APPROFONDIMENTO
Pordenonelegge.it
Libertá di Parola 3/2011 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
L' EDItoriale
Parole, strade e storie… che appartengono alla città di Pino Roveredo Una decina di anni fa mi chiamò il Sert di Trieste, e mi offrì una docenza per un corso di scrittura con gli utenti del Servizio. Ricordo che sorrisi, ringraziai e respinsi l’offerta. E non lo feci per mancanza di tempo o per snobbare il progetto, quanto, per l’imbarazzo di chi è consapevole di non avere il titolo e l’altezza morale per interpretare la parte del docente. Ma niente, la richiesta
continuò a bussare sul mio imbarazzo, e quasi per sfinimento, riuscì a convincere la mia enorme perplessità. Ricordo come fosse adesso, l’emozione della mia, chiamiamola prima “lezione”. Io, con addosso un’evidente sudorazione ansiosa, che entro in una grande stanza, e trovo intorno a un’enorme tavolo dodici ragazzi in attesa. Poi, dopo le presentazioni, vedo un’operatrice che distribuisce dodici fogli e dodici matite, e subito dopo sento la pesantezza di ventiquattro occhi puntati su di me. E adesso che faccio? Gli dico di mettere la data, gli do il titolo di un tema, gli propongo un argomento e li spingo a scrivere una fila di pensieri e pensierini? Seguirono cinque minuti di silenzio, e in quella pausa capii che se avessi
Dal 14 al 18 settembre torna pordenonelegge.it, la 12° Festa del Libro con gli Autori che è tra i più prestigiosi festival italiani del libro, letto, scritto e parlato. L’evento è promosso dalla locale Camera di Commercio, con il sostegno di Regione, Provincia, Comune, Fondazione Crup, Pordenone Fiere, Banca Popolare FriulAdria e Cinemazero. Come nel 2009, anche I Ragazzi della Panchina hanno voluto dare il loro personale punto di lettura. a pagina 7
proposto quella forma didattica, avrei firmato la condanna di quella mia breve, minima “docenza”. Così, come quando ti devi salvare, mi passò per la mente la fortuna di una soluzione: via fogli e matite, e iniziamo un corso di “scrittura parlata”. “Scrittura parlata” che vuole dire usare la parola per muovere una voglia di comunicare, e il bisogno di costruire un dialogo buono, d’incrociarsi, scontrarsi, e diventare il protagonista di un’attenzione. Da quegli incontri, e dalla mia docenza instabile, sono nati molti testi teatrali, ma soprattutto sono diventati il motivo per dare vita a un giornale, “Volere Volare”, che ancora oggi è riconosciuto come il più continua a pagina 4
IL TEMA
Pietro Mennea "Campione è chi vince senza doping" a pagina 2
ilPROGETTO
Montagna terapia per condividere le salite a pagina 6
INVIATI NEL MONDO
Serbia, tu che mi hai rubato il cuore a pagina 13
IL LABORATORIO
Teatro, buona la prima a pagina 14
PANKAROCK
Ben Harper, cuore e istinto in scena al No Borders Festival a pag. 16
NON SOLO SPORT
"Assalti urbani di poesia" sottopasso stazione Pordenone
Il falco, che passione a pag. 16
IL TEMA
Vent'anni da campione, la migliore prova antidoping "Non sono nato predestinato. Tutto ciò che ho costruito è il risultato del lavoro e dell'impegno" di Guerrino Faggiani
Con il dito puntato al cielo Pietro Mennea, serietà e ostinazione di Guerrino Faggiani “Cerca di recuperare, recupera - recupera - recuperaaa… Ha vinto! Ha vinto! Straordinaria impresa di Mennea”. Ancora ci risuona nella memoria la voce di Paolo Rosi, indimenticato telecronista Rai che in un crescendo di enfasi accompagnava il rush finale del barlettano (come lui stesso amava chiamarlo) nella finale olimpica di Mosca, del 1980, nei 200 metri piani. Pietro dopo una disgraziata partenza, seppe dare vita nel rettilineo finale ad un recupero che non ha eguali nella storia dei 200 metri. Fu una gara di quelle che fanno sentire fieri di essere italiani. Su quella pista, in quel fantastico finale, un popolo intero ha palpitato serrando ranghi e pugni davanti all’impresa che lenta, ma inarrestabile, si consumava splendidamente sotto gli occhi di tutti fino all’ovazione finale della vittoria. Così forte e liberatoria che sembrava spingesse Pietro a macinare ancora la pista dopo l’arrivo, con il suo emblematico indice dritto, ancora una volta alzato al cielo in un ennesimo inequivocabile “uno”. Per vent’anni questo signore ci ha regalato il piacere di essere italiani, e in uno sport spesso fatto di atleti meteore che si “consumano” in poche stagioni. Che il mondo vedesse i suoi muscoli in azione durante la corsa, il suo volto deturpato da smorfie di cattiveria agonistica mentre da solo braccava avversari e risultato, ci piaceva tanto quanto le sue imprese. Ed era un piacere esclusivo per noi, di quelli semplici e puri, perché mai nessuno ha dubitato delle doti del barlettano: classe cri-
stallina, serietà e ostinazione nel raggiungere gli obiettivi così ostinata da sconfinare nella cocciutaggine. In un periodo storico in cui le positività al doping balzavano da un grande caso all’altro (per non parlare dei sospetti), in un momento sportivo caratterizzato da atleti che inspiegabilmente scomparivano dalle piste per poi ripresentarsi ai blocchi di partenza con strabilianti “nuove” possenti corporature, lui, il barlettano bianco, era per tutti un simbolo di acqua e sapone. Pietro Mennea è considerato l’atleta al mondo che si è allenato di più. Lo stesso Valery Borzof, l’ucraino suo storico rivale di allora, dice che Mennea era un atleta ben allenato. Eppure in vent’anni di attività ha guadagnato solo pochi etti di massa muscolare. Tra i suoi segreti dunque vanno ricercati, senza timore di smentita, l’impegno di essersi dedicato completamente alla sua causa, ed un carattere mai domo. Prima dell’intervista mi chiedevo che fine avesse fatto questo temperamento che così bene lo aveva portato a fare nello sport, se c’era ancora o se era sparito assieme al campione con la fine della sua carriera sportiva. Chi è ora Pietro Mennea nella vita di tutti i giorni? E come si cimenta in quello che fa? Vi posso anticipare che più volte, nel corso della nostra chiacchierata, mi sono sentito dire: “Io quello che faccio lo faccio bene”. Allora dopo doverosi ringraziamenti per tutto quello che ci ha regalato, posso dire che il campione non è morto, esiste ancora. Ha solamente cambiato specialità.
Vent’anni è durata la parabola di Pietro Mennea nel grande circuito dell’atletica mondiale, in specialità così violente come sono le gare di velocità che si consumano in pochi secondi. Ha appeso le fatidiche scarpette al chiodo
dopo aver partecipato alla bellezza di cinque Olimpiadi: da Monaco 1972 a Seul 1988. Pietro Paolo Mennea non ha dubbi nel raccontare del suo ventennio di agonismo, come della miglior prova antidoping. “Il campione lo si vede
Scrivere di doping Avvocato, commercialista, studioso di diritto, Pietro Paolo Mennea, è anche scrittore prolifico. Tra i suoi libri l'indimenticato campione dei 200m con un record mondiale durato qualcosa come 17 anni, importanti sono quelli che danno un contributo sul fronte del doping: "Il doping nell'Unione europea", "Il doping nello sport" e l’ultimo in ordine di tempo “La storia del doping”. E' questo infatti un tema che l'ex sprinter sente in modo particolare: trascurato dai più negli anni recenti e sottovalutato soprattutto perché relegato nell'ambito dello sport maggiore, quello agonistico e professionistico. Il doping invece rappresenta oggi un
problema sociale e di salute pubblica proprio per la sua diffusione a macchia d'olio fra giovani e giovanissimi di tante discipline, arrivando ad interessare perfino bambini e adolescenti dagli 8 ai 17 anni. Il volume. Tutti i libri di Mennea sono acquistabili rivolgendosi alla “Fondazione Pietro Mennea Onlus” www.fondazionepietromennea.it. E’ una delle più attive del paese e - piccola grande curiosità - annovera tra i suoi numeri anche un record: è infatti la Fondazione che dona più libri ovunque nel mondo. Un altro primato “alla Mennea”, il barlettano bianco che non ha perso il vizietto dei record, neanche nella vita.
dalla continuità del rendimento e dalla longevità - afferma -. Ci sono degli atleti invece che dopo un grande appuntamento scompaiono. Pensi che nelle quattro finali olimpiche che ho disputato, in sole due edizioni ho incontrato lo stesso avversario: Don Quarrie, nel 76 a Montreal e nell’80 a Mosca. Per il resto gli avversari sono sempre cambiati”.
si faccia: sport, studio, lavoro. Bisogna provare. Poi può andare male, ma bisogna riprovare ancora. Io non sono nato predestinato a diventare campione, tutto quello che ho costruito l’ho costruito attraverso il lavoro e l’impegno. M i allenavo
Il doping al giorno d’oggi è una piaga diffusa o piuttosto circoscritta? “È sempre stato una piaga e sempre lo sarà, non è debellabile perché il mondo è fatto di furbi, così è anche nello sport che è un settore sociale in cui i furbi vogliono emergere. Ma questo non ci esime dal mettere ugualmente in campo contro di loro una lotta molto dura, perché questo modo di comportarsi va a ledere la credibilità di un settore che si basa su determinate regole. È sempre stato una piaga, il furbo c’è sempre stato”.
Mennea quando ha smesso la carriera sportiva aveva le idee chiare su cosa fare nella vita? “Si, mi ero già preparato le basi per fare quello che ora sto facendo: svolgo attività professionale. Sono avvocato e dottore commercialista”.
Quale può essere il messaggio adatto a trasferire motivazioni giuste ai ragazzi affinché seguano concetti sani nello sport e nella vita? “Io dico che bisogna provare nella vita, qualsiasi cosa
La nostra isola felice di Milena Bidinost
Lotta al doping, ovvero lotta all’uso e abuso di sostanze o medicinali con lo scopo di aumentare artificialmente il rendimento fisico e le prestazioni dell'atleta, in particolare in sport di residenza. Su questo fronte sono impegnati il Ministero alla Salute e le Federazioni sportive, in sinergia con l’Agenzia mondiale antidoping (Wada), istituzione del Comitato olimpico internazionale, al cui protocollo il nostro paese ha aderito. Anti-doping significa nella pratica una complessa procedura di controlli sanitari sugli atleti effettuati da parte di istruttori antidoping con funzioni di pubblici ufficiali,
5 o 6 ore al giorno per 350 giorni all’anno, gareggiavo da maggio a settembre, ho sempre partecipato ai grandi eventi, non ne ho mai saltato uno, e non ho mai sofferto di strappi muscolari. Tutto questo è stato possibile proprio grazie alla bontà dello stile di vita e del lavoro che svolgevo. Con questo impegno e dedizione sono arrivato dove altri hanno fallito. Lo sport insegna che la superficialità non paga”.
cui fa capo il Ministero stesso e alle quali accedono per lo più le Federazioni, con costi non indifferenti. Alla luce di ciò, interrogarsi sul fenomeno doping nella nostra realtà di piccola provincia, al momento priva di squadre sportive professioniste, subisce gioco forza un ridimensionamento sull’originale intenzione di tracciare una fotografia tanto realista, quanto completa di tutto lo sport locale. “Si può comunque e tranquillamente dire che lo stato di salute del nostro mondo sportivo – è il quadro che traccia per noi il dottore Ferdinando Agrusti, presidente del Comitato della Federazione Medico sportiva del Friuli Venezia Giulia
grande storia del doping”. Preceduto nel tempo da saggi e opere giuridiche inerenti ai diritti e doveri dello sport”. Se fosse al Coni cambierebbe qualcosa? “No guardi, lasciamo stare il Coni, faccio molto di più con la mia Fondazione. È un organismo che risponde ancora ai vecchi modi di fare politica, è un carrozzone sempre con la stessa gente che assorbe dai contribuenti 470 milioni di euro l’anno, è una truffa. È l’organismo sportivo più ricco al mondo, più ricco della Cina e degli Stati Uniti. Io viaggio molto e quando vado all’estero mi chiedono se siamo rimasti in pochi nel nostro paese perché vedono sempre le stesse facce”.
Ma come ci è riuscito a laurearsi, quando ha trovato il tempo per studiare? “Mentre ero in attività, nei campi di atletica portavo anche i libri e quando potevo mi mettevo a studiare. Ho conseguito il diploma Isef e poi piano a piano, strada facendo, mi sono laureato: prima in Scienze politiche, poi in Legge, in Scienze motorie ed in Lettere. Per cui ora svolgo libera professione. Ho pubblicato anche dei libri, l’ultimo uscirà in questi giorni: si intitola “La
Quando è nata l’idea della Fondazione? “Si può dire che di beneficenza ne faccio da sempre, ora con la fondazione partecipo con contributi a cause enormi. Con mia moglie, avvocato anche lei, curiamo l’aspetto giuridico e operiamo a 360 gradi ovunque possiamo essere utili. Ma noi in qualsiasi campo ci mettiamo, quello che facciamo lo facciamo bene, con grande responsabilità e grande impegno, e ne siamo orgogliosi. Proprio in questi giorni abbiamo contribuito a favore di una associazione di medici che aiutiamo da anni, che sono in Libia ad intervenire chirurgicamente su bambini rimasti deturpati dalla guerra”.
– è sostanzialmente sano. Ad oggi infatti a Pordenone non sono stati riscontrati casi di atleti implicati in doping”. Pordenone è quindi un isola felice, nella misura in cui entra in gioco il sistema antidoping. “I controlli – spiega Agrusti che è anche a capo dell’Associazione medico sportiva di Pordenone - vengono chiesti dalle Federazioni a fronte di casi sospetti e l’autorizzazione è data dal Ministero della Salute, che nomina gli istruttori scegliendoli all’interno di una lista di medici sportivi opportunamente formati. Si capisce quindi come tutto ciò finisca per interessare lo sport professionale dei maggiori nomi, per lo più nazionali, e lasci fuori il resto”. Unica eccezione la fa il ciclismo dove l’antidoping, anche da noi, è entrato in gioco anche per atleti non professionisti. “Qui
a richiedere in un certo senso una maggiore attenzione da parte delle società – fa notare Agrusti – è la tipologia della disciplina, sport per sua natura di resistenza fisica”. Lotta al doping, ovvero lotta all’uso e abuso di sostanze è anche lotta alla dipendenza. A restarne fuori, poiché sta al limite tra sport e società e poiché soprattutto è esterno ai circuiti istituzionali, è piuttosto il mondo delle palestre, che della prestanza fisica fanno spesso più un culto che non un’etica. “E’ impossibile dare dei dati – dice il presidente – in quanto in queste strutture private è difficile arrivare con i controlli. Gli anabolizzanti entrano nelle palestre attraverso il mercato virtuale di internet, che non chiede prescrizioni mediche, né piani terapeutici”.
L' EDItoriale
Parole, strade e storie… che appartengono alla città di Pino Roveredo segue dalla prima pagina
importante giornale di strada di Trieste. Dopo alcuni anni, grazie alla frequentazione con i Ragazzi della Panchina, e grazie alla bellezza dei messaggi lasciati sul computer o attaccati sulla parete della sede di via Grigoletti, nacque l’idea di costruire un giornale di strada anche a Pordenone. A dire il vero, qualche tempo prima c’era già stato un tentativo maldestro da parte di un responsabile del Servizio, tentativo che, senza l’umiltà dell’ascolto e della parola, si vide costretto a chiudere l’intenzione per mancanza del contributo di scritture parlate e scritte. Però, tre anni fa, con la convinzione di poter essere i narratori della propria pelle, con tutto il bagaglio di fatica e sofferenza che si è costretti a trascinarsi dietro, ci siamo decisi e abbiamo proposto la nostra urgenza all’allora sindaco Sergio Bolzonello. L’incontro, mi ricordo, è durato dieci minuti: cinque per esporre l’ipotesi, quattro per discutere la sua importanza, e uno per incassare l’assenso e il contributo. Ecco, e lì, grazie all’entusiasmo dei ragazzi, la volontà di Ada e Guerrino, e al sostegno essenziale della giornalista Milena Bidinost, che è nato “Ldp” (Libertà di Parola). E sono tre anni che “Ldp” vive, si racconta, cresce. Tre anni importanti dove i ragazzi e gli amici della Panchina raccontano agl’occhi della gente, gli spigoli della vita, i saluti senza fine, i risvegli, le cadute, e la gioia delle piccole grandi vittorie. Tre anni con anche il prestigio di essere riconosciuti nei passaggi delle Biblioteche, nell’attenzione di eventi come quello di “pordenonelegge.it”, ma soprattutto nella bellezza di vedere l’orgoglio delle nostre scritture infilate nella curiosità della gente, e di pagine che girano nelle scuole, nelle sale d’aspetto, per strada, in treno… Tre anni per non dimenticare, e per non essere dimenticati, e per scrivere, parlando, le storie che appartengono alla città. Grazie ragazzi e grazie Pordenone.
CELOX
C'ERA UNA VOLTA IL G8 DI GENOVA A dieci anni dal vertice dei potenti della Terra ancora poche le luci e troppe le ombre di Emanuele Celotto
Contrariamente a come può far credere il titolo non è una fiaba e non c’è nessun lieto fine; è solo un doveroso cenno ai fatti di luglio 2001 ed il G8 di Genova. Una delle pagine più tristi e nere degli ultimi decenni, per l’Italia e credo per le democrazie in
generale. Ancora oggi, a distanza di dieci anni, ci sono un sacco di punti oscuri, colpevoli che sono stati protetti e innocenti che hanno subito. Per l’occasione sono stati dedicati degli speciali alla tv su Rai 3, ma ovviamente in fasce orarie un po’ lontane
dal grande pubblico. Ancora una volta sono emersi punti oscuri, palleggio di responsabilità e tutta una serie di atteggiamenti e meccanismi che ben poco han a che fare con la democrazia. Ma cosa voleva essere il G8? A parte l’incontro tra potenti della terra per decidere e stabilire (ma chi glielo ha chiesto? E per fare l’interesse di chi?) cosa significava il G8 per i tanti gruppi che erano arrivati lì a manifestare il loro dissenso? Perché le cose hanno preso una determinata direzione invece di mantenersi su un piano di semplice contestazione? Partiamo col dire che molte cose non sono andate come avrebbero dovuto; la tensione era già alta prima che tutto avesse inizio. Il fatto che alcuni avessero promesso di violare la zona rossa (le zone della città precluse ai manifestanti) non ha certo contribuito a portare serenità; che tutto fosse un bluff o verità poco importa. Le “forze dell’ordine” (o del disordine?) erano mal assortite e non molto ben coordinate (sto usando un eufemismo). Secondo l’intervista rilasciata da uno dei capi coordinatori della polizia, avevano mandato lì troppi giovani che di solito prestano servizio allo stadio e sono abituati a tutt’altro clima; questi hanno una visione un po’ limitata dell’altro e lo percepiscono come un nemico ed agiscono di conseguenza. Che
L'OBIETTIVO
Lavoro, avere 50 anni nel tempo della crisi Quando si è vecchi per lavorare ma non per andare in pensione di Giuseppe Micco Obiettivo lavoro: è questo un problema di non poche persone, dato che riguarda tutte le fasce d’età. Chi oggi si trova tuttavia in maggiore difficoltà sono le persone tra i 45 e 60 anni, che incontrano seri problemi nella ricerca di un lavoro. L’avvento di operai stranieri ha saturato il mercato da un lato e svalutato dall’altro le conquiste fatte in
passato in termini di salariato e di dignità operaia. Negli anni Settanta, in tempi di lotta di classe, il sindacato tutelava i diritti degli operai. Ora sembra che tutto questo sia svanito. La disoccupazione la fa da padrona, la nostra classe politica è allo sfascio, più propensa agli scandali rosa che non a governare con utilità il paese. La gen-
te è stufa. A Pordenone abbiamo appena concluso le elezioni politiche. Tante le promesse: più lavoro, meno tasse, avanti tutta. Il problema per chi come me, in questi tempi di crisi, ha 50 anni, un lavoro precario e una pensione ancora lontana, è l’umiliazione di chi è vecchio oramai per il mercato del lavoro, ma troppo giovane per fare il pensionato. Una situazione di limbo dalla quale è difficile tirarsi fuori, senza che qualcosa nel nostro sistema sociale, di assistenza e di collocamento professionale, cambi rispetto all’attuale. Il presente secondo me non è affatto confortante: io almeno mi ritengo fortunato di aver vissuto gli anni migliori in un ambiente naturale e umano per così dire “meno inquinato”, dove i valori erano più sentiti e gli anziani,
dire dei black bloc? Giovani scontenti ed incazzati? O anche infiltrati dell’ultima ora come suggerisce qualcuno? Di sicuro non è stato fatto alcun filtro e non vi è stata nessuna collaborazione con le polizie di altri paesi per fermare le “teste calde” che venivano da oltre confine. Mentre i black bloc si organizzavano strappando il perimetro di ferro che circonda le aiuole, i “nostri” stavano a guardare. Quando sono passati all’azione, rapidi e spietati, per poi dileguarsi, non hanno trovato di meglio che caricare la folla inerme e pacifica che manifestava lì vicino. Scene che si sono seguite per un paio di giorni con una escalation di violenze e sono culminate con la morte di Carlo Giuliani e le tristi pagine della caserma Bolzanetto e le manganellate assortite ed i fatti della Diaz. Cariche,
pestaggi, lacrimogeni e tutto il repertorio che può offrire una dittatura del Sudamerica stile anni ’70, cioè sospensione totale dei diritti di uno stato democratico. Dopo dieci anni esatti, ancora poche le responsabilità accertate, pochi i colpevoli che hanno pagato, tante le domande senza risposta e tanti i brutti ricordi per molta gente. Chi era andato a Genova voleva solo manifestare in modo pacifico e dire che un altro mondo, oltre all’interesse dei potenti e del danaro, è possibile. Davvero è stata colpa dei black bloc, se le cose sono degenerate? Oppure tutte quelle persone mosse da un ideale un po’ più alto avevano spaventato i potenti? Purtroppo le risposte non ci sono nè (molto probabile) le avremo mai. Si! C’era una volta il G8….e speriamo che non ci sia più.
ad esempio, insegnavano la vita. Oggi non mi sembra più così: la crisi occupazionale poi ha enfatizzato ed accelerato tutto, per molte cose in peggio. Personalmente non so cosa mi riserva il futuro: a 50 anni, con lavori precari, con ancora voglia di essere utile e bisogno di guadagnare, ma con sempre più difficoltà a trovare lavoro mi
riduco a vivere solo per il presente. Vivo tuttavia senza abbandonare l’idea che la vita non può essere solo lavoro, o a voler contestualizzare il tutto nel presente, solo preoccupazione per il lavoro. E quindi con la speranza che, passato il peggio, il lavoro torni ad essere una delle tante parti della vita di ciascuno di noi.
dicono di noi
Il gioco della sopravvivenza Le mie 250 ore di tirocinio con RdP di Serena Filieri Pordenone, viale Grigoletti numero 11: qui è iniziata un’esperienza di vita che mi ha portata a conoscere il mondo della tossicodipendenza e soprattutto loro, i tossicodipendenti. Mi piace definire questa esperienza come “il gioco della sopravvivenza”: o reagisci o sei fuori! Non è un gioco che ha delle regole precise, richiede tempo, studio dei partecipanti e una veloce reattività. Qui sei messo alla prova prima da loro e poi da te stesso, è un gioco strano che mi ha permesso di essere una persona diversa da quella di sempre; è un gioco che, una volta capito, mi rendeva "serena". Così ho iniziato a piano a piano ad instaurare delle piccole conversazioni con gli utenti che frequentavano la sede: mi hanno aiutato a comprendere i loro dolori, le loro paure e le loro bugie. Dopo quest’esperienza credo fortemente che un tossicodipendente sia una persona che, come tutti, è in grado di scegliere liberamente e autonomamente lo stile di vita da seguire e che, quindi, non debba essere “etichettato” necessariamente come una persona debole. E credo, ancora, che non ci sia risposta alla domanda: “Chi è un tossicodipendente?”. Ognuno ha la sua storia, la sua vita, il suo punto di vista che lo rende tanto diverso da tutti gli altri da farmi sembrare così banale e ingiusto il giudizio a priori nei suoi confronti. Se dicessi che ho conosciuto tossicodipendenti che hanno scritto un libro o che hanno vinto premi di poesia quanti mi crederebbero? Forse qualcuno, ma sono sicura che la maggior parte delle persone rimarrebbe sbalordita. Si resta sbigottiti scoprendo che un “tossico” può scrivere un libro o può vincere premi di poesia. Accade spesso, dunque, di relazionarsi prima con l’etichetta “tossico” che non con la persona in quanto tale: in questo modo i nostri pensieri e comportamenti non cambieranno mai di fronte a due, tre, dieci soggetti che ai nostri occhi saranno sempre dei “tossicodipendenti”. Inconsapevolmente “schiavi di questo meccanismo” scriviamo anticipatamente un futuro che non conosciamo e riportiamo il soggetto entro certi schemi o barriere mentali che difficilmente verranno superate. A Pordenone, viale Grigoletti numero 11, ho scoperto che è diverso il motivo per cui ognuno si avvicina al mondo della droga: c’è chi lo ha fatto per compensare un grande dolore o chi per il puro piacere di farlo. Inoltre sono diverse anche le droghe utilizzate, tanti, ad esempio, accostano anche l’alcol alla droga. Ci sono così tante dinamiche differenti, contrastanti e complesse da non permetterci di definire “il tossicodipendente”. Le emozioni che si provano “giocando” non le posso descrivere. Non ho parole nemmeno per raccontare ciò che ho provato l’ultimo giorno di tirocinio di fronte ad un cartellone con su scritto “Sei stata preziosa per noi”. In una realtà come la sede de I Ragazzi della Panchina dove ero arrivata con l’obbiettivo di “cercare di tollerare” fino alla fine quel tirocinio, quelle parole scritte nero su bianco sono state per me un successo inaspettato che non potrò dimenticare. Grazie, dunque, a Stefano, Chiara, Ada, Gigi e a tutti i Ragazzi della Panchina per quanto hanno fatto per me e per il chiaro esempio di sensibilità, coraggio e forza che danno alla società intera.
IL PROGETTO
LEGATI MA LIBERI, PASSO DOPO PASSO É il percorso di "montagna terapia" del Dipartimento Dipendenze di Pordenone, in collaborazione con i Cai di Sacile e Spilimbergo dott.ssa Roberta Sabbion, dirigente del Dipartimento Dipendenze Da alcuni anni la montagna sta diventando uno strumento attraverso il quale recuperare abilità perse o mai costruite. Sono state condotte esperienze nell’ambito della salute mentale, sia in Italia che in altri paesi europei, che hanno dimostrato come la frequentazione dell’ambiente montano possa rappresentare un fattore di equilibrio e di adattamento. All’interno della così detta “montagna terapia”, una sezione del Cai (Club alpino italiano), l’attività escursionistico/alpinistica condotta da operatori competenti, sia in ambito psico-sociale sia in ambito alpinistico, può promuovere un’integrazione mente/corpo e l’acquisizione di competenze sociali e relazionali. Per questo motivo sono state contattate tutte le sezioni Cai della provincia di Pordenone. Alla nostra proposta hanno aderito solo le sezioni di Sacile e di Spilimbergo che qui ringrazio per il grande apporto che stanno dando al progetto e in generale a tutta la cittadinanza. La nostra sfida è utilizzare lo strumento “montagna” per agire a tre livelli rispetto al problema della dipendenza da sostanze psicoattive. Il primo riguarda gli adulti, incidendo
sulla corretta informazione e quindi cercando di modificare il pregiudizio che si ha nei confronti della tossicodipendenza. Tale pregiudizio deriva dall’immagine che questi soggetti presentano al mondo, immagine che non sempre riflette la vera sostanza degli stessi. Il secondo livello interessa i giovani tra i 18 e i 25 anni, promuovendo salute e quindi la prevenzione rispetto alla possibilità di ricorrere a sostanze psicoattive per affrontare o risolvere momenti difficili della vita. Infine il terzo, quello dei soggetti con problemi di sostanze psicoattive con un obiettivo più terapeutico-educativo. In questo caso la grande opportunità che il progetto offre sta nel fatto di poter imparare, attraverso la realtà della montagna, come
Condividendo la salita di Luca Fornasier
Ho faticato anni a costruirmi una corazza di sicurezze per difendermi dalle paure e dai rischi. In poche ore invece ho cominciato a mettere tutto in discussione vivendo un bellissimo fine settimane in montagna. Certe parole mi erano già passate per le orecchie, ma forse non ero ancora pronto per coglierle. Seguendo le prime regole del gruppo mi son trovato a chiacchierare con sconosciuti senza paura del giudizio altrui, senza preconcetti
superare momenti difficili della vita senza ricorrere necessariamente alle sostanze stupefacenti; di sperimentare emozioni forti senza l’uso di sostanze e di stare con gli altri senza alcuna mediazione chimica. Per questi soggetti è una opportunità per conoscere persone fuori dal solito giro, persone però che conoscono in maniera corretta il problema e non sono manipolabili a fini diversi da quelli offerti dall’esperienza che si sta facendo in montagna. Se questa esperienza, inoltre, viene offerta a chi sta rientrando da un percorso fatto in comunità terapeutica, consente di consolidare un percorso attraverso un reinserimento guidato, risorsa che fino ad ora manca in questo territorio ed è spesso fonte di ricaduta nell’uso di
sostanze. Per adulti e giovani adulti verrà fatta una formazione specifica. La formazione degli adulti avverrà in due giornate consecutive ripetute due volte, fatte in una casera con lezioni frontali e con lavori di gruppo sui temi elencati nella prima fase. I docenti saranno operatori dei servizi socio-sanitari, del Cai e non. La formazione dei giovani adulti invece si svolgerà sempre in ambiente montano e prevederà una giornata per tema previsto. Il tema sarà oggetto di formazione anche per gli adulti. Le lezioni saranno tenute da personale competente del Cai e del settore socio-sanitario e affronteranno una parte teorica riguardante l’argomento del giorno, sia rispetto alla montagna, sia rispetto alla “vita” di ognuno di noi cercando di trasferire quanto avviene in montagna (sia essa parete di roccia sia un sentiero nel bosco) alla vita quotidiana. L’obiettivo è l’identificazione di strumenti personali in grado di aiutarci a superare le difficoltà della parete e della vita. La parte terapeutica con i soggetti dipendenti da sostanze viene gestita prevalentemente dagli operatori del Dipartimento dipendenze. La presenza degli adulti e dei giovani, riguarda l’esperienza pratica in montagna e la possibilità di poter condividere quanto appreso dalla formazione con chi ha un problema di dipendenza. Per partecipare al progetto è obbligatoria, per ragioni assicurative, l’iscrizione al Cai di residenza.
ma con molta sincerità. In un attimo parole già sentite son entrate e han sostato dentro di me: Serve che mi perda per ritrovarmi, Se voglio migliorarmi devo mettermi in gioco, rischiare! E io che pensavo di essere pronto ad affrontare nuove sfide protetto dal mio scudo. Ero sicuro di poter cogliere mille opportunità senza dovermi esporre. Invece una breccia si è immediatamente aperta ascoltando chi, con molta passione, ci parlava di arrampicatori che mettendosi in gioco riescono a superare passaggi impossibili o scalatori che compiono imprese eroiche conoscendo e rispettando i propri limiti. Aggiungete a queste semplici picconate un sorriso di un compagno, una pacca sulla spalla di Gigio, la condivisione di un vissuto o un bel gioco di gruppo e capirete come la mia corazza si sia sciolta come burro al sole. Tutto questo è stato possibile grazie ad una bella atmosfera che si è creata fin da subito. La condivisione della fatica durante le camminate, l’adattamento di tutti alle “comodità” della montagna, il divertimento di una pausa di gruppo e soprattutto il privilegio, una volta rientrati in casera, di recuperare forze e sorrisi con una deliziosa grigliata, un sano bicchiere di vino e una schitarrata sotto le stelle. Il dispiacere è arrivato nel pomeriggio di domenica al momento dei saluti. Sarebbe servito un bel lunedì di Pasquetta per continuare la magica escursione. Due le impressioni che si sono fissate in me: la figata di non essere concentrato sulla meta, ma di poter godere del camminare assieme. Quindi il fatto che abbiamo faticato, ci siamo confrontati e divertiti, qualcuno era stonato e altri hanno russato ma eravamo comunque tutti cotti ma felici . Che è più o meno l’obiettivo del progetto. Chi ben comincia......
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
IL PIACERE DI UN LIBRO di FRANCA MERLO Quando scrive il Decameron nel 1350, Giovanni Boccaccio pensa alle donne e a loro dedica il suo capolavoro. Si tratta di donne della borghesia, che non si limitano alle faccende domestiche ma sanno leggere e sono in grado di apprezzare un romanzo. Sono il suo pubblico ideale in quanto, come donne, vivono profondamente il sentimento amoroso ma nella società hanno una serie di limitazioni e non possono uscire di casa e svagarsi. E se la vita riserba loro la delusione d’amore, la soffrono con maggiore intensità rispetto all’uomo e vivono la loro pena tutte chiuse in se stesse, non potendo contare sulle distrazioni della politica, del commercio, della caccia, del gioco con gli amici. Ecco allora il romanzo, quasi una realtà virtuale, parallela a quella reale ma altrettanto ricca di avventure, di intrecci strani ed imprevisti, di passioni e sentimenti a volte corrisposti a volte no, di soluzioni trovate grazie all’ingegno e all’inventiva. La lettrice è presa per mano e condotta fuori dalle quattro mura domestiche, a visitare un mondo più vasto e interessante. Oggi le donne non sono relegate in casa, ma la lettura rimane sempre un modo di conoscere il mondo. E’ un viaggio fatto con l’immaginazione e con l’intelligenza, che a volte ci mostra un reale più vero del reale. Ci permette di conoscere la psicologia dei personaggi, sviscera le situazioni nelle loro dinamiche interne e ne mostra risvolti a cui da soli forse non arriveremmo. Il libro è un “tu” con cui con-
frontarsi: leggere e farsi leggere. Tu leggi il libro ma anche il libro legge te, perché muove sentimenti e riflessioni sulla vita, sul mondo, sull’uomo e ti rivela aspetti di te stesso che forse non pensavi di avere. Si legge, oggi? O la lettura è stata sostituita dalla televisione, dal computer, dai giochi elettronici? Sì, fortunatamente si legge ancora ed anzi qui da noi pordenonelegge.it dimostra, anno dopo anno, che l’incontro con gli autori è gradito e atteso. C’è speranza per l’Italia, finché c’è qualcuno che ama confrontarsi col libro. Sono esagerata in questo giudizio? Mah. Penso alla pseudo-cultura che da parecchi anni ci è instillata attraverso i mass media, quotidianamente, ad offuscare la nostra intelligenza, a spegnere la nostra dignità. La vita sentimentale e sessuale dei vip, la cronaca nera dettagliata e ripetuta fino all’ossessione, s’impongono ed oscurano l’interesse per la vita politica e civile. La paura del diverso, anziché essere combattuta, viene alimentata. Anche nei giornali, la passione per il grande scoop e le indagini approfondite sembra essere svanita. Ma allora, i lettori sono stati addomesticati? Non tutti, fortunatamente e la varietà di libri molto letti lo dimostra: romanzi, ma anche saggi e scritti di politica, di ecologia, di vita civile. Un vivo grazie a pordenonelegge.it e a chi lo promuove: è un soffio di cultura che entra tra la gente in modo nuovo, attraverso l’incontro personale e lascia in mano un libro come oggetto di piacere.
IO LEGGO A PORDENONE
MARIAPIA VELADIANO YASMINA KHADRA
Quel che il giorno deve alla notte Mondadori, 2010
"A ottant’anni il nostro futuro è dietro le spalle. Di fronte c’è solo il passato”. Ho immaginato, sfogliando le ultime pagine di questo libro, di non averlo letto affatto ma di aver ascoltato per tutto il tempo la voce di un uomo che, ormai vecchio, esordisce con questa frase, riattraversa la sua storia frugando tra i ricordi e dopo una corsa tra i campi di grano dell’infanzia decide di fermarsi e iniziare a raccontare. Younes è un bambino di 9 anni che vive in Algeria; il mondo stretto tra i confini della famiglia e di quell’universo biondo, al quale il padre, contadino instancabile, dedica ogni attenzione e fatica. Una notte divampa l’incendio; Younes e la sua famiglia lasciano la propria casa e si incamminano verso una nuova città: Orano. Qui li attende lo zio, farmacista benestante, che offre loro il proprio aiuto; il padre di Younes inizialmente rifiuta e sceglie di trasferirsi a Jenane Jato, quartiere malfamato alla periferia della città. Dopo l’ennesimo fallimento, egli si vede costretto ad affidare il figlio alle cure del fratello e della moglie Germaine. Per una semplice differenza di accento, Younes da quel giorno diventa Jonas; è un dettaglio che sancisce, per il protagonista, il passaggio ad una nuova esistenza. Poi ancora la guerra in Algeria, la ribellione del popolo algerino che si batte per l’indipendenza dai coloni, due culture apparentemente conviventi che si affrontano per rivendicare una terra che entrambe chiamano casa, e che ad entrambe appartiene di diritto. Quel che il giorno deve alla notte è un libro denso, coinvolgente, dal qualediventa impossibile distogliersi, in cui la maestria dell’autore nel comunicare e descrivere, rende le parole illustrazioni, e i contorni di personaggi, luoghi e vissuti prendono volume come sagome di carta, emergendo dalla pagina. Giulia Salvador
La vita accanto Einaudi, 2011
Bello come una favola, lieve come le mani della protagonista sui tasti del pianoforte: Rebecca, il cui nome viene rivelato a un terzo del romanzo come a volerla nascondere. Vive rinchiusa in quella casa sul fiume: le scure torbide acque del Retrone (il cui scorrere fangoso ricorda i drammi di T. Williams), sul cui fondo vengono seppelliti i misteri oscuri che coinvolgono i protagonisti della Vicenza grigia, resi tali perché mai chiariti, misconosciuti. Bello perché al femminile; la resurrezione è solo femminile. Per questo Rebecca neonata, fanciulla, adulta, ma sempre brutta. “Un mostriciattolo peloso”, anche se alla fine qualche
LORETTA NAPOLEONI
Maonomics Rizzoli, 2010
Guardare la mappa del mondo da un nuovo punto di vista, mettendo al centro la Cina, non più l’Europa né gli Stati Uniti. È questa la chiave di lettura del libro di Loretta Napoleoni, “Maonomics”, edito da Rizzoli nel 2010. Scrive l’autrice: «È giunto il momento di porci di fronte a questa nazione, che ancora rappresenta un enigma, con l’umiltà di chi vuole capire e soprattutto non giudicare». Napoleoni smonta stereotipi e pregiudizi sulla Cina, evidenziando le contraddizioni dell’Occidente. Pensiamo ai diritti umani, che noi accusiamo la Cina di calpestare: dietro l’intervento armato in Iraq non c’era una menzogna? E, sottolinea l’economista, la guerra è illegale per il diritto internazionale, ma il tutto avviene in nome della democrazia. Al contrario, i fatti di piazza Tienanmen sono - giustamente - deplorati come atto di repressione. Ma quel sangue è
ritocco chirurgo-estetico la migliorerà (perché non prima?, ci si chiede, considerando la levatura della famiglia) e ricomporrà come in un mosaico la sua vita, la sua storia. Bello come una fiaba, lieve come una accarezza. Smuove emozioni sin dall’inizio. Accanto a Rebecca si profilano le biografie d’altri personaggi come angeli custodi. La madre che si rinchiude in se stessa diventando autistica; Maddalena la tata saggia che ama il mostriciattolo peloso di un bene vero; Lucilla la sua compagna delle elementari che con la sua logorrea, estroversione, golosità è esattamente al suo posto; la maestra Albertina; la vecchia pianista signora De Lellis: angeli che la aiuteranno e le faranno scoprire la bellezza della musica e i segreti della sua vita, grazie ai quali riuscirà a riscattarsi. Da leggere. Anonimo
servito per capire che c’era bisogno di un cambiamento ai vertici del governo cinese. Negli anni 70 le crisi energetiche evidenziano che è necessario cambiare rotta a livello globale. In Occidente Margaret Thatcher e Ronald Reagan lanciano lo slogan: “Lo Stato non è la soluzione, è il problema”, per ridurre all’osso l’intervento statale, lasciando il resto alla mano invisibile del mercato. In Cina invece succede qualcosa di sorprendente per un regime comunista. Nasce il marxismo in salsa capitalista: “Lasciamo che qualcuno diventi ricco prima degli altri e poi li aiuti a fare altrettanto”. Trent’anni dopo, la crisi attuale rende evidente che in Occidente, a dettare le regole del gioco non è più lo Stato, sono le banche. E in questa crisi non solo noi abbiamo salvato le banche ritrovandoci più poveri, ma queste si stanno arricchendo a nostre spese. Per capire quanto abbiamo perso la bussola, secondo Napoleoni, dobbiamo guardare alla Cina, dove le cose stanno all’opposto e la crescita è ancora legata all’economia reale. Si chiede l’autrice: è forse la paura di vedere rispecchiate nell’originalità cinese le falle del nostro sistema? Perché la nostra democrazia ha fallito? Perché sembra così sorda ai bisogni della collettività? Elisa Cozzarini
CLARA SÀNCHEZ
Il Profumo delle foglie di limone Garzanti, 2011
Per mancanza di spazio, leggendo questo libro e pensando alla sua recensione, giocoforza, ho dovuto far pre-
valere l’aspetto storico: dopo una lettura molto paziente mi sono infatti chiesto il perché della superficialità utilizzata dall’autrice nel trattare una tematica che è in realtà complessa e delicata come lo sterminio di quelle che venivano considerate “razze inferiori” da parte dei Nazisti e dei loro fiancheggiatori, fra i quali, non lo dimentichiamo, vi fu anche lo stesso Francisco Franco. Protagonisti della storia scritta dalla scrittrice Clara Sàncez, sono Juliàn, cacciatore di nazisti, e Sandra, una giovane donna capitata casualmente ad avere a che fare con un gruppo di esuli hitleriani implicati con le stragi nei campi di concentramento tedeschi. Il filo conduttore storico potrebbe far pensare quantomeno ad un libro accattivante ed interessante. Il punto è tuttavia questo: il libro non solo non aggiunge niente a quello che già si sapeva sull’argomento, ma anzi smi-
nuisce lo scopo che l’autrice forse voleva raggiungere. La superficialità nella caratterizzazione dei personaggi e del modo di affrontare la tematica fanno pensare ad un buio storico che già la storia stessa ci tramanda. Ciò a mio parere spiegherebbe il perché del grande passa parola fra i giovani studenti spagnoli che hanno, di fatto, decretato in Spagna un’ottima vendita del libro. Per il resto, fuori dai confini spagnoli, per noi e da noi, questa storia dice ben poco. Peccato, perché è una buona occasione mancata per far conoscere ai ragazzi spagnoli la tristezza e solitudine di chi è riuscito a superare i momenti storici in cui la Vita, negativamente, si è presentata a loro. Giusto per fare un confronto, il libro scritto da Ildefonso Falcones "La Cattedrale del mar" ambientato nel XVI secolo, seppur esatto nelle ricostruzione storiche, non ha avuto quel successo edito-
L'intervista
zoff, IL FRIULANO CHE PORTò L'ITALIA SUL TETTO DEL MONDO Scartato da giovane dal Pordenone calcio, nel 1982 fu il portiere della Nazionale che vinse la coppa di Guerrino Faggiani e Fabio Passador “Ma parlate friulano a Pordenone?” ci chiede nel salutarci. “Si? Bene, allora la prossima volta facciamo l'intervista in furlan!”. Dino Zoff di Pordenone, città che lo ospiterà in occasione della presentazione del libro biografico “Tra i pali. I voli taciturni di Dino Zoff” scritto da Giuseppe Manfridi per le edizioni Limina, non conosce molto. “Ho un ricordo di gioventù – ci confessa al telefono - quando venni a sostenere un provino per il Pordenone, che all’epoca era considerata una società satellite della Juventus. Poi non si concretizzò il passaggio e dalla Marianese passai subito all’Udinese”. Nato a Mariano del Friuli, oggi è nonno due volte e vive a Roma: ha indossato le maglie di Udinese, Mantova, Napoli e Juventus (con la quale ha vinto tutto) e della Nazionale italiana, aggiudicandosi il titolo europeo nel 1968 a Roma ed il Mondiale del 1982 in Spagna, all’età di quarant’anni. Una doppietta che nessuno è ancora riuscito ad eguagliare con la maglia azzurra.
Partiamo dalla ragione che a settembre la porterà in città in occasione di pordenonelegge.it. Com’è la biografia che le hanno dedicato e qual è stato il rapporto con quanti, giornalisti in primis, hanno scritto di lei durante la sua carriera? Manfridi, che è un drammaturgo, interpreta e racconta in maniera libera la mia vita, cioè senza numeri e statistiche. Riguardo al mio rapporto con la stampa, è logico che qualcuno scrivesse an-
che male, è normale. Forse qualche problema in più l’ho avuto proprio a Udine, viste le aspettative che c’erano su di me che ero del posto. Ma non sono di certo uno che vive di rancori. Un ragazzino dei giorni d’oggi sogna di emulare i campioni in circolazione. Lei quando era giovane, avrebbe mai pensato di raggiungere tanto successo? Non sognavo di arrivare in serie A, figuriamoci in Nazio-
riale che, a mio parere, meritava. Del resto gli spagnoli, almeno i giovani, a parte la serale movida, a scuola sono rimasti storicamente sempre al Cid de Guadalquivir o alla morte di Carlo Magno a Roncisvalle. Confidiamo quindi che questa parte della storia mondiale si concretizzi presto in un nuovo libro, meno noioso di quello recensito. Franco De Marchi
nale. Oggi la media tecnica dei giocatori è molto più elevata, mentre una volta spiccavano gli assi: già in serie C si vedevano giocare dei fenomeni. Noi si pensava solo a giocare e chi era bravo andava avanti per gradi. Ora è diverso: con la comunicazione, le televisioni che danno tutto, sembra tutto più facile da raggiungere. E’ un errore, ciò che dovrebbe importare è la passione per questo sport. Non ho mai puntato a dei traguardi, perché ho cercato di fare sempre al meglio il mio lavoro e ho cercato di migliorare e imparare, avendo sempre i piedi per terra. Calcio mercato: secondo lei la scarsa valorizzazione dei nostri vivai, a favore di quelli stranieri, è dovuta alla miopia delle società o alle strategie economiche? E' prima di tutto una questione economica dovuta alla globalizzazione. Oggi le squadre comprano laddove c'è un buon prodotto e a prezzi buoni, i vivai sono allargati al mondo intero. Anche la nostra regione fatica ad esprimere dei talenti: quando ero a Napoli ricordo che quasi ogni squadra aveva uno o più friulani in organico, mentre da qualche anno a questa parte in tutta la serie A ce ne sono pochissimi. Un giovane deve avere motivazioni nel fare, nel migliorare e non deve fare la vittima rispetto agli altri, perché gli alibi nascondono sempre una scarsa voglia di applicarsi.
MAURO CORONA
La ballata della donna ertana
TIZIANO SCARPA
Le cose fondamentali
Mondadori, 2011
In libreria il commesso ti porge il libro e qualche dubbio ti assale. Poi inizi a leggere, in che lingua è scritto? Passi qualche secondo a leggere le pagine che si lasciano sfogliare alla tua sinistra e pensi di aver sbagliato, autore, titolo. Poi appoggi lo sguardo a destra e trovi la traduzione, ti rilassi e nello stesso tempo ti costringi alla lettura: inizia il viaggio. Viaggio finito. E’ un lampo, non alzi la testa e ti accorgi che l’inchiostro e la carta sono mezzi necessari alla distribuzione, nulla di più. Quello che affronti è fiato e lacrime, espressioni del viso e del corpo, corpo piegato dalla stessa vita che si racconta. La vita raccontata scorre negli anni ’50 a Erto, e finisce il 9 ottobre 1963: qui tutto finisce in quella data. Poi ri-inizia ma è altra storia, non la nostra, non in questo libro. “E’ la storia di una donna - scrive Mauro Conona nel suo La ballata della donna ertana - che dalla vita non aveva avuto niente, peggio, la sorte le aveva nascosto la luna e distrutto la famiglia come fosse niente. E lei venne annientata dal dolore che l’aveva pettinata ogni giorno di più, finché alla fina le si ruppe il cuore e disse: Basta, non ne posso più.” Per chi conosce la vita di montagna di quegli anni, per chi ha avuto nonne capaci di raccontarla, per chi ha trovato orecchie e tempo per ascoltarla e tenersela nel cuore questa ballata danza senza musica. Ci sono lacrime che trattengono una dignità svanita tra le urla disperse e senza ritorno. Ci sono solitudine e fierezza, c’è stanchezza e necessità di non mollare, di andare, verso il poco e niente ma in cammino, lo stesso che dà senso all’esserci, senza tante domande. Io ho avuto la fortuna di avere orecchie e tempo davanti a mia nonna e ai suoi racconti e questo libro è anche lei, potente perché umile, potente perché non c’è sbrodolatura, sentimentalismo o retorica, potente perché scorre crudo, feroce, lucidissimo, come mia nonna, come le altre, lassù. Stefano Venuto
Einaudi, 2010
PAOLO GIORDANO
La solitudine dei numeri primi Mondadori, 2008
Il libro ha per protagonisti due ragazzi che da bambini hanno subito un trauma. Lei ha avuto un incidente di sci che l’ha lasciata zoppa; lui invece abbandonò la sorella, disabile mentale, al parco per andare ad una festa di amici e da quel giorno la bambina non fu più trovata. Questi fatti segneranno i due protagonisti negli anni a venire, facendoli sentire soli e diversi, portandoli ad avere un carattere schivo e una vita sociale ai minimi termini. Quando i due si incontrano sembra che la storia evolva verso una condizione di felicità; due “simili” che si trovano ed intrecciano le loro vite. Tra loro gli incontri si fanno più frequenti ed entrambi sentono l’altro come la persona con cui confidarsi, sicuri di essere capiti. Ma all’improvviso le cose cambiano. Lui riceve un’offerta di lavoro all’estero che, in un primo momento, è indeciso se accettare o meno; lei trova un corteggiatore che le piace. Lui, per l’abitudine a “tenersi a distanza”, sceglie di partire e lei finirà per sposarsi con l’uomo che la corteggiava. I due sembrano legati da uno speciale canale di comunicazione, inaccessibile agli altri. Le loro esperienze d’infanzia sono come un filo che li lega in qualche modo, ma entrambi capiscono che le loro vite sono come due rette parallele e non avranno punti di contatto. E il tutto viene confermato quando si rivedranno dopo svariati anni. La storia è un po’ amara, ma narrata in modo piacevole, senza concessioni strappalacrime. L’aspetto che mi ha sorpreso maggiormente è che nei protagonisti non c’è rabbia o serena accettazione per quel loro “essere diversi”, ma una sorta di passiva rassegnazione, qualcosa che rasenta il menefreghismo. Emanuele Celotto
Leonardo e Mario. Un uomo e un bambino. Un padre e un
figlio. Il primo alle prese con la neo paternità, il secondo con il mondo sul quale è appena “atterrato”. “Le cose fondamentali” è il racconto della Vita: quella di Mario che è occhi aperti, vocalizzi, bolle di saliva, malattia; e quella di Leonardo, che attraverso la scrittura di un quaderno che consegnerà al figlio per il suo quattordicesimo compleanno, cerca di trasmettergli le proprie conoscenze riguardo l’amore, i soldi, il potere, la malattia, la morte, ovvero le cose fondamentali della vita, per evitargli dolore e sofferenza. “Gli adulti mi tenevano nascosta la verità sulle cose
L'intervista
LibertÀ di parola, Libertà di Papu Riflessioni semiserie del duo comico pordenonese conduttore del Fight reading e del Fight writing di Andrea Appi e Ramiro Besa Andrea - Heilà! Anche quest’anno ci tocca girare come gli stornelli per pordenonelegge. Ramiro - E anche per il punto it. A - Io lo faccio volentieri, eh? Mica è un sacrificio. R - A me lo dici? Io non vedevo l’ora di finir le ferie per arrivare prima a settembre. A - Ti credo; quest’anno poi, con il programma che c’è… quasi mille appuntamenti in quattro giorni… una pacchia! R - Una birretta o sei di corsa? A - Una birretta di corsa me la faccio tranquillamente; ho un paio di minuti liberi… R - Velocissimi; alle undici ho cinque appuntamenti in contemporanea cui partecipare. A - Solo cinque? Io e mia moglie dovremmo arrivare a otto. Sempre che non ci sia troppa gente nel tragitto da una sala all’altra. R - Caspita! Auguri! A - Un massacro. Fortuna che la notte il ritmo diminuisce un po’, sennò quest’anno non ne usciamo vivi… R - Anche noi dovremmo correre: la mia signora partecipa alla Coppa Letteraria; sai la raccolta dei timbri di presenza per ogni incontro? A - Certo che la conosco: noi partecipiamo alla Coppa Attivamente Letteraria, quella in cui devi anche descrivere
l’aspetto degli ospiti e riportare almeno uno scambio di battute per ogni incontro. R - Cavolo, devi anche ascoltarli! Da uscire pazzi! A - Ci facciamo aiutare dalla tecnologia, eh? Videocamere e registratori portatili ma insomma, dovremmo farcela. R - Ti dirò, io son qui soprattutto per mia moglie; ci tiene molto a vedere Mario Tozzi che mima l’eruzione di un vulcano. A - Ah sì… Ci voleva andare anche la mia, ma io preferisco andare in Corso a sentire il reading di Antonio Chiumiento ricoperto di cioccolato che legge il menù di Peratoner. R - Sai che al pub del Corso c’è Giancarlo De Cataldo che frigge patatine fritte appeso al neon della cucina? A – Lo so, lo so; anzi, potremmo prenderci la birrà là, così passiamo per il centro; a quest’ora ci dovrebbe essere Mario Giordano che regala sanguisughe ammaestrate a chi gli recita almeno un paragrafo del suo ultimo libro. Ci sarà un po’ di fila ma ne vale la pena. R – Ecco, se proprio devo trovare una pecca, l’idea di vestire Dino Zoff da portiere d’albergo e fargli presentare il libro nella hall dell’Hotel Moderno non mi sembra sia
importanti – scrive Leonardo Mi sono messo a scriverti per non rifare lo stesso sbaglio”. C’è molto dell’autore in questo libro: Leonardo di cognome fa Scarpa e il suo migliore amico si chiama Tiziano. E sarà proprio Tiziano, con la sua ironia e il suo sarcasmo poco gradito a Leonardo, a cercare di alleggerire le paure e i continui dubbi dell’amico durante la scrittura del diario. Alla fine Tiziano lo aiuterà ad affrontare, senza retorica e sdolcinatezza, l’evento che più lo sconvolgerà. Il libro è forte e delicato allo stesso tempo, carico di immagini e sentimenti che po-
stata una grande idea. A - Scenograficamente hai ragione, forse era meglio lasciarlo a Villa Ottoboni, ma tieni conto che quella è roba da bagno di folla da trequattrocentomila persone… Il Moderno ha molti più spazi. R – Il vero bagno di folla è stato quello di Arrigo Cipriani; mettersi a sparare spritz con l’autopompa dei vigili del fuoco è stata una genialata. A - Chapeau! Peccato per tutto il ben di dio andato sprecato. R - A proposito di peccato; tu sei andato all’happening organizzato dalla nuova casa editrice di Melissa P.? A - Il crazy party? No R - Peccato per te, allora. Io sì; ha voluto conoscere i suoi fans uno per uno in un modo davvero originale: location eccellente, partecipazione riservata ai maschi, tutti in fila indiana, non più di un minuto a testa… bello, veramente bello… Sì ma lì l’organizzazione non ha meriti; è lei che ha voluto che tutto si svolgesse in una toilette.
che volte si associano ad un padre. Spesso, non si capisce quanto il protagonista scriva per amore del figlio o quanto per la propria sensazione di inadeguatezza nei confronti di quella creatura che un giorno potrà rinfacciargli il fatto di non essere stato poi un gran genitore. I dubbi e le paure di Leonardo, il suo continuo giustificarsi con un figlio che guarda come neonato, ma che immagina già quattordicenne, l’usare parole con il terrore che vengano fraintese e che implicano ulteriori scuse, spiegazioni e dimostrazioni, rendono il testo un po’ faticoso da por-
A - Dispiace per Mughini piuttosto… R - Ho sentito… Però, se ci pensi, se l’è cercata. Se giochi alla roulette russa in Piazza Venti Settembre per farti pubblicità qualche rischio lo corri, no? A - Già… magari sarà stata la casa editrice ad obbligarlo, chissà… R - Mestiere difficile quello dello scrittore, al giorno d’oggi… A - A proposito di scrittori; hai sentito di Faggiani? R - Chi? A - Faggiani R - Fagiani, le bestie? Gli uccelli? A - Ma non Fagiani, Faggiani, con due g. R - Maurizio? A - Noo, quello è Maggiani. Faggiani Guerrino. E’ Capo Redattore di una nuova rivista, una specie di libercolo che assieme ad altri ha cominciato a pubblicare circa tre anni fa… R - Ha cominciato a far cosa? A - A pubblicare… cioè lui ha scritto delle cose, altre le ha fatte scrivere; ha impaginato
tare fino alla fine. Per fortuna c’è Tiziano, che sdrammatizza le angosce dell’amico facendogli notare che “la vita è già troppo complicata così com’è, non occorre aggiungerci anche le cose che non esistono”. Chiara Zorzi
ALICIA GIMÉNEZ-BARTLETT
Il silenzio dei chiostri Sellerio, 2009
il tutto e lo ha fatto stampare. R - Un testo da leggere quindi. A - Esatto; da leggere e vedere perché ci sono anche delle immagini. Si intitola Libertà di Parola e raccoglie scritti e testimonianze di vita. Al Ridotto del Teatro parla della scrittura come riscatto sociale. R - Ma come parla? Parla e basta? A - Sì. R - Senza neanche una in parte che mostra le tette? A - No, ne parla assieme a Pino Roveredo, conosci? R - Conosco un Pino da Roveredo ma è senza tette. A - Pino Roveredo, un uomo; è il Direttore Editoriale della rivista. R - E parlano di scrittura? A - Scrittura come riscatto sociale, ma ascolti o no quando ti parlo? R - Ti ascolto ma sono esterrefatto: uno scrittore che parla di scrittura senza farsi sparare in aria o almeno correre su di una biga trainata da sei cavalli bianchi ormai è una perla rara. A - Di Guerrino lo puoi dire forte! R - E ‘sta rivista dove si trova? A - Sssstttt, parla piano che qui, se sentono che c’è in giro qualcuno che scrive, il prossimo anno lo caricano sullo shuttle e lo sparano in orbita per la prima lettura senza gravità! Vieni questa notte alle quattro in punto dietro il porticato dell’ex chiostro di San Francesco. Infilati un cappuccio nero, tieni un cero con la mano destra e dieci pagine strappate da un qualsiasi libro di Giorgio Faletti con la sinistra. Durante il successivo falò ti farò avere una copia di “Libertà di Parola”. R - D’accordo. A questa notte. A - Ora spostiamoci da qui; passa Lina Wertmuller in processione che declama tutto d’un fiato i titoli dei suoi film.
Storia di omicidi in terra consacrata, “Il silenzio dei chiostri” di A.G.Bartlett, porta la protagonista, l’ispettore Petra Delicado della polizia di Barcellona, a contatto con il ritirato e spirituale universo della vita conventuale, ove silenzio e pace preservano dai pericoli del nostro mondo di legni storti e diavoli tentatori: ovviamente, nel contesto del romanzo, le cose non stanno proprio in questi idilliaci termini. A partire infatti dall’omicidio del frate incaricato di una “ricognizione” sulle spoglie mummificate del Beato Asercio di Montcada, la vicenda prenderà una surreale piega storico-mistica e Petra , con l’aiuto del suo vice Garzon, sarà impegnata a dipanare una matassa che lei stessa avrà contribuito a rendere più aggrovigliata. Nel contempo, tra birre in locali di fortuna e cene lasciate a metà, dovrà preoccuparsi anche di come tenere insieme il suo nuovo matrimonio con l’architetto Marcos e una truppa di figli sparsi tra ex-mogli e soggiorni all’estero. Parte di una saga ormai longeva (mi si dice però non tra gli esiti migliori), questo romanzo ha molto zucchero e poco pepe: le questioni private di Petra Delicado soverchiano e appesantiscono la vicenda, mortificando spesso l’aspetto puramente “giallo”, tanto che gli eventi sembrano in realtà svolgersi da sé soli e la conclusione delle indagini è raggiunta quasi per forza d’inerzia dopo un fortuito –e tutto sommato eccessivamente casuale- colpo di scena. L’aspetto storico appare certo interessante, ma rimane troppo in lontananza per poter essere considerato diversamente da un mero fondale di cartone per rendere più appetibile una storia altrimenti, seppure tragicamente, banale. Andrea Russo
GUIDO SGARDOLI
The frozen boy
Gli autori che scrivono grandi libri per piccoli lettori...
A me è piaciuto quando Warren trova Jim, il ragazzo del ghiaccio, perché il professore ha dimostrato di avere tanto coraggio. Infatti se avesse avuto paura non lo avrebbe aiutato. Questo è successo proprio quando Warren voleva uccidersi, così ha trovato un motivo per vivere, perché a Warren questo ragazzo ricordava suo figlio Jack, che è morto. Al ragazzo del ghiaccio Warren può dare l’affetto che non è riuscito a dare a Jack. La storia finisce quando anche Jim muore, ma secondo me il messaggio di questo libro è positivo perché il ragazzo del ghiaccio può morire nel suo paese. Quando muore Warren torna in America e non vuole più suicidarsi.
San Paolo, 2011
a cura di Elisa Cozzarini Quest’anno, tra le attività estive del Centro di aggregazione giovanile “Spazio X” del Comune di Pordenone, abbiamo inserito la lettura collettiva del romanzo “The frozen boy” di Guido Sgardoli. Ha partecipato un gruppo di ragazzi di età diverse, dai 6 ai 14 anni. Al termine della lettura ciascuno ha commentato e rielaborato a suo modo il testo. Ecco alcune recensioni:
“The frozen boy”, il ragazzo del ghiaccio, è un libro scritto da Guido Sgardoli. Parla di un bambino di 11 anni che per un naufragio viene travolto assieme a una nave. Cent’anni dopo quel bambino viene trovato ibernato in Groenlandia dal professor Robert Warren. Assieme scappano in America, dove abita Susan, la ex moglie di Warren, per scappare dagli agenti dell’FBI. Beth (amica di Susan) li aiuta a nascondersi e sfuggire di nuovo dagli agenti, che vogliono fare degli esperimenti sul bambino. Decidono di andare in Irlanda, ma Jim (nome del ragazzo) muore. La cosa che mi è piaciuta di questa storia è che quest’uomo, che si chiama Robert Warren, dopo la morte del figlio (Jack), trova il coraggio di continuare a vivere grazie a Jim. Ma la cosa che mi ha sorpreso è che Jim riesce a sopravvivere dopo cento anni chiuso nel ghiaccio. La cosa che non mi è piaciuta è che purtroppo Jim muore, ma però muore nel suo paese. Farouk, 10 anni
Alexandru, 12 anni
A me è piaciuto quando Warren trova Jim, il Questo libro mi è piaciuto perché racconta una storia molto particolare. La parte che mi è piaciuta di più è quando il professor Warren trova Jim nel ghiaccio. È bella anche la parte in cui gli agenti dell’FBI cercano il ragazzo a casa di Beth, perché c’è molta suspence: non si sa come Jim e Warren riusciranno a salvarsi. Davide, 14 anni
Aicha 4 anni
TIMOTHÉE DE FOMBELLE
Vango
San Paolo, 2011 Vango è un romanzo d'avventura scritto da Timothée de Fombelle. E' ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale. Il protagonista, Vango, è un ragazzo cresciuto nelle Isole Eolie, in Sicilia, dalla bambinaia di cui non sappiamo il nome. Diventato grande, Vango scopre un monastero invisibile e da allora la sua vita cambia completamente, perché Vango scopre il mondo fuori dall'isola. Il suo sogno è diventare monaco e inizia i suoi studi a Parigi, ma proprio
quando sta per diventare monaco succede un imprevisto che lo porta a fuggire sui tetti di Parigi, dove incontra un dirigibile guidato dal suo amico Hugo Eckener. Qui inizia la vita avventurosa di Vango, tra fughe e inseguimenti, finché non incontra Ethel, una ragazza scozzese e ricca, che vive in un castello. I due si innamorano e alla fine stanno assieme in felicità. Questo libro mi è piaciuto perché attorno a Vango ruotano tanti personaggi, storici e inventati, e l'autore tiene viva l'attenzione del lettore con molti flashback e continue sorprese. Caleb, 16 anni
GLI ANGELI DI PORDENONELEGGE.IT
Sono ragazzi e ragazze che nel corso delle giornate di pordenonelegge.it diventano angeli custodi. Con indosso la tradizionale Tshirt gialla con le ali d’angelo disegnate, presidiano i luoghi degli eventi, collaborano con la segreteria organizzativa di ConCentro e accompagnano gli ospiti. In foto gli angeli di una passata edizione.
INVIATI NEL MONDO
RITMI BALCANICI DI UN POPOLO FIERO Nella Serbia del sud, fra migliaia di spettatori per l'annuale festival internazionale di musica e danze gitane Testimonianza di Nilla Patrizio, a cura di Lorenza Poggioli
Da un annuncio alla radio, la mia amica Wally viene a sapere di un festival di musica e danze tradizionali serbe e di origine zingara che si svolge a Guca, in Serbia, un villaggio montuoso di cinquemila abitanti. Entrambe siamo affascinate dalla cultura di questo popolo e l’idea di partecipare ad un evento per noi esclusivo, ci mette quell’ansia gioiosa che fa vibrare le corde. È mercoledì 7 agosto 2002. Dobbiamo essere lì fra 2 giorni. Oddio! Come organizzarsi in così poco tempo? Dove si va? Dove alloggeremo? Ci affidiamo alla buona sorte e con qualche perplessità saliamo sull’aereo che ci porterà a Belgrado. Per una serie di coincidenze e incontri fortunati, arriviamo a Guca come “giornaliste televisive” di un’associazione culturale in visita al villaggio con lo scopo di allargare gli orizzonti in materia di musica e danze balcaniche. È andata! Un sospiro di sollievo! Un addetto ai lavori ci accompagna all’appartamento che ci ha procurato. A tanta gentilezza
e disponibilità rispondiamo a gesti, conditi da un misero inglese. Eccoci qui, dunque, nel villaggio di Guca, nella Serbia centrale, a 150 km a sud di Belgrado. Giriamo per le stradine del paese e respiriamo l’aria di festa che avvolge e stordisce. Musica, musica sempre, per 4 giorni, senza interruzioni. Sono suoni che adoro, che mi mettono i brividi. Ascolto da anni in Cd la musica balcanica, ma qui è vera, viva. È intensità di un mondo acceso nel quale mi immergo e sento di farne parte, quasi fossero qui le mie radici. In ogni angolo bande di suonatori di ottoni, soprattutto trombe (trubaci) e strumenti a fiato sullo stile delle bande militari turche degli inizi del ‘900. Sfilano tra migliaia di persone (ne arrivano circa 300.000 per l’evento). I miei occhi si muovono instancabili, affamati di immagini di questo luogo così particolare. E la musica tiene alto il ritmo del cuore e dei sensi. Sotto innumerevoli tendoni si arrostiscono allo spiedo maialini e capretti. “Cupus” è il nome
di una zuppa di verze e carne che borbotta in grandi pentole di terracotta. Assaggio tutto con grande curiosità e scopro che mi piace. Come sono belle le ragazze serbe! Ballano con sinuosa morbidezza e ci si incanta nel seguire quei corpi sposati alla musica delle fanfare, le stesse che suonano ai battesimi, matrimoni e funerali. Ne giungono oltre 40 a Guca per il festival. Il sabato sera c’è un’atmosfera particolare. Tutta la gente si raduna allo stadio del paese e sul palco si avvicendano vari gruppi di suonatori. Si balla. Non puoi non ballare! Wally ed io ci uniamo ad un piccolo gruppo e ci lasciamo trasportare dalla magia delle note di chiaro sapore zingaro. Io sono felice. E Wally lo sa. Sono le 4 del mattino quando ci viene la rassegnazione al riposo. Ma la musica, quella no, non conosce pause. La strada, la gente, le fanfare ci richiamano e la domenica serba si carica di fermento per quello che sarà il giorno clou della manifestazione. I suonatori, sfiniti e sudati, loro, il cuore della festa, si spostano qua e là a richiesta di gruppi di persone che li vogliono, quasi in forma privata, ad accompagnare le danze sui loro tavoli. Li chiamano sventolando il denaro che poi infilano nelle trombe. Il capo della banda si incolla al sudore della fronte una banconota: è il segnale per iniziare. Danza e musica di-
ventano vertiginose, irresistibili. Si torna allo stadio per il concorso tra le varie fanfare. Sul palco ancora spettacolo e infine una giuria declamerà la banda vincitrice: ad essa la tromba d’oro. Wally ed io balliamo sempre, vivendo ingordamente quelli che, sappiamo, sono i momenti finali della festa. Non voglio pensare alla partenza di domani. Io resto qua. Io mi sento di qua. Le ore della notte si travasano nel livore dell’alba. L’esuberanza si smorza e lascia spazio allo strascico dei suoni più lenti, rari. Si torna in Italia. Lascio la festa e il cuore. Me lo ha rubato la gente serba, piena di passione e di orgoglio per le proprie tradizioni. Me lo hanno rubato quelle sonorità balcaniche, pregne di spirito zingaro. Un pezzetto mi hanno lasciato perché ci conservi Guca.
Teatro in carcere, il giorno dopo la prima Successo per la commedia "La legge è uguale per tutti?". Il racconto del dietro le quinte di Guerrino Faggiani All’inizio questa storia del laboratorio teatrale in carcere sembrava un’iniziativa come altre, bella e accattivante certo, ma come altre. Ben presto però ci siamo accorti che lavorare in una struttura carceraria faceva la differenza. Perché il contesto di un carcere è necessariamente un posto in cui vigono regole e divieti e gli addetti all’amministrazione in un modo o nell’altro vengono coinvolti in tutto quello che succede all’interno delle sue mura di cinta. Quindi la realizzazione del nostro progetto, latore di novità e cambiamenti rispetto alla normale gestione del penitenziario, ha significato impegno ulteriore per molte persone e di questo porgiamo un ringraziamento a tutti. Il primo incontro che assieme a Pino Roveredo abbiamo avuto con i ragazzi detenuti
nella Casa circondariale di Pordenone, alla fine di gennaio, si è consumato tutto in parole: è successo in una stanza adibita a parlatorio con sedie e tavoli bloccati a terra. Nell’incontro successivo, nella sala polivalente che ci ha poi ospitato fino alla fine del progetto, abbiamo messo loro in mano il copione e siamo partiti con le prime battute. Colpo di scena: la lettura era veramente un problema. Che fossero stranieri o italiani a leggere cambiava poco, non usciva una frase senza blocchi e strafalcioni. “Leggete leggete e ripassate”. Oltre alle canoniche strette di mano alla fine degli incontri, li salutavamo esortandoli: “Leggete”. Naturalmente mai nessuno lo ha fatto e noi già lo sapevamo, però lo dicevamo lo stesso. Io per lo meno, Pino più navigato bypassava.
Ma le difficoltà non sono mai state fatte pesare, neanche inviti a darsi da fare ci sono stati. Si riceveva quello che a ognuno andava di dare, a volte più a volte meno, ma a noi è sempre bastato. È stato questo a mio avviso uno dei segreti del nostro lavoro. Il gruppo infatti piano a piano si è appassionato e calato nella parte, e alla fine è stato in grado di rappresentare la commedia. A detta di molti, la prima della commedia trasmessa a giugno all’ex convento di S. Francesco di Pordenone, è stata una bella serata, chiaramente non fatta da professionisti, ma bella. Ora dopo il rompete le righe, a bocce ferme, a noi addetti che abbiamo seguito lo svolgimento del progetto, resta dentro una sensazione che non sappiamo nemmeno definire, un miscuglio tra piacere e dispiacere, soddisfazione e amarezza. Il piacere e la soddisfazione di aver visto la schiettezza e la serenità di persone che all’occorrenza sanno anche dimenticare tutto. Il dispiacere e l’amarezza nell’aver visto nei loro volti la frustrazione di pensieri che tormentano dentro, di problemi, del vivere male anche al di là della detenzione. E dopo tanto fatto assieme, andarcene e lasciarli di nuovo lì soli nel loro brodo non è stata una sensazione piacevole. Per quel che ci riguarda, nel nostro piccolo, resta la soddisfazione di aver dato vita ad un gruppo che ha saputo mettere in pratica quello che era solo un abbozzo di idea. Tutti insieme abbiamo dimostrato che il lavorare tra persone dalla mentalità e cultura diverse è possibile, e non è sinonimo di fallimento. È un dato di fatto dal quale si può trarre un prezioso insegnamento: l’unione è una risorsa, anche nelle modalità più strane e disparate. E come tale, detto in soldoni, anche una buona opportunistica via d’uscita alla dispendiosa guerra del bastone e dell’intolleranza contro il mondo.
CODICE A SBARRE
IN VIA DEL CORONEO
Come ogni santo giorno mi sveglio puntuale alle 6. Apro gli occhi e di fronte vedo il blindo. Mi alzo e mi faccio un caffè, fumo una sigaretta mentre le mie concelline dormono ancora. E penso: “Devo aspettare le 9.15 per la doccia. E intanto cosa faccio?”. Guardo un po’ fuori dalla finestra a cinque sbarre e vedo la strada, via del Coroneo. Le persone che aspettano un autobus che li porterà chissà dove. Guardandoli, così liberi e presi dalla loro vita “fuori”, penso e so che per loro “noi” non esistiamo. Anche chi la galera l’ha vissuta spesso si dimentica che ci siamo. Escono da questo maledetto cancello e chi si è visto si è visto. E noi qui aspettando il “fine pena” o chissà quale grazia divina. Per tirarmi un po’ su penso che almeno io un giorno uscirò e c’è invece chi ha un “fine pena mai”. Qui il tempo per pensare non manca, anche per sognare, perché almeno questa libertà non me la possono levare. La libertà di parola sì, me l’hanno tolta ma posso ancora scrivere. Ho imparato ad apprezzare quelle libertà che, per chi non è ristretto, sono cose così normali e che non si rende conto di quanto invece siano importanti: poter leggere, scrivere, pensare, sognare e sperare. L’esigenza che oggi provo grida già in libertà, sentendo in faccia un vento nuovo, una nuova possibilità. L.S.
La Giustizia va in scena ferma a prodotto finale rappresentato, di come non si sia assistito ad una proposta unilaterale, di quelle che, come spesso accade, fanno bene soprattutto a chi le propone, piuttosto che ai loro destinatari, ma all’instaurazione di una relazione reciproca (tra Pino, i detenuti, il personale, la regista, la psicologa e così via) da costruire attorno ad un tema che ha da sempre affascinato ed affannato gli
logia giuridica, ma nessuna, nemmeno quella più bieca, ha mai inteso perseguire un ideale che non fosse quello di Giustizia, secondo la prospettiva di chi le scriveva. E cosa dire, di quelle leggi che apparentemente perfette, proprio perché specchio di un innata idea di Giustizia, quando affrontano il mare della realtà umana, legittimano quel punto di domanda che sigla il titolo dell’ope-
uomini, quello della Giustizia. La Giustizia è un’idea che viene prima delle leggi e nei cui confronti le leggi si pongono come un tentativo di attuazione. Tante sono state le leggi passate nella storia, tante sono finite nell’archeo-
ra di Pino Roveredo: la legge è uguale per tutti? È la lotta fra la società che le esprime e l’individuo, che di quella società fa parte; è quindi anche la lotta interiore fra l’uomo nella sua dimensione pubblica (colui che viola la
legge) e la sua dimensione privata (l’uomo che soffre, che aspira per se stesso a qualcosa di diverso, qualcosa che, tanto più è indefinito e alto, tanto più è causa di tormento: vero supplemento di pena non scritto in alcun codice). E dietro questa lotta, vi è quella del Giudicante, i suoi dilemmi, di cui poco si parla, e che bene ha fatto Pino a proporre alla attenzione di tutti. Quando si trattano questi temi, nulla è scontato e una riflessione fatta nel suo insieme dalla comunità dei cittadini, nella sua rude e duplice composizione di chi “sta dentro” e chi “sta fuori”, può scardinare o confermare le nostre certezze: comunque le rimette in moto, le pone di nuovo sotto i fari della nostra ragione, della nostra capacità di pensiero. Nessuno dei presenti a quella serata di inizio estate se ne può essere tornato a casa pensando di aver fatto semplicemente la buona azione quotidiana (“dar da bere agli assetati, dar da mangiare agli affamati, visitare i carcerati… “ ricordate? ). Ogni persona di buon senso non può non essersi imposta un pensiero in più, rispetto a quelli consolidati con i quali si sveglia ogni mattina, e con i quali ogni sera rincasa (come il giudice della rappresentazione di Pino). Un pensiero in più, un dubbio in più, e - perché no? - magari anche una certezza in più: perché demonizzare tale conclusione di un pensiero logico? Almeno finché la certezza non diventi dogma improprio di una inesistente umana religione e sia pronta, quando sarà il momento, a rimettersi in discussione.
ne della registrazione delle scene recitate all’interno del carcere a espressioni teatrali dal vivo (mimo, canzoni, balletto) teatrali, il significato sociale dello spettacolo è stato di enorme profilo etico ed emozionale. E’ stato soprattutto l’occasione per un duplice cammino. Il primo, comunicativo, è stato quello di mettere in correlazione la cittadinanza con il problema carcerario, facendo comprendere la realtà anche esistenziale e psicologica dell’essere detenuti mediante drammatizzazione teatrale, nonché i carcerati con il mondo dello spettacolo (regista, attori, altre figure espressive). Il secondo, introspettivo e catartico, di far riflettere i detenuti sulla loro realtà e sulle cause della loro attuale situazione detentiva. Il tutto è stato realizzato con un profilo non solo dramma-
tico (come nell’episodio della vedova del bancario suicida), ma anche volutamente comico e caricaturale (come nei dialoghi dell’imputato recidivo). Il taglio volutamente “popolare” della recitazione ha poi reso più immediato il coinvolgimento del pubblico avvicinando i personaggi/detenuti nella loro umanità, perché stimolanti una maggiore comprensione/condivisione delle situazioni esistenziali di cui ciascun personaggio che era protagonista come persona reale. Direi conclusivamente uno spettacolo/messaggio che ha commosso il pubblico, il quale ha risposto con prolungati applausi. Unica nota negativa “personale” quella per cui nel trambusto e saluti finali non ho più ritrovato il mio ombrellino londinese cui per affetto e memoria ero molto legato.
Non è un progetto unilaterale, ma un lavoro che ha creto una relazione costruttiva con i detenuti dott. Alberto Quagliotto, direttore della Casa circondariale Mi è stato richiesto di scrivere un’impressione sull’esperienza che si è felicemente sviluppata all’interno dell’ex convento di San Francesco nella fine del mese di giugno con la messa in scena del testo di Pino Roveredo “La legge è uguale per tutti?” in collaborazione con le persone detenute nella Casa circondariale di Pordenone. Di regola esprimo quello che penso o, in alternativa, lo taccio: d’altronde, per un ovvio sentimento di buona educazione, non è così necessario e fondamentale per l’umanità che si conosca il mio pensiero. Non ho mai aderito alla sciocca presunzione, che mena vanto di dire sempre e comunque quel che si pensa, quasi fossimo tutti oracoli di Delfi! Non è, quindi, per mera circostanza che posso dire di aver maturato di quella serata un’impressione positiva, ricca, carica di significati; e ciò, per vari motivi, il primo dei quali – come ho avuto modo di evidenziare prima della rappresentazione stessa – riguarda lo spirito con il quale è stato condotto il progetto, almeno per quanto attiene al coinvolgimento reale e non fittizio dei detenuti dell’istituto che dirigo. Ho visto durante le prove, e ne ho avuto con-
L'etica della recitazione Forte l'impatto emotivo che l'opera ha avuto sul pubblico dott. Francesco Pedoja, presidente del Tribunale “Teatro in carcere, ovvero il carcere in teatro”. Il gioco di parole nasconde una esperienza teatrale di grande valore e significato magistralmente voluta, scritta e diretta da Pino Roveredo con la collaborazione del direttore della Casa circondariale, Alberto Quagliotto. Indipendentemente dalla alta qualità dello spettacolo che si è tenuto all’ex convento di San Francesco in occasione della prima della commedia e il quale alternava la proiezio-
PANKAROCK Per Ben Harper “Give till it’s gone” è il decimo album firmato Virgin. Per l’occasione, come già con “Welcome to the cruel world” che fu il primo prodotto con l’attuale etichetta alla quale l’artista americano è legato da un contratto di dieci dischi, Harper si ripresenta al pubblico da solo, senza la storica band degli Innocent Criminals e tanto meno con i Relentless7, con cui ha suonato nell’ultimo album. Dopo la breve parentesi con il gruppo da lui fondato Fistful of Mercy, di cui facevano parte Joseph Artur e Dhani Harrison, figlio dello scomparso George, con il quale hanno inciso l’album “As I call you down” ecco che Ben Harper ci regala un disco istintivo, quasi liberatorio. Arricchito dalla prestigiosa collaborazione di un altro “Fab Four” Ringo Starr, amico dell’artista californiano, nei brani “Spilling faith” e “Get there from here” e del prestigioso cantautore Jackson Browne, proprietario del Los Angeles Studio in cui insieme hanno cantato l’intenso brano “Pray That Our Love Sees the Draw”, il disco è stato anticipato dal singolo “Don’t give up on me now”, scritto a quattro mani con Jason Mozersky, un brano in cui traspare l’amarezza della separazione tra il cantautore e l’attrice Laura Dern. Ed è l’amore, con tutte le sue sfaccettature, il tema predominante dell’intero album, come per esempio in “Feel love”, “Do it for you, do it for us”. Mentre
Harper, cuore e istinto L'ultimo album dell'artista americano presentato al concerto al No Borders Festival di Tarvisio di Fabio Passador
“Rock and roll i s free”, oltre che ad essere suonato come un inno, è l’omaggio all’amicizia con Neil Young, il cantautore fock-folk che in apertura del concerto di Londra di Ben Harper ha iniziato con il suo cavallo di battaglia “Keep on rockin in the free world”. Il nuovo album di Ben Harper non conterrà il calore di quelli registrati con gli Innocent Criminals, ne tantomeno la ruvidità di suono di quelli incisi con i Relentless 7, ma di sicuro è un lavoro sincero, che racchiude molto di ciò che è stato l’ultimo periodo artistico dell’autore,
che comunque dà il meglio di sé nelle esibizioni live. A dir poco memorabile è stato il suo concerto a Tarvisio (Ud) di luglio, nell’ambito del prestigioso “No Borders Festival”, accompagnato dalla band dei Relentless7, che hanno aperto lo spettacolo con la hit del momento “Don’t give up on me now”, e che subito hanno acceso l’entusiasmo delle circa tremila persone presenti in Piazza Unità, per poi spiazzare tutti con una versione acustica di “Diamonds on the inside” e dell’inedita “Masterpiece”. E’ bastato attenere poco per
vedere finalmente un Ben Harper accomodato su una sedia a sfoderare la magia della sua slide guitar con l’energetica “Number with no name”. L’ecletticità dell’artista californiano nella sua tappa friulana si specchia anche nella scaletta musicale della serata, tanto che l’intimismo creato durante la prima parte del concerto lascia il passo al rock sincopato di “Lay There & Hate Me”, all’energia di “Rock n’Roll Is Free” e “Born to shine”, che cresce fino all’apice di “Fly On Time” e “Amen Omen”. I virtuosi riff di chitarra della band lasciano spazio alla psichedelica di stampo Beatles del brano suonato insieme all’amico Ringo Starr nell’ultimo album “Spilling Faith”, per poi chiudere con le calorose ballate “Walk Away” e “Roses From My Friends”. Ma il momento più emozionante è stato quando l’artista ha abbandonato la sua chitarra e il microfono e, abbracciato dal silenzio del suo pubblico, si è lasciato andare nel canto a cappella di “Where could I Go”, dando voce al suono del suo cuore. Dopo di che, l’artista e la sua band sembrano voler terminare questa meravigliosa serata ed i due bis culminano con il coro liberatorio di “Better Way”, per concludere con un’epica versione di “No Quarter” dei Led Zeppelin e ringraziando, emozionati quanto il pubblico presente, con la dichiarazione di Ben Harper: “You gave us the night of our lives”.
Non rischiare, soffia Alla Festa in Piassa Rdp fa prevenzione sull'abuso di alcol di Stefano Venuto Per il secondo anno si è rinnovata la collaborazione tra l’associazione Festa in Piassa e noi Ragazzi della Panchina. L’edizione 2011 dei festeggiamenti si è svolta dal 18 al 29 agosto, nel centro polisportivo comunale di Villanova di Pordenone. Noi siamo stati presenti da giovedì 18 a domenica 21 e da venerdì 26 a lunedì 29. Abbiamo allestito un vivace e colorato stand presso l’Area Skate Park dove dialogare con la cittadinanza, portare l'esperienza della nostra associazione, distribuire materiale informativo, discutere sulle problematiche dell'
Hiv (con la distribuzione gratuita di preservativi), proporre la lettura di passi del nostro giornale e dei libri da noi pubblicati come spunto per un incontro e una riflessione condivisa. Nello stand adiacente al primo, grazie alla forte collaborazione decennale con il Sert di Pordenone, abbiamo preparato un’area all’interno della quale riflettere sull’uso e abuso di alcol: abbiamo offerto così la possibilità a tutti di compilare in forma anonima un questionario, attraverso il quale raccogliere dei dati significativi sull’uso e abuso di alcol e sulla percezione indi-
viduale e sociale dello stesso. Abbiamo avuto a disposizione due etilometri professionali, attraverso i quali poter istantaneamente misurare il tasso alcolico dei partecipanti e avere quindi immediatamente un raffronto tra percezione e dato reale. Il progetto è stato possibile grazie alla collaborazione con l'Alcologia di Pordenone. Essere a Villanova non è stato importante tanto per ogni singolo, quanto per il concetto del noi, abitanti in diversa misura dello stesso mondo, mondo che è la stanza del proprio appartamento o lo spazio più sconfinato possibile.
Numeri 2011 Distribuiti gratuitamente: Giornale Ldp 100 Materiale informativo 300 Profilattici 1000 Libro "Noi viviamo!!" 20 Alcol test monouso 130 Questionari 121 Alcol test eseguiti 250 Contatti 400 Operatori Rdp e Ser.T 5 Volontari e tirocinanti 6 Collaborazioni: Ser.T e Coop. Soc. Itaca
ZIO FRANCO
HO RIFATTO UN INCONTRO Nella sua casa a Pieve di Soligo il poeta Andrea Zanzotto mi ha ridato una grande lezione di vita, come negli anni in cui sostenne la nascita del nostro gruppo di Franco De Marchi Io il poeta Andrea Zanzotto erano anni che non avevo l’occasione di incontrarlo. A parte l’anzianità del fisico, la mente è sempre lucida e pronta, sia nelle esternazioni che nel commentario di fatti, situazioni o persone. Anche per questo e non solo, penso a come nel 2008 quando tutti ce lo aspettavamo non si sia potuto assegnare un Nobel al Poeta. Ritornando alle prime righe, quando l’occasione mi si è ripresentata abbiamo discusso con lui di e su varie situazioni: da Leopardi di cui è un grande estimatore, alla politica contemporanea. Inutile sottolineare che di dialogo ve ne era ben poco, in quanto con un personaggio di quella levatura ci si pone in posizioni di ascolto, anche perché in ogni frase che costruisce vi è sempre materiale da meditarci sopra. E’ sopra le righe, criptico nelle sue poesie, ma chiaro, non semplicistico nell’esposizione delle proprie idee e nella maniera di fartele percepire. Già nel nostro libro: “I Ragazzi della Panchina” accennavamo all’importante input che il Poeta ci diede per farci sia da stimolo verso altre tematiche sia nella poesia che nella narrativa (che ci distogliessero dalle nostre “storie”) e soprattutto nell’aiutarci a cercare un aiuto reciproco. Era un periodo in cui cercavamo di mettere in pratica il progetto dei Ragazzi della Panka. Comunque questo nuovo incontro, che qualcuno dava
per scontato si è rivelato invece come un ulteriore situazione di stimolo. Questa volta l’abbiamo incontrato nel suo ambiente, nella sua casa di Pieve di Soligo, in cui tutto rispecchiava la sua spiccata personalità. Non è la classico domus dannunziana che ci si aspetterebbe da un personaggio longevo sia fisicamente che mentalmente, anzi è un ambiente sobrio, all’interno della quale vi era quello che giustamente crea un ottimo connubio tra corpo e mente, niente di superfluo; di concreto e di importante vi è lui con le sue parole e coerenza di vita, dedicata sia alla poesia, ma non per questo divisa dalla realtà che lo circonda. Inutile sottolineare che al ritorno ci è rimasta impressa un’ottima traccia per pensare e molto su cui riflettere. Niente da dire, quando uno è grande è grande. Peccato che sia ancora troppo misconosciuto e ancora non gli sono stati attribuiti dal “sociale” i riconoscimenti che merita. Forse è anche questa una lezione di Vita, l’Umiltà dell’Uomo che non cerca il plauso, ma anzi fa sì che la miglior predica sia l’esempio. Non è mai andato a mendicare dei premi tipo lauree ad honoris causae, come fatto da altri personaggi minori ad esempio un corridore di moto od un ex presentatore televisivo. No, di questo non ne ha bisogno per sé, è il suo SE che scrive e parla e che ci aiuta a Vivere.
EL CANTON DE GUERI
-In machina-Iii ma alora.. o scusaa! No lo go visto Gigi. Ghe ho dat na pesada al careghin sensa volerlo, noo.. l’è finio proprio in meso al canal, e ades?-Scorese de ges. E ades cossa? Ara dove che l’è andà..-Me despiase gigi scusa. te ne ciogo n’altro uguale, de che marca erelo?-De la NOGAS-PLEASE-Va ben, e lora te lo cio.. saccramento la cana, te la go pestada Gigi, no la go proprio vista-Ti bambin no te vedi massa robe, elo scuro stamattina?-Varaa.. la se gà rotto proprio qua del mulinel, no se pol neanca più giustarla. E lè quela bela anca, quela che te gà vinto in gara a Vidulis. Fa veder.. l’è da butar via si. Te meriteria de ciapar un baston e darte so finchè vien tutti steccadenti-Scusa Gigi. Ma anca ti però, te la meti li par tera..-No, la metarò par aria-Va ben vorà dir che fasen tut un conto dai, fortuna che te ne ga altre qua. Ostia ma che fredo che fa stamatina, peta che me sero el giuboto. Te sa la bronchite che gavevo? El dotor el dise che devo star atento a no ciapar fredo senò
In giro par la Meduna -Gigi, cossa fatu qua a ste ore co sta brosa?-Spetavo un ch’el vignisi a domandarmelo-Elo tant che te son rivà?-Do sigarete fa-Anca mi l’è da un fià che son in giro, no riusivo più a dormir e l’ora gò dita: peta che vado a far na girada pa la Meduna co la cana da pesca, posso meterme qua anca mi?-Se proprio no te pol far de manco..-Grassie grassie, no credevo de trovarte qua, te avevi dita che no te vignivi a pescar oggi. L’è na fortuna alora che se semo trovai-Fortuna no l’è la parola giusta-Ghe ha mancà poc che no vignissi neanca mi satu? La machina no la voleva proprio partir stamatina, tasi che dopo l’è vignua giù me femena in vestaglia a sburtar senò..-Insoma no l’è proprio giornata par mi, varia do parole anca par to femena-Gatu la luna storta oggi Gigi?-
-Co ti sempre!-Perché cosa gaio fat de mal?-Te son nat!-A ma se l’è cusì alora me meto qua in parte, così te dago manco fastidio-Sempre masa-E l’ora me meto la de quela pianta così semo ancora più lontani-Sempre masa poc-Ma vara che ho capio sa che te fa così solo par veder cosa che digo?-Ee l’è sodisfasion cio-Me piase perché te ga sempre voia de schersar. Atu vist che gnoca stamatina li del bar de Rino? I l’ha appena assunta, me son mes anca a morosar un fia ma dopo l’è rivada gente e l’ora.. però saria restà volentieri la co ela al caldo -E invece te son vignuo qua a romperme i coioni a mi-Ah ah bona questa.. e ti Gigi a femene come vatu?-
la pol anca tornarme-Alora ghe gè ancora speranse-E pensar che me cognà l’è a lavorar alle maldive, l’è andà co l’aereo, co quei de la mola te sa?-Che mola? Elo andà co un aereo a mola?-Noo cossa ditu su!? Co un normale, quei grandi, come se ciameli quei la, quei de la mola?-Aaa.. i Boing, ma senti che robe, e mi che te vegno anca drio-Si si co quel, e ades l’è la al caldo, beato lu. Ma perché te gà tutte ste carte de giornal dentro la cesta del pes? Peta che la svodo giù pa l’acqua, così me faso perdonar un fià. Porco bestia Gigiiii.. no gavevo visto che ghe gera na truta dentro, ee ormai.. -Chel te vignisi un canchero de quei che’i dura diese ani!-Me despiaze gigi.. scusaa-To nona sbusa-Cosa?-Un tantin de merda grosa-Te son proprio rabià cio. Peta va, forse l’è meio che vadi via-L’atu capia si!? -Bon vado-Sotu ancora qua?? -Ciao Gigi ciao-
NON SOLO SPORT
L'antica arte di adestrare i falchi di Guerrino Faggiani "Tutti possono avere un Falco, ma pochi diventar Falconieri”. Lo diceva A.U.Filastori, autore di “Falconeria moderna”, uno storico trattato sulla falconeria edito nel lontano 1908. Le origini dell’addestramento dei rapaci si perdono però nei tempi, sembra in quello degli antichi egizi nel 3000 a.C, quando si praticava anche una caccia simile con i felini. Ma le prime testimonianze certe di addestramento di falchi alla caccia, provengono dalla Cina e risalgono al 2000 a.C. In Europa la falconeria ebbe grande diffusione nel Medioevo, sotto il regno di Federico II imperatore del Sacro Romano Impero, che spesso nelle immagini che lo ritraggono è raffigurato con Da tempo mi ronzava in mente di saperne di più sulla storica arte dell’addestramento dei falchi alla caccia. Incuriosito, ho perciò deciso di rivolgermi direttamente ad un gruppo di appassionati. In particolare ho contattato il Circolo Falconieri del Friuli Venezia Giulia (www.falconeriafvg. it) e ho finito per scambiare quattro chiacchiere con Christian, falconiere da una dozzina d’anni. La prima cosa che mi ha detto è che in Italia si possono allevare solo falchi nati in cattività, il prelievo in natura è proibito in maniera assoluta in quanto specie particolarmente protetta. Ed ecco nascermi in mente la prima domanda. Christian, ma i falchi nati in cattività hanno forse qualcosa in meno di quelli selvatici? “Se un falconiere sa fare bene il suo lavoro, i primi non hanno assolutamente niente in meno rispetto ai secondi. Infatti la nostra stessa passione ci spinge proprio a sviluppare al massimo il loro istinto naturale, a renderli uguali. L’unica differenza sta nel fatto che i falchi d’allevamento instaurano un rapporto con il falconiere e con i cani, devono essere in simbiosi anche con loro”. Come avviene la caccia con il falco? “Si svolge con il cane sciolto che a terra va alla ricerca del selvatico e lo stana, mentre
il suo falco prediletto. La sua grande passione lo portava a dire che un giorno passato senza andare a caccia con il falco era un giorno perso. Nel XVII secolo, la falconeria era una attività elitaria e molto costosa: un falcone addestrato alla caccia poteva costare come un podere intero. Possederlo era indice di nobiltà e stato sociale; ogni gradino della società a seconda della sua importanza aveva associate una precisa specie di falco, da quelle più nobili ad appannaggio di re e principi, per scendere via via di rango fino alle più umili riservate ai poveri. La falconeria ebbe una diffusio-
ne così stratificata che
si profilò la necessita di legiferare in materia e di mettere regole e pene severe per chi le trasgrediva. Mai nella storia un animale ebbe una così grande importanza nel tessuto sociale. Dopo la rivoluzione francese, con il declino della nobiltà e la comparsa delle armi da fuoco, la falconeria subì un brusco tracollo. Nel XX secolo non era rimasto più niente dell’antica passione tra uomo e falco, anzi i falchi erano considerati nocivi, perché visti come competitori nella caccia. Venivano uccisi, avvelenati e sistematicamen-
Falconieri, non per caccia ma per passione Fondamentale è saper creare la simbiosi tra il cane e il falco di Guerrino Faggiani
il falco già in quota assiste e picchia non appena la preda è costretta ad uscire allo scoperto. È difficile incontrare selvaggina e per questo utilizziamo il cane: facciamo in modo di provocare la caccia all’animale, piuttosto che affidarci alla sola casualità”. Ogni attacco si conclude ne-
cessariamente con la cattura della preda? “No anzi, dipende da tanti fattori che entrano in gioco durante l’azione di caccia, dipende anche dalla preda stessa. Diciamo che gli attacchi che vanno a buon fine sono sull’ordine del 30 per cento. Ma va detto che il falconiere non va a caccia per
te si procedeva alla distruzion e dei nidi. Poi venne il tempo degli anticrittogamici in agricoltura, che come tutti sappiamo vennero usati senza criterio, influendo in modo drammatico su molte popolazioni di falchi. Durante questi periodi bui, dal 1700 ad oggi, gli unici strenui difensori degli uccelli predatori sono stati i falconieri, che con la loro smisurata passione hanno sempre difeso e protetto le varie specie selvatiche. Non disperdendo gli antichi saperi dell’arte della simbiosi uomo-falco. riempire il carniere: la nostra soddisfazione è vedere un cane che lavora bene, un falco in forma e l’azione della caccia. Noi alla fine siamo solo degli spettatori” So che i falchi vengono usati anche per bonificare zone da animali indesiderati, da piccioni ad esempio. Può essere anche un lavoro? “Certo. Nel nostro circolo ad esempio ci sono due persone che fanno questo di mestiere, a tempo pieno nell’aeroporto di Ronchi. Con una dozzina di falchi garantiscono, dal sorgere del sole al tramonto, che le piste siano sgombre da gabbiani, uccelli e animali vari”. Come siete considerati dai non cacciatori? “Già per il fatto che non usiamo armi, siamo visti sotto una luce diversa rispetto ai cacciatori tradizionali. I falchi inoltre sono animali molto belli, hanno un grande fascino, e va a finire che la gente si avvicina a vedere. Ma a questo proposito vorrei dire una cosa: portare a casa un falco solo per averlo non ha senso. Un falco deve volare, deve cacciare, deve sviluppare il suo istinto e va tenuto nel massimo del rispetto del suo temperamento. È un impegno giornaliero che richiede tempo e passione, e non uno sfizio momentaneo”. Grazie Christian cercheremo di tenerlo presente e lasceremo il falco, come qualsiasi altro animale (se proprio li dobbiamo lasciare) a chi li merita.
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009
—————————————— Pino Roveredo "La melodia del corvo" è il suo ultimo regalo letterario. Capriole in salita, Caracreatura: Attenti alle rose, nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. Con l'associazione ha da poco aviato un laboratorio di scrittura creativa coraggioso
—————————————— Gino Dain Un medico un giorno gli ha detto: se continui cosi non duri più di sei mesi. Era il 1980. Da allora per scaramanzia non è cambiato di una virgola. É la dimostrazione vivente che la medicina non è una scienza esatta
—————————————— Elisa Cozzarini È riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. Insomma, Freelance Amstrong
—————————————— Guerrino Faggiani Rinasce nel maggio 2006 all’ospedale di Udine. Da lì in poi è blogger (www.iragazzidellapanchina.it/ gueriblog ), attore, ciclista.. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche davanti al computer. “Cosa? Tagliare?!? Piuttosto non sta neanche metterlo..”
—————————————— Emanuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Memorabili le sue performance nel ruolo del carcerato, con tanto di lancio della canotta al pubblico e pettorali in bella mostra. Per un po’ di tempo, purtroppo, si è dimenticato di uscire dalla parte.
—————————————— Andrea Picco Su Fb alla voce orientamento religioso ha scritto integralista juventino. Ora stiamo pensando di scrivere a "chi l'ha visto?" per sapere che fine a fatto sia lui che la Juve. Ogni tanto ci arriva una mail che conferma la sua esistenza, come le poche
—————————————— Chiara Zorzi Finalmente una femmina tra tutti questi operatori maschi! Ci voleva! Sopranominata miss perfettina, non le scappa proprio niente. Ogni tanto ti viene da azzannarle la giugulare, ma poi ti fermi e pensi: "Meno male che Itaca ce l'ha mandata!"
Direttore Responsabile Milena Bidinost Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Andrea Picco, Franca Merlo, Ada Moznich, Elisa Cozzarini, Franco De Marchi, Giuseppe Micco, Chiara Zorzi, Emanuele Celotto, Fabio Passador, Serena Filieri, Roberta Sabbion, Luca Fornasier, Giulia Salvador, Sefano Venuto, Andrea Appi, Ramiro Besa, i Ragazzi del C.A.G. "Spazio X", Nilla Patrizio, Lorenza Poggioli, Alberto Quagliotto, Francesco Pedoja. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto Impaginazione Ada Moznich Illustrazione pag. 7 Sqon
—————————————— Stefano Venuto Il nuovo operatore che si è insediato a febbraio, ha ricevuto il battesimo da "Zio Franco" che appena visto lo ha insultato e lui gli ha risposto: "un attimo che appoggio la borsa e poi ne parliamo" da quella volta sono amiconi.
—————————————— Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. perchè si è ripresa la vita (www. milenabidinost.blogspot.com) e oggi, come un trionfo, il direttore " vive, parla, ride, si arrabbia, commuove, annoia, risveglia…"
Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 4 e 5 da sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pag 13 Nilla Patrizio Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo della Fondazazione CRUP attraverso il Comune di Pordenone
—————————————— Fabio Passador Quando si dice che nella botte piccola ci sta il vino buono! L'ultimo acquisto della squadra operatori ne è una conferma. In barba alla sua altezza, lo trovi ovunque: arte, sociale, impegno civile, politica ed ora è anche un Ragazzo della Panchina.
—————————————— Ada Moznich Per l'Unità è una dei nuovi Mille italiani che stanno rifacendo l'Italia, impresa ben più ardua di quella garibaldina. Se quelli avevavo la camicia rossa, a lei basta un fiocco. Non ci resta che sperare che lei e gli altri 999 non la rifacciano uguale.
—————————————— Giuseppe Micco Bepi: secco come un terno, Monsieur Le Bepo è il lottologo della compagnia. Dategli la vostra data di nascita e ne farà una fonte di reddito. Una volta all'anno da Monsieur diventa Mister: dei leoni indomabili, i Kullander United.
—————————————— Andrea Russo A vederlo sembra un talebano ma se lo si conosce si scopre che è più dolce di uno cioccolatino. Laureato da poco in medici con 110 e lode, ma il suo cuore batte per la letteratura e ha implorato la redazione per poter scrivere su LDP. Intabto si sfoga su: www.paleozotico.it
—————————————— Franca Merlo O Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia. ilcannocchiale.it
—————————————— Franco De Marchi Frate mancato, tra i fondatori degli RdP, poeta cambusiere per sua stessa ammissione si è lavato qualche volta il viso con gli occhiali da sole su. Oltre agli occhiali c'è una cosa da cui è inseparabile: la... polemica
Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Tel. 0434 363217 email: info@iragazzidellapanchina.it www.iragazzidellapanchina.it Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00
leggere non e' mai una perdita di tempo I ragazzi della panchina campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale DEI RAGAZZI DELLA PANCHINA CON IL PATROCINIO del comune di pordenone