APPROFONDIMENTO
pordenonelegge.it
Libertá di Parola 3/2014 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
LAVORI IN CORSO
Il nostro giornale "Libertà di Parola" ritorna anche quest'anno ad ospitare al suo interno uno speciale sull'evento pordenonese che in città ospiterà gli autori e i loro libri. La manifestazione è organizzata, per la prima volta, dalla neonata e omonima Fondazione. Quest'anno pordenonelegge.it compie 15 anni. Le interviste ad alcuni tra gli ospiti della manifestazione, che si terrà dal 17 al 21 settembre, e le recensioni della nostra redazione. a pagina 9
NON GIUDICARE!!
dell'équipe del progetto Il 7 febbraio 2013 per molti è una data qualunque, per noi è una data speciale, il costituirsi del gruppo “Lavori in Corso”. Un giorno significativo dove tutti gli operatori che lavorano al progetto si sono incontrati con i primi utenti che hanno aderito al gruppo, alcuni dei quali ci sono ancora, altri invece hanno intrapreso diversi percorsi terapeutici. Il progetto nasce per essere un punto di riferimento non statico, un cantiere aperto, una struttura in costruzione, uno spazio di relazione educativa all’interno del Dipartimento per le Dipendenze dell’ASS n.6. L’équipe che segue il progetto si costituisce per volontà del primario, Roberta Sabbion, nell’ottobre 2012, con il mandato di ripensare l’ambulatorio di via Montereale, un luogo connotato principalmente per la distribuzione della terapia farmacologica, fra cui il metadone. All’interno dell’équipe “Lavori in corso” vi lavorano quattro operatori impegnati con il
gruppo, non sempre presenti contemporaneamente, ovvero due infermiere Floriana Nardozi ed Enza Santo e due educatrici professionali Veronica Pilosio e Valentina Furlan. Vi sono inoltre due medici, Giuseppe Arivella e Alessandro Zamai e una psicologa, Nadia Furlan, che contribuiscono nella fase progettuale e svolgono la funzione di supervisori. All’équipe si è aggiunta in seguito anche l’infermiera Vilma Calderan, con la prospettiva futura di avviare qualche altra progettazione sempre nella sede di via Montereale. Il lavoro settimanale degli operatori ha dato vita alla progettazione del gruppo del giovedì, denominato anch’esso “Lavori in Corso”. Fin da subito la volontà è stata quella di “restaurare” il magazzino della sede e trasformarlo in un luogo dove giocarsi la relazione, in una condivisione spaziotempo che ha la finalità di continua a pagina 3
CODICE A S-BARRE
Dalla nostra redazione in carcere a pagina 4
INVIATI NEL MONDO
Viaggio studio in Turchia. Giovani a confronto sul futuro del paese a pagina 13
PANKAROCK
NovaRock, il festival internazionale austriaco della musica compie dieci anni Ci saremo anche noi, I Ragazzi della Panchina, tra gli ospiti di questa edizione di pordenonelegge.it. Giovedì 18 settembre, alle 18 al Ridotto del Teatro Verdi, presenteremo “Non giudicare!! Pensieri di uomini non liberi”, un libroantologia nato all’interno del laboratorio “Codice a s-barre”, realizzato assieme ai detenuti della Casa circondariale di Pordenone. All’incontro interverranno Alberto Quagliotto, direttore della carcere cittadino, Cristina Colautti, educatrice dell’associazione ed Alvise Sbraccia, ricercatore in sociologia del diritto, della devianza e del mutamento sociale. Attraverso questo libro e ad un video, che sarà proiettato durante l’evento, daremo voce a coloro i quali, benché reclusi, vivono nella nostra stessa città e troppo spesso sono percepiti come una realtà distante, se non estranea, alla sua popolazione. Progetto in collaborazione con l'Ambitobito 6.5.
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NON SOLO SPORT
Speleologia, il fascino della grotta e l'impegno dei volontari continua a pagina 16
STORIA
1914 L'Italia verso la Prima Guerra mondiale a pag. 18
IL TEMA
Con tutti i cinque sensi all’opera «Qui abbiamo sperimentato anche un sesto senso, fatto di cambiamento di prospettiva e fiducia» del gruppo Lavori in corso “Lavori in corso” è uno spazio di relazione tra l’individuo e il gruppo, la relazione è governata dal pensiero e dalle nostre emozioni che si strutturano in base a quello che proviamo attraverso il tatto, l’udito, l’odorato, il gusto, la vista. “Lavori in corso” ha stimolato i nostri cinque sensi e vogliamo tutti assieme così descriverli. GUSTO Ogni giovedì il gruppo inizia con la colazione, il momento conviviale in cui il nostro gusto viene appagato da ciò che più ci piace: una brioche,
una fetta biscottata con marmellata, del succo di frutta e il tanto desiderato caffè (rigorosamente con la panna, se c’è) magari accompagnato da una fetta di dolce. La colazione ti fa sentire accolto ed è alla base della partecipazione, del sentirsi parte di un gruppo con il quale, in quel momento, condividi un’esperienza che appaga il nostro bisogno primario di mangiare. ODORE A “Lavori in corso” si sente il profumo di caffè o di deodorante che qualcuno si è spruzzato prima di uscire di casa. Alle volte gli odori buoni si mescolano a quelli cattivi che ci fanno subito cogliere le difficoltà altrui ed essere vicini all’altro in un momento difficile di vita. Il sentire gli odori ci fa provare un senso di familiarità. TATTO A “Lavori in corso” questo senso passa attraverso il contatto con l’altro, che ci permette di sentire l’altro e le sue emozioni. Riusciamo così a cogliere le vibrazioni e il calore delle relazioni con le persone che ci stanno accanto, sperimentando il senso di comunione e famiglia. E, come uno specchio, nel contatto con l’altro ci sentiamo valorizzati, perché
«Nel gruppo buttiamo fuori il male che ci attanaglia» La testimonianza di Mauro Leggendo il termine “Lavori in corso” si potrebbe pensare a tutto tranne che sia un gruppo terapeutico. “Man at work” nello slang americano significa appunto “lavori in corso”. Questa espressione, in questo caso, per me descrive un gruppo di riflessione e condivisione dei vari problemi che possono assillare un membro del gruppo costitui-
to. La cosa buona è che il ragazzo del gruppo non viene assolutamente lasciato solo con i suoi problemi, ma ci sono due educatrici, Valentina e Veronica, che si fanno carico dei vari problemi che uno può avere in particolari situazioni della propria vita. Oltre alle due educatrici c’è anche Enza come coordinatrice infermieristica e l’in-
accolti per quello che siamo. UDITO L’udito ci permette di ascoltare, ma ascoltare, a “Lavori in corso”, significa andare oltre le semplici parole e sperimentare l’empatia. Nella storia del progetto, l’ascolto ha richiesto a tutti molto lavoro su di sé acquisendo un’esperienza fondamentale in quanto saper ascoltare permette la profonda sintonizzazione con l’altro. Per “Lavori in corso” ascoltare significa saper aspettare, saper rispettare i tempi degli altri, interessarsi con concentrazione a quello che gli altri dicono; ma allo stesso tempo, l’ascolto dell’altro, ci permette di riflettere in modo introspettivo, ascoltare le nostre emozioni e quindi aiutare l’altro. VISTA La giornata inizia con la firma del registro: ognuno, firmando, afferma di esserci. Facendo poi colazione ci vediamo uniti e ci preoccupiamo di chi manca. Nelle discussioni ci accorgiamo della bellezza della diversità che sta in noi, ma riusciamo anche a cogliere che l’altro c’è. A "Lavori in corso" riusciamo a vedere dentro gli amici, a leggere le difficoltà degli altri, a capire quando stanno male o hanno dei problemi.
IL SESTO SENSO A “Lavori in corso” abbiamo potuto sperimentare anche un sesto senso che è quello del cambiamento: abbiamo cambiato modo di prendere la terapia, che è stata spostata in là nel tempo; riempito di ascolto, parole, presenza e riflessione su quello che è il nostro bisogno; abbiamo cambiato il modo di valutare l’altro cercando di andare oltre l’etichetta e provando stupore se l’altro riconosceva in noi alcune caratteristiche delle quali non eravamo nemmeno a conoscenza; ci impegniamo a cercare di indossare occhiali diversi per leggere il quotidiano che è fatto anche di aspetti positivi. L’offrire il pranzo a degli amici, l’aiutare un famigliare, il riuscire a svegliarsi in tempo per non perdere l’autobus, l’aprire la finestra al mattino e vedere il sole. Il sesto senso si chiama anche fiducia, quell’aprirsi lento, quell’imparare a spiegarsi e raccontarsi mettendo in comunione ciò che siamo veramente. Non sempre è facile dire cosa c’è che non va, spesso è più veloce il “basta non vengo più”. Ma il tempo è la chiave, sedersi intorno ad un tavolino, entrare anche in conflitto, però stare in relazione.
fermiera Floriana a seguire il progetto. Per completare l’aiuto al singolo, in un secondo tempo, ci siamo noi che componiamo il gruppo, con le nostre esperienze e le nostre conoscenze. Io ho cominciato a frequentare il gruppo fin dall’inizio, circa un anno e mezzo fa, ed eravamo io, Sara e Davide. Con l’andare delle settimane si sono aggiunti altri fino ad arrivare ad un numero variabile di 7-8 persone. Dell’équipe fa parte anche il dottor Alessandro Zamai, che nonostante non abbia mai seguito un gruppo, ti motiva con tutti i mezzi a sua disposizione a partecipare. Abbiamo comunque la certezza che da dietro le
quinte lui segua con interesse le evoluzioni dei “Lavori in Corso”. Io ho cominciato principalmente per provare un'esperienza nuova, mi sono fidato e messo nelle mani degli operatori e questo prosegue tutt’ora. Il consiglio che posso dare a chi frequenta il gruppo è quello di buttare fuori il male che ci attanaglia per giorni e scaricare tutto il marcio che hai dentro. Questa cosa ti fa sentire sicuramente più sollevato, perché è importante condividere il tuo malessere con i compagni. Il gruppo prosegue con i suoi alti e bassi. Abbiamo fatto delle uscite tutti assieme in compagnia e sono state giornate molto rilassanti e coinvolgenti.
Quando l'utente torna ad essere una persona «Grazie a questo progetto mi sono messa in discussione come operatrice dopo vent'anni di lavoro» di Enza Santo infermiera proffessionale Dipartimento Dipendenze La mia esperienza lavorativa al Dipartimento dipendenze è ventennale. Sono tanti anni, quanti quelli dell’utenza “storica” che frequenta il nostro servizio. Storie che si incrociano in vissuti ed emozioni contrastanti , sofferenze (in)ascoltate e routinarietà sovrastante hanno costituito - e costituiscono - la mia quotidianità lavorativa. Appartenere all’équipe e al gruppo ”Lavori in corso”, mi ha messo di fronte alla parola “cronicità dell’operatore”, che tante
volte mi ha infastidita, ma su cui ho imparato a riflettere perché, in effetti, c’è cronicità del “fare”. Troppo spesso agiamo senza mettere un pensiero sul senso di ciò che si fa, ma solo perché si deve, mantenendo una visione omologata della personautente. Sempre il solito tossico, sempre metadone, sempre i soliti comportamenti. Staticità e stereotipia…. anche per me operatore. “Lavori in corso”, dalla stesura del progetto all’attività avviata del
gruppo, è letteralmente un lavoro in corso: ogni giorno è sempre diverso, come diverse sono le emozioni che viviamo nel “qui ed ora” della relazione con l’altro. Dare spazio all’ascolto e creare dentro di me uno spazio per l’ascolto. Darmi dei tempi e rispettare il tempo dell’altro negli interventi. Condividere alcuni momenti come la colazione, e riscoprire come le persone apprezzano questo momento anche nei piccoli gesti: il sorriso nel versarti il caffè è un
bel modo per significare che ci sei. Saper vedere e sentire i piccoli cambiamenti e valorizzarli sia nelle persone che in me stessa: ecco un modo valido per rinforzare la propria autostima. Il pensiero positivo permette di vedere con un altro occhio più propositivo verso la possibilità di soluzioni nuove, quasi ad infondere speranza. Crescita e cambiamento continuo nel rapporto con l’altro, un dare e avere che bisogna imparare a riconoscere.
LAVORI IN CORSO
trovano a vivere creando un cuscinetto tra il Servizio Ser.T e il mondo esterno, fermarsi e discutere sull’organizzazione e sul senso della propria giornata, iniziare a prendersi cura di se stessi a partire dal proprio corpo e dal riconoscimento dei propri bisogni; ma anche sentire la vicinanza dell’altro, come altro da sé, risintonizzarsi sulla ripresa delle funzioni mentali, portare alla luce parti di sé che non sarebbero emerse nel contatto con l’équipe di riferimento, far emergere le parti sane ma anche riabilitare le parti incancrenite dal tempo e dall’uso della sostanza e sviluppare una visione positiva e possibilistica sul cambiamento – movimento persona-
le, smuovendo un’impotenza appresa. Questo permette, anche agli operatori, di lavorare sulla propria professionalità, favorendo una messa in discussione delle parti più croniche del proprio atteggiamento. Il gruppo prosegue tutt’ora ogni giovedì dalle 9 alle 10.15, chiudendo solo in concomitanza con la chiusura del Servizio, oppure con la cadenza di festività nazionali. In quest’anno e mezzo di lavoro si sono incrociate le storie di quattro operatori e 17 utenti, in prevalenza maschi, con una presenza media di 7 utenti ad incontro, che preferiamo chiamare persone. La frequenza di chi è venuto è stata costante, due persone in particolare sono presen-
ti dall’inizio, gli abbandoni sono stati 5, gli altri hanno intrapreso diversi percorsi: hanno cambiato città, sono entrati in Comunità, hanno iniziato a lavorare o hanno concluso il percorso terapeutico. Il gruppo è sempre pronto ad accogliere nuove persone e per chi fosse interessato a capire se e come poter partecipare è sufficiente chiedere informazioni all’équipe di riferimento.
segue dalla prima pagina
rompere gli schemi routinari della “presa in carico”, cercando di ridare senso agli obiettivi anche piccoli, individuati con ciascuna persona e condivisi con l’équipe territoriale di riferimento. La prima azione concreta è stata il creare uno spazio diverso: il deposito materiali è stato trasformato in un luogo accogliente, colorato, caldo, in quanto strutturare uno spazio permette di ridare significato alla quotidianità. Questo consente di rompere l’isolamento in cui le persone spesso si ri-
In pillole di Eros “Lavori in corso” è il luogo dove dopo tanti anni di buio ho imparato ad ascoltare il gruppo, gli operatori, gli educatori ecc.. Nemmeno la Comunità mi aveva educato cosi bene. Ascolto e cerco di capire che non sono più vittima, ma partecipe di un gruppo che lavora per cambiare, per andare un po’ più in alto. L’eroina mi rendeva abulico, apatico e credevo di dovermi solo nascondere. Qui ho trovato una famiglia che sa ascoltare e dirigere nel bene. Ecco cos’è per me “Lavori in Corso”. Qui, dopo 30 anni di guerra, ho trovato la pace.
Prosegue il lavoro della redazione del nostro giornale nata all'interno della Casa circondariale di Pordenone. “Codice a s-barre” è uno spazio interamente gestito dai suoi detenuti.
Niente è mai quello che appare Sessantasei anni di conflitto arabo-israeliano. La guerra che nessuno ha mai avuto interesse a far finire di Leonardo Ho vissuto come italiano cattolico la realtà dell’antisemitismo in mezzo a questa diatriba tra arabi e israeliani per 17 anni e, anche dopo la mia partenza dalla Libia, ho continuato a seguire l’evolversi di questi eventi con le conseguenti guerre, inutili per entrambe le parti: da un lato il popolo arabo palestinese, dall’altro gli israeliani. Tutto comunque inizia nel 1948 con la costituzione dello Stato d’ Israele; in quella striscia di terra furono portati gli ebrei rimasti vivi dai campi di sterminio e quei fortunati che si erano rifugiati in Inghilterra, Stati Uniti e Canada e che avevano anche combattuto contro i tedeschi. Ho pensato spesso alla grande sofferenza che ha attraversato questo popolo, nei campi di sterminio, e alle atrocità che ha dovuto subire, non ultima quella della Shoah di cui tutti sapevano, ma di cui non se ne parlava, anzi si tentava di sminuirne la portata. Nel tempo poi ho provato a capire le guerre tra lo Stato israeliano e quello arabo e anche lì, non sono riuscito a capire come mai mancasse un punto di incontro. Ho sempre ammirato gli ebrei per le loro capacità e la loro intelligenza. Ma anche gli arabi, da parte loro, hanno lasciato segni nella storia con la loro cultura, con l’arte, con le scienze, con il commercio e, allora, perché questi due popoli provenienti entrambi da uno stesso posto, non sono mai riusciti a trovare un punto d’incontro? La risposta non è tardata molto ad arrivare: era ed è solo una questione di interessi economici. I fabbricanti d’armi producono e devono vendere e
ogni scenario di guerra è un mercato, tutto potenzialmente è utile per arricchirsi a scapito di popoli inermi e innocenti. La cosa che poi mi ha dato fastidio è stato il fatto che non sono state inviate tra i belligeranti truppe di pace al fine di far cessare il fuoco, come in altre occasioni ed in altri Stati era stato fatto. Nessuno si è mai intromesso in maniera determinante per fare ciò. Mi chiedo allora: se lo Stato d’Israele fosse sorto in Europa a cavallo di più confini, si sarebbero avute le stesse problematiche? Gli ebrei poi con tutto quello che hanno sofferto non sono mai riusciti nel tempo a trovare un punto d’incontro? Perché poi a loro è stata data l’opportunità della terra promessa e agli armeni, ai curdi, ai popoli del Belisario no?! Forse vale la regola del “il fine giustifica i mezzi”? Si dice che ogni tipo di nuovo armamento costruito negli Stati Uniti è testato dallo stato d’Israele, con il nullaosta del Senato americano. Forse così è più facile venderli dopo? La verità ha tante facce come un brillante e quello che spesso manca è la lente adatta a trovare la “macchia nera” per non prendere la fregatura. Sono riusciti gli israeliani a coltivare il deserto del Negev, calcolando la quantità d’acqua occorrente per ogni pianta, con il metodo goccia a goccia. Non sarebbe stato molto più giusto indirizzare le risorse economiche di entrambi i popoli per un fine comune quale il miglioramento del territorio? Continuare ad odiarsi non ha senso per entrambi anche se non è sempre facile accettare la convivenza forzata.
Né eroe, né poeta, né artista «Dopo una vita vissuta mi chiedo: della mia esperienza che tanto dolore mi è costata cosa rimane?» di Adriano Rimane l’orma del passo sul bagnasciuga, quando solo passeggio al mattino presto, ma subito un’onda se la porta via. Rimane il frutto del lavoro di artigiano, ma non essendo lavoro d’artista, non supererà l’oblio del tempo. Rimangono le poche cose che ho scritto e che non saranno lette, il rimpianto della lettere che non ho spedito e che qualcuno non saprà rimpiangere. Ho fatto tanto male da lasciare nelle pagine scritte, ma per fortuna il tempo le cancellerà. Rimangono gli eroi greci a tramandarci il coraggio, l’eroismo, l’idea dell’immortalità, ma forse non sono mai esistiti ed io sono all’antitesi. Del mio essere cosa rimane? Della mia esperienza che tanto dolore mi è costata, cosa rimane? Rimane il ricordo di
una spiaggia, ma non rimane il ricordo di un granello di quella sabbia. Rimane ciò che trasmettiamo ai nostri figli e loro ai loro, come io ho ricevuto dai miei, ma già i nipoti non conosceranno le mie esperienze ed i miei figli mi disconosceranno. L’esperienza inconscia viene tramandata e per me il più delle volte è proprio ciò che non vorrei tramandare. Un’amica mi ha replicato: «Ed io che non ho figli?». Non sono un eroe né un poeta, né un artista, e come uomo solo da poco tempo mi sono posto questo quesito per darmi una risposta; chiedo consiglio dunque: «Di voi cosa resta?». Ad un’affermazione dell’ego, la mente chiede all’intelletto una soluzione, ma lui, paziente, sornione, attende.
Scrivere per dare voce alla verità «Vorrei essere ricordato non per ciò che ho fatto, ma per ciò che farò» di Rafael Scrivo. Oggi ho bisogno di scrivere, ho bisogno di dire qualcosa, ho bisogno che qualcuno mi ascolti, ho bisogno di raccontarmi senza essere giudicato, ho bisogno di “false” verità dove nascondermi, ho bisogno di conferme! Anche se anche queste saranno “false”. Ho paura! Ho ancora un milione di paure, probabilmente per questo motivo le chiamo “false”! Ho paura di non essere ricordato, di non essere notato, ho paura di non esserci! La scrittura mi aiuta a toccare certi argomenti che sono “pericolosi” per me! Li definisco così solo perché nel mio caso rappresentano la “pura verità”! Sono quei pensieri che ognuno di noi ha dentro di sè e che a volte scegliamo deliberata-
mente di allontanare. Ed io, attraverso la scrittura, alcune volte riesco ad affrontarli a viso aperto. Scrivendo riesco ad essere spregiudicato e ad andare oltre a quel punto a cui è così difficile arrivare con le parole. Scrivo per me stesso, per cercare di stare bene con me stesso. Scrivo perché mi piace che qualcun’altro condivida un mio pensiero, oppure che lo gradisca! E’ innegabile il fatto che mi affascina l’idea per cui un’altra persona, sia essa in accordo o in disaccordo con me, semplicemente abbia dato una veloce occhiata su qualcosa che io ho fatto… Mi affascina molto! Qui in carcere, ho l’occasione di vedere e conoscere tante persone, una diversa dall’altra. Ma una cosa han-
no in comune, sembra che vivano tutti in un mondo passato, che è esistito una volta e adesso esiste solo nei loro racconti esagerati, anche perché non sembrino così piccole le motivazioni del stare chiusi qui! Non vorrei essere ricordato per qualcosa che ho fatto o per qualcosa che ho rappresentato, ma per qualcosa che devo ancora fare! Sia essa quella che sia! A parte tutte le avversità, io ancora riesco a vedere un futuro radioso davanti a me e la scrittura, a volte, mi aiuta a raggiungere questo tipo di risultato e la speranza in qualcosa di più di tutto questo. Io scrivo molto ultimamente perché così riesco a dire a me stesso cose che non sarei capace. Allo stesso modo capisco la dif-
Manualità creativa
«Dopo le medie scelsi di fare il falegname, un lavoro che mi ha fatto crescere» di Giacomo Finita la terza media, non avendo voglia di studiare, ho iniziato a lavorare in una falegnameria: questa scelta ha cambiato totalmente la mia vita. Pensavo che lo studio non servisse; con il lavoro guadagnavo molti soldi, ma soprattutto mi sentivo importante perché finalmente potevo contribuire anch’io in famiglia. Ero indipendente, potevo soddisfare le mie esigenze ed inoltre mi sentivo davvero considerato e parte della società in cui vivevo. Così la pensavo io e la maggior parte dei ragazzi, miei coetanei, che come me vivevano nelle
case popolari o comunque facevano parte del ceto medio basso della realtà in cui vivevamo. Questo però non era il pensiero della mia famiglia, che avrebbe voluto che continuassi a studiare. Il lavoro da falegname mi è piaciuto subito perché, avendo molta manualità, vi riuscivo meglio che nello studio. Questo lavoro era molto duro e pesante, facevo dieci ore al giorno e cinque tutti sabati, ma guadagnavo bene. La cosa più importante, che mi ha fatto amare il mio lavoro, è stata però la soddisfazione di riuscire a creare dalla ta-
vola di legno mobili, infissi, porte, insomma arredamenti in generale. Riuscivo finalmente a creare, a costruire e piano piano, con l’aiuto di chi aveva più esperienza, anche a restaurare. Nel mio lavoro sapevo accompagnare le venature del legno, sapevo lavorarlo, riconoscevo i vari tipi ed i loro odori, capivo che ogni pezzo non è uguale ad un altro, che non si finisce mai d’imparare questo mestiere e sentivo tra le mani quasi un qualcosa di vivo. In tanti anni di lavoro il legno mi affascina ancora. Con il mio lavoro ho avuto anche la fortuna di
ficoltà di mettere in pratica queste cose scritte, sia buone, che cattive. Mi ha colpito una frase di Cesare Pavese che dice: “E’ bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da soli o parlare a una folla”. Ho sentito alcune volte questa sensazione di aver scritto qualcosa che sia stata importante per qualcun altro a parte me: sia molti anni fa ancora all’università e ultimamente con il giornale “Ldp”. Ero molto fiero di quello che avevo fatto, anche se per qualcuno può sembrare di poco conto per me è stato molto importante! In poche parole la scrittura nel mio caso serve per riuscire a dire la verità a me stesso anche se tante volte non la capisco, ma sono sicuro che c’è!
viaggiare, conoscere molte persone, culture e luoghi diversi; il mio mestiere mi ha insegnato anche a vivere, a capire il valore del denaro, a comunicare con persone più grandi di me, con cui ho poi costruito amicizie. Attraverso il lavoro ho imparato che nella vita bisogna scegliere, che la mia idea o opinione conta, che è importante rispettare me stesso e gli altri. Mi dispiace solo che oggi con l’industrializzazione questo tipo di mestiere stia scomparendo e non parlo solo della falegnameria, ma anche di fabbri, vetrai ecc, tutti quei piccoli artigiani che insegnavano ai loro garzoni, oggi apprendisti, tutto il loro sapere che è stato tramandato a loro volta da generazioni. Credo che la tecnologia sia importante e che bisogna migliorarsi sempre, ma dobbiamo tramandare il nostro sapere e la nostra storia.ta.
IN CENTRO CITTÀ VUOTO E SILENZIO Scoppia la battaglia contro i decibel nei locali del centro, ma mancano alternative al tempo libero dei giovani di Marco Zava Ciclicamente in ogni città, sia questa un grande centro universitario o la nostra piccola Pordenone, ricompare il dibattito sul silenzio serale, sulla musica nei locali e sul "pubblico decoro". Solitamente questo dibattito vede da una parte dei micro-comitati armati di misuratore di decibel, dall'altra i gestori dei locali che cercano di mantenere i propri profitti: in mezzo a tutto ciò vi sono giovani il cui normale e naturale bisogno di divertirsi viene presentato come un problema. Puntualmente si creano le tifoserie (non ho altro modo per definire chi parteggia senza argomentare, sfoderando frasi fatte e luoghi comuni); da un lato i sostenitori del divertimento, spesso capita-
nati (purtroppo) dagli stessi gestori dei locali, dall'altro gli alfieri della pubblica quiete, che sembrano godere nel veder piazze e strade vuote, nel sentire la propria città invasa da un agghiacciante silenzio. Questo dibattito manca totalmente di un ragionamento complessivo su cos'è il centro cittadino: deve essere un fragile gioiello da custodire gelosamente o deve essere il centro della vita della città, diurna o notturna, giovanile o adulta che essa sia? Chi è infastidito dal rumore del centro può tranquillamente trasferirsi in una zona più decentrata e tranquilla, dove affitti e prezzi degli immobili sono anche più bassi. Di conseguenza trovo assurde le richieste dei
Se il maltempo di quest’estate ha messo in serie difficoltà le diverse località turistiche, non è riuscito a fermare, invece, l’allegro fermento che, finita la scuola, si è riversato negli oratori parrocchiali di tutta la provincia. Tra giugno ed agosto infatti il GrEst (Gruppo Estivo) è diventato il protagonista di ogni parrocchia. Ci sono stati GrEst che vantavano numeri ed esperienza già consolidati da anni; altri invece “alle prime armi”, ma determinati a diventare grandi. Brillante ad esempio è stato quello di Pescincanna, frazione del comune di Fiume Veneto. Qui il parroco, Don Lelio Grappasonno, ha riproposto a ragazzi e famiglie, per il secondo anno consecutivo, il progetto GrEst ed è stato un successo, dato che si è arrivati a contare ben 80 iscritti, tra la prima e la quinta elementare, e un buon numero di volontari attivi. Lo posso confermare di persona, dato che a Pescincanna io stessa ho prestato servizio come animatrice. Le attività si sono svolte durante le ultime due settimane di giugno e la prima di luglio, al mattino, dalle 8.30 alle 12.30, ma la preparazione del tutto ha impegnato gli animatori a partire dagli ultimi giorni di
La mia estate al Grest parrocchiale
comitati pro-silenzio. Inoltre trovo assurdo che qualcuno si arroghi il diritto di decidere chi può emettere decibel e chi no: il punto verde parrocchiale sì, la sagra del prete sì, i ragazzini che organizzano una festa no. Dall'altro lato trovo impossibile schierarsi con i gestori dei locali, che rappresentano una visione stereotipata, alienata e mercificata del divertimento e in generale del tempo libero. A Pordenone ormai da più di un decennio mancano spazi sociali (autogestiti e non) nei quali potersi mettere in gioco nel proprio tempo libero senza farsi risucchiare nella spirale produci-consumacrepa. Trovo che sia assurdo lamentarsi del disturbo della quiete da parte dei ragazzi-
ni, lamentarsi, preoccuparsi e stracciarsi le vesti di fronte all'alcolismo dilagante in età scolare quando si preclude agli stessi qualsiasi alternativa al chiudersi in un locale a bere, magari spegnendo la musica alle 23.30, tanto per aggiungere al danno la beffa. Se vogliamo una città vuota, morta e alienata avremo dei giovani vuoti, alienati e alcolisti. Majakovskij diceva «Meglio morire di vodka che di tedio», in effetti è questa la scelta di fronte ad una città che non offre alternative. Vogliamo veramente sacrificare la libertà, il diritto ad essere felici e la crescita delle nuove generazioni sull'altare del pubblico decoro, della quiete e del silenzio? A noi l'ardua sentenza.
L’esperienza di una giovane animatrice della parrocchia di Pescincanna di Fiume Veneto di Irene Vendrame maggio. Il gruppo, composto da 12 ragazzi delle superiori, 4 adulti e due signore addette alla cucina, ha lavorato sodo per decidere il tema (La Giungla), le squadre, il programma nelle diverse settimane e i vari balletti e giochi d’intrattenimento. Le giornate erano divise in due parti: durante la prima parte, i bambini, suddi-
visi in squadre, partecipavano a laboratori di manualità, dove i maestri (ossia mamme, zie e nonni, a seconda del giorno) mostravano loro come realizzare fantasiosi lavoretti; nella seconda parte, invece, dopo aver consumato una sostanziosa merenda, era possibile scegliere se partecipare nuovamente a laborato-
ri creativi (gestiti dalle ragazze) oppure prendere parte a sport e giochi, organizzati dai ragazzi. Non sono mancati i gavettoni (tempo permettendo) e, come ogni GrEst che si rispetti, la gita al parco zoo di Lignano, per rimanere in tema. Posso confermare che la filosofia che anima questo tipo di progetti è quella di dimostrare che la comunità è come una grande famiglia dove tutti sono accettati e possono rendersi utili. I risultati sono stati evidenti e speriamo di poter ripeterli anche il prossimo anno, magari migliorandoci ancora di più. Secondo me queste iniziative non solo danno la possibilità ai genitori che lavorano di avere un posto sicuro dove lasciare i propri figli, ma possono essere esperienze di crescita anche per gli adulti coinvolti e per gli animatori. Per me è stato così.
Io, la sua luce nel buio Da 13 anni nell'inferno della droga per salvare un'anima di Ciba
di quante voci ho sentito sulla mia, solo presunta, tossicodipendenza. Ho perso amici di 20 anni, e tutto questo perché sono entrato all'inferno da angelo per salvare un’anima incatenata nel buio degli abissi. Alla domanda «Cosa vuol dire essere una brava persona, non aver mai usato droghe e nello stesso tempo vivere con una compagna con questo tipo di problemi?» io risponderei: «Significa combattere». Combattere contro tutto e tutti, contro i dottori che vogliono capire che tipo di problema hai, perché una persona "normale" non può stare con una tossica. Combattere contro la discriminazione e la solitudine, perché nessuno sarà lì ad aiutare chi aiuta. A volte credo di non farcela, ma la famiglia non si abbandona, soprattutto nei momenti bui, quando si sta male. Qualcuno mi ha detto: «Ciba, a te ti faranno un monumento, ti faranno santo in Paradiso». Io però rispondo solamente: «Scusa, ma se un tuo familiare si ammala
Questa è una storia fuori da ogni cliché. Forse non tutti quelli che sono dentro la droga capiranno, perché io sono troppo fuori dal loro mondo per poter essere capito; ma nemmeno chi non ha mai avuto a che fare con la droga probabilmente riuscirà a capire il perché delle mie scelte. Eppure sono 13 anni ormai che sono immerso in questo mondo fatto di tanta sofferenza, rabbia, incontrollabilità, disperazione, e tutto questo l'ho provato sulla mia pelle, nonostante non abbia mai usato alcuna sostanza. La mia compagna è dentro a questo mondo, mentre io lo vivo come spettatore e a volte, forse troppe, come medico, psichiatra, accompagnatore. Oltre a questi ruoli ho anche un lavoro ed una figlia da crescere e a volte non ho neanche il tempo di respirare. Chi si droga capisce che non faccio parte della loro gente, di coloro che abitualmente incontrano ogni giorno per procurarsi o vendere svariate cose che vanno dalla ricetta medica ai farmaci alle varie sostanze. Allora, quando accompagno al Ser.T. la mia compagna, sono guardato come uno che crea problemi, un ostacolo al loro commercio illegale, o scambio d'interessi.
Per questo, quando sono con lei, gli altri utenti non la avvicinano. Poi c'è la gente normale, la società nella quale ci si trova, il panettiere, l'operaio, il carabiniere, le mogli e i mariti coi loro bambini che fanno la spesa e si comprano il gelato. Anche tutte queste persone, seppur io sia come loro, un umile operaio che vive nella sua casetta e mantiene la sua famiglia, mi tengono alla larga o si girano a guardarmi come passasse uno spettro, perché in realtà a giudizio loro sono solamente uno molto furbo, che non combina guai, che non si fa vedere, ma sempre un “tossico”, solo un po' più furbo degli altri. Ormai ho perso il conto
Di fronte alle grotte di Pradis, dove le cascate scorrono senza fine, osservo una vecchierella seduta in un bar trattoria in compagnia del suo vecchierello. Beve il suo calice di vino. Il viso è vecchio e rugoso, ma l’espressione è appagata. Il suo vecchio marito sta seduto vicino a lei. Negli anni è riuscita a conquistarlo e adesso lo tiene per le palle, non gli sfugge più. Sicura e soddisfatta dei suoi ottanta anni circa può permettersi di succhiare gli spaghetti uno ad uno, accompagnati dal rumore del risucchio e gustandosi sempre il suo calice di vino rosso. Può permettersi anche di pulirsi i denti uno ad uno, con la bocca spalancata, perché lui è suo e lui l’ha accettata così com’è. Perché l’ha amata e la ama. Quando era giovane e bella era sua, adesso che è vecchia, rugosa e forse anche malata, è ancora sua.
Val D'Arzino, la vecchierella
tu lo abbandoni?». Perché alla fine la droga è come una malattia grave, a volte ingestibile, a volte più invalidante, a volte ci si riprende e si è più felici, ed è proprio in questi momenti che capisco la forza del bene, dove tutto viene accantonato e lascia spazio a tanta tranquilla serenità. Io in questo mondo ci sono entrato fino in fondo, ho affrontato la paura ed il silenzio di quando lei scappava di casa per andare all'inferno, ho visto coi miei occhi l'inferno, la notte, tra sirene di ambulanze, bande di persone armate, gente persa nella disperazione di un caldo momento che dura 5 minuti e per il quale farebbe di tutto. Ho visto spacciatori senza pietà che vendevano la morte in parchi frequentati da mamme coi passeggini e 10 metri più in là un prato in cui l'enorme quantità di siringhe gettate non lasciava spazio a un filo d'erba. Ho visto le epigrafi di persone che conoscevo e che si credevano immortali, ho visto persone mutilate come fossero andate in guerra. La mia compagna mi ha fatto conoscere questo mondo sotterraneo nel quale esiste una società a parte, ed essendone estraneo rabbrividisco come tutte le persone “normali”. Mi ha messo nelle più svariate situazioni e mi ha fatto passare molte brutte esperienze. So comunque che non la lascerò mai sola, perché io non mollo la presa, e quando sorride so che sto facendo la cosa giusta. Sono la sua luce nel buio e con la mia luce le farò strada perché voglio la sua felicità.
Luoghi che attendono il ritorno dei loro giovani di Rita Vita Marceca Mai nessuna legge può impedire al vecchio tutto questo. Viaggiando per le viuzze della pedemontana, tra Pradis, Clauzetto, Pielungo e Vito d’Asio, mille visi si incontrano. I loro tratti somatici son un tutt’uno con i tratti della montagna. Le rughe solcano sovrane i visi degli abitanti di questa montagna. Pochissimi giovani sono rimasti a vivere in questi vicoli diffusi. La loro vita è altrove. Come
un arco che lancia le frecce verso il futuro, non possiamo fermali. Non possono vedere in questi posti reconditi, fioriti e ben tenuti il loro presente e ancora meno il loro futuro. Ci vogliono anni per capire che quando si parte tutto ciò che si cerca è la pace e l’armonia interiore. Ma poi bisogna tornare verso casa, perché il proprio paese è il centro della propria vita, il punto esatto dove l’anima
e l’armonia si concentrano. Bisogna tornare per restituire alle proprie zone quello che si ha imparato attraversando i sentieri del mondo. Ricreare risorse, strutture, animare queste meravigliose montagne deve essere l’obbiettivo dei giovani che vanno via, poiché questi luoghi senza di loro sono come dei meravigliosi prati senza fiori, come il buio senza le ombre, come la notte senza le stelle.
L'ANGOLO DELLA FRANCA
Adult Learning Center La cultura è responsabilità di tutti, non privilegio di qualcuno di Franca Merlo Uxbridge, nord ovest della Greater London. Una donna anziana dall’aria esitante percorre il marciapiede tutto attorno alla piazza delle corriere, si ferma davanti ai tabelloni degli orari, è indecisa. Infine, facendosi coraggio, si rivolge a due autisti che sono lì sulla strada per un momento di pausa e discorrono tra loro. «Sorry... Bus U4 to Brookfield is this?», chiede. «U4 is this, but it comes from Brookfield. To get there, you have to take the other side of the square», le rispondono I due. La donna capisce poco, è evidente che è straniera. «Where are you going?», le chiedono parlandole più
adagio. Questo lo ha capito, per fortuna. «Adult Learning Center, to Brookfield», risponde lei, e mostra una piantina del luogo, indicando il Centro con l’indice. Con un cenno le ripetono di andare dall’altra parte della piazza, ma subito ci ripensano e chiamano a gran voce un collega. Un omone grande e grosso, con un faccione da contadino, un vocione da orco e modi da gentiluomo: è l’autista della corriera che va nella direzione richiesta. Accompagna la donna, la fa salire, le fa un discorso che vorrebbe essere un complimento e insieme una rassicurazione e che, tradotto ad intuito, potrebbe
suonare più o meno così: «Apprezzo molto chi studia e vuol imparare, a qualsiasi età. Sono dalla tua parte, brava! Adesso stai tranquilla che ci penso io. Siediti qui, ti avviso io alla fermata giusta, non preoccuparti». Non vuole nemmeno che la donna paghi il biglietto. Giusto, la cultura non ha prezzo. Gira lo specchietto retrovisore in modo da averla sotto gli occhi, poi parte. Alla fermata le fa segno di scendere, la guarda, aspetta che prenda la strada giusta, solo dopo riprende la corsa. Grazie, sconosciuto autista. Eri fiero di portarmi in un luogo di cultura, la consideravi una cosa importante! E in effetti al Centro ho potuto incrementare quel po’ d’inglese che mi ha permesso poi, nei fine settimana, di visitare in lungo e in largo tutta Londra, e Greenwich, Cambridge, Oxford, Canterbury, i giardini di Kew, la spiaggia di Brighton, il castello di Windsor... di prenotare e poi ascoltare Vivaldi a San Martin on the Field in Trafalgar Square “by candle-
light”... tutto da sola e senza mai perdermi. La cultura è stata la chiave che mi ha aperto un mondo prima sconosciuto dove ho incontrato nuovi modi di vivere e di pensare, nuovi aspetti di umanità. Un’esperienza durata tre anni, indimenticabile, che mi porterò dentro per sempre. La cultura aumenta le possibilità, allarga gli orizzonti: è una visione del mondo che si confronta con altre visioni del mondo; è la curiosità di incontrare l’altro, di capirlo, di porsi in dialogo. Ed è così che si costruisce la pace. Per questo è importante difendere la scuola da ogni declassamento, ma anche favorire la cultura in modi svariati, ogni volta che ci è possibile, ognuno nel suo piccolo, come quell’autista. Una spiegazione, un gesto di umanità, lo sforzo di comprendere chi appare in difficoltà, dialogare con chi è diverso da noi... Ed anche, leggere e regalare libri al posto di altre cose. Anche partecipare a pordenonelegge.it.
Epatite C, c'è il farmaco salva-vita ma è braccio di ferro sul prezzo
Trattative infinite tra il Governo e la Gilead Sciences. Le aspettative dei malati italiani di Ferdinando Parigi Pochi tra quelli che leggeranno questo scritto crederanno che dico la verità. Stiamo parlando di una nuovissima, formidabile, quasi infallibile cura contro l’Epatite C, che funziona in qualsiasi stadio, con pochi effetti avversi, anche in cirrosi avanzatissima, anche pre-trapianto e post-trapianto, anche in caso di cancro avanzato del fegato. La durata della cura va dalle 12 alle 24 settimane. Stiamo parlando di un farmaco salva-vita a tutti gli effetti. L’incredibile sta nel fatto che la Gilead Sciences, Casa farmaceutica che detiene il brevetto del Sovaldi (questo il nome commerciale del principio attivo, che è il Sofosbuvir), sta lasciando morire migliaia e migliaia di persone per non “mollare sul prezzo”, che varia follemente e ingiustificatamente dai 2.000 dollari per 24 settimane di trattamento (praticato a Paesi come India, Pakistan, Egit-
to), ai 168.000 dollari, che è il prezzo praticato agli USA per lo stesso periodo di trattamento. Per quanto riguarda il nostro Paese, la Gilead Sciences ci ha “rimandati a fine settembre”, cioè si è riservata di farci sapere… “Mah…Vedremo”. Questa storia va avanti da troppo tempo, da anni. Siamo chiaramente ad uno sputo in faccia alla Vita. La americana Gilead dimostra di aver perso il lume dell’Etica, della Morale, del Rispetto della Vita umana, e i suoi interlocutori italiani, cioè il Ministro (o Ministra) Lorenzin, e l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), fanno “gli accordi, i tavoli di lavoro tematici, le riunioni permanenti inter-istituzionali, le sedute dedicate” (in una parola d’uso corrente: “seghe”). La Gilead invece ha le idee chiare: questa gente sta tentando di tenere in pugno una fetta del mondo. Un mondo dolente, o morente, che
potrebbe invece vivere e stare bene. “Business is business”, gli affari sono affari, e zitti tutti. Ma per fortuna, qualcuno si è messo di traverso: due senatori americani e subito dopo la Commissione del Senato, hanno evidenziato che la Gilead Sciences ha comprato il brevetto del Sovaldi ad un prezzo bassissimo rispetto ai ricavi che prevedeva di realizzare, e ancora più risibile se confrontato coi ricavi che ha già realizzato. I famosi e tanto declamati “Costi per la ricerca sul farmaco”, come quasi sempre accade in ambito farmaceutico, sono bazzecole al confronto dei profitti che fanno queste persone. E fanno quello che vogliono perché c’è un grandissimo conflitto di interessi, in tutta la vicenda: 18 su 27 di quelli che dovrebbero fare da “controllori” e fissare un prezzo equo per la cura, hanno interessi diretti con la Gilead. Come al solito, chi do-
vrebbe controllare coincide con chi dovrebbe essere controllato, sicché il controllo non esiste. Gli estremisti islamici, i tagliagole, quelli che bruciano o seppelliscono vivi gli “infedeli”, fanno sicuramente orrore. Ma la gente che specula in modo così infame sulla vita di tante persone, non è tanto di meno deplorevole. Invece sono liberi e guadagnano miliardi di dollari, col Sofosbuvir. Le prospettive per i malati (solo in Italia ci sono due milioni e mezzo di HCV positivi di cui 500.000 con epatite conclamata) non sono rosee: la Ministra Lorenzin ha buttato là un numero (50.000 dollari per un ciclo di cura) tanto per tener buoni quelli che riescono ancora a protestare. Purtroppo, l’affidabilità dei politici e dei burocrati italiani è praticamente zero. “Denaro, sterco del demonio”, diceva Martin Lutero nel 1500. E diceva il giusto.
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
15 ANNI DI PORDENONELEGGE.IT Gian Mario Villalta Direttore artistico pordenonelegge.it Guardo le foto dei nostri primi anni di pordenonelegge e vedo subito una cosa certa: il tempo è passato. “Com'ero giovane!”, è la prima cosa che mi viene da pensare. Per me il tempo è passato, me ne rendo conto, e sembra ne sia passato di più di quanto sia passato per Alberto Garlini e Valentina Gasparet, che con me hanno iniziato questa avventura, forse perché allora erano davvero dei ragazzi. Da allora, fino ad oggi, abbiamo sempre guardato ossessivamente avanti, cercando qualcosa di meglio, qualcosa di più. Ed è ancora così. Non fosse stato per la gentile richiesta di raccontare qualcosa di questi anni trascorsi, pervenuta da Libertà di parola, neppure oggi mi sarei soffermato sulle fotografie dei primi anni del nuovo millennio... Eh, sì, pordenonelegge inizia con il millennio, che allora non aveva ancora un volto, mentre oggi ce l'ha, e ci fissa con occhi non sempre benevoli. Non sarebbe corretto dire che quelle foto non le avevo mai guardate, ma era solo per utilizzarle da qualche parte, sempre con il desiderio di concludere quello che stavo facendo, per poi passare ad altro, come ancora avviene oggi: mi sono trovato spesso a pensare che cosa immaginino gli “altri”, quelli che guardano da fuori, che cosa sia in concreto “fare” pordenonelegge. Sono sicuro che non hanno idea della quantità di lavoro che ci vuole, e soprattutto di quanto sia impegnativo il continuo spingere avanti, inseguire le date, che questo lavoro comporta. E così, a forza di inseguire, ecco che oggi guardando quelle foto mi vedo giovane. E con la sensazione che, spingendo avanti le date, qualcosa mi sono dimenticato da qualche parte. Ma questa è un'altra storia. Con me, con Alberto e Valentina, all'inizio c'erano Mauro Covacich, che presto ha fatto scelte diverse, e Sara Moranduzzo, sempre con noi, anche dopo che una malattia orrenda ce ne ha privati. Spero che i recenti cambiamenti - la creazione della Fondazione - riportino un po' di quel clima di collaborazione serena e, perché no?, anche di affetto, che ha dato molta forza ai nostri primi anni di lavoro, quanto l'opinione pubblica (e a volte privata) era diffidente nei confronti dell'iniziativa e anche del nostro gruppo di lavoro. Il festival pordenonelegge - Festa del libro con gli autori
è diventato, dicono, molto importante. Lo avevamo pensato per questo, fin dall'inizio, volevamo che diventasse importante perché avevamo individuato da subito delle potenzialità nello spirito della città, nella sua posizione geografica e nella sua conformazione urbanistica. Ci è voluto un po' di tempo perché la città ci aiutasse a fare di pordenonelegge quello che è diventata, ma poi è accaduto. Fin dall'inizio avevamo pensato che la manifestazione avrebbe dovuto coinvolgere persone, associazioni, istituzioni, convogliarle verso un risultato che dà un'immagine nuova e bella di quello che è possibile realizzare anche in un piccolo centro di provincia. All'inizio, lo ripeto, sono state molte le difficoltà legate alla diffidenza, all'abitudine, all'idea che a Pordenone si facevano le lavatrici e i libri non c'entravano. Si imponeva, inoltre, un pregiudizio: in provincia non ci si doveva illudere e osare troppo. La stampa locale è stata, nei primi anni, spietata nel mettere alla frusta in tutti i modi la notra volontà di fare in grande, invitare ospiti importanti, proporre temi alti. Il ragionamento era questo: “Siamo a Pordenone. Restate nell'ordine delle aspettative. Facciamo la vetrinetta per le glorie locali. Non gasatevi troppo. Chi credete di essere?”. Le stesse parole potrebbero illustrare l'altro grande ostacolo iniziale. Gli scrittori lontani (importanti o meno), le case editrici (grandi o piccole), i giornali (autorevoli o no), condensavano quelle stesse parole in una domanda: “E dov'è, Pordenone?”. La geografia culturale italiana, all'alba della rivoluzione delle tecnologie della comunicazione, era molto diversa da quella attuale. Tutto era più lontano. Più marcata era la differenza tra i “centri” e le “periferie”. Su Pordenone gravava inoltre un giudizio preconcetto: ricca, egoista, tutta produzione manifatturiera e niente cultura (quell'immagine del nord-est che molti ricordano, pronta a diventare connotazione negativa, anche politica, per gli intellettuali di ogni ordine e grado, anche per gli stessi residenti). Che cosa c'è stato invece di postivo, a parte la nostra passione, che non viene meno nonostante gli anni? Aver trovato nella Camera di Comcontinua a pag. 10
Nasce la Fondazione del festival
L'intervista
Per la prima volta alla guida dell'evento, eredita la passione che lo ha reso grande di Michela Zin Direttore Fondazione Pordenonelegge.it Ebbene si, l'edizione 2014 di pordenonelegge sarà la n. 15. Sembra impossibile siano già passati tutti questi anni. Quante cose sono accadute, quanti bei momenti da ricordare, quante migliaia di ospiti giunti fin qui in una Pordenone che forse non sapevano neanche esistesse, quanti nostri “angeli” diventati adulti e anche genitori, quanti ospiti e amici diventati angeli, quanto pubblico che ha scoperto grazie al nostro festival un territorio bello e ricco di storie da ascoltare. Quando nel 2000 abbiamo progettato la prima edizione, tutto era decisamente diverso e nulla somigliava a quel che andrà in scena tra pochissimo. Anzi, a pensarci bene, una cosa uguale c'era e c'è ancora: l'entusiasmo. E a dire il vero anche un'altra: la passione. Non potevamo neanche immaginare, a suo tempo, quel che sarebbe diventato pordenonelegge negli anni. Posso dire, però, con assoluta certezza che tutti coloro che in questi anni hanno lavorato a questo meraviglioso progetto ci hanno messo sicuramente entusiasmo e passione. Due elementi fondamentali che ci hanno portato a quello che oggi è uno dei festival italiani più qualificati e che si può permettere anche di schiacciare l'occhiolino a quelli internazionali. Per mia indole non amo guardare al passato e quindi il mio racconto su questi quin-
dici anni di pordenonelegge si ferma qui. Voglio piuttosto soffermarmi su quel che sarà l'edizione 2014 anche perché per la prima volta sarà organizzata dalla Fondazione Pordenonelegge.it della quale mi onoro di essere il direttore. Un cambiamento importante la nascita della Fondazione che ha consolidato il rapporto con i curatori del festival meravigliosamente coordinati da Gian Mario Villalta e che mi vede affiancata da due instancabili storiche colleghe (Paola Schiffo e Debora Dal Bo) che come me hanno deciso di lasciare il precedente lavoro e entrare a far parte della Fondazione. Un team piccolo ma dal grande entusiasmo e dalla incondizionata passione al quale si è recentemente affiancata anche una precisa amministrativa (Monica Bonacotta) alla quale non mancano le già citate due caratteristiche positive. Ma
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dazione vede la direzione di Michela Zin, sempre presente fin dall'inizio nei ruoli previsti dalla CCIAA, protagonista di una conversione di finalità e di forze che, con il tempo, ha mostrato come un'attività culturale possa diventare strumento importante per l'immagine di un territorio e attirare anche vantaggi economici per lo stesso. Di positivo, ancora, a comiciare dalle Istituzioni politiche, da FriulAdria, all'inizio, e poi a seguire da altre agenzie importanti della vita economica e sociale, con la ritrovata vicinanza dei due giornali cittadini, con la collaborazione delle associazioni, con il contributo dei singoli protagonisti della cultura e delle attività economiche del territorio, la lenta, progressiva costruzione di un tessuto ela-
mercio, nei suoi presidenti e nei rappresentanti delle categorie in essa riuniti, un valido e costante appoggio, anche in momenti di difficoltà verso l'esterno e di divergenza all'interno. Non ci fosse stato questo contributo fondamentale, per il quale va menzionato Augusto Antonucci per l'appoggio iniziale e Giovanni Pavan per gli anni successivi (con ancora più forza per il presente), l'avventura sarebbe già finita, e forse assai presto. Aver trovato, inoltre, all'interno della Camera di Commercio, persone capaci e attive, che hanno saputo comprendere, con il tempo, la validità dell'iniziativa. Il loro apporto amministrativo e logistico è stato sempre fondamentale. Oggi la Fon-
non saremo soli perché i nostri storici fornitori, gli splendidi angeli, i collaboratori, i tanti sponsor e soprattutto gli enti che hanno dato "ossigeno" alle nostre idee, sono al nostro fianco e formeranno quella ormai consolidata squadra che darà vita a magnifici progetti che ogni anno entrano in scena a settembre. Progetti sempre sostenuti e stimolati da un nuovo Consiglio di Amministrazione - guidato dal presidente Giovanni Pavan - che ci stimola quotidianamente a lavorare con serietà, confrontarci con nuove realtà, diventare vera agenzia culturale per il territorio con grandi ambizioni sul futuro. Eccoci qui, quindi. Il sipario sta per alzarsi sulla XV edizione di pordenonelegge 2014. Ora mancate solo voi, il nostro importantissimo pubblico, curioso, attento, interessato ma soprattutto carico di entusiasmo e passione. Così come noi, da sempre.
«Il vento spazza le nubi, rivelando una notte senza luna. Le tenebre che avvolgono Venezia serrano in una morsa i cuori di Damien e Francesco, già messi alla prova dal viaggio che si accingono ad affrontare. In testa un solo pensiero: salvare Virginia, la cui anima è stata trascinata negli inferi da Amelia». Sono parole tratte da Il bacio proibito, il terzo libro della saga urban fantasy Dark Heaven, edita da Sperling & Kupfer. L'autrice, Bianca Leoni Cappello, in realtà è lo pseudonimo di due scrittrici e amiche, Flavia Pecorari e Lorenza Stroppa, entrambe di Pordenone, unite sin da giovanissime dalla passione per i libri. Lorenza, quest'anno a Pordenonelegge tu e Flavia presentate l'ultimo libro della trilogia: qual è il bilancio di quest'avventura?
Il muro di luce
di Emiliano Grisostolo, ed. Ciesse stico e resistente, sempre di nuovo da ricucire, ma sempre nuovo nelle sue cuciture. Il risultato è che pordenonelegge piace perché gli scrittori e gli appassionati del libro si riconoscono nelle sue proposte, nelle sue piccole e grandi provocazioni e invenzioni, nel suo lavoro costante di attenzione per la poesia e la narrativa. Però quello che tutti rilevano, ricordano e raccontano è l'atmosfera di una cittadina che sa diventare accogliente, viva, stimolante, straordinaria realtà della manifestazione. Speriamo che sia ancora così, anche per le prossime date che stiamo inseguendo da un anno: il 17, 18, 19, 20, 21 settembre 2014. E intanto, accidenti, ma guarda quelle foto: come ero giovane!
recensione di Stefano Venuto Potrebbe sembrare un romanzo di fantascienza. Pagina dopo pagina, invece, ci si accorge che la presenza di mondi paralleli, scoperte di macchine futuristiche e alieni, altro non sono che spaccati della nostra realtà, tanto umanamente incomprensibile da essere costretti a renderla aliena. Si viaggia dgli anni ’40, colorati da un vecchio scienziato visionario, agli anni ’60 militarizzati, arrivando alla suggestiva rappresentazione odierna del bosco della Val Cellina. Si parte, si passa e si arriva, ma in realtà nulla è così consecutivo, tutto è intrecciato attraverso salti temporali mirabolanti e, come ogni intreccio, tutto pare confuso eppure collegato, il prima determina il poi. Emerge uno spaccato
Ultimo atto della saga urban fantasy Dark Heaven Le pordenonesi Flavia Pecorari e Lorenza Stroppa, in arte l’autrice Leoni Cappello, con "Il bacio proibito" di Elisa Cozzarini Con Il bacio proibito si chiude un'opera che ci ha visto lavorare e divertirci fianco a fianco per quasi cinque anni. All'inizio è cominciato tutto come un gioco. Strada facendo, è diventato un lavoro. Gratificante e piacevole, ma pur sempre un lavoro, con scadenze e impegni. Quando abbiamo iniziato eravamo due amiche che giocavano a fare le scrittrici, conoscevamo il mondo del fantasy da lettrici, e ci muovevamo a istinto (io e Flavia scriviamo più o meno assieme da quando avevamo 11 anni...). Dopo, confrontandoci con il mondo editoriale, con la nostra editor e i lettori, abbiamo imparato meglio il "mestiere", affinato tecniche e modalità. Se il primo libro (La carezza dell'angelo) nasceva da tanta passione e un po' di tecnica, il secondo e soprattutto il terzo libro hanno visto maturare la
scrittura e l'approccio all'atto di scrivere. E, con la scrittura, sono maturati anche la storia e i personaggi. Questo terzo libro è molto più "dark" e ricco di tensione rispetto agli altri due, volutamente più fantasy, soprattutto nella prima parte, in cui il protagonista scende in una Venezia infernale. Abbiamo attinto a tutto l'universo di libri gotici e fantasy per creare quel mondo. Speriamo di averlo reso al meglio!
sociale fatto di incertezze, di instabilità di coppia, di incertezza lavorativa, di precariato, la paura di essere soli nell’universo. Si viaggia nel tempo a cavallo di alieni buoni, per concludere che il tempo passa, ma che non cambia la necessità di pensare che si possa raggiungere un posto altro dell’attuale, salvo poi accorgersi che nel futuro la speranza non ha portato così tanti miglioramenti. Il libro fa riflettere sulla nostre profondità dell’esistere, senza darci modo di capire chi, in realtà, sia l’alieno. Un libro ben fatto, dalla buona ritmica, che ti porta a leggere la pagina successiva per sapere cosa accadrà. E quello che accade dopo supera la fantasia.
Gli angeli muoiono delle nostre ferite
Avete scelto un genere particolarmente apprezzato dagli adolescenti e per voi la scrittura e la lettura sono soprattutto divertimento... Oggi però la lettura è vista come attività noiosa dai giovani e non solo, come si fa a capovolgere questo stereotipo? Noi teniamo, durante l'anno, corsi di lettura e scrittura fantasy in tutto il Friuli Venezia Giulia per i ragazzi delle
medie e delle superiori (in ottobre ne comincerà uno proprio alla Casa dello Studente di Pordenone). Raccogliamo dai giovani moltissimo entusiasmo. Il problema principale è che i ragazzi si sono separati dalle storie su carta. Le cercano altrove, nella tv, nei giochi di ruolo, in internet... Fanno fatica a cercarle in un libro, non sono più abituati e al contempo hanno bollato i libri come oggetti arcaici. Ma se fai capire loro che i libri non sono sempre assimilabili alla scuola, se fai toccare con mano una storia (soprattutto una storia fantasy, con molta azione, mostri, un po' di magia...), portandoli dentro alle pagine, allora diventano degli affamati di storie. Si appassionano e non mollano più. Libertà di parola è un giornale "di strada", in cui scrivono anche persone che
non lo fanno di mestiere: che consigli daresti a qualcuno che volesse provare a raccontare una storia? Lo stesso che diamo ai ragazzi a cui facciamo i corsi di scrittura: per migliorare la propria scrittura bisogna leggere e scrivere molto. Non ci sono altre ricette. Al resto ci pensa la propria immaginazione. Domanda d'obbligo: che progetti avete per il futuro? Continuerete a scrivere assieme? Scrivere assieme rende tutto più facile e divertente. Continueremo senz'altro, sempre che la casa editrice ci supporti. Con l'autunno inizieremo una nuova avventura, ma è ancora presto per parlarne... Per maggiori informazioni sulla trilogia fantasy di Bianca Leoni Cappello: www.darkheaven.it
di Yasmina Khadra, , Sellerio Editore Palermo recensione di Irene Vendrame
Se dovessi descrivere in una sola parola il romanzo “Gli angeli muoiono delle nostre ferite” sceglierei l’aggettivo “intenso”. Fin dalle prime pagine ci si deve confrontare con una situazione complessa: è il 1937 in Algeria e un pugile di nome Turambo, il narratore in prima persona della vicenda, racconta gli ultimi attimi della sua vita, prima di essere giustiziato alla ghigliottina e, bruscamente, senza riuscire a comprendere, ci si ritrova partecipi delle sue emozioni, dei suoi pensieri più intimi e tormentati. Ma, proprio quando la lama che lo separa dalla fine è così vicina, ritorniamo indietro, con un flashback, sino agli inizi della sua storia. Il narratore-Turambo ci riporta cioè a una ventina d’anni prima, quando, ancora bambino, è costretto a emigrare dal suo villaggio distrutto dalle tempeste: qui inizia la sua storia. Con un linguaggio preciso e denso, l’autore racconta l’odissea che la famiglia, caduta in rovina, è costretta a sopportare: la vita di stenti a Graba, un ghetto di Sidi Bel Abbes, un’esistenza passata a trovare un appiglio per non essere travolti dal marciume che la povertà generosamente semina. Poi il trasferimento in un quartiere arabo-berbero di Orano, una vita migliore. Turambo conosce un ragazzo della sua età, Gino, che diventerà il suo migliore amico, e tutto sembra andare per il meglio. La svolta arriva quando Turambo viene ingaggiato come pugile, grazie al suo potente gancio sinistro: la prospettiva che gli si apre è quella di una vita da sogno, fatta di denaro e fama. Non tutto però è come appare e una vita perfetta può rivelarsi un incubo, soprattutto quando i sentimenti influenzano scelte difficili che si è costretti a fare. In un epilogo tutt’altro che scontato scopriamo la fine di una storia dolorosa, straordinariamente umana, che fa riflettere sul proprio passato e sul futuro. Mohammed Moulessehoul, l’autore di questo libro, che scrive con lo pseudonimo di Yasmina Khadra, riesce a inserire tra le righe di questa storia le questioni sociali del tempo, come il razzismo e la condizione femminile, rendendo l’opera estremamente realistica.
L'intervista
Omicidio nell’antica Grecia L’opera prima di Andrea Maggi, insegnante pordenonese. Collaborò con il festival di Sara Rocutto Un giallo? Un romanzo storico? Un giallo ambientato nel passato? “Morte all’Acropoli: le indagini di Apollofane” di Andrea Maggi (ed. Garzanti) è prima di tutto una bella storia che sa lanciare messaggi attualissimi partendo da dettagliate ambientazioni antiche, tanto da appassionare anche chi di gialli e Storia non è poi un grande amante. Apollofane, un giovane commerciante di Atene, si ritrova a svolgere il ruolo di logografo, una sorta di avvocato difensore nella Grecia del IV secolo a.c., di Eurifemo, un uomo accusato d’essere un licantropo, e in quanto tale, finito per essere il primo indiziato in un caso di omicidio. Apollofane sa che Eurifemo non è colpevole e arriva a mettere a repentaglio la sua vita per dimostrarne l’innocenza, nonostante ormai sia stato già, di fatto, condannato dall’opinione pubblica ateniese. “La condanna da parte dei cittadini, di questi tempi, rappresenta già una mezza sentenza. Nessun logografo di spicco oserà andare contro l’opinione comune, per quanto stupida e ingiustificata essa sia. Ne andrebbe della sua credibilità politica.” È per questo che Apollofane decide di aiutare Eurifemo. Grazie al suo intuito e al desiderio di
verità riuscirà a risolvere l’intricato caso in cui si troverà coinvolto, sostenuto da Filossena, una giovane donna di grande levatura culturale che gli sarà di grande aiuto. La tenacia di Apollofane è la stessa che ha portato l’autore, Andrea Maggi, un insegnante di lettere pordenonese, a pubblicare per una grande casa editrice. Andrea ha collaborato alle prime edizioni di pordenonelegge.it e quest’anno realizzerà un suo sogno: essere presente al festival come autore. Andrea, come si scrive una storia ambientata in un’altra epoca e in un altro paese? E’ stato difficile far andare d’accordo realtà storica e fantasia? Cosa ti ha aiutato? Bisogna studiare tanto. Poi è necessario far sì che ciò che si racconta sia compatibile con l’epoca e il luogo oltreché, al contempo, deve risultare accattivante. Per cui, sì, è stato difficile, ma anche molto divertente e stimolante. Chi sono i tuoi riferimenti per quanto riguarda questo genere letterario? Dato che il genere è duplice, trattandosi di un giallo-storico, citerei almeno due autori, Robert Van Gulik (quello del giudice Dee), e Margaret Do-
Guardati dalla mia fame di Milena Agus e Luciana Castellina, edizioni Nottetempo recensione di Franca Merlo Un delitto in una cittadina della Puglia, Andria: il 6 marzo 1946 in un tumulto due nobildonne vengono uccise dai braccianti. E’ l’occasione colta dalle autrici per entrare nei mondi contrapposti degli agrari e dei braccianti pugliesi dei primi anni del dopoguerra, raccontando la stessa storia da due diversi punti di vista, uno personale e l’altro sociale. Agus narra l’aristocrazia entrando, con un pizzico d’invenzione, nella vita privata delle attempate signorine Porro. Con uno stile quasi pettegolo da salotto le racconta dall’interno, nella loro vacuità ed innocenza. Vestite di nero, sobrie e contenute, mai una parola sconveniente, prive di pensiero proprio, le sorelle Porro vivono immobili ripetendo il passato. All’esterno il mondo non le sfiora: la gestione delle loro terre, la vita disumana dei braccianti che la lavorano, la situazione politica, tutto è fuori dal portone del palazzo. Ma saranno proprio
ody (quella della saga di Aristotele detective). Apollofane mette la sua vita a repentaglio pur di lottare contro ingiuste condanne che paiono già scritte: antico investigatore o moderno eroe (che ci manca)? Il tempo passa, ma da sempre l’umanità considera eroi coloro che dedicano la loro vita al bene altrui, da Leonida a Rita Levi Montalcini. Hai ragione, oggi il modello di eroe rischia di diventare colui che indossa il paio di pantaloni alla moda; del resto, se dai corsi di studi liceali tolgono il latino e il greco, cos’altro c’è da aspettarsi? Come ci si sente a pubblicare per un’importante casa editrice ed essere prossimo a presentare il tuo libro a Pordenonelegge, festival che hai visto nascere da dietro le quinte? Era una cosa a cui avevi mai pensato? Pubblicare per Garzanti è stato un onore, oltreché un’immensa emozione: alla lettera M degli autori ci sono io e c’è anche Magris, ci pensi? Per me è un grande privilegio poter presentare il romanzo a Pordenonelegge. it, manifestazione che amo
particolarmente e che sostengo da sempre. Confesso che ho sempre sognato di potervi presentare un mio romanzo. Mi piace inseguire i sogni. E, soprattutto, acciuffarli. Avremo modo di leggere altre storie di Apollofane? Quali altri progetti in cantiere? Ho in testa tante avventure per il mio caro Apollofanino e per la stupenda Filossena. Sto per l’appunto scrivendo la seconda puntata, che mi sta dando molte soddisfazioni. Ho anche altri progetti in cantiere, ma per adesso mi concentro su questo. E per finire: qualche suggerimento per chi insegue il sogno della scrittura? Leggere, leggere e ancora leggere finché non sanguinano le orbite. Non esiste grande scrittore che non sia, prima, un grande lettore.
loro le vittime. «Sono colpevoli?» si domanda l’autrice attraverso la voce dell’amica di famiglia. La risposta non è netta. Se in maniera diretta le nobili non hanno colpa, c’è una responsabilità più generale, quella di essere vissute senza curarsi di sapere. Castellina invece ricostruisce lo sfondo storico e sociale del delitto, che i libri di storia non raccontano: dal '43 al '49 nel nostro Paese c'è stata una vera guerra civile e quello delle Porro non è un caso isolato. Fa parte di un dopoguerra dove si incontrano braccianti e agrari, re e reduci, tedeschi e alleati, comunisti e fascisti rimasti al potere con l’avallo anglo-americano. Una ricostruzione incalzante, che affascina sempre più man mano ci si addentra nei fatti. Mostra il vuoto di potere seguito all’armistizio dell’8 settembre, la mancanza di coordinamento tra Alleati e autorità italiane, la vacuità dei regnanti, l’incapacità di tutti di comprendere la situazione... la totale mancanza di Stato. Neppure le forze politiche di sinistra capiscono la miseria brutale e disperata dei cafoni. In questo contesto l’ottusità degli agrari contrapposta alla fame perenne che esplode periodicamente in fatti di sangue, ma anche mille altri temi diventano altrettante piste di riflessione, sempre sul solco dei documenti storici. Infine gli arresti indiscriminati di centinaia di braccianti, il processo, la mancanza di una ricerca di chi aveva provocato l’incidente sparando sulla folla dal tetto di palazzo Porro: tutto questo conclude la vicenda, non facendo che confermarne i retroscena.
INVIATI NEL MONDO
Turchia, dove il vecchio e il nuovo convivono
«Grazie ad uno scambio culturale tra scuole ho conosciuto Dicle e la sua famiglia» di Irene Vendrame Un bicchiere di tè bollente e profumato, ecco, questo basta per riportarmi alla mente la Turchia. Ci sono stata alla fine di maggio scorso, con uno scambio culturale organizzato dalla mia scuola. Eravamo in tutto circa trenta persone divise in sette gruppi, provenienti da diversi Paesi (in particolare Spagna, Italia, Germania, Norvegia, Ungheria, Turchia e Olanda) più altrettanti studenti che ci hanno ospitati. Non era la prima volta che partecipavo ad un progetto simile e devo dire che è stata un’esperienza ricca e indimenticabile. Il fatto che lo studente straniero venga ospitato da un ragazzo del luogo dà la possibilità di provare i ritmi e le abitudini di una cultura differente. Si vedono le cose da un’altra prospettiva, perché ci si trova in una situazione diversa dalla propria realtà: è lì che diventa ancora più evidente ciò che, invece, unisce all’altro, ciò che si ha in comune. La ragazza che mi ha ospitato si chiama Dicle. È alta, mora e musulmana. Nonostante sia praticante, non porta il velo. La sua casa non è
come la mia: a parte il fatto che si trova immersa in una grande città come Ankara, mentre io vivo in un paesino che conta al massimo 2000 abitanti, all’interno è molto più colorata, arredata con mobili particolari, che donano alle stanze il tocco orientale. In cucina si sentiva sempre un odore pungente di spezie e in tavola venivano serviti cibi che non avevo mai visto prima, come riso avvolto in foglie di vite o frittate con salame di manzo. La loro lingua mi era incomprensibile, infatti utilizzavamo solo l’inglese. Alle pareti erano appesi qua e là i simboli di una religione che avevo conosciuto solo sui libri: il talismano a forma di occhio blu che tiene lontano le maledizioni e poi quella mano distesa ricoperta da ghirigori, la mano della madre di Allah, mi ha spiegato. È stata un’esperienza nuova, mi sono ritrovata in un ambiente sconosciuto, eppure mi sono sentita a casa, perché vi ho ritrovato qualcosa di familiare: anche Dicle aveva una famiglia come la mia, una sorella birichina, un padre affettuoso, una madre
amorevole. Aveva degli amici, con i quali uscire al pomeriggio o alla sera dopo aver studiato, proprio come faccio io. E mi ha rivelato anche di un amore. È stato strano ma divertente trovarci la sera, sedute sul letto, a spettegolare insieme, come se fossimo due vecchie amiche. Con il gruppo dello scambio abbiamo visitato la Cappadocia, costeggiato le sponde del Lago Salato e percorso in lungo e in largo le strade di Ankara, cercando di non farci investire dalle auto che guidavano impazzite lungo la carreggiata. Abbiamo fatto shopping nei grandi e moderni centri commerciali e visitato piccoli borghi di periferia dove sembra che il tempo si sia fermato. Le viuzze strette affiancate dai negozietti di pelli, tappeti e gioielli artigianali, facevano dimenticare subito il traffico caotico della città e i negozianti, che seduti in minuscoli sgabelli ci scrutavano sorseggiando del tè, somigliavano molto a quelli che avevo viso nei documentari alla televisione. Ultimamente la Turchia ha fatto molto parlare di sé, inizialmente per le proteste di Gezi park, poi per la “protesta dei sorrisi”, alla quale hanno aderito donne di nazionalità
diverse, ed infine per le elezioni del presidente, che sono state un trionfo per Erdogan, nonostante tutte le polemiche, per la posizione presa rispetto ad alcuni problemi sociali, come per esempio il ruolo della donna. Con Dicle abbiamo parlato anche di questo. Mi ha confidato di non essere una sostenitrice del presidente. Non le piace il modo autoritario con cui si ostina a governare il Paese, le pressioni che esercita per farlo assomigliare sempre di più ad uno stato islamico. Vuole tenere la donna sottomessa all’uomo. Vuole chiudere i social network, per evitare i contatti con la società occidentale. Si ostina a credere
in un paese vecchio, mentre è il cambiamento ciò che i giovani desiderano. «Noi giovani lotteremo per avere un paese libero e democratico», mi diceva Dicle. Quando parlava di politica si infervorava tutta e le brillavano gli occhi. Non ho mai visto un ragazzo della mia età esaltarsi tanto per un argomento del genere. Forse dovremmo prendere esempio da lei ed interessarci di più. È strano l’effetto che questa terra mi ha lasciato, una sensazione particolare, di nuovo e vecchio che convivono insieme, un’idea che solo una terra costantemente in bilico tra oriente e occidente suggerisce, che può essere colta soltanto quando si smette di essere turisti, quando si apre il cuore, quando si smette di guardare ciò che sta intorno e si comincia a viverlo.
PANKAROCK
NovaRock, tre giorni di libertà, musica e adrenalina In Austria per il decennale di uno dei più gradi eventi musicali internazionali rock metal di Nicole Vidaich Nickelsdorf – Austria. Una vasta area circondata da pale eoliche al confine con Ungheria e Slovacchia. Tre giorni, dal 12 al 14 giugno, e tantissimi artisti presenti assieme a un bel sole, al venticello tra i capelli e almeno 500.000 persone a fare da pubblico. Questo è il NovaRock 2014! Per i veri amanti della musica rock-metal assolutamente un evento da non perdere. Un mondo di ragazzi e ragazze da tutta Europa che corrono a destra e sinistra per raggiungere i due palchi principali. Blue stage e red stage. Un sonoro a regola d'arte per festeggiare i 10 anni di anniversario dalla nascita di questo Festival. Tra i più attesi senz'altro gli Iron Maiden. A circa 60 metri di distanza, due maxi schermi sullo sfondo del palco si accendono e proiettano immagini di fan... In un attimo parte la voce è la folla urla! Effetti scenici spettacolari durante quasi due ore di concerto. Tutte le tracce più amate e tra loro una bellissima “Fear Of The Dark”. Carica scenica in grado di farti venire la pelle d'oca e gli occhi lucidi. I fan che cantano ogni singola parola a memoria, rendendo tangibile la passione per queste icone senza tempo. Io compresa mi sono buttata
nella mischia pogando e saltando nell'onda del fomento. Non dimenticherò mai la sera in cui hanno fatto tremare il palco i Prodigy, decisamente il concerto che attendevo con più ansia. Hanno aperto le danze con “Out Of Space” e per poco non mi mettevo a piangere. Una delle tracce più vecchie e sottovalutate del loro repertorio e che non ebbe neppure neanche tanto successo...E ora? A distanza di anni, tutti gli amanti del genere hanno iniziato ad apprezzarla perché quando la senti, non importa dove sei, molli
tutto e inizi a ballare come un dannato! Energia allo stato puro! Tanto da creare uno spostamento circolare nella la folla. Tutti hanno iniziato a correre formando un cerchio con una tempesta di sabbia, riproposta anche in chiusura e per questo li ringrazio! Straordinario. Altri animali del palco sono gli Slayer, capaci di trascinare nel vivo anche me, non una grande fan della musica Metal. Me ne sono resa conto quando hanno suonato pezzi come “Angel Of Death” e “Mandatory Suicide”. Una carica potentissi-
ma. Li ho apprezzati davvero tanto. Un'altra super sorpresa è stata la session di Rob Zombie con “House Of 1000 Corpses”. Un personaggio che è un fenomeno, rock star e regista di diversi film, se ne esce truccato e vestito come il protagonista di un horror dei suoi, saltando e ballando con passi di danza che sono uno spettacolo per gli occhi. Prende e si arrabbia perché non sente l'energia che vorrebbe, incita tutti a scatenarsi di più e alla fine ci scappa il pazzo che si è incitato un po' troppo e viene placcato dalla secu-
rity. Un sound rockeggiante mischiato a una base elettronica. Non a tutti può piacere, ma si fa molto apprezzare dai meno amanti del metal scuro e duro. Altri grandi nomi hanno smosso il palco per bene, pienone per i Volbeat, Black Sabbath, Limp Bizkit, SoundGarden, The Offspring, Sepultura e Avenged Sevenfold. Un sole da protezione 50, accampamenti ricoperti da lattine di Ottarocker, la birra che fa da slogan al NovaRock e che non può mancare assolutamente! Bancarelle con ogni sorta di cibaria, tra cui il buonissimo asado argentino. Il panino con la cotoletta il must del Festival e tantissimi altri stand dove si poteva trovare di tutto: collane, bracciali, anelli, maglie e felpe particolarissime. Musicalmente parlando, nulla da togliere ad
altri Festival importanti come Rock in Roma, Rock in Idro, Heineken ecc. Line up infinita e tanti generi diversi, in modo da non annoiare nessuno e da rendere più varia l'esperienza. Scoperta interessante sono stati i Volbeat che personalmente non conoscevo, ma che in Austria hanno generato un vero fenomeno. Gli Offspring per esempio non sono riuscita a seguirli, ma camminando per andare alle tende, ho sentito un pezzo che mi ha riportato ai 13 anni, quando avevano avuto un enorme successo... Tracce come “Pretty Fly” e “Come Out and Play” mi hanno fatto rivivere in pieno alcuni momenti dell'adolescenza con un brividino sulla schiena. Insomma serate piacevolissime piene di libertà, rock e qualche lacrima. Colori, folclori, persone gentili e con il sorriso, di tutte le età e di tutte le tipologie, Hipster, Metallari, Punk, Roccabilly, Pin-Up, Rasta, Emo, SkinHead, credo di aver visto veramente di tutto. Mamma e figlia, insieme, con la t-shirt uguale, che camminano insieme per andare sotto palco. Acquisto top: giacca da baseball targata Ramones e t-shir Jack Daniels. Troppo troppo soddisfatta! Una cosa incredibile: nessun episodio di violenza, nessuna rissa, nemmeno negli accampamenti dopo tre giorni di sole, musica e alcol. Pochissime le persone che tentavano di rifiliarti una sostanza qua, una sostanza la, cosa che in un concerto di tale portata ti aspetti di sicuro. E invece no, tutti sorseggiavano la loro birretta fresca più
che contenti ed era piacevole così. Alcuni accampamenti avevano tanto di divano e di televisore per seguire i mondiali! Purtroppo la pecca di questo incredibile Festival che ho avuto la fortuna di vivere dal day one è stata l'igiene e il pochissimo rispetto per l'ambiente, spazzatura dappertutto, nessuno che si occupava delle pulizie, bagni chimici che si facevano sentire a metri di distanza, poca organizzazione per quanto riguarda le docce. Quelle gratuite aperte solo a una certa ora e quindi file infinite e quelle a pagamento ti spillavano sei euro e ti becca-
vi solo acqua fredda. Il posto era molto polveroso e non c'era niente che facesse un po' di ombra. Non hanno utilizzato gli idranti per rinfrescare le persone sotto palco e per arrivare da un posto all'altro bisognava fare km a rischio di perdersi. Ma insomma alla fine in ogni cosa troviamo i pro e i contro. La compagnia è tutto in questi casi e io ho avuto il piacere di passare tre giorni con un gruppo stupendo che mi ha fatto capire quanto la musica sia importante e fondamentale nella vita. Ma soprattutto quella dal vivo. Ti fa emozionare, ti fa saltare, ti fa ridere, cantare, piangere, unisce le persone in un unica grande folla, dove tutti sono amici, dove tutti stanno insieme per la stessa ragione. Non importa che problemi hai lasciato a casa, non importa se sei senza lavoro, se hai litigato con qualcuno, se hai delle preoccupazioni. Per un attimo il peso scompare...in quel momento quando sei sotto al palco, o sotto una cassa, tutto svanisce. Se ti lasci andare puoi fare un viaggio stupendo e tornare a casa con un briciolo di felicità in più. Ps: Nota per i futuri partecipanti: non bere caffè e portarsi da casa la carta igienica!:-)
NON SOLO SPORT
La speleologia, tra scienza ed esplorazione Cosa significa e come si diventa speleologi. In provincia il gruppo di Sacile esplora grotte dal 1971 di Albeto Gattel La speleologia è la scienza che studia l'origine e l'aspetto delle grotte. Oggi è un'attività non professionistica che si divide tra studio scientifico ed attività esplorativa. Lo scienziato utilizza le tecniche di corda per compiere le sue ricerche, mentre l'esploratore ha conoscenze geologiche sufficienti per capire la grotta in cui si trova e scoprire le prosecuzioni ancora sconosciute. Il movimento dello speleologo è molto diverso da quello dell'alpinista, per questo l'esploratore delle grotte utilizza corde e attrezzature speciali: ha un casco con un potente sistema di illuminazione a led, utilizza discensori e bloccanti meccanici che permettono di calarsi lungo pozzi profondi anche centinaia di metri e di risalire in sicurezza senza un compagno che faccia sicura, utilizzando corde fatte con speciali fibre plastiche resistenti alle abrasioni e in grado di sopportare carichi enormi. Come diventare speleologi. Il modo più sicuro per diventare speleologi è unirsi ad uno dei circa 200 gruppi esistenti in Italia che fanno parte della Società Speleologica Italiana o del Club Alpino Italiano, le due grandi or-
ganizzazioni nazionali che ne coordinano le attività. Ogni gruppo organizza annualmente un corso pratico per neofiti dove vengono insegnate le tecniche necessarie per muoversi in autonomia nell'ambiente sotterraneo. Anche se le tecniche impiegate per un'uscita ricreativa in una grotta molto frequentata o per una lunga esplorazione in una cavità sconosciuta sono essenzialmente le stesse, la speleologia è un'attività complessa e impegnativa che si padroneggia solo dopo anni di attività. Raggiungere i 2000 metri di profondità della grotta Krubera in Georgia richiede una preparazione ed
La mia esperienza nel soccorso di Cristina Colautti Ivan Vicenzi, Pacu per gli amici, ha 38 anni e da quasi venti è socio attivo del Gruppo Speleologico di Sacile; da circa nove fa parte anche del Corpo Nazionale di Soccorso Alpino e Speleologico (CNSAS). La sua avventura nel corpo del Soccorso inizia nel 2005 quando, insieme ad altri sei soci del gruppo di Sacile, decide di intraprendere il percorso che lo porterà a far parte delle fila di questa associazione di volontariato,
che si occupa di prevenzione degli incidenti, soccorso degli infortunati e recupero dei caduti nelle attività alpinistiche e speleologiche. Un corso teorico e pratico, un esame e diverse manovre di esercitazione in grotta per imparare a muoversi con coordinamento e destrezza insieme agli altri componenti del Corpo, questo l’iter iniziale, a cui seguono regolari “allenamenti” per essere sempre pronti ad intervenire nelle situazioni di difficoltà. In questi nove anni,
un impegno paragonabile all'ascesa di una montagna di ottomila metri. Come si fa speleologia. La speleologia esplorativa è un'attività che si fa in piccole squadre di tre o quattro persone. Durante le esplorazioni si compiono risalite, si superano strettoie e si discendono pozzi che portano in luoghi mai raggiunti da nessun altro. È un'attività senza dubbi faticosa, che mette alla prova anche i caratteri più forti e che addestra all'umiltà e alla cooperazione. Spesso le esplorazioni iniziano il pomeriggio di sabato e si concludono la domenica mattina; i pesanti sacchi che contengono i materiali ne-
cessari si passano di mano in mano nei punti più stretti; nelle risalite, simili a quelle alpinistiche ma completamente in artificiale, si fa sicura al compagno che sale. Si crea in questo modo una grande amicizia tra le persone e un forte spirito di appartenenza al proprio gruppo speleologico, dove si incontrano e si conciliano preparazione tecnica e spirito goliardico. Il Gruppo Speleologico di Sacile. Il Gruppo Speleologico di Sacile studia ed esplora le grotte dal 1971. All'epoca, i primi avventurosi pionieri esploravano le grotte della Val Cellina e della Val d'Arzino disponendo solo di scalet-
fortunatamente, non sono stati molti gli infortuni nei quali Ivan, insieme al gruppo, ha dovuto intervenire. Tra questi però il più impegnativo è stato, a suo parere, quello verificatosi in Baviera all’inizio di giugno di quest’anno. «Lo speleologo era ferito in modo grave – racconta oggi Ivan - si trovava a circa 980 metri di profondità, all’interno di una grotta piuttosto complessa. Ho avuto paura che non riuscissimo a portarlo fuori vivo». L’intervento alla fine ha avuto buon esito. Anche in questa occasione, come in tutte le altre operazioni di soccorso, il senso di unione e
la cooperazione hanno fatto la parte del leone, lasciando in secondo piano la sana competizione sportiva che esiste solitamente tra i diversi gruppi speleo. «Ti senti parte di una grande famiglia, siamo tutti veramente uniti e concetrati nella realizzazione dello stesso obiettivo», afferma Ivan. Un impegno che vede coinvolti, a titolo gratuito, ma con obblighi di legge, circa 1000 speleologi in tutta Italia. Lo spirito che li accomuna è quello bene descritto da Ivan, che dice: «Bisogna prima di tutto dare, se si vuol ricevere a propria volta una mano».
te in alluminio autocostruite e di materiale rudimentale con degli standard di sicurezza molto bassi. Le caratteristiche di quel materiale richiedevano un grande numero di persone, ma le esplorazioni, per quando difficili e faticose, rivelavano a quei fortunati l'esistenza di un mondo affascinante e ancora sconosciuto a poca distanza dalle città. Alcuni anni dopo si svilupparono le moderne tecniche di corda che rendono raggiungibili maggiori profondità in minor tempo. Era il periodo in cui in Italia iniziavano le esplorazioni ai grandi sistemi carsici e tra il 1982 e l'83 due soci del gruppo sacilese, Olimpio Fantuz e Claudio dal Cin, stabilirono il record italiano sfiorando i 1000 metri nella Spluga della Preta sui Monti Lessini nel Veronese. In quegli anni, con l'aiuto dei gruppi speleologici di Pordenone e Pradis, venne esplorata la famosa grotta Landri Scur in comune di Claut, dove si scoprirono oltre 3 km di gallerie nel complesso degli attuali 4322 metri di sviluppo. Negli anni successivi si scoprirono e si esplorano molte grotte della Val d'Arzino e della Val Cosa, per arrivare alla fine degli anni '90 con la scoperta della grotta più profonda del gruppo del Monte Cavallo, la Fessura della Tosca in Val Sughet. Il GSS svolge oggi anche attività di esplorazione speleosubacquea. Da molti anni alcuni spelologi sacilesi fanno parte del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico e partecipano come tecnici ad interventi di soccorso di vario tipo. Il Corpo, nato nel 1954, è composto da tecnici volontari addestrati ad intervenire per portare aiuto in montagna e in grotta.
Il corso Il Gruppo Speleologico di Sacile organizza un corso di I° livello dal 30 settembre al 14 novembre. È richiesto un certificato medico per attività non agonistica. Il venerdì sera si tengono le lezioni teoriche, la domenica quelle pratiche in grotta. Per informazioni e iscrizioni telefonare ad Alberto al numero 3396461753 o ad Alessandro al numero 3495151337. Il Gruppo si ritrova il venerdì sera dopo le 21 presso la sede di Sacile in via Ronche 51. Sito internet: www.speleosacile.it.
Con in mano una cartina geografica L’Orienteering è uno sport che in Italia conta ben 10 mila associati e 170 società sportive di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon Prendere la bussola in mano è come guardare in faccia la propria vita: leggere una cartina topografica cercando di pianificare la strada giusta, come fermarsi, pensare al futuro e tentare di evitare gli ostacoli. L’ “Orienteering” è uno sport che può essere facilmente letto come similitudine di vita. Il significato della parola è “orientamento”; in senso allargato, per questo sport che ha origine nella fredda Norvegia e più precisamente a Bergen nel 1887, orientamento si declina in pianificazione del percorso, ricerca sul territorio e precisione del risultato. Questa affascinante disciplina sportiva si sviluppa inizialmente nei paesi scandinavi per poi estendersi oltreoceano negli Stati Uniti e in Canada e diventare definitivamente uno sport ufficiale internazionale. Nel corso del tempo si sono definite diverse categorie di gare di orientamento. La più classica resta la CO ovvero la corsa orientamento nella quale i concorrenti, muniti di cartina topografica, bussola e testimone cartaceo, devono sfidarsi in una corsa a tempo solitamente in mezzo alla natura dove devono cercare il percorso più agevole e veloce per trovare degli obiettivi denominati "lanterne". Queste sono numerate e dispongono di una punzonatrice che contrassegna sul testimone cartaceo il passaggio del concorrente per quel punto. Il vincitore della gara sarà colui che avrà contrassegnato nel
minor tempo possibile tutti gli obiettivi, è intuitivo quindi che le abilità che sono maggiormente richieste sono la lettura della cartina, il senso dell'orientamento e la prestanza atletica per muoversi in ambienti vasti e non sempre agevoli. Le altre categorie di CO che mantengono essenzialmente la stessa struttura di gara ma variano il mezzo di trasporto del concorrente sono: Sci-O, Mtb-O (mountain Bike), CarO (macchina) e alcune più curiose come Canoe-O (canoa) e Horse-O (a cavallo). La categoria che, dal nostro punto di vista, è la più interessante perché offre a tutti la possibilità di partecipare, anche a persone con ridotte capacità motorie o con ausili quali carrozzina manuale o elettrica, è la Trail-O. Questa categoria si basa soprattutto sulla capacità di individuare con precisione la postazione corretta dell'obiettivo segnato sulla cartina, distinguendola da altre lanterne fasulle vicine a quella corretta, ma non segnalate sulla carta. Rispetto alle altre categorie di corsa orientamento quindi non conta per niente la velocità, ma piuttosto l'abilità nella lettura della cartina, questa viene messa alla prova in particolare lungo il percorso su due postazioni a tempo nelle quali ai concorrenti viene fornita un'altra cartina e un giudice cronometra il tempo necessario ad intuire la lanterna corretta tra le possibilità. Il vincitore sarà colui il quale, a parità di obiettivi corretti individuati, avrà impiegato il minor tempo nelle postazioni a cronometro. In Italia, l'Orienteering
muove i primi passi nel 1967, prevalentemente nella zona del Lazio e del Trentino. Le prime gare contano solo poche decine di partecipanti, ma ben presto grazie all'azione delle società sportive l'orienteering si espande e viene riconosciuto come sport dai valori sani che garantiscono a giovani ed anziani un'attività salubre da un punto di vista fisico, mentale e sociale. Nel 1986 l'organizzazione primordiale dell'Orienteering si costituisce in FISO (Federazione Italiana Sport Orientamento), successivamente associata al CONI. Grazie al suo panorama che attualmente conta circa 10.000 tesserati distribuiti in 170 società a livello nazionale, la FISO è stata capace di organizzare in Italia eventi di portata internazionale come gli Europei e i Campionati Mondiali e in questi anni far fiorire diversi talenti italiani di questo sport, soprattutto nel campo dello Sci-O dove Nicolò Corradini ha vinto ben 4 titoli mondiali negli anni'90. L'Orienteering ad oggi conta circa 3.000.000 di praticanti nel mondo tra i 70 paesi iscritti alla IOF (International Orienteering Federation), il successo della sua diffusione sicuramente testimonia la bellezza di uno sport che permette un grande contatto con la natura e riporta ai sani valori sportivi che dovrebbe avere una disciplina.
LA STORIA
L’ITALIA 100 ANNI FA
Quest’anno si celebra il centenario della Grande Guerra. Ricordiamo ciò che la precedette di Emanuele Celotto Cade quest'anno il centenario della Grande Guerra. Ma è ingiusto ricordare quel periodo storico solo per questo evento bellico. La fine del ‘800 e l'inizio del ‘900 sono anni infatti di cambiamenti radicali su molti fronti, soprattutto artistico letterali: si pensi al Decadentismo (Pascoli) o al Verismo (Verga) in Italia, a Picasso e al Cubismo, al’Impressionismo prima e l'Espressionismo poi. Era un'Europa in gran fermento politico e sociale, che stava muovendo i primi passi verso l'industrializzazione ed il capitalismo grazie anche agli oltre 50 anni di pace; il temuto impero ottomano ormai si stava disgregando sotto le varie spinte indipendentiste e gli altri imperi europei vivevano in un certo equilibrio. A Milano nel 1906 si tenne l'Expo internazionale del Sempione con al centro le tematiche: l'uomo, la società ed il lavoro. Era anche l'occasione per celebrare la realizzazione del traforo del Sempione, una grande opera che sanciva l'entrata dell'Italia tra le potenze europee. E’ un periodo importante perché per la prima volta compaiono tematiche a sfondo sociale con al centro l'uomo e la società; per molti intellettuali ed industriali sembra il preludio ad un'epoca di progresso, crescita e benessere sociale. Ma la 1914
pace era un gigante che faticava a reggersi in piedi. Spinte colonialiste e nazionaliste rendevano elettrici i rapporti tra gli Stati; lo sviluppo industriale spostava il confronto sul piano dell'economia e di un'egemonia centro-europea della Germania. E noi come eravamo messi? L'Italia viveva un periodo di transizione, il nord iniziava uno sviluppo industriale, ma la campagna restava legata ad un'agricoltura di sussistenza, al sud il latifondismo diffuso ed i bassi salari scatenavano le rivolte dei braccianti agricoli; c'era una povertà diffusa, il tasso di analfabetismo era del 50% al nord ed oltre il 90% al sud; il livello di istruzione medio (per chi ne aveva una) era fermo alla terza elementare, la quinta i più fortunati. Il prestigio internazionale dell'Italia era cresciuto ma per essere considerata una potenza europea serviva qualche colonia. Ormai ben poco era rimasto; nel 1911 iniziò la campagna di Libia che, come sosteneva più di qualche intellettuale e politico dell’epoca “è solo uno scatolone di sabbia, ma se non lo pigliamo noi se lo prende qualche altro”: c’era poi la convinzione che sarebbe stata una guerra rapida e poco dispendiosa. La realtà fu totalmente diversa. La Libia fu appoggiata dalla Turchia 1924
e solo nell'ottobre 1912, quando quest’ultima firmò la pace, si ritenne chiusa la questione che ebbe costi esorbitanti (in realtà la questione libica si chiude definitivamente nel '21). Per molti italiani tuttavia era il sogno della grande Italia che iniziava. Il resto dell'Europa, che si trovava in piena fase di sviluppo industriale, cercava di accaparrarsi nuovi sbocchi di mercato. La Germania negli ultimi 30 anni aveva più che triplicato estrazione e lavorazione di ferro e carbone superando di fatto l'Inghilterra e prendendosi nuove fette di mercato. L'accresciuto potere economico della Germania spaventava non poco gli altri stati. A questo si accompagnava una diffusione del pensiero pangermanico come guida futura dell'Europa, cui va aggiunto il carattere bellicoso del kaiser Guglielmo II che voleva spazzare via l'odiata Francia. La disgregazione dell'impero ottomano e le guerre balcaniche spingevano l'impero Austro-Ungarico verso nuove annessioni (la Bosnia Erzegovina). Quando ci fu l'attentato di Sarajevo la tensione era già alta; le condizioni poste dall'impero Austro-Ungarico alla Serbia vennero dichiarate inaccettabili e lì iniziò il “patatrac”! L'Italia “restò alla finestra”, divisa tra interventisti e non. Mussolini stesso (allora direttore dell'Avanti e fervente socialista) si dichiarò contrario ad un intervento armato. D'Annunzio, col suo eloquio passionale, andò in giro per le piazze a propagandare la guerra. La corrente dei neutrali, invece, aveva due diverse motivazioni; da una parte un impedimento costituzionale che escludeva l'intervento armato, dall'altra la consapevolezza che l'esercito non
aveva i mezzi e le capacità per reggere il confronto: era ancora un esercito di stampo ottocentesco che andava modernizzato, ristrutturato ed armato adeguatamente. Gli interventisti da parte loro sostenevano a gran voce che ormai eravamo una potenza europea e non potevamo restare fuori dalla contesa. La propaganda risultò molto convincente e prevalse l'idea di entrare in guerra a fianco di Francia, Inghilterra ecc. Fu una guerra per acclamazione popolare! Molti si arruolano volontari, convinti che sarebbe stata una guerra di breve durata. L'idea della neutralità fu messa da parte anche da Mussolini che successivamente fu espulso dal partito. Ma la guerra di Libia aveva messo in mostra le lacune del nostro esercito: era poco e male armato, con armi inadatte al tipo di guerra a cui andava incontro (trincee, filo spinato, mitragliatrice) e una scarsa preparazione delle truppe. Soldati che non considerati uomini ma carne da cannone. L'Italia entrò in guerra al fianco di Francia, Inghilterra ecc. Mentre si discuteva se bisognava o no intervenire, la diplomazia aveva fatto la sua parte mercanteggiando l'entrata in guerra. L'Austria-Ungheria offriva Trieste, Gorizia, il sud Tirolo e Trentino e una parte dell'Istria. L'Inghilterra dapprima offrì gli stessi territori e tutta l'Istria ma rifiutò la cessione della Dalmazia poi acconsentì per tutta l'Istria e la Dalmazia fino a Dubrovnik. Alla fine la nostra entrata in guerra venne venduta al miglior offerente. Fu innanzitutto una guerra di interesse economico; anche l'America ormai conscia delle proprie potenzialità e del futuro bisogno di mercati entrò in guerra a fianco degli alleati. Un intervento che risulterà decisivo perché gli americani fornirono armi, munizioni e soprattutto viveri che scarseggiavano tra i contendenti.
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost
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Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli
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Ferdinando Parigi Voce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si trovano raramente, la nostra nuova penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800
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Sara Rocutto IInformatica ma soprattutto collegata, in rete ma mai nel sacco! Nonostante le infinite ore passate davanti allo schermo, trova sempre il tempo per delle belle uscite culturali, perché tra esser impegnata ed impegnarsi, passa una bella differenza.
Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Gruppo di lavoro di Lavori in Corso, Mauro, Enza Santo, Eros, Leonardo, Adriano, Giacomo, Rafael, Marco Zava, Irene Vendrame, Ciba, Rita Vita Marceca, Franca Merlo, Ferdinando Parigi, Gian Mario Villalta, Michela Zin, Elisa Cozzarini, Stefano Venuto, Sara Roccuto, Nicole Vidaich, Alberto Gattel, Cristina Colautti, Alain Sacilotto, Andrea Lenardon, Emanuele Celotto, Ada Moznich. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone
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Cristina Colautti È arrivata in sede in punta di piedi, adesso non le sfugge niente, anzi. Nonostante stia preparando la tesi, chiama in sede ogni giorno per sapere se va tutto bene. Pare che “ansia” sia il suo secondo nome, pare che presto sarà “dottoressa bis” in sociologia, per il momento è la nostra donna per Codice a s-barre!
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Elisa Cozzarini Bici gialla per passare inosservata, capello corto per non rischiare mai di non osservare. Fedelissima firma di LDP, presenza eterea in una fossa di leoni.
Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia
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Manuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili
Andrea Lenardon Tirocinante, educatore, psicologo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.
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Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!
Impaginazione Ada Moznich Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 1,2 e 3 di Lavori in Corso Foto a pagina 4, 5, 7, 8 e 18 dal sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pagina 9 e 10 di Pordenonelegge Foto da pagina 13 di Irene Vendrame Foto a pagina 14 e 15 di Nicole Vidaich Foto a pagina 15 di Gruppo Speleologico di Sacile Foto a pagina 17 di Alain Sacilotto Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle dipendenze di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930
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Stefano Venuto Mimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!
Creazione grafica Maurizio Poletto
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Irene Vendrame E’ arrivata in redazione una cucciola! Giovanissima, timida e delicata, ma altrettanto determinata e ambiziosa. Sogna di diventare una famosa giornalista come Oriana Fallaci, così è stata arruolata da LDP per farsi le ossa. Benvenuta Irene!
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Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.
La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00
l'uomo che non ha fantasia non ha ali per volare cassiu clay
I ragazzi della panchina campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA