APPROFONDIMENTO
HIV/AIDS
Libertá di Parola 4/2009 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
In Italia 151.000 sono le persone positive al virus Hiv; 4.000 le nuove infezioni ogni anno; del 73% dei contagi avviene attraverso rapporti sessuali. Il 50% delle nuove infezioni arriva alla diagnosi di HIV positivo già in AIDS conclamato. Una persona su 4 sieropositiva non sa di esserlo. Questi sono i numeri aggiornati di una pandemia silenziosa ma che, anche di fronte al calo delle morti dovuto ai progressi della ricerca farmaceutica, continua a tenere alta l’attenzione di istituzioni e operatori. In occasione del 1° Dicembre, giornata mondiale dell’Aids, abbiamo voluto aprire
una finestra sul tema. a pagina 9
L' EDItoriale
Alzheimer, le famiglie e il male oscuro a pagina 2
il viaggio
27/29 Settembre Napoli incontra i Ragazzi della Panchina a pagina 6
Felicemente napoletani
INVIATI NEL MONDO
di Pino Roveredo Se ne parlava già da alcuni mesi di questo viaggio a Napoli, inizialmente con la precarietà del “forse”, poi con la piccola certezza del “probabile”, ed infine con la sicurezza concreta dei “biglietti in mano” e di un viaggio prenotato. Così, trovarsi con il gruppo della Panchina, quel pomeriggio, all’aeroporto di Venezia, è stato come accendere la gioia di una capriola in corpo. Gioia accesa e cantata dalla voce ansiosa di Ada dentro l’agitazione dei suoi appelli e contrappelli: Gigi, Andrea, Gigliola, Mario, Guerrino, Luca, Antonella, Mina, Milena uno, Milena due, Pino e… porca miseria, manca Gino! Solito! Eccolo, trovato, trovato… Con Gino marcato a vista e documenti in mano, passiamo la trafila di controlli, check in, annunci, e con venti minuti di ritardo ci troviamo accomodati nell’aereo. Con le code degl’occhi provo ad afferrare qualche curiosità puntata su di noi, e la voglia addosso di riempirgli il punto di domanda con l’orgoglio di un: “siamo quelli della Compagnia Instabile e si va a Napoli in tournee!” Per noi, che per anni siamo stati costretti a subire la curiosità vestita con la maleducazione, riuscire a ribaltare un’opinione è come una vittoria. Voliamo, e mentre l’Italia ci scorre sotto i piedi, alcuni ripassano i copioni, altri accendono discorsi, e in prossimità dell’arrivo, qualcuno, esultando, indica una cava con l’abbaglio del Vesuvio. Finalmente arrivati! Tocchiamo terra, la terra di Pulcinella, Eduardo De Filippo, Totò, Benedetto Croce, la storia dei Borboni, degli scugnizzi che facevano saltare i carri armati tedeschi, di Giancarlo Siani,
IL TEMA
“Pura vida” in Costa Rica a pagina 15
l'evento
Zanni, un friulano tra i giganti del rugby azzurro Con la nazionale di rugby, a Sacile per preparare la partita col Sudafrica. La disponibilità, la gentilezza, la pazienza di Alessandro Zanni al servizio delle nostre curiosità: serie (il doping, il rugby metafora della vita) e un po’ più leggere (com’è il “terzo tempo, e il quarto con la fidanzata? Di che segno sei?). Per scoprire che è un campione dentro a un rettangolo di gioco, ma anche fuori.
continua a pagina 16 occhi per lo sgombro delle tragiche montagne d’immondizia, però è un sollievo che dura un secondo perché i rifiuti ci sono ancora, eccome, ma sono nascosti dietro le cartoline, dove non arrivano le telecamere e le foto dei reporter. Occhi che si aprono, stupiscono, sbalordiscono, quando rimbalzano dietro la schiena della città. Dentro la sorpresa entra l’intreccio aggrovigliato dei vicoli, le strade con gli asfalti lacerati, i motorini senza casco, e le automobili senza “precedenza a destra” che si
Saviano, Cutolo, pizza, mandolino, camorra… Terra questa, anche di grandi accoglienze, perché qui, l’ospitalità è una cultura. Qui, tutti sono disponibili, generosi, cordiali, fino quasi a toccare l’imbarazzo, soprattutto per noi gente del nordest, che siamo abituati a curarci il proprio orto e a diffidare dagl’eccessi di confidenza. Dal pulmino ammiriamo un panorama mai visto. Corridoi rumorosi di voci, urla, stereo e clacson, che incessanti ti entrano nell’ascolto e ti catturano la pace. Davanti ai palazzi del centro, ci solleviamo gli
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COMIX
La Storia della Panka a fumetti: puntata n° 2 a pagina 14
L’Azheimer e la solitudine della famiglia In città un'associazione di familiari offre supporto nella cura del malato intervista di Milena Bidinost Dal 2008 in città opera l’Associazione Familiari Alzheimer Pordenone. Nata dall’iniziativa di alcune famiglie, si propone di rendere visibile il lavoro che queste svolgono quotidianamente in modo silenzioso. Daniela Mannu è la presidente. Suo il compito di guidarci in un mondo che spesso è vissuto dentro la dignità delle proprie mura domestiche, ma che è più “rumoroso” di quanto non si pensi. Presidente, andiamo con ordine. Che cos’è la malattia di Alzheimer? “E’ una malattia neurodegenerativa che fa perdere alla persona in modo irreversibile la capacità di svolgere le attività quotidiane della vita. I primi sintomi compaiono con la ripetitività di una frase, la mancanza di memoria a breve termine; poi pian piano si perde la capacità di fare azioni in sequenza, come vestirsi, lavarsi, andare a fare la spesa o buttare via l'immondizia di casa. Si perde la capacità di fare di calcolo, di parlare, di salire in macchina, di mangiare in modo autonomo, di fare le scale”. Alla base dell'associazione c’è una constatazione: la malattia non coinvolge solo i pazienti, ma tutto il contesto familiare. ”La famiglia ha un ruolo fondamentale nella gestione del malato. Nella nostra provincia ad oggi le strutture scarseggiano, il carico di lavoro è totalmente o quasi gestito dalla famiglia. Non vi è risposta strutturata e diffusa sul territorio per la cura di persone affette da malattie croniche. Come associazione di familiari vogliamo che i servizi presenti sul territorio siano costruiti in modo personalizzato sull'utente e tenendo in considerazione il lavoro di tutti, famiglie comprese. Da parte nostra vogliamo trasmettere esperienza nella gestione della malattia, soprattutto da un punto di vista organizzativo e legislativo
Nel film “Iris. Un amore vero” del 2001, Richard Eyre porta nel grande schermo la malattia di Alzheimer. La casa della protagonista si riempie nel tempo di immondizia, la gente non la frequenta più perchè sporca. “E’ una immagine che rappresenta la malattia così come vista dall'esterno: è qualcosa di indicibile e puzzolente che invade e pervade la vita della famiglia e che, come amico o parente, ti tiene lontano e ti trasmette una brutta sensazione fisica. Il film è una metafora, non è la realtà. Ciò va detto. Ma è vero anche che esiste una solitudine della famiglia. Gli amici scappano, i familiari pure. Scappano per paura della malattia, delle reazioni del malato e di prendersi delle responsabilità. I familiari più vicini si fanno allora carico di tutto, anche della solitudine del malato”. Non dimentichiamo infatti loro, i malati. Come vivono? “Grazie ad una memoria emotiva. Riconoscono chi si prende cura di loro e chi entra in empatia con loro e riconoscono chi fugge, chi li deride e chi li disprezza. Hanno un modo diverso di comunicare, hanno tempi diversi di socializzazione: la casa per loro molte volte è un rifugio. Non si può mettere pressione ad un malato di Alzheimer, ci si deve adeguare ai suoi tempi. La casa va organizzata e gestita al fine di rendere improbabile qualsiasi emergenza sia in merito ad incidenti ma anche in merito ai tempi della cura che deve essere continua. Alla fine chi scappa non riuscirà mai a comprendere la profonda intimità e purezza umana delle relazioni che così si perde con il proprio caro. Relazioni che corrono lungo il filo dell’empatia.”
Quali sono i servizi che offrite? “Diamo un supporto concreto alle famiglie attraverso informazioni utili e facilmente spendibili sul territorio provinciale, tali da rispondere alla domanda: chi fa cosa? Per questo mettiamo a disposizione uno sportello informativo e un telefono amico. Ci sono poi i gruppi di auto mutuo aiuto, che sono formati da persone o famiglie che condividono una difficoltà, che si riuniscono per raggiungere l'obbiettivo del reciproco sostegno. A supporto di tutte queste attività c’è poi un ciclo di lezioni di formazione continua aperte a tutta la cittadinanza sul tema delle malattie neurodegenerative”,
Associazione Familiari Alzheimer Dal gennaio 2008, opera, senza fini di lucro, l'Associazione Familiari Alzheimer Pordenone, formata da familiari di malati in grado di confrontarsi tra loro in modo costruttivo, da uomini e donne che decidono di condividere un percorso di aiuto alle famiglie che lo richiedano. La sede è in Largo Cervignano 19, a Pordenone e offre gruppi di auto-mutuo-aiuto dedicati ai familiari; uno sportello informativo per le famiglie, aperto il martedì dalle 10.00 alle 12.00 che fornisce consulenza per la gestione della malattia nella quotidianità; informazioni sanitarie e informazioni sui servizi socio-sanitari presenti nella provincia di Pordenone. L'associazione mette inoltre a disposizione il telefono amico (al numero 366-3400253) attivo dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 19.00; organizza incontri con gli operatori a domicilio, incontri pubblici di condivisione dell' esperienza, conferenze, seminari e corsi di formazione. E ha una convenzione con Cisl - Ufficio Badanti per il sostegno alle famiglie nelle pratiche amministrative relative appunto alle assunzioni di badanti, assegno di accompagnamento e pensione di invalidità.
La malattia in cifre Il “Rapporto Demenza 2006” Alzheimer Europe stima che il numero delle persone affette da demenza in Italia nel 2005 sia compreso tra 820,462 (Studio Ferri et all.) e 905,713 (Studio Eurodem). In termini percentuali questi numeri ci dicono che in Italia la prevalenza della demenza sul totale della popolazione (58.462.375 ) è compresa tra l’1,4% e l’1,55%. Questa percentuale è leggermente superiore alla media europea, compresa tra 1,14% e 1,27% (rispettivamente Studio Ferri et all. e StudioEurodem). In Friuli Venezia Giulia si stimano tra i 15 e i 20 mila casi di pazienti dementi, la metà dei quali affetti dalla malattia di Alzheimer. Sempre dallo studio Eurodem si evince che la percentuale di persone affette dal morbo è più alta in Friuli Venezia Giulia (1,77%) rispetto al resto di Italia. Le stime indicano che in provincia di Pordenone vi sono tra le 3500 e le 5000 persone colpite da demenza, delle quali il 55% affette da morbo di Alzheimer. Di media al centro di valutazione neuropsicologica dell Aosma si registrano 23 nuovi accessi al mese. Al servizio si rivolgono circa 450 persone all'anno, di cui statisticamente il 55% ha il morbo di Alzheimer,
Le “Rughe” di Paco Roca
Il fumettista spagnolo intervistato a Pordenonelegge. it, durante la presentazione della sua ultima graphic novel. È la storia di Emilio, malato di Alzheimer. toso, perché io non sono un anziano e non posso mettermi nei panni di chi queste cose magari le ha vissute davvero. Tutti gli episodi che racconto sono frutto di informazioni ed interviste. Molti degli aneddoti che mi raccontano i parenti sono divertenti, credo perché c’è la necessità di allontanare il dolore per una situazione difficile come può essere una demenza senile”.
Non cadi mai nel pietismo, non vuoi che il lettore pianga per Emilio, che cosa vuoi invece ottenere? “È una storia molto dura, se fossi stato più sensibile avrei rischiato di spaventare i lettori. Così ho preferito fare un passo indietro ed essere più freddo”.
L’opera è una graphic novel. I lettori italiani sono però abituati a testate periodiche come Tex e Diabolik. Cos’è dunque una graphic novel? “È difficile etichettarla, di sicuro è un formato autoconclusivo che, a differenza del cartonato francese che obbligatoriamente deve contenere un tot di pagine, permette di utilizzare quante pagine vuoi, usare due colori oppure tutti, tutto ciò a seconda dell’esigenza narrativa. È un formato che offre un’estrema libertà di temi, infatti non è un genere, può parlare di tutto, dai temi sociali alla fantascienza”.
Inserire dell’ironia in una situazione di disagio è sempre problematico. In “Rughe” l’ironia non è mai fuori luogo, ma delicata e naturale: come hai affrontato la questione? “La prima cosa era essere rispet-
Nel salutarti, l’ultima domanda. Progetti futuri? “Ora sono preso con la sceneggiatura di un film d’animazione ispirato a Rughe. Questo fino a dicembre, poi mi dedicherò alla documentazione per altri progetti”.
di Marta Bottos e Tiziana De Piero Per Paco Roca, autore di numerose graphic novel in Francia, Spagna e Italia e vincitore di prestigiosi premi, “Il fumettista è un narratore, che al posto delle parole usa le immagini”. Tratti magistrali che a volte meglio delle parole arrivano diritti alla mente e al cuore del lettore. Come in “Rughe”, il suo ultimo graphic novel che a settembre il famoso fumettista ha presentato a Pordenonelegge.it. Paco Roca, nell’incontrarlo, ha iniziato a raccontarsi proprio a partire dal suo ultimo personaggio: Emilio, ex direttore di banca, affetto dal morbo di Alzheimer e ricoverato in una clinica.
Rughe” è una serie di istantanee della vita di un anziano colto dalla malattia. Da dove nasce l’idea di affrontare un tema così delicato? “Le persone di cui racconto attraverso il mio personaggio sono persone che non esistono. Non si parla di loro, è questo il motivo principale della mia scelta. Mi era venuto in mente anche Michael Caine, un attore americano, che ha vinto l’Oscar come attore non protagonista; era anziano, era il massimo che potesse ottenere. Un altro motivo è che i miei genitori sono anziani, avevo la necessità di capire cosa pensano. Poi mi è venuto naturale
L'ANGELO CUSTODE La storia di Ljuba, badante ucraina che si prende cura di mia madre di Clementina Pace Ljuba, che in ucraino significa amore, è la signora ucraina che, da oltre cinque anni, cura mia madre affetta dal morbo di Alzheimer. Come la maggior parte di queste donne che si prendono cura dei nostri anziani, Ljuba ha alle spalle una storia faticosa e dolorosa, storia che ogni tanto racconta a spezzoni, con dei flash back nel suo passato remoto e recente. Nel proprio paese ha studiato da infermiera e ha lavorato per vent’anni in ospedale, ma, arrivata in Italia quasi dieci anni fa, ha scoperto - con sorpresa- che il suo titolo di studio non aveva alcun valore perché qui non era riconosciuto. Certo avrebbe potuto sostenere l’esame di equipollenza: ma come è possibile affrontare un esame in una lingua che non si conosce affatto? Così si è subito resa conto dell’insormontabile
inserirci l’alzheimer”.
difficoltà e ha rinunciato, presa dalla necessità urgente di trovare un lavoro. Sua cugina, che si trovava già in Italia da qualche anno, l’aveva convinta a lasciare l’Ucraina e a venire qui, dove sicuramente avrebbe trovato un lavoro da “badante”. Un lavoro di assistenza e di cura per i nostri anziani, un lavoro che noi figlie, madri, sorelle non facciamo più per mille svariate ragioni, un lavoro che richiede una presenza continua accanto all’anziano più o meno malato e quindi bisognoso di tutto, un lavoro impegnativo e totalizzante che spesso non viene compreso. E noi lo liquidiamo con quell’orrendo termine “badante”, come se volessimo allontanare da noi il pensiero complesso dell’affettività, dell’accudimento, della cura che deleghiamo ad altri. Dunque dicevo Ljuba cura la mia mamma da oltre cinque anni; noi figlie siamo lontane dal paese d’origine, quindi mamma è affidata completamente a lei. Negli anni hanno imparato a capirsi, a riconoscersi, a volersi bene. Ljuba, nel suo italiano appreso nella pratica quotidiana, mentre la imbocca le dice “Dai, dai nonna! Apri bocca, mangi pane!” Oppure quando la pettina “Mia piccola nonna, come bambina, poverina lei!”. E la mia mamma, molto religiosa e praticante per una vita intera, quando le chiediamo, indicando Ljuba, “Chi è lei?”ci guarda per un po’, è incerta. Io la soccorro ricordandole che sono sua figlia; allora lo sguardo di mia madre si illumina per un attimo e poi, sorridendo dolcemente e sicura della sua affermazione, guarda di nuovo Ljuba e dice “Lei è l’Angelo Custode”. Che emozione! Grazie a Ljuba, a Irina, a Olga, a Elena, a Lidja e a tutti gli Angeli Custodi che si prendono cura dei nostri anziani.
CAPODANNO CON IL BOTTO!
È partito il conto alla rovescia. Ma i petardi sono davvero così necessari? di Gino Dain e Elisa Cozzarini Eccoci, tra poco cominceranno a crepitare, se non a bombardare la città e le zone limitrofe. Sono i botti di capodanno, nelle più svariate forme e pesantezze di frastuono. I nostri piccoli amici a quattro zampe lo sanno già. Dovranno, come ogni anno, strisciare sotto armadi e letti alla ricerca di un posto “sicuro” e stare costantemente dietro al padrone come calamite. Poveri animali impauriti! Cani e gatti che stanno in casa, comunque, sono fortunati rispetto a chi resta all’aperto, vittime addirittura di drammi e disgrazie. Succedono anche disgrazie: un
cane salta il recinto e finisce sotto una macchina per la furia di scappare dai colpi, o si strozza con la catena. Certamente, a livello psicologico, anche gli uomini subiscono danni, soprattutto i malati. Ma l’uomo non tiene conto dell’animale, si comporta come se fosse di polistirolo e non di carne e ossa. Che bestia l’uomo, egoista all’ennesima potenza! E poi altri esseri viventi, che non stanno con noi per compagnia, provano allo stesso modo, se non di più, la paura da botti. I conigli, per esempio, impazziscono di brutto e corrono
natale in cucina
REGALIAMOCI UN PRANZO DIVERSO È una tradizione che gli animali preferirebbero saltare. Ecco un modo per fare festa ed evitare di farla a loro di Liliana Citron Ormai il Natale sta diventando sempre più basato sul consumismo e non più sul significato che dovrebbe avere! Si dice che a Natale si diventa più buoni. Ma come si fa ad essere più buoni se proprio il giorno di Natale, invece di essere “giornata di pace”, è motivo di infinita sofferenza per milioni di animali che serviranno a soddisfare il palato degli uomini? Il Natale, non è solamente giornata religiosa, ma è segno di sofferenza. Gli animali prima di essere uccisi vengono allevati in modo disumano: non viene concesso loro di vivere una vita dignitosa, dopodiché vengono trasportati in camion dove la maggior parte delle volte non hanno acqua e cibo, anche in estate quando le temperature sono elevate! Per finire vengono portati al macello dove vengono appesi e sgozzati lasciandoli in agonia prima che il loro cuore si fermi. Come si può festeggiare sapendo di tutta questa sofferenza? Io ho trovato la mia soluzione.. Ci sono moltissimi siti sull’alimentazione vegana dove si possono trovare oltre che ricette anche consigli su come poter mangiare etico in modo giusto e proporzionale..
Menù alternativo per chi è vegano
Fiori di campo come antipasto. Tagliate l’impasto del pane a pezzetti, formate delle palline e stendetele con un piccolo matterello in dischetti del diametro di 5-6 cm. Posizionate un cucchiaino di ripieno al centro e poi stringendo fra le dita modellate come una specie di fiore dipinto da un
pittore astrattista! Ne usciranno le forme più imprevedibili e asimmetriche, una vera allegria per il vostro aperitivo e buffet! Quanto al ripieno si fa così: bieta bollita ripassata con cipolla, peperoncino e foglia d’alloro, poi si unisce il tofu schiacciato con la forchetta e infine una frullatina al minipimer con una spolveratina di noce moscata e curcuma. L’alternativa è tagliare a cubettini una carota e una cipolla e a striscioline una o più foglie di verza (a seconda del numero di fiori da riempire) e far appassire. Terza e ultima proposta è il purè di zucca e piselli. Ovviamente salare e pepare a piacere. Consigliata l’aggiunta di spezie se piacciono. Poi si passa al primo e qui secondo me ci sta un ottimo risotto con il radicchio rosso (ogni persona sa farlo in modo differente.. niente burro, né grana!!!!). Per secondo piatto una gustosissima bistecca di luppino (la si trova comodamente nei negozi bio) con contorno di patate speziate al forno e insalatona. A Natale non può di certo mancare il dessert e quindi ecco per chiudere la ricetta del dolce di cioccolato con arance. Dolce di cioccolato con arance (c = cucchiaino – C = cucchiaione) Ingredienti per il pandispagna: 150 gr. farina bianca, 120 gr. fecola di patate, 150 gr. margarina / burro soia 120 gr. Zucchero, 2 C cacao amaro, 2 c lievito in polvere, 1/2 c bicarbonato, 1 c maizena, latte soia/avena/riso, circa 2 bicchieri Ingredienti per il ripieno: 200 gr. marmellata arance, 3C acqua Ingredienti per la glassa: 150 gr. cioccolato fondente, 1 tazzina latte soia/ avena, 1 C zucchero, buccia d’arancia fresca (qui è sempre tutto importato da chissadove purtroppo, molto meglio se le avrete bio), mandorle intere o a scagliette, 1 c zucchero Preparazione: 1. In una ciotola setacciare e mischiare tra loro la farina bianca e la fecola. 2. Nell’altra ciotola lasciare ammorbidire bene il burro di soia, aggiungere poi lo zucchero e il cacao mescolando bene fino a quando non si ottiene una crema quasi spumosa. 3. Incorporare ora miscela di farina e fecola, man mano versare qualche dose di latte per amalgamare bene fino a quando l’impasto non sarà cremoso e colloso. 4. A questo punto aggiungere il cucchiaino di maizena, il mezzo cucchiaino di bicarbonato e il lievito. 5. Bagnare un foglio di carta da forno, strizzarlo bene e foderare la tortiera. Versare il composto e mettere in forno a 180° per 25 minuti. 6. Lasciar raffreddare il pandispagna nella sua teglia per qualche ora, meglio se una notte, coprendolo quando è ancora caldo con un tovagliolo di cotone. 7. Togliere il pandispagna dalla tortiera, appoggiarlo
come matti nella gabbia, le pecore schiattano col cuore in gola, per non parlare di galline e uccelli di tutte le specie. Gino racconta: «Ho ancora in mente la serata del 31 dicembre, quando decisi di fare un giro in piazza con i miei tre amici a quattro zampe. Non l’avessi mai fatto! All’inizio sembrava che fosse tutto sotto controllo, ma man mano che si avvicinava la mezzanotte e il fragore dei botti si faceva sempre più assordante e incalzante, loro si sono letteralmente trasformati in tre cani da slitta. Non hanno avuto pace finché non mi hanno trainato fino a casa. E nemmeno dopo si sono tranquillizzati: spaventatissimi, si sono infilati sotto i mobili più bassi, negli angoli più scuri dell’appartamento». Insomma, ci pare che i botti non siano così necessari da essere scoppiati da Natale a Pasqua senza limite e senza freno. Anche le associazioni animaliste, come la Lav, la Lipu, l’Enpa (Ente Nazionale Protezione Animali) e l’Aidaa (Associazione Italiana per la Difesa degli Animali e dell’Ambiente), chiedono di fare a meno dei botti e limitarsi ai ben più gradevoli giochi di luce, che arrivano da una secolare tradizione cinese. La Lav ha sottolineato:
«Gli uccelli, avvertito il rumore, volano via terrorizzati e, sorpresi nel sonno, spesso non hanno la lucidità necessaria per evitare di centrare in pieno lampioni e palazzi: alcuni muoiono sul colpo, altri poco dopo per le ferite riportate ed altri ancora non si levano nemmeno in volo, freddati dalla paura». Da non dimenticare, infine, l’esistenza di botti illegali, ancora più pericolosi di quelli in commercio, soprattutto per i bambini. L’anno scorso la polizia ne ha sequestrate 190 mila tonnellate. Per ultimo, ma non per importanza, è l’inquinamento provocato dai botti: petardi, fuochi artificiali e bombe più o meno forti spargono abbondante Pm10 nell’aria. Per questo il Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori) chiede che questi siano vietati, almeno nelle città più inquinate, tra le quali Milano e Roma. Ogni anno, infatti, i botti di Capodanno fanno mediamente raddoppiare le polveri sottili, che superano il limite di legge di 50 microgrammi al metro cubo. Qualcuno vede lati positivi nei botti di Capodanno?
su un nuovo foglio di carta da forno, prendere almeno 50 cm di filo interdentale e tenendolo ben saldo alle estremità, tagliare la base della torta in due dischi alti uguali. 8. Diluire con un pochino di acqua la marmellata e spalmarla sul disco inferiore. 9 Ricoprire con l’altro disco premendo un pochino per farlo aderire 10. Preparare la glassa sciogliendo a fuoco bassissimo il cioccolato fondente, quando sarà sciolto aggiungere 1 cucchiaino di zucchero e una tazzina di latte di soia o avena, continuando a mescolare. 11. Intanto mettere in una padella antiaderente la buccia di arancia tagliata a julienne, un pizzico di zucchero e le scaglie di mandorla.. lasciar caramellare un pochino senza che brucino. 12. Procedere alla glassatura versando il cioccolato ancora tiepido su tutta la superficie della torta e guarnire al centro con le scorzette e le mandorle. Lasciare raffreddare bene in frigorifero per qualche ora.
L'ANGOLO DELLA FRANCA
ASPETTANDO NATALE
È un’ingenuità, una fiaba, addirittura un’ipocrisia parlare del Natale in questo nostro mondo che ha perso i riferimenti? di Franca Merlo Mi guardo intorno: le vie sono intasate di traffico convulso, per il delirio delle compere. Manifestazioni di folklore, concerti, strade e cortili pieni di luci e addobbi, alberi di Natale, Babbini che scavalcano ringhiere... Sarà presto Natale. 25 dicembre, antichissima festa del Sole che progressivamente “rinasce” vincendo le tenebre, Sole che nessun inverno può spegnere. In questa data si celebra la nascita di Gesù. E’ un’ingenuità, una fiaba o addirittura un’ipocrisia parlare del Natale in questo nostro mondo di gente individualista, stressata, disorientata, che ha perso i riferimenti? Un mondo dove una piccola parte di benestanti pasciuti lascia che i fratelli muoiano di fame, dove i potenti sfruttano e inquinano le terre dei poveri, fanno guerre e stragi per il petrolio? Mi urge dentro un bisogno di senso. Vorrei essere una “grande madre”, sedermi al focolare dell’anima e, se qualcuno ha tempo e voglia di sedersi accanto, vorrei parlare del Natale. Il Natale viene a ricordare a tutti, almeno una volta all’anno, che siamo figli di Dio e non dei trovatelli abbandonati sulla spiaggia della vita. Gesù -il volto di Dio adattato alle nostre possibilità di comprendere- è venuto tra noi, viene e verrà. Nessuna di queste venute ha il suo senso pieno se è staccata dalle altre. E’ venuto duemila anni fa come un bambino, inerme; e dunque non chiediamogli di fare il potente, di rassettare il mondo come a noi piacerebbe, di spazzar via i cattivi. Ma ha insegnato che l’uomo sta al centro di ogni visione del mondo e di ogni legge: “Il sabato (massima legge civile e religiosa di allora) è per l’uomo, non l’uomo per il sabato”. Ha guarito le malattie del corpo e dello spirito e ci ha detto di fare altrettanto; ma ha mostrato che quando la sofferenza è inevitabile non va odiata ma accolta, perchè tutto può essere orientato al bene. Lo possiamo constatare anche noi quando ci accorgiamo, forse dopo anni, che le ferite e i fallimenti ci hanno lentamente costruiti dentro, donandoci una sensibilità nuova. E se la vita terrena non basta ce n’è un’altra, a completare l’opera. Egli viene ancora. Il suo spirito è presente dappertutto, ma Lui c’è in modo palpabile e quasi carnale in alcuni “luoghi”: nella coppia, nel bambino, nel bisognoso, in chi viene perseguitato perchè opera la giustizia, nel peccatore che riconosce di aver percorso una via sbagliata, dove “due o più” sono riuniti nel suo nome, nella sua parola, nell’eucarestia… Tutti possono farne esperienza. Disse: “Non vi lascerò orfani; io sarò con voi fino alla fine dei secoli”. Verrà infine. Lo ha promesso che era wanted, poco prima di essere preso e giustiziato, nel suo ultimo discorso di addio rivolto agli amici perché lo riferissero anche a noi: “Nella casa di mio Papà ci sono tanti posti. Io vi precedo e vado a prepararvi un posto, affinchè dove sono io siate anche voi”. Anche quest’anno in molte chiese dell’Italia e del mondo la comunità di S.Egidio allestirà il cenone di Natale per i poveri. S.Egidio è preghiera, memoria, intervento umanitario e talvolta mediazione politica. Queste realtà “altre”, di solidarietà, di senso, esistono. Sono lievito nella pasta del mondo, luce nelle tenebre come Gesù ha voluto. Indicano una direzione, creano una sensibilità. Essere cristiani non è un generico “essere buoni”; comporta scelte precise, a volte difficili e controcorrente. I cristiani hanno il compito di annunciare Gesù e di mostrarlo: in questo presente, affidato alla nostra povera fragile testimonianza.
LETTERE PARTENOPEE Abbiamo vissuto da uomini e donne la semplicità devastante di un abbraccio, di un applauso dato come un morso alle immagini che rappresentavano il disfacimento di vite e l’attesa di resurrezioni impossibili perché umane. Ci siamo incontrati dentro, al riparo dai giudizi e dagli occhi sempre indiscreti di chi saprebbe fare e dire la cosa giusta. Noi tossici operatori, noi tossici di lucidità. Vi consegniamo l’incontaminabile: la parte calda e viva dell’anima, che troppo spesso colpevolmente non compare sul curriculum. Un abbraccio clandestino e innocente. Pietro Scurti (psicologo al Sert di Casavatore) In quei giorni era un mese che frequentavo nuovamente il Ninive, per me era un buon periodo perché non mi stavo drogando. Era bellissimo, dico era, perché da un mese ad oggi ho avuto delle ricadute. Non so spiegarvi l’emozione provata, ma posso dirvi che a condividere quei giorni con voi è stata una crescita enorme per me. Ho condiviso con voi la passeggiata a Scampia, mi sentivo sicuro di me, pieno di entusiasmo, ma poi dopo l’incontro è svanito tutto, e ho preso la prima ricaduta. Voglio che sappiate però, che lo spettacolo mi è piaciuto moltissimo perché parlava della nostra realtà, e poi siete bravissimi a recitare. Ricordo che è stato straordinario quando, con Lello siamo andati a Napoli a mostrarvi le meraviglie della nostra città. Quando vi abbiamo accompagnati all’aeroporto e ci siamo salutati, ci sono rimasto male. Tutta quella esperienza, nonostante la droga, è ancora viva dentro di me, nemmeno l’eroina se la porta via e aspetto di poterla rivivere ed ora comincio a farlo con la mia vita. Roberto Martinelli
L' EDItoriale
Felicemente napoletani di Pino Roveredo segue dalla prima pagina sfiorano, incrociano, passano… Schiena dove cresce di tutto, anche i Sert, come quello di Casoria, che respira le sue fatiche dentro un immobile fatiscente, e dove incontriamo lo specchio di molte nostre fatiche. Il disagio non ha distinzioni geografiche, le stanchezze napoletane sono simili a quelle triestine, udinesi, pordenonesi, perché parlano la stessa lingua, si tormentano con lo stesso pensiero, e piangono tutti la stessa commozione quando frequentano la salvezza dell’abbraccio. A Napoli, dentro una stanza sei passi per tre,
ci siamo abbracciati con mille braccia, abbiamo frequentato la stessa lacrima, e ci siamo infilati negl’umori l’ipotesi di un piccolo, grande benessere. Anche a teatro siamo stati abbracciati, quando abbiamo raccontato e rappresentato la nostra voglia di dignità. Sul palcoscenico ci siamo esibiti col nostro nome e la nostra storia, e tra il pubblico non abbiamo distinto una virgola di disgrazia, tossicodipendenza, carcere, sputi, male di vivere, e siamo riusciti a dare un nome agli applausi. Giacomo, Giusi, Gennaro, Luigi, Pietro, Carla, Maria Pia… A Napoli esiste anche la schiena della schiena, e lì la gente vive, cresce e muore, solo per volontà dei boss. A Scampia, siamo entrati con la precauzione di un accompagnamento, con la raccomandazione di lasciare fuori la curiosità, e con la fatalità di un luogo comune: -Qui ti mangiano vivo, e ti cagano morto!-.
I giorni passati con tutti voi sono stati vissuti intensamente, anche se ho avuto la sensazione che passassero velocemente. Questo sia per la moltitudine di cose da fare e da organizzare, sia per l’impegno molto intenso che ci ho messo, minuto dopo minuto. Anche quando siete finalmente arrivati a Napoli ho trovato difficile reperire il modo, un modo, per costruire un legame, con un numero di persone che ritenevo troppo grande da conoscere, in certi spazi di tempo così piccoli e sporadici di quei due giorni. Ma poi qualcosa è cambiato, quello a cui ho assistito quel lunedì sera a teatro, è stato davvero qualcosa di straordinario, la vostra bravura e la partecipazione che avete portato su quel palco, in quella che molto probabilmente non era una recitazione, ma l’interpretazione delle vostre stesse vite, e quindi anche della mia vita, mi ha trasmesso quella che credo sia una parte dell’essenza stessa del teatro. Il venire a contatto con voi senza dover necessariamente cercare parole da dirsi in un colloquio diretto faccia a faccia. Improvvisamente la distanza che sentivo tra di noi è diventata estremamente piccola. Il momento d’incontro nel “cerchio” fatto insieme a voi è stata la cosa che parimenti al teatro, più mi porto dentro con affetto e amore. Vi saluto e vi ammiro tutti per quello che fate giorno dopo giorno e un abbraccio particolare al dottor Zamai di cui mi capita, a volte con mia meraviglia, di sentire la mancanza. Marco Messina
Mi sono riveduto tantissimo nel ragazzo che durante la rappresentazione era seduto sulla panchina, vorrei che gli arrivasse il mio più caldo abbraccio, perché è vero, il rifiuto della società l’ho vissuto sulla mia pelle e rivedere gli effetti che fa in termini di solitudine fa male e bene ad un tempo. Vi abbraccio tutti. Domenico Fiordimonte
Con discrezione estrema, assorbiamo tutto il peso che ci gira intorno: teste basse come la rassegnazione, abitazioni inabitabili che si concedono lo sfizio delle antenne paraboliche, nessun poliziotto, e ogni cento metri una statua di Padre Pio, fatta piantare dall’arroganza pseudo cristiana dei malavitosi, statue che rammentano a chi non lo ricorda, che lì non esiste Stato, Giustizia, e per chi ci crede, neanche l’occhio del buon Dio! Uscendo, in uno spazio incolto, alla luce del giorno, come in un mercato, vendono dosi di morte a ragazzi senza occhi e senza testa, che scappano dalla vita inciampando, crollando, morendo, cagati dal buco del culo del mondo, cagati da tutti! A Napoli ci siamo anche concessi le tavolate col pasto unico, come quella del gomito gomito con i ragazzi della Comunità del Gulliver. Lì abbiamo mangiato, parlato, ci
Sapere che dall’altra parte d’Italia ci sono persone che anche se è solo per un minuto al giorno, parlano di me, di Claudio, che sono vostro amico, beh, tutto ciò mi riempie di gioia, e mi dà un tratto di forza in più e di coraggio e con voce alta posso dire “oggi non sono solo”, da qualche parte in Italia c’è qualcuno che ha stima di me, e questo qualcuno siete voi i ragazzi della panchina!!! Avete dato un senso speciale e importante a cos’era la panchina, e cosa significasse “perdere” anche l’ultima panchina. Ho seguito attentamente lo spettacolo che ci avete regalato, tuttavia è stato centrato l’argomento della vita quotidiana di tutti noi, per non dire che professionalmente siete stati geniali. Non vedo l’ora che vi ripresentiate con altre iniziative inerenti al modo di esistere da tossici, da lucidi, da uomini. Claudio Ciancio.
siamo scambiati le nostre storie, abbiamo soffiato nelle stesse speranze, e ci siamo riconosciuti per le nostra importanza di vivere, essere, stare… Come tutti, più di tutti… Andando, i ragazzi, come può succedere solo a Napoli, ci hanno salutato con la lacrima del dispiacere, e la musica di una poesia… “ …’Nu rre, ‘nu magistrato, ‘nu grand’ommo, trasenno stu canciello ha fatt’o punto, c’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme: tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto? Perciò, stamme a ssentì… nun fa’ ‘o restivo, suppuortame e vicino, che te ‘mporta? Sti pagliacciate ‘e fanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie… “ Tornando, con l’Italia sotto i piedi e una memoria in testa, abbiamo abbracciato il ricordo, e alla faccia di chi vuol distinguere le razze e segnare i confini con l’ottusità del diverso, noi, ci siamo sentiti molto, molto, molto napoletani.
NAPOLI AMARA Dietro le quinte delle giornate parteno-pee. Molte luci e qualche ombra di Guerrino Faggiani Uscito dal Ser.T di Casavatore, dopo l’incontro con i ragazzi e gli operatori, ero un po’ sulle mie, taciturno. Dovevo realizzare tante cose e la boria generale non mi coinvolgeva, anzi. La stanza dei miracoli, quella per le terapie di gruppo al cui interno quel mattino fummo pilotati dritti, ha mostrato ciò di cui è capace: cose di grande valore, e gli operatori napoletani giustamente ne vanno fieri. Ci siamo trovati davanti a tutta la sua forza. Quella stanza ti fa dare qualcosa dall’anima e la ottiene senza chiedertela, senza fretta. Mai avremmo immaginato di uscirne così con le ossa rotte: quasi spaesati, senza più alcuni dei nostri riferimenti certi. Luca portandosi una mano al petto ha detto che gli è successo qualcosa dentro, che qualcosa in lui è cambiato, per sempre. Eppure c’era qualcosa che non andava, che mi rattristava. Come si fa tra ragazzi non più in carriera, qualche allusione al passato esce sempre, ma, incredibile, le poche volte che ho accennato a qualcosa del genere con i colleghi di vita del posto: gelo, silenzio. Anzi, la dico tutta? Panico. Perché? Paura di cosa? Non capivo, o meglio mi auguravo di non capire. Quel mattino però ho realizzato che i miei pensieri si stavano rivelando esatti e alla fine della giornata ne ero certo. Solo quattro sigarette al giorno per i ragazzi in terapia. Detta così sembra più una curiosità che altro, ma in realtà fa parte di un progetto che si prefigge di raggiungere la libertà dalle sostanze da parte del malato. È un classico delle regole dei centri diurni e delle comunità: per motivare i ragazzi in rinunce che rafforzano il carattere e quindi l’autostima, anche perché imparino a sottostare alle regole o alle leggi, fate voi. Io non ho mai fatto comunità. Ogni volta che mi avvicinavo ad un servizio c’era sempre qualcosa che mi faceva desistere, e poco dopo, senza dare nell’occhio, per quanto malconcio fossi scomparivo di nuovo. Come una lumaca le mie antenne appena toccavano l’andazzo si ritraevano fino a ritornare nel guscio dell’anonimato. Cosa mi spingeva a farlo? La sensazione di perdere la
libertà, libertà anche di fumare 5 o 6 sigarette se volevo. Per dare bene l’idea, anche perdere la libertà di farmi. La cosa che manca di più ad un dipendente è la facoltà di decidere. A nessuno piace non poter decidere, neanche ad uno straccio di essere, ed una dipendenza non lascia scampo su questo. Quella cravatta di imposizioni che subito mi sentivo messa addosso, presentata come terapia obbligatoria, per me stringeva troppo al collo. Allora come adesso l’obiettivo di questi centri è di smantellare la personalità fallata del paziente per poi ricostruirla. Attraverso regole ferree, anche ridicole e umilianti se necessario, per togliere al soggetto la capacità di ribellarsi e dargli invece quella di sottostare a nuove direttive impartite da educatori di professione, preparati a ripulire cervelli e farli ripartire in base ai concetti classici del “benismo”. Regole che, se infrante, portano ad immancabili punizioni. Da qui, anche per paura, la necessità di eludere a priori qualsiasi riferimento alla dipendenza o alla sostanza che si sta combattendo: neanche per scherzo, meglio non rischiare. Io invece voglio parlarne, seriamente e non, voglio fare anche le battute senza rabbrividire dentro. Scherzarci sopra vuol dire non vivere più la sostanza come un problema, significa averla masticata e sputata finita come con una gomma americana. Ecco cos’era che mi rattristava quel mattino: non vedevo gomme sputate. Mi sono reso ancora più conto che l’associazione che frequento a Pordenone, i Ragazzi della Panchina, è proprio una mosca bianca. Non ci sarei mai andato se mi fossi sentito limitato nella mia libertà. Come terapia, senza accorgermi, mi sono trovato a disposizione strumenti e mezzi che hanno stimolato i miei interessi e le mie voglie. Cose da fare, e possibilmente belle, diverse da quelle che fa tutti i giorni chi è in carriera. Nessuno mi ha imposto di fare quello che faccio e nemmeno nessuno mi ha mai limitato nel farlo, e sapete qual è la chiave di tutto? Che sono io che lo voglio fare, e non perché sta scritto su un foglio di programma. E stringo i denti e se serve batto anche i pugni per mantenerlo. E fuori in strada in mezzo alla gente faccio e sono sempre lo stesso che gira per la sede. E rido e scherzo, anche di quella volta che per poco non ci sono rimasto secco collassando. Questo significa superare il problema. Che percentuale di successo c’è con i sistemi imposti dopo che il “paziente” torna in strada tra la gente che pensa al completo? E i costi enormi? Ed ovunque funziona così, nessuno prova a fare niente di diverso: a parte la mosca bianca. Libertà e motivazioni sono la ricetta giusta, non catene a fin di bene, perché più stretto leghi qualcuno più lontano scapperà alla prima occasione. Esattamente l’opposto dei cervelli lavati, che prima o poi dovranno tornare da soli tra i cervelli che pensano per intero.
L'abbraccio di Giusy Un minuto. Per dimenticare quanto possiamo sentirci soli nel cammino della vita di Antonella Gatti Bardelli La mia prima volta a Napoli… sì, la prima volta a Napoli e un abbraccio, l’abbraccio di Giusy… Un minuto di abbraccio, un abbraccio napoletano, un minuto per sciogliermi, lasciarmi andare, far fluire tutta l’emozione, la sorpresa, la gioia, la fiducia di due bambine al primo contatto, senza barriere, senza confini, l’una nell’altra, amiche sconosciute e da sempre unite, cuore tocca cuore, stretta che si fa lacrima intensa, liberatoria, infinita, stupenda… Giusy mi guarda stupita, incredula dell’effetto della sua stretta d’affetto, imbarazzata di un pianto che non comprende perché lei, lei gli abbracci li fa così… Giusy non conosce gli abbracci senza braccia, le strette senza cuore, i baci senza colore, o forse li conosce così bene da aver giurato che mai, mai più tra le braccia di un affetto si dimenticherà di quanto può far male l’indifferenza del corpo quando non si congiunge al cuore… E allora Giusy quando abbraccia abbraccia quando bacia bacia e quando ti trasmette un’emozione lo fa sul serio! Non riuscivo a smettere di piangere quel giorno a Napoli, non riuscivo a smettere di piangere per tutte le volte che nella mia vita non avevo sentito quella stretta, quella forza, quel calore… Quanta solitudine bambina avrebbe potuto salvare un abbraccio così, quanta insicurezza adolescente avrebbe saldato un abbraccio così, quanta paura adulta avrebbe sciolto in un minuto, un minuto soltanto… Un minuto per dimenticare quanto possiamo sentirci soli nel cammino della vita, un minuto per dimenticare l’ansia che ci stringe il petto quando non centriamo gli obiettivi, un minuto per dimenticarci tutte le insicurezze e le fragilità dell’animo. Ma cosa sarà mai un abbraccio? Niente di che se non è collegato al nostro cuore, niente di che se non stringe d’affetto, se non stringe di vero, se si limita a una pacca sulla spalla. Ma l’abbraccio di Giusy, quello è così intenso vero vivo da farti vivere un’astinenza se non c’è. Grazie Giusy, grazie per avermi fatto vivere un abbraccio a Napoli, grazie per avermi fatto comprendere la differenza tra le parole dell’affetto e la fisicità del cuore!
panka in tesi
La nuova via contro il disagio I ragazzi della panchina e un’etica diversa nella relazione d’aiuto. Fatta da veri esperti di Elena Caccamo Carissimi “ragazzi della panchina”, il 23 settembre 2009 con la discussine della tesi ho concluso il mio percorso di studi iniziato nel 2007 alla Fondazione Idente di Studi e di Ricerca Caritas Diocesana di Roma Scuola Superiore di Scienze Biomediche F. Rielo, dove ho seguito il Master in Medicina delle Emarginazioni, delle Migrazioni e delle Povertà. Di fatto è il primo Master in Italia sul
tema degli aspetti medici e sociosanitari dell'assistenza in genere a tutti coloro che soffrono di traumi sociali. Il titolo della mia tesi è stato: "I Ragazzi della Panchina. L’esperienza di un'Associazione nel recupero delle gravi emarginazioni, in una diversa etica della relazione d’aiuto." La scelta è nata dalla domanda: “La relazione d’aiuto, nelle emarginazioni e nel disagio è legittima,
Viaggio nelle vite degli "altri” La corrispondenza tra la sede e i ragazzi in carcere oggetto di studio all’ Università di Luca Marian Mi sono appena laureato in psicologia all'università di Padova con una analisi della corrispondenza tra “I ragazzi della panchina” e un loro giovane utente, intercorsa mentre quest'ultimo si trovava in un periodo di “vacanze forzate” in carcere. I “turning points” sono gli elementi che ho preso in considerazione nell'analisi. Scartabellando tra gli appunti del corso del professor Gian Piero Turchi, che i Panchinari conoscono come uno dei “fari nella notte” a livello strategico, risulta questo: “elementi portatori di squilibrio e rottura nei confronti della coerenza narrativa rilevata, la quale si dipana in termini diacronici in relazione ai repertori discorsivi utilizzati, i quali concorrono alla generazione di diverse configurazioni di realtà in termini processuali”. Mmh. Proposta: lasciamo questi discorsi a chi di dovere, io dal canto mio vi posso dire invece come mi sono mosso e cos'ho capito. La corrispondenza è intercorsa tra la sede di Pordenone e Felix, un ragazzo che fa parte della cosiddetta ultima “generazione” dei Panchinari. Per la mia tesi ho analizzato il modo di trattare argomenti come l'uso di sostanze, il reato commesso e le modalità con le quali questo avveniva, il tutto anche in base agli elementi riscontrabili negli scritti della sede. A conclusione della ricerca, usando una metafora penso sia possibile ri-definire i “turning points” come dei momenti in cui ti “scatta un interruttore in testa”. Un esempio, pescando nel mio vissuto personale, può essere quello che segue. Chi l'avrebbe mai detto che l'eroina è stata sintetizzata alla fine dell'800 nei laboratori della Bayer e commercializzata come farmaco sperimentale, sedativo per la tosse? E invece fu così. Mettere in discussione le certezze del senso comune è quasi sempre una
lecita ed efficace solo se costruita e realizzata dagli esperti in materia, come gli operatori sanitari o sociali?” Fare la tesi sulla vostra associazione, non è stato proprio semplicissimo, vista la mole di materiali che mi sono trovata a dover selezionare e rielaborare. Ma mentre raccontavo la vostra storia alla commissione assieme a ciò che avete costruito negli anni, non volava una mosca nell'aula. A Chiara, una bravissima e giovanissima dottoressa infettivologa di Bologna che ha presentato come tesi un progetto-ricerca sulla malattia di Chagas, nella pausa tra la sua e la mia discussione ho confessato che mi sentivo un po’ in imbarazzo. Lei aveva una tesistudio perfetta, piena di dati e di analisi. Io nella mia tesi (stile Zamai) di dati ne avevo quattro messi in croce, presi da LDP. Ma avevo tante, tante storie di esseri umani che hanno attraversato negli anni la Panchina di via Montereale e la vostra sede. Il mio relatore il dott. Gaiera (direttore della Cascina Contina di Milano) ha presentato la vostra realtà come unica in Italia e molto interessante, chiedendomi di raccontarla alla commissione e al pubblico. Alla fine non mi ero accorta che, raccontandovi, era passata un'ora. Mi è dispiaciuto concludere, ho detto un quarto delle cose che volevo dire! La dottoressa La Fuente, responsabi-
le organizzativa del Master, mi è sembrata emozionata all'ascolto e il dottor Pizzalis era interessato al vostro giornale. I commenti del pubblico sono stati lusinghieri e io un po’ stanca, ma soddisfatta, ci tenevo a condividere con voi questa mia gioia. Volevo ringraziare Ada e Andrea che mi hanno concretamente aiutato a trovare il materiali, e abbracciare tutti e tutte coloro che hanno partecipato o partecipano ancor oggi al progetto "I ragazzi della panchina" con un: grazie di esistere!
Work in progress
Sembra meno nero il futuro per la nostra sede, e per la sopravvivenza dell’esperienza. All’allarme per lo sfratto di qualche mese fa (numero precedente di LdP) è seguita una fitta rete di incontri con le istituzioni che hanno permesso di individuare nuove possibili soluzioni. Niente è ancora deciso e ufficiale, per cui la prudenza è d’obbligo, ma lo sfratto parrebbe meno sicuro che in passato. Anche sul fronte economico alcuni spiragli si sarebbero aperti, in un’ottica che va verso la strutturazione dell’esperienza. Nel prossimo numero di LdP speriamo di sciogliere gli ultimi dubbi. Nel frattempo, tenete sempre alta l’attenzione.
cosa destabilizzante. Per questo rivedere luoghi comuni come “i tossici sono gli altri, sono dei malati” possono essere presi come esempio di interruttore scattato. Questo è ciò almeno che mi ha portato al primo contatto con “I ragazzi della panchina”. Si potrebbe pensare che si stia viaggiando nell'immateriale dei discorsi sopra citati, ma sugli scaffali della sede due raccoglitori blu sono testimonianza tangibile di questo intrecciarsi di percorsi di vita e di “trame discorsive”. Si tratta di lettere scritte e ricevute da decine di persone durante periodi di “sole a scacchi” in vari carceri del Triveneto. Talvolta negli scritti dei Panchinari indirizzati oltre le sbarre vi era racchiuso un petardo metaforico che faceva saltare l'ordine delle cose e apriva le scene al varo di una nave che sarebbe salpata verso lidi nuovi. Nei mesi di lavoro sulla tesi ho cercato e trovato questi petardi, concentrandomi su quelli che hanno interrotto la coerenza del percorso segnato fino a quel momento da Felix. Gli “svarioni” con le ostiche teorie del su citato professor Turchi ci sono stati tutti, ma ciò nonostante sono entusiasta, e posso descrivere la mia tesi come qualcosa di abbastanza simile a un viaggio. Leggendo le lettere o semplicemente respirando l'aria che c'è in sede l'augurio che faccio ai Panchinari è che altre persone inizino questo stesso viaggio e che l'avventura continui con più energia e entusiasmo che mai. Insomma, e come mi dicevano i miei genitori nell'ultimo periodo di studio: in-tesi?
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
AIDS! QUESTO SCONOSCIUTO di Milena Bidinost Qualche tempo fa mi capitò di pensare all’Aids, e a me in rapporto alla malattia. Non mi era mai successo prima di fare questa associazione. Niente droga, niente rapporti sessuali promiscui…insomma nessuno dei luoghi comuni legati al virus Hiv aveva mai fatto parte della mia vita di poco più che trentenne. Invece quel giorno capitò che ci pensai, all’ipotesi del contagio intendo, e fu per me un fulmine a ciel sereno. L’Hiv, il virus, e l’Aids, la malattia, sono come il cancro: non diresti mai che possano capitare a te. Anzi da questo punto di vista sono peggio ancora del cancro: basta non drogarsi e non andare a “puttane”, si pensa, per restarne alla larga. E invece no, perchè a me, ad esempio, quel giorno capitò di pensarci non per un mio comportamento a rischio, ma per quello dell’altra persona, della quale mi ero sempre fidata. Alla fine quel terrore si rivelò un falso allarme perché, fatto il test, tutto andò a posto. Ripetutolo a distanza di tempo, altrettanto. Il ricordo palpabile della sensazione di gelo che mi ha dato quella doccia fredda, tuttavia, mi è rimasto dentro: a volte è possibile che una piccola sbavatura lungo il percorso lindo e lineare della tua storia abbia il potere di marchiarti i sensi. Qualche tempo fa mi capitò di entrare nella sede dei Ragazzi della panchina di viale Grigoletti. Conoscevo l’associazione attraverso la cronaca dei giornali o i racconti dei colleghi, sapevo perciò che il gruppo si rivolgeva ai tossicodipendenti, categoria altamente a rischio di contagio. L’occasione quel giorno fu quella del nuovo giornale che il gruppo aveva in animo di pubblicare e rappresentò per me l’inizio di una frequentazione prima e di una nuova amicizia poi. In
quella sede cominciai con il limitarmi a stringere le mani, poi continuai con il salutare con due baci sulla guancia, finché oggi posso dire di avere imparato ad abbracciare anche coloro che con questo virus ci convivono da anni. Cosa voglio dire con tutto ciò? Dico che, a distanza di oltre un anno da quei due episodi oggi mi ritrovo a riflettere e a concludere che per noi “sani”, per noi “esenti da”, per noi “giusti” troppo spesso l’ignoranza rispetto al problema ci fa cadere in un grande paradosso. A causa del nostro non sapere e del nostro supporre finiamo per temere ciò che non serve temere e a sottovalutare ciò che invece meriterebbe di più la nostra attenzione. A volte invece bisognerebbe cambiare l’ordine dei fattori: un abbraccio non è contagioso, mentre un rapporto non protetto lo può diventare anche per un eterosessuale e anche all’interno di una relazione stabile. L’Hiv nel 2009 resta una realtà con numeri allarmanti. Qual è allora lo stato di avanzamento della ricerca, quali le strutture impegnate nella prevenzione e nel contenimento del fenomeno, quali i tabù da sfatare sulla trasmissione del virus e quali, per contro, le precauzioni doverose soprattutto tra i più giovani? Cosa significa convivere con la malattia? Sono domande che almeno una volta nella vita ci siamo posti tutti. Senza pretesa scientifica, ma con l’intento di mantenere alta la sensibilità su un problema che non necessariamente è solo degli altri, in questo quarto numero del nostro giornale l’approfondimento lo abbiamo voluto dedicare proprio a questa tematica. Lo abbiamo fatto a poche settimane dalla giornata mondiale dell’Hiv-Aids, che si celebra ogni anno il 1° dicembre.
C'ERA
UNA VOLTA L'AIDS...
“Il paziente affetto da Aids, inizialmente, era un condannato. Oggi ha una vita piuttosto normale, anche se tabù e pregiudizi persistono.” Rosaria Iardino a 18 anni scopre di essere HIV positiva. La sua esperienza nel volontariato ha inizio alcuni anni dopo a Roma, con il Circolo Mario Mieli. Nel 1990 lo lascia per diventare consulente di Anlaids. Il 1991 è l’anno della svolta: Rosaria scandalizza e provoca il mondo con il celebre bacio sulla bocca con il Professore Ferdinando Aiuti per dimostrare che l’infezione HIV non si trasmette semplicemente con un bacio. Oggi, tra i suoi numerosi incarichi, fa parte di quattro Commissioni ministeriali ed è membro del Comitato Etico dell’Istituto Superiore di Sanità. Per il suo impegno sociale è considerata la sindacalista dei pazienti.
“Il Network Persone Sieropositive (Nps) nasce nel 2004 quando, con un gruppo di persone, abbiamo sentito l’esigenza di fondare un’associazione composta esclusivamente da pazienti Hiv+ - spiega la presidente Rosaria Iardino - Nps è, infatti, il primo gruppo in Italia formato esclusivamente da persone Hiv+, attive nel campo della prevenzione, sensibilizzazione, informazione e supporto psico-sociale per le problematiche legate all’Hiv-Aids, sia in ambito regionale che nazionale. L’associazione - aggiunge - opera in modo autonomo nell’interesse comune del diritto alla salute e alla qualità della vita ed è aperta alla collaborazione con altre realtà che si occupano di malattie croniche”. Quali sono state le principali battaglie a favore dei pazienti da parte di Nps, dalla costituzione ad oggi? “Nps è un’associazione in continua evoluzione. Ha collaborato, e continua a farlo, nei diversi tavoli di lavoro con le pubbliche Istituzioni e le aziende farmaceutiche e intende sia incrementare progetti e aggiornamento scientifico nella lotta all’Aids, sia progetti di prevenzione sociale. Grazie al team che collabora con noi (il board scientifico, i legali, gli psicologi e i volontari) abbiamo raggiunto importanti traguardi: dal garantire informazioni sulle terapie e i loro effetti collaterali alla tutela delle persone Hiv+ attraverso l’informazione e la sensibilizzazione; dalla lotta contro la discriminazione per l’accesso alle cure e per il mantenimento del posto di lavoro, al fare prevenzione e informazione a tutto campo con particolare attenzione rivolta all’ambito giovanile. Non possiamo non ricordare la nostra battaglia, sempre aperta, per l’uniformità di trattamento dei malati e per il superamento delle disuguaglianze da decentralizzazione proprie del Federalismo sanitario”. Qual è oggi la percezione e la conoscenza della malattia Hiv a livello di territorio e opinione pubblica? “L’Aids è percepita ancora oggi, e non solo dai giovani adolescenti, come una “malattia lontana” perché non colpisce le persone che conducono una vita “normale”. E’ ancora rappresentata come la “malattia degli sbandati”, cioè di coloro che hanno uno stile di vita al di fuori delle regole: hanno
rapporti sessuali con persone che non conoscono, soprattutto di tipo omosessuale e usano sostanze stupefacenti. Inoltre le campagne di prevenzione, fino ad oggi realizzate, non sono state sufficientemente efficaci nel catturare l’attenzione degli adolescenti, anche perché caratterizzate da un’informazione vissuta come predica. Un potente strumento per la prevenzione e l’educazione alla salute sono convinta sia la “peer education”. Gli interventi che si basano su tale strategia hanno rivelato che i giovani, grazie al ruolo centrale che i pari assumono nel loro sviluppo psicologico proprio nella fase di transizione dall’adolescenza alla vita adulta, sono maggiormente disposti a modificare i loro comportamenti a rischio se ricevono informazioni ed indicazioni dai loro coetanei e se hanno la possibilità di condividere con loro riflessioni dubbi ed esperienze”. Da vent’anni lei è in prima linea nella lotta per la difesa dei diritti dei pazienti. Cos’è cambiato dal primo manifestarsi della pandemia ad oggi: nella qualità di vita degli stessi e nell’ambito sanitario e sociale? “Dalla scoperta di questa patologia, molte cose sono cambiate in positivo. Il paziente affetto da Aids, inizialmente, era condannato ad una solitudine che spesso accelerava il decorso della malattia. Oggi fortunatamente, anche grazie alla cronicizzazione della patologia, il paziente ha una vita piuttosto normale, anche se il tabù sussiste, soprattutto nel mondo dei giovani che continuano a fare sesso non protetto e ad eludere il test. Dove si riscontrano molte problematiche è ancora nel mondo del lavoro. Infatti moltissime aziende, a dispetto della legge, richiedono il test dell’Hiv e naturalmente prediligono assumere persone “sane”. Non mi stancherò mai di ripetere che per fornire un’informazione corretta è fondamentale il ruolo dei mass media come quello delle istituzioni, che dovrebbero avviare delle campagne di comunicazione sociale, che ad oggi mancano totalmente. Aver contribuito ad evitare anche un solo contagio con il nostro instancabile operato: è questo il successo più grande”.
NPS Italia ONLUS
Network Persone Sieropositive
www.npsitalia.net
HIV e Aids, qual è la differenza? L'HIV è il virus di immunodeficienza umana, l'organismo che causa l'AIDS (Sindrome dell’immunodeficienza acquisita) che è quindi lo stadio finale dell’infezione. L'HIV si trova nei liquidi corporali (nel sangue, nello sperma, nelle secrezioni vaginali e nel latte materno) delle persone infette dal virus. Una persona può essere infettata dall'HIV senza neanche saperlo, poiché potrebbe non presentare sintomi: l’unico modo per sapere se si è HIV sieropositivi è il test da laboratorio. Un test positivo non vuol dire avere l’AIDS . Quest’ultima diagnosi, infatti, è di tipo clinico, sulla base di determinate infezioni o tumori a vari organi e apparati. In questo caso oltre ai farmaci antiretrovirali necessari per impedire la replicazione del virus HIV, si devono assumere anche altri farmaci come profilassi, es. antibiotici, per questo tipo di infezioni. L’HIV attacca determinate cellule del sistema immunitario, esponendo perciò la persona a maggiori rischi di ammalarsi.
Come si contrae l’HIV? L'HIV è contenuto in grandi quantità nel sangue, nello sperma e nelle secrezioni vaginali delle persone infette. Tuttavia il semplice contatto cutaneo con tutti questi liquidi biologici non è sufficiente a provocare l'AIDS. L'Infezione da HIV si trasmette in particolare in tre modi. Per via ematica. Attraverso trasfusioni di sangue infetto (in Italia dal 1988 il rischio si è notevolmente ridotto poiché il sangue destinato a trasfusioni viene sottoposto a screening per il virus HIV) o lo scambio di siringhe infette. Per via verticale. La madre sieropositiva può trasmettere il virus HIV al figlio durante la gravidanza, al momento del parto o durante l'allattamento. Per via sessuale. Nello sperma e nelle secrezioni vaginali il virus, infatti, può essere presente in grande quantità. Per questo è di estrema importanza l’uso del preservativo dall’inizio alla fine di qualsiasi rapporto sessuale.
... E C'È ANCORA LA MALATTIA DA HIV, A 25 ANNI DAL PRIMO CASO ITALIANO DI AIDS. di Marcello Tavio C’era una volta l’AIDS. Era una malattia mortale e temuta. Erano i primi anni Ottanta e all’epoca non se ne conosceva neppure la causa precisa, ma siccome colpiva, almeno apparentemente, quasi soltanto omosessuali, tossicodipendenti e prostitute, fu facile trasformare la malattia in maledizione, e il comportamento a rischio in categoria a rischio. Ancora oggi c’è chi ritiene che questa malattia non rappresenti un reale pericolo per gli eterosessuali, ovvero per la “maggioranza”. Ancora oggi, per molteplici motivi, i comportamenti sessuali ritenuti “sicuri” non costituiscono la base condivisa e universalmente riconosciuta su cui fondare una solida politica di eradicazione dell’infezione con la sola prevenzione. Poco dopo la constatazione della presenza dell’AIDS in patologia umana, venne scoperto il virus che ne era all’origine, l’HIV, virus dell’immunodeficienza umana. Era il 1983, è già l’anno successivo veniva messo a disposizione un test sierologico che poteva svelare la presenza degli anticorpi contro il virus poche settimane dopo il contagio e molti anni prima dello sviluppo della malattia conclamata, l’AIDS per l’appunto. Si comprese pertanto che la malattia era, ed è, caratterizzata da tre fasi ben distinte: l’infezione acuta da HIV, della durata di giorni-settimane, caratterizzata da una sintomatologia molto simile a quella dell’influenza, che come l’influenza tende a risolversi spontaneamente; l’infezione cronica da HIV, in cui esita invariabilmente l’infezione acuta (non esiste infatti alcuna possibilità di guarigione spontanea dall’infezione da HIV) della durata piuttosto variabile, ma generalmente prossima ai 10-12 anni; l’AIDS conclamata, in cui esita l’infezione cronica dopo un tempo più o meno lungo, e che consiste in una serie di gravi patologie infettive, oncologiche o degenerative, correlate alla presenza di HIV e accumunate da una prognosi sfavorevole. La sopravvivenza complessiva dei pazienti in fase di AIDS conclamata, in assenza di trattamenti specifici della sottostante infezione da HIV e delle complicanza ad essa correlate, è nell’ordine di 16-18 mesi soltanto. A quel tempo nessuno meglio dei pazienti aveva chiara in testa la consapevolezza di quello che rappresentava la malattia indicativa di AIDS: era l’inizio del count-down, era l’inizio della fine. Molta acqua è passata da allora sotto i ponti, e molti di quelli che potevano essere qui con noi oggi, se non si fossero ammalati, non ci sono più. Furono i giovani e i giovanissimi a pagare il prezzo più alto. Ma alcuni dei ragazzi e delle ragazze che si infettarono allora, sono con noi qui oggi: perché riuscirono ad agganciare il treno delle nuove potenti terapie antiretrovirali, che partì dalla metà degli anni Novanta, e che non si è più fermato. C’erano una volta l’AIDS e l’HIV, e ci sono ancora. Epidemiologia attuale in Italia L’incidenza attuale dell’AIDS è nell’ordine di 2000 nuovi casi per anno. Nonostante ciò, grazie alle nuove potenti terapie antiretrovirali di combinazione (HAART, “Highly Active AntiRetroviral Therapy”) e il conseguente aumento di
Marcello Tavio Dal 1991 al 2003 dirigente medico al Cro di Aviano, attualmente ricopre il medesimo ruolo alla Clinica di malattie infettive dell’Azienda ospedaliera universitaria di Udine, ed è specialista in malattie infettive e in oncologia. Dal 1993 è consulente per le problematiche inerenti l'HIV/AIDS presso la Direzione Generale della Sanità e delle Politiche sociali della Regione Fvg. Nel 2003 e 2004 è stato membro della Commissione nazionale AIDS, in rappresentanza della Conferenza Stato-Regioni. Dal 2004 gestisce l’attività di selezione, stadiazione e monitoraggio post-operatorio dei pazienti con infezione da HIV all’Unità Trapianti del Policlinico Universitario di Udine.
sopravvivenza dei pazienti, il numero di casi “prevalenti” (casi di AIDS viventi) è nell’ordine di 20.000 nel nostro paese. Se questa costituisce, tutto sommato, una notizia di segno positivo, la notizia negativa è data dal fatto che oltre il 60 per cento dei pazienti che ricevono una nuova diagnosi di AIDS non ha effettuato in precedenza nessuna forma di HAART a causa della mancanza di consapevolezza del sottostante e misconosciuto stato di infezione. È naturale pensare che la maggioranza di questi pazienti, se avessero avuto piena consapevolezza della propria infezione da HIV, avrebbero potuto operare le due scelte fondamentali per la propria e l’altrui salute. Innanzitutto adottare le opportune precauzioni per non contagiare altre persone; secondariamente entrare in follow-up presso uno dei numerosi e qualificati centri per la gestione delle patologia da HIV presenti sul nostro territorio. Grazie all’enorme esperienza accumulata in questi anni, la patologia da HIV/AIDS costituisce una delle patologia in cui il trattamento è stato meglio standardizzato a livello internazionale. La HAART A partire dalla sua primissima formulazione, verso la metà degli anni Novanta, la HAART è andata incontro a profondi mutamenti, a tutto vantaggio delle possibilità di cura del paziente, sia in termini di aumento della sua sopravvivenza che di miglioramento della sua qualità di vita. L’armamentario terapeutico si è infatti arricchito: ha in poche parole reso possibili schemi di HAART sofisticati e meglio adattabili alle diverse esigenze del paziente. Inoltre, si è registrata da parte delle Aziende produttrici una sempre maggiore convergenza verso gli schemi basati sul minor numero di compresse e con meno effetti collaterali, sia nel breve che nel medio e lungo periodo. La ricerca farmacologica di base, unitamente ai numerosissimi studi clinici sulle varie combinazioni di HAART, rendono disponbili schemi sempre più semplici da assumere, potenti e meglio tollerati. Ovviamente rimane ogni volta da sottolineare il ruolo fondamentale (attivo e non passivo) che deve esercitare in questo campo il paziente HIV, il quale, dovendosi accollare l’onere di una terapia che va assunta, di fatto, per tutto il resto della vita, necessita di grande spirito di abnegazione, capacità di sacrificio, fiducia nei propri mezzi e nella competenza dei propri medici di riferimento. Tenendo sempre in mente cosa era l’AIDS prima della HAART e tutte le persone che non hanno avuto, o non hanno tuttora, la possibilità di usufruire di questo privilegio.
Da dove viene l'HIV? Il primo caso conosciuto riguarda un campione di sangue prelevato nel 1959 ad un uomo di Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, ma come si sia infettato non è noto. Il virus era presente negli Stati Uniti già dalla metà degli anni settanta. Dal 1979 al 1981 i medici di Los Angeles e di New York osservarono rari tipi di polmonite, cancro, ed altre malattie, in un certo numero di omosessuali. Queste malattie erano inusuali in persone con un sistema immunitario sano. Nel 1982 gli ufficiali del servizio pubblico iniziarono ad usare il termine di “Sindrome da immunodeficienza acquisita”, o AIDS, per descrivere questo tipo di infezioni, ed iniziò in quell’anno negli Stati Uniti una sorveglianza formale dei casi di AIDS. Nel 1999 un team internazionale di ricercatori ha identificato l’origine del virus in una infezione virale presente in una sottospecie di scimpanzè dell’Africa equatoriale. I ricercatori credono che l’HIV sia passato alla specie umana quando l’uomo è stato esposto al sangue infetto degli scimpanzè.
C’è una connessione tra l’HIV e le altre malattie sessualmente trasmesse? Sì. Avere una malattia sessualmente trasmessa (MST), può aumentare il rischio di una persona di acquisire l’HIV, sia nel caso che questa malattia causi delle ferite o delle lesioni sulla cute (sifilide, herpes), che nel caso non lo faccia (clamidia, gonorrea). Se la MST causa irritazione della pelle, o delle lesioni o ferite, questo rende più facile al virus HIV l’ingresso nel circolo ematico durante un rapporto sessuale. Quando la MST non causa queste lesioni, l’infezione stimola comunque il sistema immunitario a livello dell’area genitale, e anche questo può facilitare la trasmissione dell’HIV.
La testimonianza
HO AVUTO UNA VITA SPERICOLATA
La testimonianza di Antonio raccolta dalla redazione
Mi chiamo Antonio e a seguito della richiesta di un’amica mi ritrovo a scrivere della mia esperienza di “trapiantato”. L’amica Ada sa bene che per farlo devo tornare indietro nel tempo e raccontare delle vicissitudini di una vita. È astuta Ada, ma è anche un’amica. Oggi vivo una vita relativamente tranquilla, ho 48 anni e da due ho un fegato trapiantato, ma prima di questo devo parlarvi dei miei 17 anni. Ca**o!!! ho avuto anch’io 17 anni, allora i “Pooh” cantavano “quindici anni, quindici anni” e nelle radio impazzava il guardiano del faro mentre io, stringendo il cuscino, ascoltavo “quando finisce un amore” e “l’alba” ……….l’alba, l’alba di un nuovo giorno, l’alba di non ritorno, l’alba delle mie pere, dei joint, degli acidi, l’alba delle mie prime “scopate” fatte nei fienili o dietro ai covoni di fieno. La mia esaltazione politica e ideologica mi imponeva l’uso di quei luoghi per i miei incontri d’amore visto che il divano o il letto erano troppo borghesi per la mia natura proletaria. Allora si comperava "Il Male", il quotidiano dei lavoratori e il mio idolo di allora era Capanna. La mia vita si poteva riassumere così: lavoro, droga, sesso e politica il tutto in quantità smodata. Disponevo, infatti, di un fisico e di una energia straripanti così difficili da autogestire che difficilmente il mio comportamento poteva passare per moderato. Politicamente con il passare degli anni ho frequentato territori meno estremi. Particolarmente illuminante fu per me la scoperta di Berlinguer anche se morì poco dopo: che uomo!, ancora oggi al pensiero mi si inumidiscono gli occhi. Sull’onda di questa sensibilità politica decisi che gli acidi e l’interesse per il mio fisico e la sua efficienza mi stavano decisamente imborghesendo e mi dedicai solo all’eroina. Me meschino, da lì in poi cominciai a non piacermi più e la mia vita diventava, di giorno in giorno, sempre più sofferta e incoerente con la mia anima. E’ stato di quel periodo l’incontro con l’epatite C e subito dopo con l’HIV. Ero ancora molto forte e la malattia non aveva scalfito le mie certezze, anche se a ben pensarci l’unica certezza rimastami era il lavoro. Gli unici attestati di stima che ottenevo dalla società, infatti, li ottenevo grazie al mio lavoro. Gli anni passavano e con essi anche gli amici inseguiti dalla morte per malattia o per overdose. La mia vita si stava sempre più appiattendo ed io mi sentivo un miserabile. La droga non più per esaltarsi ma per
sostenersi, per la sopravvivenza. Era davvero una “merda”! Agli inizi degli anni Novanta il mio fegato cominciò a presentarmi il conto, iniziarono così le prime emorragie gastrointestinali, le varici cedendo sanguinavano ed io vomitavo sangue nero. Fu una sera a casa della mia compagna che mi sentii davvero male: prima un po’ di febbre, poi dolori addominali ed infine vomitavo sangue. Arrivò l’autoambulanza e mi ricoverarono per la prima volta. Ricordo ancora la frenesia e la preoccupazione degli infermieri, mentre mi trasportavano in ospedale, mentre io seguitavo a vomitare sangue senza smettere, avvolto da una terribile sensazione di soffocamento, con l’aria tutto mi stava sfuggendo e per la prima volta sentii nitidamente la morte accarezzarmi il viso e la mente abbandonare il corpo. Per fortuna in quegli anni conobbi la mia compagna, Giulia, che seppe trasmettermi serenità e mi rese refrattario alle droghe per la prima volta. Purtroppo tra noi si è rotto qualcosa e non stiamo più assieme, ma io so che per sempre apparterrò a Lei. Grazie a Giulia, all’interessamento di “doctor” Zamai e ai Ragazzi della Panchina riuscii ad entrare in lista di attesa per il trapianto del fegato. Dovete sapere che, essendo io sieropositivo, il mio caso rientrava in una lista di attesa fuori protocollo, diciamo sperimentale. Il dottor Tavio fu il mio referente, la mia boa da non perdere mai di vista: il successo di questa attesa avrebbe significato la speranza di poter vedere il mio Milan vincere, di continuare a leggere “Repubblica” e soprattutto votare ancora contro il mio “papi”. E si oltre che drogato, io sono stato un fannullone, un comunista e qualcos’altro che ora non ricordo. Scherzi a parte, ho smesso pure di bestemmiare perché, se non per fede almeno per rispetto verso Lui, era troppo alto il pericolo di ritorsione e credetemi nello scrivere questo sono maledettamente serio. Intanto gli anni passavano tra emorragie, ansie e la paura di non arrivare al trapianto. Dopo tre anni, una sera di aprile del 2007 arrivò la tanto attesa telefonata. Con un nodo in gola salutai tutti e mi recai all’ospedale di Udine, dove mi misero al corrente che sì ero lì per il trapianto, ma che io ero solo la seconda alternativa. Dovete, infatti, sapere che in questi casi, per non rischiare di sprecare un organo, vengono chiamati due pazienti e, se il primo per un qualsiasi motivo non è trapiantabile, allora gli subentra il secondo. Quel giorno per il primo tutto filò liscio e io tornai a casa. Non so spiegare il mio stato d’animo, ma so che riuscii a non perdere il mio equilibrio. Bene, da aprile a dicembre ci sono stati solo pochi mesi, e il 23 dicembre 2007 seconda chiamata da Udine e questa volta da primo. Il 24 mi operarono ed io, ateo dichiarato, rinascevo grazie alla scienza proprio a Natale. Ora Milan, “Repubblica”, politica e musica tornavano ad avere un senso e la grandiosità dell’evento era riassumibile in: non solo presente, ma anche futuro. Spero di essere riuscito a trasmettere la portata di quell’evento che per me rappresentò a tutti gli effetti una rinascita. Ora le droghe, che mi sono sempre piaciute, non sono più barattabili con la mia vita.
i numeri in italia
•151.000 le persone contagiate •4.000 le nuove infezioni ogni anno •73% i contagi tramite rapporti sessuali • Ogni 2 ore una persona si infetta
•Il 50% dei nuovi casi arriva alla diagnosi quando la malattia è conclamata •1 persona su 4 sieropositiva non sa di esserlo IL VISIONARIO: Preservativo disperato "Come va?”. “Da cani. Son nove anni che sono esposto. Qua non mi compra nessuno”. “Rasse-gnati, in Italia è così, nessuno vi usa. Al massimo vi tengono nel portafoglio”. “L’altro giorno un ragazzo mi ha preso in mano. Ho detto, è fatta! In quel momento non entra un prete in farmacia? Il tipo lo vede, arrossisce, e mi mette giù per comprare un dentifricio alle erbe da 5 euro! Pensavo quasi quasi di emigrare”. “E per andar dove?”. “Mi dicevano che in Africa c’è tanto lavoro”. “ Scherzi?!? È come qua, anzi peggio perché là non ci sono neanche soldi”. “Comincio anche ad avere una certa età. Un annetto ancora e
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scado”. “Allora, tranquillo, che poi ti ci mandano loro, in Africa. E gratis”. “Pensavo di chiedere al mio amico Viagra di fargli da gadget, visto che a lui gli affari vanno a gonfie vele. Quando mi han messo sull’espositore non avrei mai pensato di fare questa fine. Tutti a dire: c’è l’Aids, fai sesso sicuro! Belle parole, ma io son ancora qua e l’Aids zitto zitto si diffonde”. “Se costassi un po’ di meno, magari”. “Ma non è mica colpa mia. Poi, fanno i saldi per tutto, per noi invece. Per esempio per le feste, o tra Natale e Capodanno, potrebbero fare lo sconto, no?”. “A proposito, auguri!”. “Anche a te… e figli maschi”.
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Bottecchia fu il primo italiano a vincere il Tour de France. Per me andare allo stadio cittadino è rendergli omaggio
Eroi senza tempo delle nostre terre Ottavio Bottecchia, i partigiani, la guerra di Liberazione. Andare allo stadio serve, se non altro per non dimenticare di Luigi Dal Bon Il mito della sua vita sempre in fuga tra leggenda e realtà come il giallo della sua morte, misteriosa e solitaria, lo rende ai miei occhi un eroe senza tempo: è Ottavio Bottecchia, il primo italiano ad aver vinto il Tour de France. Il più grande campione delle nostre terre, soprannominato il “muratore del Friuli”, diventato professionista a 27 anni dopo aver conosciuto un’infanzia umile, la fame, e aver visto il padre emigrare. Bottecchia lavorò duramente e partecipò alla Prima Guerra Mondiale come caporale dei Bersaglieri ciclisti, quelli con la bicicletta pieghevole. Sopravissuto alla mattanza della Grande Guerra si portò a casa, oltre alla Medaglia al valore, la voglia di pedalare più forte delle pallottole. Per emergere, o per non emigrare. Vinse alcune corse per dilettanti nel Dopoguerra, e poi, notato da un talent scout dell’epoca, venne immediatamente ingaggiato
come gregario per il Tour. Lo conquistò da super denominatore, sia nell’edizione del 1924 che in quella del 1925, diventando così un vero e proprio eroe popolare. Nel giugno del ’27, mentre si allenava a Peonis del Friuli, un contadino lo trovò per terra agonizzante in un fosso, con la testa sfondata. Portato all’ospedale di
ragioni politiche, fino al racconto confessato in punto di morte da parte di un contadino, che lo avrebbe picchiato perché gli stava rubando l’uva. Anche un altro uomo emigrato a New York confessò in punto di morte di essere lui stato lui l’assassino di Ottavio Bottecchia e di suo fratello. Di sicuro c’è che una decina di giorni prima anche il fratello fu trovato morto, ucciso in simili condizioni e che i “regi Caramba” dell’epoca non fecero vere indagini. Per me andare allo stadio cittadino, che porta il suo nome, per seguire i Ramarri è per questo un po’ come rendergli omaggio. E già che siamo in vena di memoria storica, è un piacevole obbligo ricordare anche altri semplici uomini delle nostre terre, campioni durante l’ultima Guerra di Liberazione. Legati da uno spirito di solidarietà, un sentimento nato dalla sofferenza rispetto alla forza prevaricatrice altrui e dalla dignità che unì e sostenne la ribellione comune contro gli occupanti e i complici fascisti. Ricordare, anche se sono passati più di Sessanta anni ed è finito il tempo della bruta ideologia (oggi si può dire e pensare di tutto, fortunatamente). Ricordare, ora che il Revisionismo storico vorrebbe equiparare
"Eccola la mia squadra del cuore, schierata allo stadio Bottecchia alla consegna delle armi, nella stagione vincente del 1945" Gemona, Ottavio Bottecchia morì dopo giorni di agonia. Intorno alla sua morte nel corso degli anni si sono raccontate molte storie: un marito geloso,
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chi causò e produsse tanti lutti e tragedie, leggi razziali, discriminazioni, persecuzioni, deportazioni, con questi piccoli grandi eroi che scelsero bene da che parte stare,mentre gli altri continuavano a sputtanare l'Italia. Ricordare, loro che scelsero la fame, il freddo della montagna per la libertà di tutti i giovani, anche di quelli che oggi non sanno cos’è il 25 aprile, i suoi valori, i suoi ideali: perché per non dimenticare mai la grande verità del sacrificio di questi uomini occorre avere memoria e continuare a raccontare all’infinito. Eccola perciò la foto della mia squadra del cuore, schierata, in campo, allo stadio Bottecchia, alla consegna delle armi, nella stagione vincente del ’45.
l’esperienza di lavorare in un osservatorio, con un vulcano vero, vivo, vicino, da monitorare, analizzare e capire giornalmente”. Inizia così il racconto di Francesca …., la nostra inviata nel mondo di questo numero di Ldp. “A me e al mio compagno piace viaggiare, scoprire, esplorare. Con un figlio di meno di 2 anni, ci è sembrato il momento giusto per fare un’esperienza del genere. E cosi ho fatto domanda e ho ottenuto il posto di sismologa vulcanica. Il mio compagno ha stabilito una collaborazione con l’Universita di Costa Rica e siamo partiti”. Al tuo arrivo lì, cosa ti ha colpito? “La povertà. Tantissimi vivono in case modestissime, rattoppate con la lamiera, e fanno fatica a mettere due pasti sulla tavola; tanti son proprio per strada. Poi la vita, che segue il ritmo giornaliero della luce solare, in maniera naturale. Io che non riesco mai ad aprire gli occhi prima delle 8 di mattina, ero sempre sveglia e attiva prima delle 6. Naturalmente, senza sveglie nè rumori esterni. E poi la frutta al mercato. Tantissima, buonissima. Ananas, mango, papaya ma di un gusto che non conosciamo, e tantissima frutta mai vista. Il tutto a pochi centesimi. C’è voluto proprio poco per capire che Costa Rica è un paese di natura e paesaggi meravigliosi, che vedi solo nei documentari del National Geographic”. Qual è la cosa più bella e quella più brutta che hai visto? “Le spiagge della penisola di Osa, con papagalli e tucani che ti volano sopra la testa, e scimmie che passano tra gli alberi a pochi metri. Il fondale marino dell’Isola del Cano: credevo di essere finita dentro al film di Nemo! Le tartarughe che depongono le uova sulle spiagge di Tortuguero, nella costa Caraibica. L’eruzione del vulcano Arenal”. La più brutta sono state le inferriate a tutte le finestre e porte di qualsiasi casa, anche la più modesta, in alcuni quartieri di San Josè e in tutta la Valle Centrale. La presenza di agenti di sicurezza con armi in vista in qualsiasi negozio o grande magazzino. La quantità di persone che vedi la sera, a pochi metri dalla stazione dei bus, a dormire lì, per terra, uno dopo l’altro, e non hanno nulla, neanche un pezzo di cartone sopra cui distendersi”.
INVIATI NEL MONDO
A caccia di vulcani in Costa Rica Dalla pioggia dublinese ai paradisi naturali del Centro America intervista di Andrea Picco “Nel luglio 2007 ho visto un annuncio per un posto di Volcano Seismologist all’ Observatorio Vulcanológico y Sismológico de Costa Rica. Io adoro i vulcani: lavoro come ricercatrice nell’ambito vulcanologico all’università di Dublino, ma già da tempo mi lamentavo perchè mi mancava
C’è qualcosa che da noi in Italia non c'è? “La ‘pura vida’- per chiamarla come la chiamano i “ticos”, i costaricensi. Fare il proprio, senza stress. Dare la priorità a uno stile di vita piacevole, alla famiglia, al relax, godersi la vita con calma. Questo significa anche celebrare la buona sorte, nelle piccole e grandi cose; mantenersi sempre in buono spirito, anche di fronte alle difficoltà. I ticos usano l’espressione ‘pura vida’ continuamente, come saluto, come arrivederci, per esprimere soddisfazione, benessere, anche per esprimere una certa indifferenza, educatamente. E’ una filosofia di vita, che sottintende anche un forte senso di comunità”.
SUL BORDO DEL CRATERE
Partivamo ogni mattina all'alba. Lassù, sensazioni indimenticabili di Francesca Martini
Io, al vulcano, ci volevo andare sempre. Se non con uno dei colleghi geochimici in visita ai vulcani a raccogliere campioni, accompagnavo uno dei tecnici del laboratorio per la manutenzione degli strumenti, che funzionano con batterie di auto ricaricate con pannelli solari. Periodica-
mente si andava su per osservare cambi visibili, per prendere campioni che poi vengono analizzati in laboratorio, per esempio di gas alle fumarole o di acqua di un lago craterico che vengono studiati per capire lo stadio di attività del vulcano stesso. La mattina si partiva presto, riunione in osservatorio alle 6. Si voleva superare l’area intorno San Josè, la capitale, prima dell’orario di punta, altrimenti un viaggio di un paio d’ore poteva allungarsi del doppio. Alle falde dei vulcani, sosta per colazione: gallo pinto con uova strapazzate, e un buon caffé. Che nostalgia… Rifocillati, si ripartiva. Nei villaggi più in alto, su, sul vulcano in risveglio, ci si fermava a parlare con tutti i locali. Al lavoro nei campi, con gli animali, verso la latteria
a portare il loro latte, tutti riconoscono i pick up dell’osservatorio e vogliono parlare, chiedere, farci sapere che cosa è successo, che cosa hanno visto. Vogliono sapere cosa “fa” il vulcano. “Ci bruciano gli occhi - li senti dire - la terra ha tremato…a mio figlio l’asma è aumentata... il tetto di lamiera fa la ruggine…l’erba ingiallisce… le mucche fanno meno latte...” Tutti effetti dei gas vulcanici. La sismicità in un vulcano è dovuta essenzialmente a movimento di magma o gas dentro la struttura vulcanica, per cui un cambio o
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un aumento della sismicità vanno individuati e capiti. Nei dodici mesi di visite al vulcano, ho visto che col passare del tempo un po’ alla volta da lassù se ne stanno andando tutti. Lasciate le ultime case, incontrato l’ultimo bimbo a cavallo verso la scuola, si lasciava il pick up e si proseguiva a piedi. Nei miei giorni fortunati (dicono che noi vulcanologi siamo malati...), fino al cratere. Lassù l’unico rumore sono i getti delle fumarole, i gas, e l’unico odore è quello dello zolfo, quello che non si può mai più scordare.
L'EVENTO
CAMPIONE DENTRO E FUORI DAL CAMPO Chiacchierata con Alessandro Zanni, nazionale di rugby, alla vigilia del test match col Sudafrica a Udine. “Nel rugby l’aiuto reciproco è indispensabile” di Guerrino Faggiani Ex Calvisano, ora militante nella Benetton Treviso, Alessandro Zanni è udinese di nascita: per noi Ragazzi della Panchina è stato inevitabile perciò iniziare la nostra chiacchierata con il flanker azzurro, rompendo il giaccio parlando proprio del suo ritorno a casa in occasione del test mach contro i campioni del mondo, gli Springboks sudafricani (il 21 novembre scorso al Friuli di Udine n.d.r). “Sono felice e spero che ci sia tanta gente”, risponde Alessandro, e poi passa a raccontare della sua nascita rugbistica all’età di sette anni, proprio tra i campetti di Udine. All’epoca come vicino di casa aveva il presidente di una piccola squadra giovanile di rugby, che un giorno lo invitò a provare. Da li partì l’Alessandro Zanni di oggi, 25 anni, terza linea della Nazionale nella quale debuttò quando ne aveva 21. E’ un ragazzo che porta in giro per il mondo un pezzetto della nostra Italia, mettendosi in gioco, un gioco duro. “È una questione di abitudine ai colpi che prendiamo, impari da bambino ad avere confidenza con i contatti”. Ma gli arbitri lasciano anche passare qualche colpo in più, pestoni e così via? “Beh a volte, ma non gratuiti, ad esempio se nelle mischie si va in fuori gioco cioè oltre la linea della palla ti devi arrangiare, anche se metti al di là solo una mano rischi di prenderti un pestone, ma essendo in fallo non ti puoi lamentare, te lo tieni e basta e l’arbitro non interviene”. Alessandro, cosa vuol dire essere un rugbista oggi in Italia? “Significa impegnarsi quotidianamente; tutti i giorni allenamenti tranne la giornata di riposo dopo ogni partita, che si passa però in piscina.
Con la Nazionale per i vari tornei stiamo via mesi, poi ci sono allenamenti e partite con le nostre squadre di club… di tempo libero ne resta davvero poco. La mia ragazza prima o poi mi metterà davanti ad un compromesso. Però questa è la carriera, siamo dei privilegiati”. Il rugby da noi è in piena ascesa, gli ottantamila del Meazza impressionano. “Non ce l’aspettavamo, all’uscita dagli spogliatoi è stato pazzesco, da noi la Nazionale è un fattore trai-
nante per questo sport, dà fiducia alla gente e la fisicità la appassiona” . Ci si sente addosso la solennità di rappresentare l’Italia? “E beh sì, in quei momenti.. gli inni tutta, quella gente, la si sente. Ma fino al fischio d’inizio, poi si è così impegnati e concentrati che tutto scompare”. In Nazionale tra giocatori di tanti club si riesce ad instaurare un buon rapporto di spogliatoio? “Il nostro è un bellissimo gruppo, che ha saputo andare oltre alla collaborazione
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professionale. Siamo una squadra che fa della potenza la sua arma migliore e l'aiuto reciproco è indispensabile”. Dunque la prestanza fisica. “Si è l’arma migliore che abbiamo, ora però puntiamo a crescere anche sulla velocità del gioco, per affrontare al meglio anche le formazioni abituate alla palla veloce, com’è il rugby inteso fuori dall'Europa, All Black e Springboks in testa”. Ora che la popolarità di questo sport sta crescendo molti ragazzi ci proveranno, alcuni anche in tutti i modi. Attualmente per te esiste un problema doping nel rugby? “I controlli negli ultimi anni si sono molto intensificati anche se casi eclatanti non ce ne sono stati. Non lo so se ci potranno essere in futuro, ma io credo che sia ancora possibile emergere. Se un ragazzo sente di essere tagliato, con il lavoro e l'impegno ce la fa con le proprie forze. Certo però che la lotta è sempre aperta, sentiamo di grossi risultati nei vari sport e poi si scopre che c'è di mezzo l'illegalità, nonostante tutti i controlli c’è sempre la possibilità che qualcuno scelga quella strada, e spalleggiati da personaggi competenti non è facile scoprirli. Il doping è comunque sempre un passo avanti ai controlli”. Un sogno nel cassetto? “A fine carriera vorrei riprendere gli studi, all’inizio riuscivo a studiare e giocare ma poi andando avanti con gli impegni è diventato insostenibile e mi sono dedicato completamente al rugby, sarà difficile riprendere dopo tanto tempo ma.. mi piacerebbe - Auguri allora e buona fortuna. Grazie Alessandro per la tua disponibilità, che è stata davvero tanta e… Forza Azzurri.
QUINDICI UOMINI Ottantamila persone a San Siro per vederli. Sono i nuovi eroi di uno sport in Italia fino a poco tempo fa di secondo piano. Ma la musica sta cambiando. di Andrea Picco Touche, flanker, rack, up and under… iniziate a far l’orecchio a queste parole, perché si è aperta una breccia nell’egemonia del calcio in Italia e questi qui a conquistare sempre più spazio sono maestri. Stiamo parlando della Nazionale di rugby, una quindicina di armadi a quattro ante che ultimamente infiammano i cuori degli sportivi italiani come e più degli azzurri del calcio. Ottantamila persone a vederli allo stadio di San Siro: impensabile fino a qualche anno fa. E il bello è che non vincono mai. Eh sì, perché nel rugby che conta non possiamo vantare un palmares da primi della classe come avviene invece in altri sport: diciamo che siamo la sesta forza del “sei Nazioni”e che con le tre squadre più forti dell’emisfero australe, Nuova Zelanda, Australia e Sud Africa, ci accontentiamo di limitare i danni… Ma non è questo che conta. Conta lo spirito. Finalmente noi italiani, gli artisti del risultato con qualsiasi mezzo, ci appassioniamo più che alla vittoria ai valori cardine di questo sport: lealtà innanzitutto, poi rispetto delle regole, spirito di squadra, rispetto dell’avversario, e coraggio, tanto. Ovvio che in Italia uno sport così fatichi a sfondare. E così, complici gli scandali del calcio, una flessione di risultati nel basket e nella pallavolo, e aggiungiamoci anche un bisogno di pulizia, ci si ritrova tutti a spingere idealmente la “mischia”, a placcare, e a chiedersi cosa sia successo, che improvvisamente abbiamo trovato dei nuovi eroi. Se dici “il Capitano” adesso pensi a Sergio Parisse (pronunciare “Serhio”, è oriundo argentino) non più, o non solo, a Cannavaro. A vederlo qui a Sacile, nell’albergo del ritiro pre gara col Sudafrica, capisci perché non avesse paura degli All Blacks, la leggendaria squadra neozelandese, il sabato precedente a San Siro. C’è un clima molto rilassato, non c’è la ressa di fotografi e giornalisti che i loro colleghi del calcio si portano automaticamente dietro. Zanni, Castrogiovanni, Mirko Bergamasco sono (super)disponibili a rispondere alle domande o a farsi fotografare. Parlano sottovoce, quasi con timidezza. Si stringono intorno a Giovanni, un uomo diversamente molto abile con le parole, che ha scritto per loro una poesia. Si rendono perfettamente conto che il “movimento rugby” è nelle loro enormi mani e la palla questa volta non si può perderla, bisogna schiacciarla in meta. Immaginate cosa potrebbe succedere se arrivasse una grande vittoria, e poi un’altra, e un’altra ancora.
RUGBY
di Giovanni Buffo Trenta uomini sul campo nella palla ovale tutta la loro voglia di conquistare terreno metro su metro, sudore e su sudore, come la vita spingere avanti, tallonare, dare indietro l’ovale ad un compagno che ti segua e poi vada avanti nella corsa, concreto angelo di muscoli e cervello. Il fango che s’alza nelle mischie impregna le magliette: spingere, avanzare verso il tesoro della meta, lontana isola a cui l’atleta spera approdare, solitario Ulisse nella corsa e nel tuffo oltre la bianca linea, nel verde di quel mare d’erba. Come la vita la palla ovale: rimbalza strana, la cogli al volo, la stringi a scudo del petto, avanzi sicuro, ti scivola via… Così, certi giorni è l’esistenza, cambia la corsa, l’approdo, ti toglie il sangue, cambia lo zucchero in sale. Rugby, corsa finale dei minuti, acido lattico che intride i muscoli, tempo che inesorabile passa; e l’uomo solo con i suoi compagni non sa, fino al fischio finale se sia morte o vita la rincorsa all’ovale Sacile, febbraio 2008
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MONDO GIÒ
Come è difficile trovare lavoro a quarant'anni di Giovanna Orefice In questi tempi di crisi, come ormai si sente dire da tempo, sembra quasi impossibile trovare lavoro. Anche andare in cerca, è un lavoro!!! Quando ero una ragazza giovane e alle prime armi, all’età di 20 anni, mi sentivo dire che ero troppo giovane e inesperta; ora, all’età di 48, che di esperienza ne ho fatta, anche di vita (soprattutto nelle scuole come insegnante) è difficile re-integrarsi nel mondo lavorativo. Ma come? Si è diventati vecchi improvvisamente per il mondo del lavoro? Così l’unica attività che faccio saltuariamente è quella della promoter nei punti vendita e nei centri commerciali della provincia. Si lavora solitamente i fine settimana, facendo conoscere cibi, detersivi o creme delle marche più diffuse e famose ai vari clienti. E intanto, durante gli altri giorni, vado a spedire curricula, rispondo ad annunci di giornali locali e mi presento al cospetto di direttori e capi del personale, che spesso ti guardano in modo sospettoso. Eh sì! Sembra proprio che chiedere lavoro sia come chiedere l’elemosina. Inoltre vado di frequente all’ufficio di collocamento e anche lì ti senti dire: “Deve avere pazienza”. Ma quanta pazienza deve avere una persona, sapendo che non ha nemmeno un centesimo in tasca?! E poi dipendere economicamente da un genitore anziano non è il massimo. Intanto i giorni passano, i mesi passano e l’unica consolazione é riordi-
EL CANTON DE GUERI
LA GALINA DEL STRADIN SILENZIO! Oggi è al ruolo la causa del signor UGO LUPO contro il signor GIONA ARCIBALDO. Presiede il giudice arbitro signor BRACCOBALDO SHOW - driiin..IN PIEDI! - COMODI PREGO. DICHIARO APERTA L’UDIENZA. DUNQUE LEI È IL SIGNOR? - Ugo, signor giudice, Ugo Lupo, son el stradin del comun - E LEI È IL SIGNOR? - Giona Arcibaldo signor giudice, gò n’alevamento de galine pena fora del paese - ALLORA SIGNOR LUPO, MI ESPONGA BREVEMENTE I FATTI - Signor si signor giudice. Intanto bongiorno par tut el giorno - BUON GIORNO - Mi voria la proprietà de na galina de quel sior li - No te dago proprio gninte mi, ansi te son ti che te devi darmela a mi - CALMA GIOVANOTTI CALMA, SIGNOR LUPO SI SPIEGHI MEGLIO - Signor si signor giudice. L’altra
matina, stavo andando in bicicleta tranquilo pai fati mii, quando na galina la me gà scavasà la strada come un proiettile, no gò gnanca fat temp a corserme de quel chel stava sucedendo che gero sa par tera - E questo cos chel centra co noi? Nol centra gninte! - L’era ela invese! - Come fatu a dirlo? Signor giudice.. l’è galine de quele rosse, l’è tute uguali - No stà mia creder e! Quela la riconosseria tra mile - Stà tento des chel vol veder le foto segnaletiche - BASTA, SILENZIO! AVANTI SIGNOR LUPO - Signor si signor giudice. Insoma, dopo che la me à butà par tera, l’è scampada via come un fulmine, ma go fat tempo instes a vardarla par da drio, la gaveva el cul spelà - Vutu le foto segnaletiche anca de quel? - tock tock - SILENZIO! PREGO IL PUBBLICO AD UN COMPORTAMENTO PIÙ CONSONO, E LEI SIGNOR ARCIBALDO LA INVITO AD ASTENERSI DA COMMENTI SUPERFLUI - L’è la testa de quel lì che lè superflua tock tock - CONTEGNO SIGNOR ARCIBALDO, CONTEGNO! E LEI SIGNOR LUPO, VENGA AL SODO! - Signor si signor giudice. Quela galina ades l’è diventada mia, dopo quel che l’è sucess.. - Ghe domandi.. ghe domandi
nare la casa e cucinare, il tutto gratis, perché di soldi nemmeno l’ombra (sono proprio una casalinga disperata!). Ogni giorno speri che la telefonata sia quella giusta, che la persona dall’altra parte del filo sia onesta e non ti prenda in giro con la solita frase: “La richiamo la prossima settimana”, quando sai che il più delle volte il tipo non ti richiamerà. E’ come quando ti innamori e aspetti sempre la chiamata o l’sms della persona che ti piace, ma questa tarda a chiamarti o non si fa più sentire. Eh sì…é proprio dura questa vita... Tra un po’ è Natale, penso, mancano pochi giorni. Già i negozi si riempiono di oggetti colorati e dorati, le commesse sono tutte affaccendate e io che non so cosa fare mi trovo con le mani in mano e cerco di “inventarmi” la giornata. In alcuni giorni mi passa anche la voglia di uscire; non che sia depressa, ma non so dove andare e che fare. Mica posso stare ore in un bar a bere spritz oppure giocare alle macchinette? A parte il fatto che non sono avvezza all’alcol e non ho il vizio del gioco… Certo, con i soldi sarebbe tutto diverso, anche l’essere disoccupati!! Non avrei problemi per i bisogni primari, andrei un giorno di qua, uno di là, farei qualche viaggio, curerei il mio corpo con massaggi e saune e frequenterei più assiduamente i centri di estetica e i coiffeurs. Sarei di certo meno ansiosa…Altro che la solita frase di circostanza: “I soldi non servono”. Lo dice sempre chi ne ha, e tanti anche! cosa che l’è suces - SIGNOR ARCIBALDO, GUARDI CHE LA FACCIO ALLONTANARE! ALLORA SIGNOR LUPO, COSA È SUCCESSO? - Signor giudice, quela lè stada la prima volta che l’ho vista, dopo ghe né stade altre, ma mi fasevo sempre finta de gnint, lera ela che la me vigniva drio, no podevo far un passo che la gera lì -Te dovevi mandarla via simiot! - Te son ti che te dovevi tignirla a casa tua! - BASTAA! - tock tock tock - ORDINEE ORDINEE, APPUNTATO FACCIA MANTENERE L’ORDINE - Si signor giudice. Ou fioi ste boni, vardè che sel se rabia sto qua lè pensieri - SIGNOR LUPO, CONCLUDA! - Signor sì signor giudice. L’altra matina gero pena fora de le curve del Dopolavoro che scovavo la strada, quando la vedo spuntar da le ramasse li in parte, mi gò fatto finta de gnint ma gò capio subito che la me vardava, la se gà mes sul rival par farse veder ben, la sbecotava qua e la fasendo l’indifferente ma visto che no fasevo na piega la se vignua più vissin, e mi gnint instes, ancora più vissin ma mi duro, alora la me se pasada davanti. Signor giudice, la caminava pian pian, un passo drio l’altro, co l’ocio in parte che la me vardava, col cul fora e la
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fazeva: cooo… cooo… signor giudice, mi son normale, son omo Bruta bestia, te me gà rovinà la galina - BASTAAA! - tock tock tock - ORDINE ORDINE, SILENZIO LA O FACCIO SGOMBRARE L’AULA! - Galo capio? El se gà fato la morosa sto cretino.. la me galina! - tock tock tock- ORDINE ORDINE - Signor giudice, mi saria anche dispoto a rimediar, ghe daria na sistemasion.. - Ma i lo sentelo? I lo sentelo?! No là mia tute le legne al covert sto qua, ti te gà qualcosa che no va - E ti te gà tut che nol va - Mi no go morose col cul spelà sborà de tavanela! - SILENZIOOO - tock tock tock - APPUNTATOOO - tock tock - Boni fioi boni, vardè che se nden vanti cussì qua sucede qualcosa de brut - BASTA!! VISTA LA SITUAZIONE DISPONGO IL SEQUESTRO CAUTELATIVO DELLA CAUSA DEL CONTENDERE, APPUNTATO ESEGUA, IO INTANTO TELEFONO A MIA MOGLIE CHE PREPARI LA PENTOLA - Cossa?! La me galinaaa.. - No lè più tua, ormai lè diventada mia - BASTAAAA, FUORI DI QUAA - tock tock t-crock - APPUNTATOooooo.. - Ou fioi via via che sto qua el ne buta dentro tuti, ve gavevo dita che l’era pericoloso via via - La me galinaa..- No lè più tua!-
Hanno collaborato a questo numero Maurizio Poletto Creava già da giovane, con la maglia numero 7 sulle spalle, e si sa che un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia. E da lì vedi anche un uomo. Ha un unico neo: sullo zigomo, proprio sotto l’occhio destro.
—————————————— Guerrino Faggiani Rinasce nel maggio 2006 all’ospedale di Udine. Da lì in poi è blogger (www.iragazzidellapanchina.it/ gueriblog ), attore, ciclista.. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche davanti al computer. “Cosa? Tagliare?!? Piuttosto non sta neanche metterlo..”
—————————————— Giovanna Orefice Semplicementegiò. Astrologa, poetessa, pizzaiola, blogger (www.iragazzidellapanchina.it/gioblog), se non ci fosse bisognerebbe inventarla. Terrà su LdP una rubrica per cuori solitari. E il suo, come sarà nel 2010?
—————————————— Luca Marian Negli ultimi tempi la sua anima rock sta prendendo il sopravvento e, come le basette, può solo crescere. Suona la viola ma non la mena, ma menerebbe la violista che non "risuona" più con lui. Un chiasmo da X Factor.
—————————————— Antonella Gatti Bardelli Basta! Basta! Basta! così inizia il suo monologo di madre ne "La pankina". É attrice, ballerina, compagna, amica, un cuore grande così. E poi: I love shopping con Antonella.. Basta, e avanza.
—————————————— Pino Roveredo "Attenti alle rose" è il suo ultimo regalo letterario. Capriole in salita, Caracreatura: nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. Ha portato in turnèe la Compagnia Instabile a Napoli e Milano: eroico!
—————————————— Gigi Dal Bon Uno di quelli a cui i Ragazzi della Panchina devono tutto. Ramarro militante, ha scritto un libro, Karica vitale, che è il ritratto di una generazione. Chi entra in sede chiede: C’è Gigi? e Gigi c’è, sempre.
—————————————— Ada Moznich Dichiara di essere uscita dal tunnel di Beautiful e che anche Cannavaro tutto sommato non è più quello di una volta. Le resta Clooney. Lei è tranquilla, la Canalis è una copertura. Coperto da lei, mi sa che è tranquillo anche lui.
—————————————— Andrea Picco Su Fb alla voce orientamento religioso ha scritto integralista juventino. Gli è bastato un terzo del campionato per capire che per smentire Mourinho e il suo “Zero tituli”non gli restava altra scelta che laurearsi. (finalmente)
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani
—————————————— Milena Bidinost Premessa: il direttore non si discute, si ama. Mai si sarebbe immaginata nella vita di finire a Napoli coi RdP e forse un giorno scriverà, di quell’abbraccio totalizzante. Ma a noi preme di più un’altra vicenda: che fine ha fatto, il tappetino del bagno?!?
Redazione Andrea Picco, Ada Moznich, Franca Merlo, Gino Dain, Elisa Cozzarini, Liliana Citron, Antonella Gatti Bardelli, Gigi Dal Bon, Elena Caccamo, Luca Marian, Giovanna Orefice. Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto Impaginazione Ada Moznich
—————————————— Franca Merlo O Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia. ilcannocchiale.it
Stampa La Grafoteca Via Lino Zanussi 2 33170 Pordenone Le fotografie in questo numero, ove non specificato, sono di Roberto Gnesutta. Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo della Fondazione CRUP attraverso il Comune di Pordenone Si ringrazia la famiglia Guidolin per l'ospitalità offerta alla redazione.
Marta Bottos e Tiziana De Piero Pur di disegnare in esclusiva con il nostro giornale hanno rinunciato a un faraonico contratto con la Disney. La storia dei RdP a fumetti sta riscuotendo un grande successo. Sono pronte per il grande salto. www.nerogatto.it per credere!
—————————————— Elisa Cozzarini È riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. Insomma, Freelance Amstrong
—————————————— Liliana Citron È vegana, ma non pensate venga da pianeti sconosciuti con le orecchie tipo Yavanna. Semplicemente non mangia qualsiasi cosa provenga da un animale. Nobile causa, ma dire che il seitan è come il prosciutto crudo... Beata gioventù!
—————————————— Gino Dain Un medico un giorno gli ha detto: se continui cosi non duri più di sei mesi. Era il 1980. Da allora per scaramanzia non è cambiato di una virgola. É la dimostrazione vivente che la medicina non è una scienza esatta
Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Tel. 0434 363217 email: info@iragazzidellapanchina.it www.iragazzidellapanchina.it La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00
—————————————— Elena Caccamo La passione di Elly è rossa come il fuoco. La passione di Elly è leale come il rugby. La passione di Elly è al limite, la trincea dell'ambulatorio. In ogni campo sempre il massimo. E il massimalismo...
La redazione di Libertà di Parola augura a tutti Buone Feste -19-
guardabene c'E'sempre qualcunoche cercailtuo aiuto I ragazzi della panchina -20-