui potersi cibare per poi risalire qui a primavera. Questa è la loro vita, su e giù per le valli con le renne al seguito e i pochi oggetti necessari avvolti nei teli delle tende.

Nel nostro viaggio di ritorno dalla spedizione incontriamo nuovamente Tsaganuur, quindi Moron, fino alla valle a sud di Olgy, costellata da numerose gher dell’etnia Kazaka. Qui in molti non parlano e non capiscono il mongolo e quando d’inverno la neve copre le praterie, viene praticata la caccia con le aquile. Questa etnia, proveniente dal vicino Kazakistan, è perfettamente inserita nel tessuto sociale mongolo, con il sostegno dello stesso governo. Hanno tratti somatici diversi e vivono di allevamento, per questo queste terre sono disseminate di animali. Una volta ripresa la strada verso la capitale la nostra avventura Mongola si conclude a poca distanza dalla stessa, di sera, a cantare e a giocare alla morra e sorseggiando Ayrag (il latte di cavalla fermentato, leggermente alcolico) nell’ultimo campo di gher che ci ha voluti ospiti. Prché in Mongolia il viaggiatore è sempre il benvenuto.


IL RICORDO

ADDIO FELIX, LEADER GENTILE È morto da solo a 27 anni. vinto dal suo disagio di Andrea Picco Succede che un giorno tre ragazzi che vivono in strada vengono fermati da una pattuglia: succede che è l’ennesima volta. Succede che qualcuno pensa sia successo troppe volte e che basta, foglio di via da Pordenone. Succede che, dopo, uno dei tre si salva la vita tornando al paese suo, gli altri due se la tolgono. Questa è la cronaca e un giornale che si rispetti la deve ricordare: ai lettori le considerazioni. A me interessa la

storia, invece, quella che nessun giornale ha tempo di scrivere, la storia di uno di quei due, la storia di Felix e dei suoi occhi scaltri, cappellino sempre in testa e il fedele Skip al suo fianco, uno che chiedeva: “Scusa, posso fare una doccia? Scusa, posso prendere un po’ di torta? Scusa, posso…” Per me Felix era un piccolo Gigi Dal Bon, e ho detto tutto. Intendo con ciò che aveva, sia pure nascoste sotto enormi strati di casini, proba-

Ciao Felice ovunque tu sia in questo triste momento per noi tutti spero che almeno tu stia bene, che finalmente sei riuscito a trovare un po’ di pace e serenità che ti è mancata in questa infelice esistenza. Ti ricorderò sempre come un mio compagno di battaglie, tu che come me amavi la vita libera, l’anarchia, l’anticonformismo senza nessun compromesso. Senza dire sempre di sì perché qualcuno da più in alto ce lo imponeva. Mi ricordo come fosse ieri il tuo invito di qualche giorno fa, per andare insieme a vedere il grande Iguana Pop e gli Stooges, tu che come me amavi i Punk. Già da quell’invito avrei dovuto quanto meno sentire il tuo grido di aiuto invece sono rimasto insensibile a tale tua richiesta che probabilmente voleva servire soltanto come un po’ di compagnia ed amicizia, evadere qualche ora con un amico. Questo è un rimorso che mi porterò dietro tutta la vita, per non aver intuito da subito il tuo disperato grido di aiuto. Mi sento in obbligo di chiamare in causa le istituzioni, i servizi sociali e la città stessa di Pordenone, perché comunque tutti conoscevamo Felice. Com’è possibile che un ragazzo di nemmeno 28 anni si tolga la vita nella ricca ed annoiata città di Pn? Io in primis mi chiamo in causa, avremo potuto, anzi, dovuto fare di più ma è ormai troppo tardi. Grazie Felix ovunque tu sia per la grande umanità e sensibilità che ci hai dato senza voler ricevere nulla in cambio: di questi tempi è una rarità. Rimarrai per sempre nei nostri cuori e spero un giorno di rivederti come ti ho sempre ricordato. Ne avremo delle belle da ricordare. Ciao Amico mio.

Amico mio ti ricordiamo così

Davide

Io non lo conoscevo molto bene, ma quelle volte che lo vedevo mi ricordava un cucciolo. I cuccioli con quegli occhi teneri che ti viene voglia di stringerli e dargli tutta la forza che hai per poterlo aiutare. Quegli occhi che ancora adesso me li vedo davanti, teneri, talmente teneri che non so come esprimere ciò che mi scaturiva dentro. Una persona che sai che vive nella merda ma che non la merita. Non voglio essere ipocrita, ma quei due occhi mi sono rimasti dentro, mai più incontrerò una persona così che senza aprir bocca ti esprime qualcosa di ciò che ha wdentro. Mai avrei creduto di scrivere queste cose per lui, lui che ha vissuto 10 anni per strada senza chiedere niente a nessuno, abbandonato, e io mi chiedo, potevo fare qualcosa? Adesso lo vorrei fare, per vederlo ancora qui tra noi, ma dicono che Dio si prende le persone migliori e credo che per questo ci ha tolto proprio lui. Ma è una magra consolazione per tutti. Noi lo vorremmo qua in mezzo a noi, ci manca tanto ed io che poco lo conoscevo penso di aver perso un persona grande, grande, con un cuore che era troppo grande per restare in questo mondo di merda. Mara

Le uniche cose che posso dire è che Felix mi manca come manca a molte persone. Tante volte ci siamo azzannati, ma per lo più abbiamo pianto cercando di confortarci a vicenda. Beh! Io non ci sono riuscita, aveva troppi dolori dentro che sono difficili da superare, ma io lo voglio ricordare mentre arriva fuori dal Sert insieme al suo adorato Skip e mi sorride con la sua dolcezza. Forse non ho il diritto d scrivere questo, non ero più la sua ragazza però gli ho voluto e gli vorrò sempre un bene infinito e mai provato per nessun altro. Un’amicizia profonda che solo io e lui abbiamo conosciuto, ma avrei molto da dire per capire il perché di tante cose. Lui ha sofferto tanto nella vita, è stato sfortunato e non credeva più nella possibilità di cambiare. Anche se avrebbe avuto le capacità ed il cuore per fare mille cose, ma lui ha deciso diversamente di lasciarci, di lasciare questo mondo che secondo lui gli aveva voltato le spalle da tempo. Comunque, anche se non c’è più fisicamente, ha lasciato qualcosa di stupendo nel cuore delle persone che hanno creduto in lui e che senza pregiudizi gli hanno voluto bene. Lui è stato per me un persona speciale a modo suo, e voglio ricordarlo però così con un sorriso sulle labbra, e con le lacrime nel cuore. Per te Felix,. Ti voglio bene. Saretta


bilmente in qualche anfratto dello zaino che conteneva la sua vita, quelle qualità innate che concorrono a dotare una persona di carisma. Era un leader silenzioso, uno che non amava prendersi la scena, ma la nuova generazione della piazza lo rispettava e gli riconosceva quel ruolo di primo piano che spetta ai leader naturali. Era, anche, uno che si interessava delle faccende del mondo, uno che credeva che un altro mondo fosse possibile, e che si prodigava per gli altri con una solidarietà vera, non di facciata. Uno insofferente all’ordine e alle sue forze, uno che non tollerava l’ingiustizia,

il sopruso, l’abuso di potere. Uno che mentre dormiva nel cesso della Burida è venuto alla presentazione di LdP a Pordenonelegge, perché ci teneva ad esserci. Uno intelligente, e orgoglioso. Uno che la sua vita non ce la faceva proprio a prenderla in mano, troppo vorticosa, gli scappava tra le dita. Uno che a un certo punto non ce l’ha fatta più a sentirsi così, rifiutato. Uno che quando stava per andarsene in Toscana per cambiare aria per un po’ mi ha telefonato per dirmi: “Scusa se ti disturbo, ma son passato in sede e non c’eri: ti ho chiamato perché prima di andar via volevo salutarti”.

MI PRENDO UN POMERIGGIO "LIBERO" Riproponiamo uno scritto di Felice Zuardi pubblicato nella rubrica che lui teneva su LDP Ci sono certe persone al mondo che non dovrebbero nemmeno esistere. Io non sono nessuno per giudicare, solo una persona al di sopra di noi può giudicare in qualunque credo. C’è qualcuno che ci osserva e ci protegge, questa persona è Dio. Lui ha voluto che un nostro fratello seguisse la strada per raggiungerlo e tenerlo con sé. Forse perché in questo mondo le persone si accorgono troppo tardi se le cose non vanno bene: famiglia, parenti, amici… Spero che questo angelo sia in un mondo migliore di questo schifoso mondo terreno, materialista ed infame. Comunque

ripeto, non sta a me giudicare, dovremmo tutti prendere 5 minuti e ricordare le persone come Felix e altre che come lui se ne sono andate stanche di questa vita. Anche io sono un ragazzo con tanti problemi e non rinnego che anche io ho pensato di farla finita, ma non è così che bisogna fare, bisogna a volte stringere i denti ed andare avanti. Amico mio, sei spesso nelle mie piccole preghiere e non ti dimenticherò mai. Hai lasciato un gran vuoto che mai nessuno potrà colmare. Ti voglio bene e ti ricorderò per sempre. Mauro

Felix te ne sei andato senza salutarci. Bhè, qualche segno premonitore che non stiamo stati capaci di interpretare vi è stato. Però, chi di dovere lo sapeva benissimo. Anche perché non siamo a Milano o un posto simile: siamo quattro sfigati cacciati da tutti, dai bar e dai vari ritrovi pubblici, come se il più grave motivo dei problemi di Pordenone fossimo noi che beviamo una birra in compagnia. Hanno creato un clima di mobbing sociale nei nostri confronti da far dimenticare ai cittadini i reali problemi della città. Un esempio. Come mai tutti questi cantieri aperti e per creare cosa poi, parcheggi? Sono così urgenti? O conviene ai soliti politicanti?Però quando chiedevi aiuto non vi erano fondi, tant’è che il regolamento di aiuto sociale per i disadattati è fermo al 1981. I loro stipendi però si adeguano tempestivamente al tenore di vita vigente. Caro Felix te lo ripeto ancora, Pordenone non è un’isola felice, è un sepolcro imbiancato e dietro vi è tanto di quel marcio che lo suppliscono con le varie pseudo manifestazioni pro-loco o meglio pro-domus loro. Certo che vi è un certezza. Quattro suicidi in due mesi non sono una questione tollerabile quindi non sempre il numero maggiore ha ragione. Che magari ci sia qualcuno che si pone qualche domanda a riguardo? Io penso di no, tanto siamo e rimarremo come sempre di serie “B”. Non aggiungo altro con il cuore bianco anche se sono pieno di rabbia, non eri il solo a fare quel percorso, vi è altra gente, ma in una Pordenone per salvare la facciata è più importante fare una manifestazione aerea in Comina da 250 mila euro che aiutare anche con un panino chi ha fame. Tanto ci pensano i preti. I fondi a noi destinati dove sono? A chiosa di tutto questo vorrei far rilevare a te e a chi sta soffrendo per strada che purtroppo bisogna scendere a compromessi; bisogna istituzionalizzarsi cosa che a te proprio non andava, anche perché avevi intuito che con la scusa di un aiuto vi era sotto un ricatto: “do ut des”. Questo comprende anche la confidenza con le forze dell’ordine del comune e del Sert. Ti risaluto, se ci rincontreremo ci faremo una birretta. Con affetto Zio Franco

San Giovanni di Casarsa, via Mantegna, zona Pep, bronx: mia attuale dimora. Dall'inizio degli anni Novanta questi blocchi di case colorati venivano assegnati a meridionali, soprattutto a militari con famiglia in servizio in zone vicine. Da figlio di un militare, ho abitato in questa zona da quando avevo 5 anni fino circa ai 9, fino allo sfratto dovuto all'arrivo nel paese degli americani della vicina base di Aviano. In quegli anni è bastato dare una “sistematina” al posto per far lievitare gli affitti e da zona "franca" si è passati a zona residenziale. È durato il tempo che gli americani andassero via ed è tornato tutto come prima. Ora sono tornato ad abitare qui. Gli affitti sono bassi, le case vecchie e umide. Quando piove, secchi un po’ ovunque. L'unica differenza è che invece di soli meridionali adesso la zona è abitata da ghanesi, senegalesi, indiani, rumeni e naturalmente da me e un'altra famiglia napoletana. Vi voglio parlare del mio pomeriggio trascorso sul gradino appena fuori il cancello di casa che mi divide dalla libertà in compagnia di una decina di bambini dai 6 agli 11 anni, figli di extracomunitari di varie religioni che guardavano l'Italia come un paese sicuro per il loro futuro. Bambini, ragazzini che frequentano le scuole italiane, che giocano a calcio con le squadre del paese. È iniziato tutto per caso. Pomeriggio di sole, loro che giocano a calcio nel giardino di fronte, io che con la mia birra Union, Skip Maggy e i sei cuccioli nati da un mese, decido di sedermi sul gradino. Guardando un po’ i cuccioli un po’ i bambini mi sento meno solo, apprezzo quella libertà che ho deciso di prendermi, fregandomene di essere ai limiti di ciò che mi è stato imposto. D'altra parte, cosa sto facendo di male? Davanti a me i cuccioli iniziano a scoprire il prato, giocano tranquilli. Richiamano l'attenzione dei bambini che in un attimo al grido di "guarda che belli" si fiondano da me chiedendomi di poterli accarezzare. Sono tutti lì distesi di fronte a me a giocare e fare domande su quando sono nati, chi è il padre, quanto sarebbero cresciuti,che nome gli avrei dato. Dopo un po’ di tempo i cuccioli, chi tra le braccia di uno chi in braccio a qualcun altro, si addormentano e mi trovo seduto per terra circondato da una decina di bambini a spiegare loro qualsiasi cosa, dai più piccoli che mi chiedono come funziona quando una cagna partorisce a quelli più grandi che mi domandano come mai porto dei dilatatori alle orecchie o cosa vogliano dire le scritte tatuate sul mio braccio.. Scopro che molti di loro sono nati in Sicilia da genitori sbarcati a Lampedusa, alcuni in Ghana, altri sono stati bocciati perchè non parlano bene l'italiano. Siamo andati avanti per ore, abbiamo bevuto succo di frutta insieme e poi sono dovuti venire i genitori a chiamarli perchè non volevano più andare via. Un pomeriggio fantastico! La soddisfazione più grande per me è stata quando i genitori, gli stessi che vedono tutti i giorni i carabinieri venirmi a fare visita, mi hanno ringraziato per aver avuto la pazienza di stare lì con i loro figli. Sono io che ringrazio loro e i loro figli per non avermi giudicato, per non aver avuto paura di me, per avermi fatto vivere un pomeriggio libero.


PANKAKULTURA

Giacobazzi, il comico senza vizi A Pordenone con il suo "Una vita da pavura" ha svelato il segreto dei suoi amletici sandali alla nostra redazione di Guerrino Faggiani È partita dalle battute al bar con gli amici l’ascesa alla notorietà di Andrea Sasdelli, in arte Giuseppe Giacobazzi, lo sburone romagnolo di Zelig e quant’altro, a Pordenone lo scorso 8 giugno con il suo “Una vita da pavura”. Nato a Cervia l’11 novembre del 1963, vive come nei suoi monologhi. Ha qualcuno che l’aiuta con i testi? No per ora è tutta farina del mio sacco, finché ho l’ispirazione vado avanti. Se un giorno finirà non so cosa farò. Magari smetto. Da quant’è che attinge da questa ispirazione? Sono esattamente 8 anni da professionista più 10 part time. Ho cominciato facendo radio, io e mio zio conducevamo un programma notturno, e lì al telefono ho conosciuto migliaia di persone. A loro piaceva, a me pure, così sono andato avanti. il debutto sulle scene è avvenuto nel ‘93 con il tele Costipanzo Show una parodia del Tele Costanzo Show, inventato da Duilio Pistocchi (il comico cabarettista in arte Maurizio Pagliari n.dr): è stato lui a trascinarmi sul palco. Interpretavo un poeta contadino, poi nel tempo mi sono evoluto nel personaggio di oggi. La sua popolarità ormai è nazionale, il successo cambia la vita? Si concede qualche vizio in più? Potrebbe cambiarla, di sicuro cambiano il lato economico e la notorietà. Ma ciò che non voglio cambiare sono le mie abitudini. Ho messo dei paletti nella mia professione, faccio solo un certo numero di serate, perché voglio godermi il momento che sto vivendo, con la mia famiglia e gli amici come ho

sempre fatto. È innegabile che prima o poi il nostro mestiere abbia una parabola discendente e se ci arrivi che non ti sei goduto quello che hai fatto cosa lo hai fatto a fare?! Per quanto riguarda il resto non penso di aver preso brutti vizi, bevo con moderazione, fumo.. cerco di smettere di fumare, con moderazione anche quello perché mi piace fumare. Insomma cerco di stare quanto più possibile con i piedi per terra. Lei sta sul palco come fosse tra la gente? Il rapporto con il pubblico per me è fondamentale e va oltre lo spettacolo, non sono uno che arriva all’ultimo minuto e se ne va dalla porta di servizio, se la gente parla io sto ad ascoltare, sono loro che mi fanno andare sul palco, senza di loro io non sarei nessuno e questo ce l’ho ben chiaro in testa. Se lo chiedono in tanti il perché dei suoi amletici sandali. Fanno parte del personaggio? Non è un’esigenza, è un feticcio. Li ho trovati in cantina. Sono quindici anni che mi seguono, aggiustati e riaggiustati, il calzolaio come mi vede cede alla disperazione. In realtà non so perché li porto, ma inconsapevolmente sento che mi appartengono. Erano di mio padre, anche se ha sempre negato fossero suoi, abbiamo la stessa misura, quindi è un po’ un ricordo che porto con me. Grazie allora ad Andrea Sasdelli ovvero Giuseppe Giacobazzi per la sua disponibilità.

RUBRICA LIBRI

Canale Mussolini, Strega 2010 recensione di Andrea Russo Per tre quarti romanzo e per il quarto restante saggio sulle condizioni di vita dei contadini cispadani trapiantati nell’Agro Pontino durante gli anni della bonifica fascista (in certe pagine forse più interessante per questa seconda componente), Canale Mussolini, di Antonio Pennacchi edito da Mondadori, narra una vera e propria epopea, quella della famiglia Peruzzi, attraverso le tre generazioni (nonno e nonna Peruzzi, i loro diciassette figli e le miriadi di nipoti) che coprono la prima metà del secolo scorso. Con l’orgoglio di chi (nella finzione del romanzo) racconta una storia vissuta in prima persona e con il piglio sfrontato e disin-

cantato che riconosceremo tipico di tutti i membri della Gens Peruzza, veniamo condotti dall’immaginario io narrante (uno dei nipoti di terza generazione), lungo la direttrice che dal delta del Po arriva al podere 517 sulla riva sinistra del Canale Mussolini, simbolo e perno di tutta la bonifica delle paludi pontine. Le grandi e drammatiche vicende del nostro paese si intrecciano con le piccole storie di questi braccianti della bassa padana: tra una semina ed una mungitura, ai Peruzzi resterà il tempo per giocare un ruolo di primo piano -quasi da Oscar come non-protagonisti- nella nascente dittatura mussoliniana (tramite

l’amicizia con un gerarca del calibro di Edmondo Rossoni ed una certa strana simpatia del Duce in persona per nonna Peruzzi), nonché nei due conflitti mondiali e nelle sciagurate imprese coloniali italiane. I Peruzzi sono teste quadrate, impegnati con tutte le forze nel proprio lavoro quotidiano, lavorare la terra ed accudire le bestie: tutto quello che capita loro li sovrasta e li scuote, come fa il manto nero che la nonna vede in sogno ogni qualvolta si avvicina una disgrazia familiare, ma mai li travolge. In forza del loro atavico – e alle volte crudamente spietato - spirito contadino, mentre si passano la mano tra generazioni, pur duramente colpiti dai casi della vita, i Peruzzi sanno che tutte le stagioni vanno e ritornano sempre. Sanno che le tempeste lasciano il campo al sole più chiaro, finché un altro assembramento lontano di nuvole minacciose annuncia la prossima buriana (e “maladèti i Zorzi-Vila!”). Se riuscirete a giungere alla fine di questo libro denso e pieno d’amore per la terra e

la gente della bonifica, vi resterà l’impressione di aver incrociata e scoperta anche una parte della vostra stessa storia che, seppure poco raccontata, ancora potete leggere nel volto e negli atti dei vostri vecchi, mentre curano le piante del giardino o mentre giocano a briscola sui tavoli di sempre, nei baretti di queste parti.


QUANDO A VOLARE SIAMO NOI Uscita di gruppo nei cieli di Pordenone per una delegazione di LDP ospite dell'Aereo Club Pordenone di Ennio Rajer Pur non essendo un esperto, sono sempre stato affascinato dal volo, fin da bambino, quando mi “innamoravo” dei modellini che riproducevano le strutture e le forme degli aerei più famosi in dotazione all’Aereonautica delle varie Nazioni, America e Russia in testa. Chi avrebbe immaginato che, dopo un paio di esperienze come passeggero su un DC9 e un Super 80 (Alitalia), il 4 settembre 2010, con un preavviso di soli due giorni, mi sarei ritrovato a bordo di un biposto (doppi comandi) accanto al pilota in un Pioneer P200? Bello, bianco, con l’elica sul muso (motore 4 cilindri 1300 CC. da 80 CV) ed io legato al seggiolino con la closce tra le gambe, la pedaliera davanti ai piedi, e tutti i comandi disponibili a portata di mano. Chi avrebbe immaginato che quello stesso giorno quello stesso pilota (Giuseppe, figlio di un’altro pilota, Stefano Turchet, socio fondatore dell’Aereo club Pordenone ), mi avrebbe invitato, mentre eravamo già in volo, a pilotare la “macchina”? Ci eravamo distanziati dagli altri quattro della “squadriglia” e avrei dovuto virare per “tagliare la strada” e raggiungerli per accodarci: eravamo decollati per ultimi, eravamo rimasti appena un po’ staccati, e, in volo, si sta presto a perdere di vista i propri compagni. L’altimetro segnava all’incirca 600 piedi (feet), pari a 180 metri

d’altezza. A quella quota, si possono riconoscere le autostrade, le grosse fabbriche, i campi coltivati, e tutto ciò che ha una certa dimensione; il resto è tutto una confusione di stradine, agglomerati di case, automobili e persone come formichine. Per virare di poco è possibile utilizzare la pedaliera, ma nel nostro caso dovevamo correggere la rotta di un bel po’, pertanto si doveva spostare la leva. Supponendo di sterzare a destra, nella stessa direzione, l’aereo si “intraversa” o meglio, si piega lungo il suo asse alzando l’ala sinistra ed abbassando quella destra, quando viene raggiunta la giusta inclinazione, si deve tirare la leva all’indietro, in questo modo l’aeromobile effettua una decisa virata verso destra, quando si raggiunge la direzione voluta si deve ripristinare l’aereo in volo diritto, sempre agendo sulla stessa leva. Non volevo inclinare l’aereo troppo, avevo paura di mettere in difficoltà il giovane pilota, sebbene egli fosse già esperto. Giuseppe mi spiegava tutto attraverso la radio: a bordo si indossano cuffie microfonate per parlarsi all’interno del velivolo o per mettersi in contatto con la torre di controllo e gli altri piloti. Già in fase di rullaggio, prima del decollo il mio pilota mi aveva spiegato le operazioni da effettuare prima e dopo i momenti più delicati (decollo ed atterraggio), come l’accensione della pompa elettrica del carburante, che potrebbe risultare necessaria in caso di rottura della pompa meccanica, l’ uso dei Flaps (parti mobili dell’ala che si possono regolare in tre posizioni per variare l’incidenza dell’aria sulle ali), per sfruttarne sia l’aumento della portanza che l’effetto frenante sul velivolo, agevolando le sopracitate manovre. Ovviamente non si vola mai a casaccio, esiste il breafing, e noi l’abbiamo effettuato poco prima del decollo assieme al nostro ospite di casa, lo stesso Stefano Turchet, davanti ad una grande cartina geografica, per stabilire dove andare e che rotta seguire. L’autonomia dei mezzi era di 4 ore di volo, pari a 600/700 Km. di percorrenza, più che sufficiente dunque per il nostro giro di una mezzora circa. Oltre ai piloti, tutti esperti e rassicuranti, c’erano i miei compagni d’avventura e di redazione: la coraggiosa Milena Bidinost, Roberto Gnesutta il nostro fotografo ufficiale, Giuseppe Micco (“Bepi”) che ha volato su una versione “speciale” da 100 CV. Il mitico Guerrino Faggiani ed il sottoscritto Eugenio Rajer (“Ennio”). Inoltre per gentile concessione dell’organizzazione (forse gli hanno visto la bava alla bocca) è stato organizzato un voletto aggiuntivo anche per il mio amico ed accompagnatore Sergio Franco. Inutile dire che per tutta la compagnia quella mattinata di settembre sopra i cieli dell’Aerocampo Comina di Pordenone è stata un emozione difficile da tradurre. Un po’ come quando al Luna Park ti chiedi : “Come, il giro è già finito? Non me ne sono reso conto, facciamone un’ altro!”

Festa di compleanno per i cento anni della scuola di volo di Guerrino Faggiani Il 7 agosto del 1910 alla presenza di 30.000 persone in Comina veniva inaugurata la prima scuola di volo civile in Italia. Fu un momento importante della nostra storia locale, che l’Aereo Club Pordenone, che oggi ha sede nella medesima area, ha pensato di commemorare lo scorso mese di giugno con un Airshow di due giorni. Rinato nel 1996 con il presidente Lucio Moro, il club nel 2002 ha ri-

lanciato anche la scuola di volo. E’ significativo che 100 anni dopo l’inaugurazione la commemorazione abbia segnato 40- 45.000 presenze, ancora una volta a conferma del fatto che la nostra zona e i friulani in genere questa passione ce l’hanno eccome, ancora oggi. Un secolo di storia, dunque, ovvero dai tempi pionieristici in cui dei piccoli grandi uomini davano lustro ad un cavalleresco e pas-

sionale volo, fino ai giorni nostri in cui altri piccoli grandi uomini funamboli dell’aria, si cimentano in numeri mozzafiato. Nella due giorni si air show, il pubblico ha respirato l’aria dei campi d’aviazione e della sua gente, fatta di professionalità e pazzia, tradizionalismo e sregolatezza e della innata nell’uomo ricerca dei propri limiti e di stabilirne dei nuovi. Competenti, perfetti “analfabeti” del genere

e anche bambini, in quella due giorni il pubblico ha spaziato per il campo con un occhio in su, verso le esibizioni, ed uno in giù, tra banchi e gazebo. Una moltitudine di colori e di personaggi, una festa a cui molti dei presenti non avevano mai partecipato. Grande e lungo l’impegno per questa due giorni da parte dell’Aereo Club Pordenone, tanti hanno dato una mano, bambini compresi.


EL CANTON DE GUERI

El pursiter Nono lè rivà. Cio nini cossa fatu in pie già a ste ore? Dai verseghe el cancel lora, dighe che’l meti la moto sotto la lobia. Maria vara che l’è rivà Gelindo el purister. E lora mi cosa gaio da farghe? Le budele nete te ga da farghe, movete a finir de lavarle ti e quele comari che se li, ci ci co co - ci ci co co.. deghe dentro invese de batolar tant. E dighe a to niora che el nini lè già in pie. Ee lu nol voria neanca andar a scuola oggi, el voria veder copar el porsel. Cossa?? Che’l se daghi na mossa invese e che’l se prepari se nol vol veder come che lo copo mi. Ee pore fiol ormai el se ga lusingà, no l’ha neanca dormio stanotte. No me interesa, dovesi dirghe subito de no ti e quela bona da nient de to niora. Cornelio e l’ora la? Buta legne su quel fogo, la gà da bolir l’acqua del caldieron no far finta. Bongiorno sior Pericle. Oo bongiorno Gelindo elo rivà? E l’ora se sentelo abastansa assassino stamatina? Si e co na sgnapeta no varia neanca rimorsi. E co sta brosa no la staria neanca mal, peta lora che se bagnemo el bec, Maria porta la sgnapa qua. Dame la borsa intant che la faso portar dentro. Vara che cortei che l’ha qua! Vero? I gera de me pore nono e vara, iè come novi. Pecà che l’è el “come” che i li frega. Cosa se?! A no ghi ne fa più de cusì, ara questo, questo là fat la guera del 15-18.

Rdp fa "Festa in Piassa" I Ragazzi della panchina per la prima volta fra i protagonisti dei festeggiamenti agostani organizzati nello Skatepark di Villanova di Luca Marian Niente cronaca di un evento, questa volta. Piuttosto ho voglia di raccontarvi di come l'idea strampalata che ci è venuta di presenziare, ad agosto, con un nostro stand alla “Festa in Piassa” di Villanova di Pordenone è diventata una straordinaria realtà, presentandovi uno ad uno

gli amici grazie ai quali ciò è stato possibile. La squadra dei “Ragazzi della Panchina” è scesa in campo con un livore quasi agonistico, perché: “Gavemo da farla ben”, si era detto in sede fin da subito. Poco importava il fatto che in realtà nessuno di noi sapesse come tenere

E be se vede poret , a l’è restà sol che un fil de lu. Cosa se?!? No ghi n’è come sto qua te lo digo mi. Aa quel le poc ma sicuro, femene portè dentro el nini, no vedè che’l va tai pericoli? a l’è sempre peso sto bocia, el tuo Gelindo? Tasi tasi, anca el mio el me da pensieri. Ieri sera son sta da le suore a parlar co la maestra. Eco qua la sgnapa, tignì el bicer che ve meto, lu sior Gelindo quanta? Aa poca. Ancora? Basta basta co lè pien basta. E lora com’ela la me sgnapa? Bona sior Pericle, un po’ forte ma bona. Insoma la maestra la gera rabiada co lu perché nol sta atento, ieri la ghe à chiesto chi che l’ha verto la breccia de la porta pia, e lu l’ha dita che no i lo saveva. La se ga fermà a vardarme, la taseva e la me vardava. No capivo, se el fiol el dise che noi lo sa vol dir che noi lo sa no?! E la me vardava, insoma na storia par sta porta. Alla fine go ciolt el portafoglio: bon bon me dighi quant che l’è che la fasemo finia. A l’è andada via che la fumava da tant rabiada che l’era, no go mia capio e! Ben ben almanco no l’era nient da pagar, e ma i fioi i fa sempre malani. Peta peta ti che lo beco.. a ghe insegno mi a romper le porte a le suore. Bon semo pronti? Maria vien co la secia a ciapar el sangue. Gelindo ara che’l vien anca me navodo Cornelio a darne na man a tignir el porsel. Ma no l’è pratico, el vien dal seminario, l’è pratico sol che de magnar quel li. Cornelio cori qua. Ara che ciccio che l’è. Porco bestia, ti nini a l’è meio che te te fae dar na spenelada de rosso, no voria mai che ta la confusion de la lota a te rivi anca na cortelada. Bon ndemo che’l sol magna le ore. Ma l’è ancora scuro nono. Tasi ti stornel!

un pennello in mano, piuttosto che montare un gazebo. Perché la classe, si sa, non si compra al supermercato e i pankinari come sempre alla fine hanno superato ogni difficoltà, con slancio. Ada: ovvero il coraggio e l'esperienza, la grinta nei “takle” scivolati e il pragmatismo che si fonde con la lucidità della visione tattica. Bepi: l'onnipresente principesco savoir-faire nel driblare difensori e le situazioni avverse; mix stupendo di leggiadria e sostanza. Walmi: il genio e la sregolatezza, l'art director nei lavori di pittura e non solo, illumina i compagni pennellando (è il caso di dirlo) illuminanti suggerimenti (credetemi comunque che non si è nascosto il pallone sotto la maglia, la sua è pura panza da uomo di sostanza). Stefano: il carattere alla Ringhio Gattuso, testa bassa o occhio lungo a seconda delle necessità. Geometrie a centrocampo e la sana giusta scaltrezza del campione consumato. Gigi: qualche infortunio e acciacco per questo campione dalla classe cristallina, ma se gli si propone un suggerimento sottoporta insacca con una eleganza e perentorietà senza pari. Un attaccamento alla maglia che non si vedeva dai tempi dei giocatori-bandiera alla Sandro Mazzola. Gueri: quando non è l'irrefrenabile mediano di spinta è il jolly da mettere in campo per sbrogliare le situazioni più difficili. E’ insostituibile. Chiara: le sgroppate sulle fasce,

con le gambe che si slanciano come mulinelli. Freschezza, ma anche le movenze smaliziate di chi sa smarcarsi con mestiere e proporre in profondità. Valentina: la leggerezza della gazzella che sa di poterla fare in barba a tutti i leoni. Il sorriso di chi si allena con motivazione e col piacere di farlo. Diego: il Cassano della situazione. Bisogna tenerlo d'occhio perché non scappi con qualche avvenente fanciulla, ma indispensabile per mettere ordine nella tre-quarti difensiva. Un pezzo di storia che spinge anche nel presente (nel dubbio comunque calcolate 5 minuti di ritardo). Le due Giò: immancabili, insostituibili. Una ha l'eleganza di una dama di campagna (con tanto di ventaglio) nelle sue movenze senza schemi a tutto campo, l'altra ha il sorriso e la gioia che serve al gruppo e l'agilità che le permette di sgusciare via all'avversario e poi chi la prende più. Elena: un carattere e una classe che emerge nel secondo tempo, che stupisce l'attaccante avversario che pensa di aver compreso il suo modo di muoversi sul campo con la propria solidità e dei guizzi d'agilità inaspettatamente fantasiosi. In sintesi il tutto si è amalgamato in uno spettacolare calcio-samba alla brasiliana ed efficacissimo catenaccio difensivo alla Nereo Rocco. Qualche calcio al pallone l'ho dato anch'io. Un vivo ringraziamento a tutti per questa nuova bellissima avventura vissuta insieme.


Hanno collaborato a questo numero

LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009

—————————————— Guerrino Faggiani Rinasce nel maggio 2006 all’ospedale di Udine. Da lì in poi è blogger (www.iragazzidellapanchina.it/ gueriblog ), attore, ciclista.. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche davanti al computer. “Cosa? Tagliare?!? Piuttosto non sta neanche metterlo..”

—————————————— Pino Roveredo "La melodia del corvo" è il suo ultimo regalo letterario. Capriole in salita, Caracreatura: Attenti alle rose, nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. Con l'associazione ha da poco aviato un laboratorio di scrittura creativa coraggioso.

—————————————— Elisa Cozzarini È riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. Insomma, Freelance Amstrong

Direttore Responsabile Milena Bidinost Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Andrea Picco, Franca Merlo, Gigi Dal Bon, Ada Moznich, Giovanna Orefice. Emanuele Celotto, Giorgia Balducci, Gino Dain, Elisa Cozzarini, Giuseppe Micco, Luca Marian, Eugenio Rajer, Andrea Russo Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone

—————————————— Gino Dain Un medico un giorno gli ha detto: se continui cosi non duri più di sei mesi. Era il 1980. Da allora per scaramanzia non è cambiato di una virgola. É la dimostrazione vivente che la medicina non è una scienza esatta

—————————————— Giovanna Orefice Semplicementegiò. Astrologa, poetessa, pizzaiola, blogger (www.iragazzidellapanchina.it/gioblog), se non ci fosse bisognerebbe inventarla. Terrà su LdP una rubrica per cuori solitari. E il suo, come sarà nel 2010?

—————————————— Luca Marian Basta doppi sensi sulla viola, di senso ormai ce n’è uno solo. memorabili le sue veglie con Andrea nella camera da cinque della compagnia instabile. Chissà chi sarà mai la prossima fortunata protagonista dei loro interminabili discorsi…

Creazione grafica Maurizio Poletto Impaginazione Ada Moznich Stampa La Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie Roberto Gnesutta Redazione LDP a pagina 13 Alessandra Bubulin a pagina 4, 5, 9 e 12 da sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page

—————————————— Giuseppe Micco Bepi: secco come un terno, Monsieur Le Bepo è il lottologo della compagnia. Dategli la vostra data di nascita e ne farà una fonte di reddito. Una volta all'anno da Monsieur diventa Mister: dei leoni indomabili, i Kullander United.

—————————————— Andrea Russo A vederlo sembra un talebano ma se lo si conosce si scopre che è più dolce di uno cioccolatino. Laureato da poco in medici con 110 e lode sotto gli occhi increduli degli amici, ma il suo cuore batte per la letteratura e ha implorato la redazione per poter scrivere su LDP. Intabto si sfoga su: www.paleozotico.it

—————————————— Milena Bidinost Premessa: il direttore non si discute, si ama. Mai si sarebbe immaginata nella vita di finire a Napoli coi RdP e forse un giorno scriverà, di quell’abbraccio totalizzante. Ma a noi preme di più un’altra vicenda: che fine ha fatto, il tappetino del bagno?!?

—————————————— Marta Bottos e Tiziana De Piero Pur di disegnare in esclusiva con il nostro giornale hanno rinunciato a un faraonico contratto con la Disney. La storia dei RdP a fumetti sta riscuotendo un grande successo. Sono pronte per il grande salto. www.nerogatto.it per credere!

—————————————— Emanuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Memorabili le sue performance nel ruolo del carcerato, con tanto di lancio della canotta al pubblico e pettorali in bella mostra. Per un po’ di tempo, purtroppo, si è dimenticato di uscire dalla parte.

—————————————— Franca Merlo O Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia. ilcannocchiale.it

—————————————— Andrea Picco Su Fb alla voce orientamento religioso ha scritto integralista juventino. Dunque non sa chi ha vinto quest’anno il campionato, la champion e la coppa italia. Non lo sa e non lo vuole sapere.

—————————————— Ennio Rajer Di nobile stirpe, il conte Rajer è avviato ad una fulgida carriera di scrittore. È l’unico ad essersi presentato in sede con le paste la prima volta che vi ha messo piede. Paste nel senso di bignè: i soliti maliziosi…

—————————————— Giorgia Balducci IncredibileGiò questo è il suo vero nome e noi lo sappiamo bene, Ingegnere di professione, consigliere per passione, l'unico difetto è quello di consegnare i verbali del CD dell'associazione in ritardo.

Disegni e fumetto Tiziana Del Piero e Marta Bottos Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo della Fondazazione CRUP attraverso il Comune di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Tel. 0434 363217 email: info@iragazzidellapanchina.it www.iragazzidellapanchina.it Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00

—————————————— Gigi Dal Bon Uno di quelli a cui i Ragazzi della Panchina devono tutto. Ramarro militante, ha scritto un libro, Karica vitale, che è il ritratto di una generazione. Chi entra in sede chiede: C’è Gigi? e Gigi c’è, sempre.


OGNI TANTO REGALA UN FIORE A CHI TI VUOLE BENE I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DEI RAGAZZI DELLA PANCHINA CON IL PATROCINIO DEL COMUNE DI PORDENONE


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.