APPROFONDIMENTO
La fotografia
Libertá di Parola 4/2016 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
Sonorità reggae made in Pordenone Dai "Mellow Mood" ai "Catch a Fyah" ai "Wicked Dub Division" di Cristina Colautti La sua storia di musicista è cominciata a inizio anni ’90 a Pordenone, dove è nato e vive. Lui, Paolo Baldini, appartiene alla generazione del post Great Complotto ed oggi è un affermato musicista e produttore discografico. La sua carriera è intrinsecamente intrecciata con la storia della musica reggae locale
e nazionale. Nato nel 1975, Baldini ha iniziato a studiare musica in giovane età: calato il suo interesse per il rock, ha cominciato ad interessarsi alla black music e al reggae. «In quegli anni – racconta il primo reggae al quale mi avvicinai era quello pieno di misture, in cui si cantava soprattutto nelle lingue dialettali
Con la fotografia si immortala per raccontare, per ammirare, per far riflettere o per informare. E' un'arte, quella del fotografo, dalle mille sfaccettature e che in provincia di Pordenone esprime nomi la cui fama ha varcato i confini nazionali, come Pierpaolo Mittica e Elio Ciol, ma non solo. Un mondo che ruota attorno al Craf di Spilimbergo, ma non solo. Come nasce una fotografia d'autore? Lo abbiamo chiesto ai protagonisti. a pagina 9
e in cui l’italiano era, nel panorama internazionale, una lingua etnica». In Italia erano gli anni dei “Pitura Freska” e dei “99 Posse”; a Pordenone dei “Positive man”. Nel 2000 per Baldini iniziò l’avventura targata “B.R. Stylers” «la band – dice - con la quale ho condiviso gli inizi della mia carriera e con la quale realizzavamo un reggae orientato a gusti più inglesi, con sonorità minori, un approccio più street e meno caraibico, che si affermava e distingueva anche per un carattere meno conformista a livello scenografico». Proprio con i “B.R. Stylers” ed in seguito con gli “Africa Unite”, con i quali suonò dal 2003 al 2014, Baldini iniziò a sperimentarsi come produttore, una figura che nel reggae ha sempre avuto un ruolo decisivo perché è quella che riesce in qualche modo a diversificare il carattere di un progetto e condiziona a livello sonoro e organizzativo la nascita di un disco. «In questo ruolo – spiega il musicista - mi ci sono trovato per caso e ho messo in campo qualità che non sapevo di possedere». Produrre dischi impone una duplice sfida: da un lato il disco deve avere una contemporaneità soprattutto tecnica per fronteggiare il mercato, di contro deve avere un carattere diversificante, che Baldini riesce, come attraverso una sorta di visione, ad individuare. Da produttore, una professione rispetto alla quale la vera difficoltà è rappresentata dal riuscire ad «andare oltre alla logica del profitto, mantenendo la passione», Baldini incontra nel 2006 i “Mellow Mood”. «Quando la prima volta li ho sentiti suonare – continua a pagina 3
CODICE A S-BARRE
Succede di notte. Pensieri dal carcere a pagina 4
INVIATI NEL MONDO
«Un anno di servizio civile in Brasile, paese dei grandi contrasti» a pagina 13
IL RICORDO
Ciao “zio” Franco, storico Ragazzo della Panchina a pagina 14
PANKA NEWS
Il 2017 sarà l'anno della nuova sede in via Fiume. Fine di un'attesa durata sei anni a pagina 15
NON SOLO SPORT
Skatepark di Villanova, regno della Bmx e delle discipline freestyle a pagina 17
IL TEMA
IL FENOMENO REGGAE "MELLOW MOOD" Sono cinque, sono di Pordenone e in dieci anni hanno conquistato la scena musicale italiana e internazionale di Irene Vendrame Si sono distinti sulla scena reggae italiana ed internazionale, hanno pubblicato quattro album, l’ultimo dei quali, “2 the World”, nel 2015 e attualmente sono impegnati in una tournée di date italiane ed europee. Sono i Mellow Mood, gruppo nato a Pordenone nel 2005 e formato da Jacopo e Lorenzo Garzia (voce e chitarra), Giulio Frausin (basso, voce), Filippo Buresta (tastiere) e Antonio Cicci (batteria), tutti trentenni e originari della provincia. Undici anni di successi, un bilancio? Jacopo: «Siamo stati fortunati perché il nostro percorso è stato sempre in salita, abbiamo conseguito obbiettivi sempre più importanti e ciò è stato possibile soprattutto grazie al sostegno delle nostre famiglie». Lorenzo: «Un'altra fortuna è stata quella di provare nella sala musica del Progetto Giovani di San Vito al Tagliamento, che ci ha accolti,
ed è importante sottolinearlo perché spesso queste strutture chiudono ed è un peccato. Per quanto riguarda la nostra crescita come band chi ci ha aiutato di più è stato Paolo Baldini che ha creduto in noi ed è entrato nel nostro progetto» Giulio: «La nostra sfida è stata quella di dover scoprire tutto questo nuovo mondo da neofiti, cioè capire da soli come funziona un contratto, una licenza, un’esclusiva. Ci sono
La voce donna del reggae Michela Grena, cantante e autrice dei “Wicked Dub Division”, si racconta di Milena Bidinost Michela Grena canta da che era bambina e da vent'anni nel reggae ha trovato la sua espressione più completa. Il colpo di fulmine è arrivato nel 1998 quando divenne la voce dei “B.R. Stylers”, gruppo pordenonese scioltosi nel 2011, con cui ha pubblicato quattro dischi e calcato palchi in Italia ed Europa. Dal 2014 è la cantante dei “Wicked Dub Division”, quartetto friulano al suo secondo album auto prodotto. Dopo “Dub Drops” uscito nel 2015, a maggio è stata la volta di “Red”. Grena divide le sue giornate tra l'insegnamento della musica al Cem
di Pordenone e la musica che scrive e canta sul palco con i “Wicked Dub Division” e per diversi progetti musicali e serate. «Ho sempre ascoltato musica – dice di sé Grena – ma la svolta è arrivata quando ho iniziato a studiare canto e ho conosciuto il soul e il jazz. Nel reggae le melodie hanno molto del soul e in particolare mi appassiona la ritmica». E' cantante, autrice e una delle poche donne che si sono distinte nel mondo raggae. «Ho fatto parte per anni di gruppi che suonavano cover – racconta - ma mi è sempre piaciuto, assieme a
molte cose da sapere in ambito organizzativo in questo mestiere: abbiamo avuto il sostegno della Tempesta, ma non abbiamo mai avuto manager» All'interno del gruppo quali sono i vostri ruoli? J: «Io, Lorenzo e Giulio ci occupiamo della parte organizzativa come le date dei concerti, dell'uscita degli album. Filippo invece si occupa delle grafiche e del sito. Questi ruoli loro, lavorare in modo creativo, facendo nostre le canzoni. Con i “Wicked Dub Division” i brani sono inediti scritti da me e dal gruppo. Inizialmente mi bastava scrivere testi positivi sull’amore, sulla musica, sulla natura. Nel tempo – dice - è cresciuta la mia coscienza sociale e oggi i miei testi sono di denuncia su temi di attualità. Mi lascio ispirare dai fatti di cronaca». E' iniziato con il brano “How many women”. «Ad una serata in cui cantavo – ricorda – mi ha colpito un imprenditore arabo che aveva vietato agli uomini che erano con lui di rivolgere la parola alla sua donna: mi sono messa nei panni di lei e delle tante
non ce li siamo dati a tavolino, ma ognuno fa secondo le sue capacità» Qual è stata la collaborazione più importante? J: «Le collaborazioni più significative sono state quelle fatte in Giamaica: un progetto che si chiama “Dub Files” con Paolo Baldini, la registrazione di un video e audio in uno yard, il giardinetto della casa di un nostro amico in Giamaica, con una marea di cantanti, molti dei quali sconosciuti» Come nascono le vostre canzoni? L: «Fino ad ora le abbiamo scritte noi tre insieme. Ci facciamo ispirare dalla vita che viviamo. Il reggae ha i suoi crismi e tocca molti temi, ma la sua particolarità è il modo in cui li affronta, con il linguaggio di una piccola isola. Di solito io scrivo prima la melodia e poi il testo, prendo la chitarra e ne esce qualcosa. Per arrivare alla canzone completa può volerci anche molto tempo; ho notato anche che, mentre all’inizio il comporre era più un flusso di emozioni tradotte in testo in modo quasi istintuale, ora mescoliamo all’ispirazione anche un ragionamento sul contenuto, sul suono e sullo stile che la canzone dovrebbe avere alla fine». J: «Tutto ciò che abbiamo sperimentato di nuovo, non è stadonne maltrattare e violentate di cui si sente raccontare ogni giorno anche in Italia». Anche il suo “no” alle guerre nasce da esperienze dirette. «In generale – dice – cer-
to un’esigenza di mercato, per seguire il pubblico, ma per metterci alla prova, dato che ci piacciono tutte le sfumature di reggae». L: «E' vero, anche perché mantenere un pubblico dipende dalla musica che fai, ma soprattutto dal rapporto che instauri con i tuoi fan». Com'è cambiato in questi anni il vostro pubblico? G: «Quello attuale è molto giovane e interessato. Rispetto a quando andavo io ai concerti, è un po’ più giovane, ragazzi intorno ai 18 anni, ma cambia da paese a paese. In America avevano la nostra età, in Portogallo erano molto giovani, ad esempio». Consigli per i giovani musicisti? J: «Consiglierei di seguire la passione, ognuno di noi ha un talento; il problema oggi è capire qual è, i giovani sono ancora più confusi di quanto lo eravamo noi» L: «Gran parte dei giovani di oggi faticano a riconoscere le loro passioni perché trascorrono il loro tempo libero al bar. Invece è importante sperimentare, per diventare consapevoli delle proprie passioni e capacità». G: «Per ottenere un certo tipo di risultati creativi e organizzativi non bisogna fermarsi mai, noi lavoriamo molte ore al giorno». co il confronto concreto con l’altro, perché i miei pensieri non diventino scontati. Grazie al web e ai social scopro storie piccole, nascoste, che arricchiscono me e i miei testi. Come quando conobbi il gruppo “Gaza Parcure” della striscia di Gaza, con cui finimmo per organizzare un evento a Conegliano; piuttosto che i “White elmets” della Siria da cui nacque una canzone». Per Grena il fatto di essere donna in un ambiente prevalentemente maschile non è stato un ostacolo. «Anzi – riflette – mi ha fatto sentire più apprezzata. Del resto ho sempre collaborato con belle persone». Nel futuro dei “Wicked Dub Division” c'è un terzo album, in lavorazione, e l'obiettivo di varcare i confini nazionali. «In Italia – conclude Grena – la scena musicale reggae è un po' stanca, i locali pochi, i centri sociali chiudono e i giovani sempre più pigri. Faticano a spostarsi per i concerti, salvo poi lamentarsi che in giro non c'è niente».
I “Catch a Fyah”, da cinque anni sulla scena reggae pordenonese Per la prima volta quest'anno il gruppo ha varcato i confini regionali come band di apertura del tour dei "Mellow Mood" di Irene Vendrame I “Catch a Fyah” si sono affacciati sulla scena reggae pordenonese nel 2010. Hanno concluso la loro prima esperienza fuori dai confini regionali quest’estate e in questi mesi hanno accompagnato i Mellow Mood nelle loro date italiane, in qualità di band d’apertura. Il gruppo ha cambiato diversi elementi durante gli anni ed è attualmente formato da Paolo Petrillo (voce e chitarra), Federico Gava (tastiere), Tommaso Gieri (batteria), in arte Pol, , Alberto Mazzer (basso) e Matteo Da Ros (chitarra): arrivano tutti da esperienze musicali diverse, ma hanno trovato nel reggae il loro denominatore comune. A febbraio di quest’anno è uscito il loro primo album “Shine”, prodotto da Paolo Baldini, che in collaborazione con i Mellow Mood ha dato la possibilità alla band di crescere ed evolversi. A scrivere i testi delle loro canzoni è invece Paolo Petrillo, ispirato dai propri sentimenti e dal proprio vissuto. «“Shine” - racconta - è nato dai brani composti in questi cinque anni , scartando in studio quelli appartenenti alla fase più giovanile del gruppo. Non avendo mai deciso in particolare su cosa scrivere, ne sono usciti numerosi testi che trattano d'amore, quindi per me questo è un disco d’amore, una fotografia di ciò che stavo vivendo. La canzone che mi piace di più è “You have gone”, percontinua dalla prima pagina
racconta - sono rimasto folgorato di fronte a quel talento cristallino». In seguito conobbe i “Catch a Fyah”, «che hanno fatto un disco bellissimo». Questi gruppi rappresentano oggi i maggiori esponenti della scena reagge locale e nazionale. I “Mellow Mood”, in particolare, stanno conquistando anche fama all'estero. «L’Italia – spiega Baldini - sta vivendo un buon momento
ché è quella più empatica». Secondo Petrillo sono proprio l’empatia, il rapporto con il pubblico, il messaggio del testo e soprattutto la spontaneità che contraddistinguono questo genere. Per Pol invece a caratterizzarla è l’effetto curativo, la capacità di far stare bene. «Nessun genere musicale mi ha dato quello che mi da il reggae a livello di vibrazioni e di sentimento», afferma. Il pubblico dei “Catch a Fyah” è giovane, tra i 15 e i 25 anni. «C’è un gruppo di fedelissimi che ci segue dall’inizio – spiega Petrillo -, un po’ di fan invece li abbiamo persi cambiando formazione. Il pubblico è in continua evoluzione e dipende anche dal contesto socio-culturale». «Io ho notato - aggiunge Pol che prima che uscisse il disco
le persone venivano al nostro concerto più per l’evento in generale che per noi, invece ora buona parte del pubblico ci ha già ascoltati e ci segue proprio per la nostra musica». Questi ragazzi considerano la loro passione alla stregua di un lavoro. «Ho scelto questo e voglio fare questo – dice Petrillo - , lo vivo come un lavoro considerato il tempo e l’impegno che ci dedico». Ai ragazzi che, come loro, vogliono seguire la strada della musica consiglia di «avere un sacco di pazienza soprattutto ogni volta che sembra ci sia un problema insormontabile, anche tra i componenti del gruppo, perché alla fine si può risolvere». Le regole d'oro per Petrillo sono quindi queste: «Perseverare, crederci e investire il proprio tempo».
perché la qualità del reggae è altissima. Rispetto agli anni ’90 però si sta perdendo una matrice etnica». Tra i progetti futuri di Baldini c'è un nuovo disco dei “Mellow Mood” e alcuni lavori con la Tempesta Dub. Quanto al futuro della sua città, dice: «In una Pordenone che è sempre stata in qualche modo connotata dal rock, con una pesante memoria legata al rock punk indipendente, è interessante che si siano generate spontanea-
mente delle energie artistiche indipendenti e sono felice di averne fatto parte e di aver contribuito a questo sviluppo. Poiché Pordenone sta diventando tendenzialmente multietnica spero che questo aiuti la musica o che, viceversa, la musica aiuti queste persone a costruire il tessuto sociale. Mi auguro che anche le istituzioni possano appoggiare questo progresso, che non è solamente musicale, ma soprattutto sociale».
Prosegue il lavoro della redazione del nostro giornale nata all'interno della Casa circondariale di Pordenone. “Codice a s-barre” è uno spazio interamente gestito dai suoi detenuti.
Il mio sogno di una giustizia che riabilita zione ai sentimenti. Sentimenti come odio e rancore non dovrebbero esistere e sopra ogni cosa dovrebbe prevalere il perdono, che, in questo senso, è il primo atto di giustizia. Il perdono aiuta vittima e reo ad andare avanti. Non si può, infatti, insegnare a non ammazzare condannando a morte chi lo fa, realizzando quindi quello che si vuole dissuadere dal fare. La giustizia non deve solo far paura e lo Stato dovrebbe investire di più sul recupero. Pertanto nel mio sogno immagino prigioni senza sbarre, dove i detenuti sono liberi di muoversi e dove vengono seguiti da dei professionisti che accompa-
gnano il carcerato nella sua giornata lavorativa e diventano così delle vere e proprie figure di riferimento, importanti per un perfetto reinserimento in società. Questo significherebbe anche rendere la pena sempre più rapportata al reato, che sia piantare alberi nel caso di reati ambientali, lavorare accudendo animali per una violenza sugli stessi. Oppure, come in un caso recentissimo in cui ad un uomo, colpevole di detenzione di materiale pornografico, constatato il pentimento, gli è stata sospesa la pena in cambio di una donazione ad un’associazione di sostegno e assistenza all’infanzia. Una modalità come questa, in cui il reo è messo di fronte al proprio reato, probabilmente riabilita davvero perché connette chi ha l'ha commesso con le sue conseguenze, invece di lasciare che la pena sia percepita in modo astratto. Una giustizia più vicina a tutti i cittadini ed anche a chi ha sbagliato, questo è il mio sogno.
gozi davo una mano in piccoli lavori e venivo pagato con del cibo. Per dormire mi arrangiavo: provai con la stazione, ma da quel luogo mi mandavano via dicendomi che non si poteva stare; con il pronto soccorso, dove mi addormentavo sulle sedie della sala d’aspetto, ma anche lì mi invitavano ad uscire e le persone a volte mi guardavano con sospetto. Diverse volte passai la notte su una panchina tra i cespugli, sopra la quale mi raggomitolavo su me stesso e rimanevo in dormiveglia. Ad ogni rumore che sentivo mi alzavo per controllare che fosse. Un giorno, mentre giravo per Udine, sentendo che ero infreddolito e bagnato dalla pioggia,
mi misi addirittura a dormire sotto ad un camion, vicino al motore, il posto più caldo. In quella città ho conosciuto un altro ragazzo che viveva per strada e che mi ha portato in un dormitorio dove finalmente trovai vestiti puliti, mangiare, doccia calda e brava gente che mi ha aiutato. Durante la mia vita da barbone, soprattutto ai primi tempi, mi sono sentito umiliato per come ero caduto in basso e provavo molta vergogna; avevo paura, e pensavo a quello che mi aspettava trovandomi da solo in una città che non conoscevo. Spesso non conoscevo le strade e così viaggiavo alla cieca ed ero malfidente verso tutti, soprattutto la notte.
«Non basta punire, serve insegnare a riconoscere i sentimenti. Il cancere non è la sola soluzione.» di Ubaldo Di notte, l’appuntamento imperdibile è quello con i nostri sogni. È con il buio che si mette in marcia la nostra mente, il nostro inconscio. Buio, inchiostro e silenzio: questi sono gli elementi magici che contribuiscono a regalarci emozioni oppure, alle volte, ansia. Quasi sempre ricordiamo ben poco di quanto sogniamo, ma quello che è certo è che i sogni fanno parte della vita, del nostro modo di essere. Ognuno di noi porta con sé sogni più o meno realizzabili, che alle volte riflettono la realtà in cui viviamo. C’era un uomo, parecchi anni fa, che aveva un sogno ambizioso, difficilmente realizzabile per
quei tempi, forse perché portava in sé un cambiamento epocale, che rappresentava un’evoluzione nel modo di convivere e per questo da alcuni difficilmente accettabile. Quest’uomo era Martin Luther King. Anch’io ho un sogno: mi piacerebbe non bastasse minacciare con una pena per persuadere una persona a non commettere un reato, che il carcere non fosse l’unica soluzione per arginare il male. È più difficile educare che punire; ma se il reo non viene davvero educato, la condotta di quel soggetto, per quanti anni di galera possa fare, non cambierà. Il grande problema è l’educa-
La vita di un vagabondo Perdere tutto e chiedersi come si continuerà a mangiare e dove si andrà a dormire di Piero Per me ha un grande valore la vita del vagabondo perché ho vissuto un’esperienza di questo tipo in prima persona. I miei primi quarant’anni li ho trascorsi bene: vivevo in famiglia e non avevo tanti problemi. In quel tempo quando vedevo i barboni per strada mi facevano pena e dicevo che io non sarei mai finito a fare quel tipo di vita. Purtroppo però successe: caddi in disgrazia, persi la casa e mi ritrovai in strada. Ero spaventato. Ricordo che mi sedetti su una panchina e iniziai a chiedermi «Ora che faccio, dove dormo, dove mangio, dove mi lavo?». Poi mi rimboccai le maniche, pensando che comunque dovevo andare avanti, sopravvivere e ar-
rangiarmi e mi avviai verso una chiesa, dove spiegai al cappellano la mia situazione. Quest’uomo mi disse: «Figliolo capisco la tua situazione, ma posso solo darti un piatto di pasta». Lo ringraziai e me ne andai in un'altra chiesa. Lì incontrai un ragazzo, nella mia stessa situazione, che mi spiegò come racimolare un po’ di soldi. «Fai come me – mi disse - ti siedi fuori dalla chiesa e quando escono le persone allunga la mano, loro capiscono e ti danno qualcosa». Così feci e quel giorno riusci ad avere i soldi per comprarmi da mangiare. Da quel giorno continuai a girovagare per negozi per chiedere cibo e qualcuno si offriva di darmi qualcosa; in alcuni ne-
Di notte il carcere fa ancora più male Le mie notti più belle «Sono quelle che ho trascorso con i miei amici» di Simone G. Fino a qualche tempo fa uscivo la sera con un gruppo di ragazzi, tutti miei coetanei e del mio paese. Ci davamo appuntamento in una piazza del centro per decidere di volta in volta come passare la serata. La compagnia era composta da una decina di ragazzi e ragazze e solo tre di noi avevano la possibilità di usare l’auto. Una volta al mese andavamo a giocare a bowling e quando eravamo lì, prima di giocare, mangiavamo una pizza e bevevamo qualcosa. Ci dividevamo poi in due squadre e ci sfidavamo a chi faceva più punti. In una di quelle sere abbiamo festeggiato il compleanno del mio migliore amico e per la prima volta ha vinto la sfida la squadra di cui facevo parte anche io. In quell’occasione, dopo il bowling, siamo andati a continuare i festeggiamenti in un discobar della zona e ci siamo divertiti più del solito; ho avuto anche occasione di conoscere nuove persone e per questo è sicuramente stata una delle serate migliori che ho passato con i miei amici.
Anche in estate, con lo stesso gruppo di ragazzi, ci incontravamo ogni venerdì sera per andare a mangiare in un locale con giardino, che nella bella stagione si trasforma in una discoteca all’aperto, dove venivano a suonare diversi dj anche famosi. Noi stavamo lì a bere e ballare spesso fino a tarda notte, a volte capitava di esagerare e, quindi, di restare, dopo la chiusura del locale, seduti fuori a smaltire. A me piace davvero tanto la musica, in particolare il rock metal (sono andato, infatti, anche a vedere il concerto dei Metallica a Villa Manin, una serata stupenda) ma, mi piace altrettanto ballare in compagnia, soprattutto la musica da discoteca e la musica house. Le notti migliori per me, quindi, sono quelle passate divertendosi il più possibile, magari in buona compagnia. Queste esperienze mi hanno fatto ricordare le notti dei fine settimana, belle occasioni per poter stare con i miei amici, che per me erano come una famiglia, e potermi divertire con loro.
Animale notturno «Con il buio comincio a vivere, perché mi sento libero» di Ermias La notte ha sempre attratto l’uomo fin dall’alba dei tempi per la sua bellezza. Di notte il mondo sembra proprio un altro pianeta e prende nuova vita. Il cielo si cosparge di stelle lucenti che brillano e formano addirittura dei disegni, la luna sembra un occhio semichiuso e, quando diventa piena, assomiglia ad un occhio spalancato, con
una luce bianca e attraente, che vigila il suo cielo. Chi, infatti, non ha mai guardato la luna? Io credo che non ci sia essere vivente che non si sia fermato ad osservarla. La notte molte persone la utilizzano per riposare dopo che hanno passato un’intera giornata a lavoro, ma ci sono anche persone che godono la notte, perché ha un’aria di libertà
«Nel silenzio il dolore rimbomba. Fermatevi in tempo e non correrete pericoli» di Simone F. E’ notte buia, sto tentando di rimpiazzare questa mia tristezza con un po’ di senso di coraggio, ma non ci sto riuscendo molto. Forse sarà la sgradevole vista che mi circonda; cercherò di descriverla. Sono sulla mia branda al secondo piano, è notte fonda e tutto tace, passa ogni tanto un’aria fredda e grigia che mi fa venire i brividi costringendomi a coprirmi di più, ogni tanto sento voci di tosse provenienti dalle altre celle che passano per i corridoi come fantasmi in cerca di pace, arrivano a me con una forte eco che a volte mi spaventa. Provo disprezzo e malinconia per questa prigione che di notte sembra un cimitero, ogni tanto sento il russare degli altri detenuti che quasi sembra un respiro di rabbia, che grida aiuto e volontà di tornare a casa. Tutto ciò mi spaventa e mi fa capire quanto l’uomo possa essere debole. Di notte le cose sono molto amplificate, il dolore che mi colpisce è più forte che mai, desidero tornare al calduccio a casa mia e molto spesso spero che gli alieni mi rapiscano e mi portino a casa. Vorrei spendere qualche parola per ricordare alle persone che chi sa fermarsi in tempo non corre mai pericoli, lo voglio ricordare perché qualcuno pos-
sa apprenderlo senza dover provare sulla propria pelle il carcere. Non augurerei mai a nessuno ciò che sto passando io, perché questa esperienza ti segna la vita e ti cambia dentro e per sempre e perché qui la vita si ferma. In carcere vivi come una mosca in un bicchiere capovolto, che pian piano ti toglie l’aria e la vista si oscura dimenticando l’esterno. Inoltre, per finire qui significa che non ti sei fermato quando avresti dovuto, quindi hai rischiato pericoli che non dovevi. La maggior parte delle persone è in questo carcere perché ha tentato, oppure è riuscita, a guadagnare soldi in un modo alternativo, diciamo pure non consentito. Ciò mi fa pensare a quanto si possa essere legati a dei pezzi di carta, al lusso ed al senso di forza, tutte cose che adesso mi schifano e quasi mi fan venire il voltastomaco. Oggi posso dire che ho imparato ad apprezzare cose che prima avevo e davo per scontato, soprattutto il tempo, l’amore e ovviamente la libertà. Queste tre cose fondamentali vanno godute, rispettate e mai messe a rischio, perché non esiste somma di denaro o gioiello che possano farti provare le stesse sensazioni che donano l’amore e la libertà. Viviamo per amare.
assoluta dove uno può fare qualsiasi cosa voglia. La notte ha un certo effetto anche sugli animali, infatti, appena cala il sole, tutti gli insetti e animali notturni escono a godersela, c’è chi va a caccia di prede per mangiare, chi si accoppia e chi invece se la gode per la sua bellezza. Gli animali sono all’incirca come noi, ed è affascinante che non appena cala il sole tutto un altro mondo prende vita, bellissimo da vedere. Nessuno capirà mai il mistero che la notte si porta dentro. Per me è il momento della baldoria perché mi sento un animale notturno, dormo di giorno e mi vivo la notte. La “utilizzavo” spesso per andare a rave o a feste, ogni tanto
andavo a campeggiare sulla spiaggia con gli amici per divertirmi con loro. Ricordo anche delle notti a pesca con gli amici, quando, tornando la mattina con un quantitativo di pesci maggiore di quello dei pescatori professionisti suscitavamo l’invidia di tutti e ci dicevamo convinti che la che la notte era stata dalla nostra parte. Io mi godo la notte per l’aria di libertà che mi dona col suo clima selvaggio con cui si presenta; è un momento di risveglio perché mi sento avvolto da una grande energia e ho voglia di fare tante cose nello stesso momento, anche se non è sempre possibile, ma ci provo. La notte per me va vissuta e non ignorata.
La mia notte da "motorizzato" al Mokambo di Lignano La terrazza del Kursaal è accessibile alle carrozzine di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon Ero in vacanza a Bibione e come ogni anno cercavo di inventarmi qualcosa di nuovo, passeggiate sul lungo mare, illegali briscolate in spiaggia, “talent scout” ai tornei di beach, serate in centro o movida alla scoperta dei
locali della zona. Quest'anno però, volevo uscire dai confini, per provare l'ebbrezza di una serata nella affollata Lignano estiva. Da mio fratello e amici avevo già sentito parlare dell'aperitivo in spiaggia più famoso di Lignano, il Mo-
kambo. Per curiosità quindi, una domenica sera ho voluto provare ad andarci. Le perplessità riguardavano il fatto che con la carrozzina non pensavo di potermi muovere bene in spiaggia e da come sembrava, la terrazza del Kursaal non era accessibile per qualcuno “motorizzato” come me. Se si aspetta però che le cose accadano da sole o ci si ferma ai problemi del sentito dire, spesso non si combina niente. Essendo la mia filosofia “volere è potere”, mi sono informato direttamente al Kursaal sulle dinamiche della serata: orari, luoghi, accessibilità. Ho scoperto quindi che esiste addirittura un montacarichi, perfetto per accedere direttamente alla terrazza. Direte che è scontato, ma per esperienza personale, vi dico che non lo è per niente e un piccolo accorgimento così può permettere a tutti, inclusi i “motorizzati”, di partecipare al divertimento! Detto fatto, con Andrea organizziamo la serata. Ricognizione del luogo alle 20, dove troviamo un buttafuori che ci spiega come negli anni il Mokambo sia cambiato e nonostante facebook e i flyer recitino dalle 21 alle 4 del mattino, ci consiglia di non presentarci prima della mezzanotte.
Alla ricerca del mio "io" migliore «Pensavo sempre a lei e stavo male. Alla Panka mi hanno aiutato a ritrovare la parte sana di me» di Alessandro Il mio malessere è cominciato a maggio, come se su di me si fosse teso un nero velo. Non capivo, non vedevo e attribuivo il tutto al fatto che, nonostante più di un anno di comunità, ancora non riuscivo a percepire in me la parte sana, quell’Alessandro tanto atteso, tanto voluto. Vedevo solo l’Ale tossico, bugiardo, manipolatore e ammaliatore, quello solo, che degli altri non se n’è mai fatto nulla. La realtà è che pensavo a lei: Stefania. Sentivo un dolore sconosciuto, ma forte. Volevo sapere di lei e starle vicino. Dopo un anno di continui rimandi, la responsabile della comunità mi disse che non l’avrei sentita. Era luglio ed il fato fece arrivare in comunità Giulia. Ci capimmo subito e ci piacemmo, ma dopo poco mi accorsi che nelle sue attenzioni ricerca-
vo quelle di Stefania. La vidi infantile, diversa da ciò che desideravo, ma ormai, insieme, avevamo trasgredito ad una regola della comunità: il giorno dopo fummo “cazziati” e ce ne andammo. Io andai a Padova, ma mi trovai a disagio, non era più come me la ricordavo, fu come un sogno che si spezza. Vendendo metà dei miei vestiti, trovai subito metadone e coca. La notte andai in stazione e mentre dormivoriuscirono a derubarmi e la mattina, senza
più nulla, andai alla mensa dove ero stato la sera prima. Questa volta però ero distrutto sia nel corpo, che emotivamente; avevo abbandonato l’ultima mia chance e la sconfitta era scritta nel mio volto. Ero sporco dappertutto di sangue. Un volontario si preoccupò e chiamò la comunità. Io invece me ne andai. Decisi di tornare a Pordenone. Arrivai alla Panka e, dopo avermi chiesto cosa fosse successo, mi fecero fare una doccia e mi diedero un cambio: quella sera stetti nuovamente per strada, solo con i
Bene, quindi giretto al Tenda e passeggiata, giusto per constatare quanto sia scomoda Lignano per chi gira in carrozzina. A mezzanotte ci avviamo a destinazione e, grazie al montacarichi, sbarchiamo al Mokambo. Sarà perchè è l'inizio della stagione, ma non c'è il pienone che ci aspettavamo. Ci sentiamo dei vecchietti vista l'età media e, da veri “esperti”, ci prendiamo un malibù-cola e aspettiamo che il tutto si movimenti osservando divertiti i ragazzini magari alle prime uscite, le maglie scollate e i capelli “ingellati”. Pian piano la serata si anima e apprezziamo soprattutto dei ragazzi, che notandoci come ospiti inusuali, ci avvicinano e cercano di metterci a nostro agio offrendoci da bere o da fumare. Decliniamo l'offerta ma li ringraziamo e sorridiamo davanti alla loro spensieratezza. Fra due chiacchiere e vari giri della terrazza, a modo nostro ci divertiamo e commentiamo sottovoce un po' attoniti e un po' divertiti la situazione. Resta il ricordo di una bella serata e ci portiamo a casa pure il saluto del vocalist che, grazie ai ragazzini ormai nostri amici, ci saluta con il classico “Un saluto a bomber Alain”. miei pensieri. Il giorno dopo mi misi subito a cercare Stefy e scoprii che, oltre ad aver abbandonato la comunità, le era morto il fratello, che era uno dei miei migliori amici. Ricordo ancora le partite a pallone, i sorrisi e le birre bevute sperando in un futuro migliore e ora, pure lui, se ne era andato; anche se non eravamo più legati gli volevo bene. Parlai con lei tutti i giorni fino al mio rientro in comunità. Quelle giornate passarono tra il Sert, gli incontri con Marialuisa e la sede, dove potevo stare al sicuro. Feci capire che pur di rientrare avrei rifiutato tutte le droghe nonostante il male enorme che sentivo. Alla Panka fui ascoltato, capito, ma anche “bastonato”. Se non ci fossero stati loro ora, probabilmente, sarei per strada o, peggio, non ci sarei più. Mi accompagnarono loro in comunità e al colloquio preliminare spiegai all’educatrice che ero motivato, che sarei cambiato e soprattutto che avevo visto l’Ale nuovo, quello sano, quello senza droghe, in particolare grazie al lavoro fatto in comunità. Così, pochi giorni dopo, rientrai. Ora voglio dire grazie a tutti coloro che hanno creduto in me.
“L'urlo” di una solitudine più che mai attuale Il dipinto di Munch fu realizzato nel 1893, ma il suo messaggio non ha tempo di Antonio Zani La grandezza di un pittore si misura in base a ciò che di nuovo riesce ad esprimere con i suoi pennelli andando oltre ai suoi contemporanei ed aprendo così nuove strade di ricerca su quest'arte. Ma oltre a ciò, quando un pittore è all'avanguardia riesce a smuovere tramite le sue opere anche le coscienze, toccando in profondità le tematiche del suo tempo, dando, tramite il colore, voce ai malesseri della quotidianità. Su questo, Edvard Munch, si può definire senza ombra di dubbio un grande maestro, un caposaldo delle emozioni traslate in pittura. Munch, norvegese, nacque artisticamente come naturalista prima, impressionista poi (fu un estimatore tra gli altri di Manet e Gauguin),
per poi divenire un grande esponente dell'espressionismo che portò al limite diventando, per così dire, il padre dell'espressionismo nordico, il quale a sua volta generò il sintetismo norvegese. La pittura di Munch fu influenzata sostanzialmente dalle tante, troppe tragedie familiari che lo colpirono già in età adolescenziale e dall'aver vissuto quegli anni in uno stato praticamente frugale e povero, sia economicamente che affettivamente. Il pittore impresse sulle sue tele tutti i suoi malesseri esistenziali, tra le più note ricordiamo "Malinconia" e "La morte nella stanza della malata". Ma il suo massimo, l'apice della sua genialità lo raggiunse dipingendo nel 1893 "L urlo", opera divenu-
toapoi l'icona inconfondibile che noi tutti conosciamo. Proprio su "L'urlo" vorrei focalizzare l'attenzione. Questa tela, che raffigura il grido sordo di un uomo solo con la sua solitudine interiore che risulta indifferente ai due uomini raffigurati ai bordi sotto un cielo trasfigurato, sta ad indicare il malessere interiore dell'autore, ma al tempo stesso l'angoscia umana e la falsità dei rapporti umani. L'opera porta alla luce la quotidianità del suo tempo dove tutti sono soli con se stessi. Ma siamo sicuri che rappresenti solamente un'epoca, ovvero quel fine Ottocento in cui la tela fu dipinta? Questo è il quesito fondamentale che balza all'occhio di chi riflette su questo dipinto e da questa riflessione
emerge il perché "L'urlo" sia tuttora di un attualità impressionante. A distanza di oltre cent'anni dalla realizzazione di questo quadro, guardiamoci bene attorno e capiremo che ogni giorno e in ogni luogo possiamo intravvedere in mezzo a noi un infinità di "urli sordi". Quanta gente soffre tra l'indifferenza generale pure ai giorni nostri? Un infinità, direi. C'è chi ha perso gli affetti famigliari, chi il lavoro e chi più ne ha più ne metta. Ecco la grandezza di quest'opera: la sua immensa attualità dopo oltre un secolo, dal giorno cioè in cui l'artista la partorì e la impresse su tela con quei colori forti, decisi e rudi quasi a sottolineare la tensione estrema dei propri sentimenti. C'è un'unica conclusione, ed è che il tempo scorre inesorabile, i cicli storici sono un ripetersi dei medesimi eventi e con gli stessi meccanismi semplicemente adattati ai tempi. Ma, soprattutto, notiamo che "l'uomo" non ha ancora imparato la vera socializzazione e il vero spirito di mutuo soccorso, di quel aiutarci l'un l'altro senza guardare al mero interesse personale. Ognuno di noi è un "urlo" nel bel mezzo di una moltitudine di altri "urli", ognuno con la propria solitudine e con il proprio "male di vivere".
La mia esperienza epistolare «Ho imparato a comunicare con il mondo per iscritto in carcere e in comunità: oggi quelle lettere trattengono i miei ricordi» di Andrea S. Arrivato ai miei cinquant’anni, di esperienze ne ho vissute tante. Non ho più molti dei miei ricordi però ho le mie lettere ognuna delle quali, solo prendendole in mano, fanno pensare a tante sensazioni belle e brutte, ricordi che non potrei mai scordare. Gli anni epistolari risalgono al periodo del carcere e della comunità dove mi hanno incoraggiato a non scappare dalle situazioni nonostante i momenti di fragilità. Scrivere e non vedere direttamente la persona è una cosa strana, ma nel mio caso, è stata una delle poche possibilità per mantenere i contatti con il mio mondo e per sentirmi più libero. I contenuti spesso erano solo informativi e senza sentimenti, soprattutto nel periodo del carcere, ma era un
momento di libertà mettere la penna sul foglio, scaricare le tensioni e i pensieri. Scrivere non mi è sempre stato facile, all’inizio non ho mai scritto a nessuno, non volevo avere contatti, non mi sentivo molto competente nella scrittura e provavo rifiuto per la situazione. Pian piano mi sono sbloccato e ho iniziato a scrivermi con mia mamma, con la mia ex ragazza, con dei vecchi compagni di comunità e con il sacerdote responsabile della comunità dov’ero stato. Un sentimento che ricordo molto bene legato all’esperienza con le lettere è l’ansia dell’attesa nell’arrivo di uno scritto. L’impazienza, a volte positiva a volte negativa, mi ha accompagnato negli anni del carcere: disteso sul letto della mia cella, sentivo il rumore
dell’apertura di una busta o vedevo arrivare una guardia con della carta in mano e subito pensavo alla libertà e ai profumi familiari. Unita all’arrivo delle lettere in carcere c’era la situazione della mancata privacy di quegli ambienti dove i controlli delle corrispondenze erano all’ordine del giorno per verificare possibili coinvolgimenti pregiudicanti. Il significato emotivo della scrittura era connesso ai racconti di quello che vivevo e alle volte era allucinante provare quasi una sorta di depressione con la quale ero costretto a dover convivere. Molte volte mi sono chiesto se avrei preferito vedere in faccia le persone o se lo scrivere potesse aiutarmi nell’espressione dei pensieri. Per rispondermi avrei dovuto
valutare due aspetti: il contesto e la persona con la quale dovevo interagire in base alle reazioni che poteva avere. Il separé della scrittura, al posto del confronto diretto, è stato sicuramente più tutelante e mi ha aiutato a dire più apertamente e senza filtri quello che sentivo esprimendomi chiaramente, alle volte anche in modo un po’ eccessivo. L’essere nascosto dietro carta e penna faceva sì che il blocco alla vista della persona non ci fosse e i sentimenti visibili, scrivendo, erano messi da parte, oscurati dalla distanza; a quel punto non interessava quindi cosa scrivessi e quale fosse la reazione dell'altro. Oggi il valore delle mie lettere è questo, compagne nei momenti più difficili e ricordi forti impressi nella mente e nel cuore.
Quelle regole che mi salvano «In un attimo di follia lasciai la comunità e fu un grande sbaglio. Ecco perchè sono ritornato sui miei passi» di Mauro P. Frequento da dieci mesi una comunità e dopo un percorso di duro e intenso lavoro su me stesso è successo un “patatrac”, per mia fortuna non irreparabile. Un giorno come tanti mi è venuto il pallino di abbandonare la struttura, con le conseguenze che ne derivano. Una mattina, dopo la solita colazione, sono andato in ufficio dagli operatori con il pensiero di andarmene. La mia azione, chiaramente, era in disaccordo con tutti: dagli stessi operatori ai ragazzi con i quali condividevo il percorso comunitario. Ho comunque raccolto due “stracci” e mi sono avventurato verso l’esterno, non essendo consapevole di ciò a cui
andavo incontro. Era giovedì. Il venerdì mattina raggiunsi il Ser.T. per un appuntamento con il medico che mi segue da molti anni e mi conosce bene. Dopo avergli manifestato il mio malessere riguardo alla mia permanenza in comunità, sono riuscito ad ottenere un po’ di giorni a casa per pensare alla mia scelta. Devo ammetterlo, in quel periodo, ho trasgredito tutte le regole che avevo quando ero in comunità, dal ritornare nei luoghi che frequentavo quando ero fuori, al bere qualche spritz e alcune birre associate alle benziodiazepine, farmaci che oltre a farmi perdere la memoria, mi hanno fatto fare cose che forse
L'UOMO CON LA PISTOLA All'inaugurazione della mostra “Gli Amici Invasati di Giulio Nobile”, l'arte in diretta dello scenic artist Stefano Bernabei di Virginia Bettinelli A novembre alla “Caverna del Gufo”, win bar di Largo San Giovanni a Pordenone, si è tenuta la mostra “Gli Amici Invasati di Giulio Nobile”, organizzata da Bruno Bortolin e Loretta Venier. In occasione dell'inaugurazione, in una cornice che mi fa pensare ad una sorta di caffè letterario dove passano persone che lasciano di sé un pezzettino di anima e di passioni, Nobile ha illustrato la realizzazione delle opere. Ha utilizzato dei collage con pezzi di opere di artisti locali suoi amici. Con i collage ha rivestito vasi riciclati, lampade e cornici. Ho riconosciuto sulle loro superfici le opere di Gianni Pasotti, Davide Toffolo, Stefano Bernabei e Ugo Furlan, che sbirciava il pub-
blico dal suo autoritratto. Mi sono fatta un breve viaggio
da lucido non avrei fatto. Con il mio più caro amico sono caduto nella trappola di andare a Padova, dove era più facile trovare e assumere cocaina, sostanza per me molto pericolosa sotto tutti gli aspetti. Giorni dopo, resomi conto dello sbaglio fatto, ho deciso di ricontattare la comunità e, fortuna mia, ho avuto la possibilità di tornare in struttura. Con il senno del poi, ora che sono totalmente lucido, sono arrivato alla conclusione che il mio gesto è stato folle e totalmente a rischio, anche di vita, vista la mia precaria situazione fisica. Con mio grande piacere sono stato riaccolto con estremo affetto soprattutto dai
ragazzi. Quindi ho accettato tutte le conseguenze che un rientro necessita: niente telefono, niente uscite nemmeno per andare a lavorare, visite familiari bloccate e quindici giorni a disposizione per riflettere su quanto fatto e su quello che avrei voluto fare del mio futuro. Questi giorni mi sono serviti per capire che almeno per il momento questa struttura mi assicura un futuro sereno e soprattutto senza pericoli per la mia salute. Per concludere posso dare un consiglio a tutti quelli che hanno problemi di dipendenza: ragazzi prima di fare dei passi falsi pensateci e riflettete a quanto andate incontro.
appena al di là del mondo, con solo un vetro fra me e la notte, in quella nicchia espositiva. Ad essere sincera però, all'inaugurazione c'ero andata per vedere la performance di Stefano Bernabei, lo scenic artist che dipinge tele che vengono utilizzate in grandi produzioni cinematografiche e che avevo conosciuto alla scuola d’arte. Lui in seguito ha frequentato l’Accademia di Venezia ed ha seguito il suo percorso che lo ha portato anche a collaborare con il cinema. Ha lavorato con premi Oscar come Tornatore e Sor rentino: alcune delle sue tele fanno da sfondo alle scenografie di La miglior Offerta, Youth e The young Pope. Lo scorso mese ha tento un corso di disegno a Po rd e n o n e : “Il Ritratto”. Quel giorno, alla “Caver-
na del Gufo” la performance di Bernabei consisteva in multiple proiezioni in diretta live iPad, sotto il portico, nella notte. Lui dipingeva con l’ausilio di un iPad ed io ero così vicina a lui da poter vedere la sua mano muoversi e creare quei volti che si animavano e cominciavano a sprigionare luce dagli occhi. Mentre il buon Raboso, con le sue bollicine stuzzicava il mio cervelletto e fungeva da lubrificante sociale, ho visto, in dimensioni giganti, proiettato sul palazzo di fronte il “suo” uomo nudo dipinto, enorme e con una pistola in mano. Puntava un uomo “reale” alla finestra ignaro del tutto. L’inconsapevole cittadino pordenonese aveva accesso la luce nel suo appartamento e se ne stava in piedi rivolto alla canna della pistola, senza sapere d’essere un bersaglio. La proiezione perfetta nell’unico momento possibile. È quello il momento in cui la magia avviene. Un solo batter d'occhi per mille sguardi bassi. L’Opera è lì, per chi, come me, la vuol vedere. Quella sera la fantasia, era dentro la città. Mi sono sentita complice di un evento creato da figure appassionate.
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
Raccontare (con) la fotografia di Cristina Colautti
«Pordenone e la sua provincia, brillano per vivacità nel campo della fotografia». A dirlo è un nome autorevole del panorama locale, Guido Cecere, fotografo e docente universitario, che ci introduce in questo viaggio alla scoperta dei generi e dei protagonisti della fotografia di casa nostra. Nato a Bari nel 1947, dal 1974 Cecere vive e lavora a Pordenone, dove all’attività di fotografo e art director in pubblicità, affianca quella di ricerca sulla fotografia. Dal 1986 insegna Fotografia in diverse Accademie di Belle Arti e tuttora è docente presso l’ISIA Industrial Design di Pordenone. In questa città, come in provincia, numerosi segnali indicano una particolare attenzione ed una fervente attività attorno al mondo della fotografia. «Oltre al recente corso universitario – sottolinea Cecere – va registrato un particolare interesse del Comune con la Galleria Bertoia e la presenza a Spilimbergo del CRAF, il centro ricerca archiviazione fotografia, attivo da oltre trent’anni, e di numerose gallerie pubbliche e private, che propongono un’offerta variegata e di alto livello». Tra queste, un merito particolare va alla Galleria Sagittaria, «che anche con l’aiuto iniziale di Italo Zannier, da oltre cinquant’anni si è sempre interessata di fotografia, quando questa era considerata poco più che un hobby». Zannier, tra i fondatori del CRAF,fu animatore del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia di cui fece parte anche Giuliano Borghesan. Il gruppo, dal Dopoguerra, pose le basi della fotografia Neorealista. In seguito, grazie al boom economico, in provincia si è sviluppata la fotografia industriale e pubblicitaria, che ha poi subìto una battuta d’arresto con la crisi economica. «Oggi, il panorama è piuttosto composito – spiega Cecere - e vanta alcune eccellenze tra le quali Pierpaolo Mittica, rappresentante di livello internazionale del reportage sociale, che con le sue foto ha scoperchiato realtà tenute nascoste. Il mondo della fotografia fine art si sta sviluppando molto – prosegue - anche se è rivolta ad un mercato di nicchia». Qui il colosso indiscusso resta Elio Ciol, «un vero fotografo d’arte». La fotografia legata al mondo del design, fa notare Cecere, «sta cominciando ora a crescere, grazie alla scuola e alla ripresa di alcune industrie, ma è
ancora in evoluzione, mentre il filone naturalistico, davvero molto valido, è da anni presente nel territorio. In generale dopo Ciol e Borghesan, entrambi attivi, ma ultra ottantenni, non c’è stata una figura di spicco, ma tanti bravi professionisti, come Cesare Genuzio ed Euro Rotelli». Tra i più giovani ci sono personaggi interessanti come Mattia Balsamini, che lavora ad alti livelli nella fotografia commerciale, Alessandro Venier, che ha già pubblicato un libro, e Marco Citron che si interessa di fotografia fine art, oltre ai figli d’arte, Stefano Ciol e Gianni Cesare Borghesan, e a Vittorio Battellini, Denis Molinari e Leonardo Fabris, che è sia fotografo che gallerista. «Nel delineare il quadro attuale della fotografia – fa notare Cecere - è importante evidenziare il cambio epocale prodotto dall’introduzione del digitale, che ha determinato un’accelerazione mostruosa della produzione di foto. Il costo è quasi zero, senza più pellicole da sviluppare. Inoltre – prosegue le abilità tecniche oggi sono dedicate soprattutto alla cosiddetta post produzione e stanno diventando anch’esse, grazie alle nuove tecnologie, abbastanza accessibili a tutti». La fotografia, in altre parole, fino a qualche tempo fa era percepita come la magia che permetteva di fermare l’attimo fuggente, oggi, per i più giovani è un mezzo di comunicazione, da condividere. «Si cerca di documentare ogni aspetto – riflette Cecere - facendo un diario visivo della propria vita e questa ansia di produrre immagini genera una fotografia molto superficiale. Non è fotografando le banalità quotidiane che si fanno opere d’arte. Un bravo fotografo – sottolinea - si riconosce perché, oltre ad una curiosità e cultura visiva sviluppate, realizza delle foto che hanno qualcosa da dire e sono frutto di un ragionamento e di un progetto. Ciò che forse oggi manca ai giovani – conclude Cecere - è la capacità di ideare un progetto che poi diventi fotografia. Il mio sforzo nell’insegnamento è proprio questo: portare gli studenti da una fotografia assolutamente spensierata, ludica e quotidiana ad una meno logorroica e maggiormente meditata, che dietro di sé abbia un progetto e sia in grado di far pensare o emozionare».
Ingiustizie sociali e danni ambientali negli scatti di Pierpaolo Mittica Da “Chernobyl" al progetto “Living Toxic”, il fotografo spilimberghese da anni dà voce a uomini e terre dimenticati dal mondo di Fabio Passador I suoi scatti sono crudi, ma di una umanità commovente che non può non far riflettere. Grazie ad essi lo spilimberghese Pierpaolo Mittica si è conquistato fama internazionale dando voce alle persone, quelle nascoste negli angoli più dimenticati del mondo. Da chi, dopo il disastro nel 1986 della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, è tornato a vivere nella zona di esclusione, agli abitanti di Fukushima, colpiti nel 2011 da un'altra tragedia nucleare. A far conoscere il suo lavoro al mondo è stata, per prima, la mostra “Chernobyl l’eredità nascosta”, che ha fatto il giro di Europa, Stati Uniti e Cina. Mittica, lei si definisce un fotografo umanistica, cosa significa? «Il termine l’ho preso in prestito dal mio maestro Walter Rosenblum perché mi sento molto affine al suo modo di vedere il mondo attraverso la fotografia. Il fotografo umanista è interessato all’uomo, ai sentimenti e alla quotidianità, ma soprattutto a ciò che subisce una parte dell’umanità, come le ingiustizie. Voglio dare voce a quelle persone che spesso una parte di mondo non vuole o non può sentire. Negli ultimi anni invece mi hanno definito un fotografo ambientalista, perché mi sono dedicato ai disastri ambientali provocati spesso dall’uomo. Lo faccio perché sento la necessità di trasmettere una forte preoccupazione verso l’umanità seriamente minacciata da se stessa attraverso i danni provocati all’ambiente». Questa propensione alla fotografia sociale nasce dal desiderio di raccontare o da un'inquietudine? «Per me la fotografia è un mezzo per raccontare, efficace e immediato: viviamo in una società molto veloce, dove non c’è tempo per leggere gli articoli e le storie. Bastano invece tre secondi per guardare una foto e qui entra in gioco la capacità del fotografo di raccontare la storia in una sola immagine. Nella
quel Paese mi disse che c’è un missionario italiano che sta facendo un lavoro fantastico ed io, incuriosito, sono andato a vedere di persona».
mia fotografia metto dentro anche la mia coscienza e sicuramente la mia rabbia verso alcune vicende e la preoccupazione per l'ambiente in pericolo». Il suo obiettivo è spesso puntato verso Est, perché? «Tutte le vicende che ho narrato le ho cercate personalmente, oppure mi sono state raccontate da altri e questo casualmente mi ha portato verso Est. Il mio lavoro su Chernobyl è nato grazie all’incontro con la presidentessa di un’associazione che si occupa dei soggiorni in Italia dei bambini bielorussi. Dal 2002 è iniziata una serie di viaggi che tuttora continua. Lo stesso è stato per il reportage sui bambini di strada in Bangladesh: un collega rientrato da
Il suo primo reportage? «Il mio esordio fotografico è coinciso con la guerra nei Balcani (1997-1999). Anche in quell’occasione il progetto nacque da un’incazzatura personale, perché vedevo una guerra nel bel mezzo dell’Europa, che nessuno considerava. Volevo capire le cause di tanta distruzione e ho voluto raccontare ciò che ha vissuto la popolazione nell’immediato dopoguerra, mentre ancora si sparava. Oggi quel lavoro lo considero abbastanza superficiale: non avevo una preparazione mentale per costruire una storia.» La sua formazione iniziale è stata al Craf di Spilimbergo con i fratelli Giuliano e Gianni Borghesan. «Ho iniziato nel 1990 con un corso semestrale di storia e archiviazione fotografica, durante il quale incontrai alcuni tra i più grandi maestri mondiali come Walter e Naomi Rosenblum. Poi ho conosciuto i fratelli Borghesan, ai quali mi lega una bell'amicizia, anche se purtroppo Gianni ci ha lasciati. Da loro ho imparato moltissimo. Ad iniziarmi alla passione per la fotografia, tuttavia, era stato mio zio Alfredo Fasan, quando avevo dodici anni. Durante una vacanza in
Francia, mi mise in mano una Polaroid e compresi la magia della fotografia e della camera oscura. Ho sempre amato viaggiare e, da grande, ho cominciato a documentare i miei viaggi. Alla fotografia sociale mi sono avvicinato dopo un viaggio di piacere in Vietnam, nel 1994. Entrai per la prima volta in una bidonville, a Da Nang. Da quel momento ho ritenuto importante raccontare la vita degli altri». Come si diventa fotoreporter di professione? «Quando lavoro cerco di vivere come i protagonisti dei miei reportage: fare tutto ciò che fanno loro nella quotidianità. Non esistono fame e stanchezza, perché capita di lavorare moltissime ore al giorno e solo quando appoggio la macchina fotografica crollo sfinito. Mi preparo per mesi, cercando i contatti giusti, più informazioni possibili. Lo scatto rappresenta la minima percentuale del lavoro. Studio molto dai grandi fotografi come Sebastiao Salgado, ma anche dagli italiani come Paolo Pellegrin e Francesco Zizzola. Perché del fotogiornalismo italiano fanno parte bravissimi fotografi, ma manca la cultura fotografica» I progetti futuri? «Il primo è Living Toxic, un progetto a lungo termine che parla dei luoghi più inquinati al mondo e che sto sviluppando tuttora. Sono arrivato a sei capitoli, parlando di Fukushima, delle estrazioni di carbone in Cina e conto di arrivare almeno a dodici, attraverso il Canada, l’Equador e la Nigeria. Poi c’è Chernobyl, dove voglio raccontare le storie di vita delle persone che vivono all’interno della zona d’esclusione come i lavoratori e gli anziani che sono voluti tornare nelle zone d’origine. Questo lavoro negli anni mi ha permesso di ricevere la fiducia di molte persone in quei luoghi ed è così che poi ci si addentra in tante altre narrazioni, così ho voluto riaprire quel capitolo che avevo temporaneamente abbandonato»
Dalla camera oscura agli scatti che hanno immortalato il Friuli Elio Ciol, ripercorre le tappe della sua carriera. Il suo segreto? «Dire ogni volta: non ho mai guardato in questo modo» di Fabio Passador fatto durante il servizio di leva a Merano, durante le marce in montagna. All’interno si trovano le fotografie di un viaggio in Spagna, le fotografie di scena del film di Padre David Maria Turoldo “Gli ultimi” e quelle del 1963, quando fui invitato da un’agenzia di Milano a documentare il disastro del Vajont. Quella volta mi vergognai tanto di non poter essere di aiuto concreto in tutto quel dolore. Tant'è che nel 1976 non mi sono precipitato a fotografare le zone più colpite dal sisma. Lo feci in seguito, quando documentai per la Sovraintendenza dei Beni Artistici e Culturali tutti i monumenti danneggiati». «Sono nato fotografo, nello studio fotografico di mio padre negli anni della camera oscura e delle pellicole». Classe 1929, il casarsese Elio Ciol ripercorre con noi una vita votata alla fotografia, arte che lo ha reso famoso in tutto il mondo. All'inizio del 2017 Ciol inaugurerà la sua nuova esposizione fotografica, “Il canto della pietra, Armenia 2005”, a San Vito al Tagliamento. Ciol, com'è cominciata la sua passione? «Ho iniziato con le macchine a soffietto, poi è arrivata la Rolleicord, la macchina dei fotografi, che usavo per i matrimoni. Nello studio di mio padre invece utilizzavamo la macchina fotografica da sala da posa, quella con il treppiede e la tendina nera. Erano gli anni dell’occupazione nazista e la gente voleva fotografie di famiglia da spedire ai parenti all’estero. L'illuminazione me la dette, allora, un ufficiale medico tedesco, che usava una Leika: sviluppava da noi i rullini e fotografava tutti i nostri ambienti, le persone. Coglieva aspetti che io non vedevo. Non mi ero mai accorto, ad esempio, delle rughe degli anziani e del peso del lavoro sui volti della nostra gente. Da quel momento, uscendo dalla camera oscura, ho imparato a cogliere l’essenzia-
le: i chiaroscuri, le ombre, per comporli e distribuirli nel rettangolo visivo della macchina fotografica. Tutt’ora mi esercito a farlo, socchiudendo gli occhi » E' così che ha scoperto il territorio friulano? «Finito il lavoro in camera oscura, prendevo la bicicletta e con il mio cane correvo nei campi. Osservavo tutto e questo mi portò a degli scatti che ancora resistono nel tempo, com’è quelli del mio libro “La luce incisa”. Gli incontri con le persone mi hanno aperto altre porte, ad esempio nel campo dell’arte con Carlo Mutinelli, allora direttore del Museo archeologico nazionale di Cividale, per il quale iniziai a fotografare l’enorme patrimonio artistico della regione. E’ stata una crescita continua. Di volta in volta dovevo attrezzarmi, comprare nuovi obiettivi, i miei guadagni li investivo così. Da quell’esperienza è nato il progetto del fotolibro su Assisi, pubblicato in cinque lingue. Finì tra le mani di un professore inglese, che volle incontrami. Da lì nacquero le mie prime mostre in Inghilterra e in America». Il Neorealismo come l'ha influenzata? «Rispondo sfogliando il libro “Gli anni del Neorealismo”: inizia con degli scatti che ho
Di Pierpaolo Pasolini, cosa ci può raccontare? «Ero amico del cugino Nico Naldini e con Pierpaolo ci incontravamo nella casa della nonna, dove lui passava le vacanze estive. Nel 1945 ho fotografato per primo la fondazione dell’ Academiuta di lenga furlana ed ho fatto una cartella di fotografie dedicate a Pasolini sebbene non avessimo rapporti continui. Lo incontrai quindi ad Assisi, dove stavo lavorando per la Pro Civiltate Cristiana, alla quale lui si era rivolto per presentare il progetto del film “Il Vangelo secondo Matteo” ed anche lì feci alcuni scatti.
In un piccolo volume che mi ha commissionato il Comune di Casarsa ho inserito le fotografie della visita che fece qui con Maria Callas e, infine, del suo funerale» Fotografia e cinema, la sua esperienza? «C’è stato un periodo in cui frequentavo il Cine Club di Udine, per il quale assieme a dei colleghi realizzavo cortometraggi. Alcuni di loro fecero il mio nome a Padre David Maria Turoldo, che cercava un fotografo per il suo film “Gli ultimi”. Lo accompagnai in alcuni luoghi del Friuli Venezia Giulia che riteneva adatti alle scene del film. Alla fine girò il film interamente nel suo paesino ed io feci il fotografo di scena per la prima volta con grande timore. Feci circa duemila scatti. Centinaia di quelle fotografie finirono nei manifesti del film». Fotografia in bianco e nero o a colori, analogica o digitale? «Il colore l’ho sempre utilizzato per catalogare le opere d’arte, il contrasto del bianco e nero per i paesaggi. Oramai il digitale utilizzo una reflex digitale da venti milioni di pixel. E' estremamente comoda e ha giovato al mio lavoro. Molti giovani non comprendono ancora il potenziale del digitale, perché spesso non mettono attenzione nello scatto. Invece non bisogna concentrarsi sulla singola fotografia, ma in una serie di immagini che ci raccontano una particolare vicenda, perché la verità è sempre molto ampia e composta. Bisogna arrivare a dire ad ogni foto: non avevo mai guardato questa cosa in questo modo ».
Fotografare la natura
«Crea aggregazione e conoscenza del nostro territorio» di Silvio Vicenzi, fotografo
La fotografia naturalistica è un ramo della fotografia documentaria che ha avuto e ha tutt'ora un ruolo nell’ambito della nostra regione e nel pordenonese in particolare. Personalmente sono sempre stato attratto dalla natura e da tutte le sue forme espressive. Una passione trasmessa grazie a mio padre e alle escursioni e ricerche sul campo della storia locale tra cui il coinvolgimento in scavi archeologici. Conoscenze queste che si erano allargate grazie alla partecipazione a gruppi naturalistici come l’Associazione Silvia Zenari e l’Associazione Naturalisti di Sacile, di cui era stato sostenitore. C’è da dire che la mia passione per la fotografia,
grazie anche a mio fratello, si indirizzava anche verso altri generi, tanto che, verso la fine degli anni '80, si trasformò in professione, con tutto ciò che il passo comportò. Comunque non abbandonai il ramo natura, anzi decisi di aprire una sede a Pordenone dell’Associazione Fotografi Naturalisti Italiani (Afni), così che anche il Friuli avrebbe avuto un punto di riferimento per il fotografo naturalista. L’Afni, fuoriuscita da un gruppo troppo specifico di “fotocacciatori”, mi aveva colpito per il suo approccio con la natura stessa, elemento che
andava osservato, documentato in punta di piedi e valorizzato al massimo. Si richiede infatti conoscenza di ciò che si va a documentare con la creazione di progetti sul proprio territorio. Naturalmente il fine di un fotografo è il poter esporre i propri lavori in una mostra o fare delle proiezioni o anche libri fotografici. Molto importanti furono e lo sono tutt'ora le collaborazioni con altri gruppi che operano nel territorio. Nel 1994 aderii ad un progetto di un corso fotografico in collaborazione con Comune e Museo delle Scienze e le tredici associa-
zioni naturalistiche della zona per dare una panoramica del nostro territorio. Grazie alle uscite fotografiche in provincia, che registrarono una buona partecipazione, molte persone scoprivano i nostri ambienti naturali ricchi di biodiversità tra i quali i Magredi friulani e le Risorgive del Cellina. Le prime mostre a Cordenons e le proiezioni in multivisione nel 1993 e le collaborazioni con esperti botanici del Gref e associazioni nazionali come WWF, con cui ho realizzato un calendario nel ’94 e Afni con un libro nel 2001, spinsero politici increduli e la Regione Fvg a tutelare queste aree che ora godono di una legge di protezione speciale a livello europeo. Oggi sono diversi i fotografi che, chi per hobby, chi ne ha fatto un lavoro, operano in zona sviluppando progetti editoriali di una certa importanza. L’attuale sezione Afni (www.afni.org) regionale è ancora attiva e collabora alla promozione di pubblicazioni e di un importante concorso nazionale. Sono presenti altre associazioni del ramo natura ed ecologia come Terraé, che ha invitato i fotoamatori per un primo concorso sul miglior paesaggio e Legambiente, la quale da tempo promuove uscite e ricerche fotografiche per confrontare i cambiamenti del nostro paesaggio. (www.vicenzi-multimedia.com)
La fotografia che informa Missinato, «L'arte di un buon fotoreporter sta nella velocità e nel sapersi comportare» di Milena Bidinost «La fotografia di un incidente stradale deve insegnare a chi legge la notizia sul giornale cosa può succedere quando sulla strada si corre troppo, magari sotto l'effetto dell'alcol, cosa non si deve fare se si vuole restare in vita. Per questo mio padre fin da bambino mi portava, anche di notte, sui luoghi degli incidenti, che immortalava con la sua macchina fotografica. Lo faceva per educarmi ad essere prudente». Nel 2004 Michele Missinato, figlio di Aldo Missinato, noto foto reporter del Messaggero Veneto scomparso nel 2009, lasciò un lavoro da dipendente in azienda per esaudire il desiderio del padre, ovvero quello di portare avanti l'attività di famiglia. «Mio padre ave-
va iniziato nel 1956 assieme al fratello Bepi aprendo un primo negozio di fotografia a Sacile – racconta Michele -. Per pura passione si presentava sui luoghi degli incidenti per fotografare e poi esponeva le sue foto in vetrina: la gente si fermava a guardarle e a commentarle. Era l'unico a farlo. Di questo si accorse un giornalista de Il Gazzettino e a mio padre fu proposto di lavorare per il giornale, inaugurando l'era delle fotografie di cronaca nera. Collaborò con Il Gazzettino dai primi anni '60 al 1978, poi passò al Messaggero Veneto: l'ultima foto prima di morire la scattò l'8 febbraio 2009». Una famiglia quella dei Missinato che ha fatto la storia a Pordenone della fotogiornalismo
degli ultimi cinquant'anni. Il figlio più giovane, Michele, ad oggi è il foto reporter ufficiale del Messaggero Veneto. La sua è una fotografia che diventa arte nella ricerca delle inquadrature particolari, ma che alla logica della velocità e del rispetto della privacy deve sottostare. «Quando il giornale mi chiede un servizio – racconta Missinato – devo trovare il modo per darglielo e in tempi veloci. Negli ultimi anni il digitale e il wi-fi agevolano molto, ma tolgono anche qualità alle immagini e lavoro a noi professionisti». Oggi tutti possono fare foto, spesso di bassa qualità, di un fatto di cronaca
e farle girare sui social. «Il nostro lavoro invece – rimarca – è delicato, perché richiede qualità, immagini che altri non hanno, e al tempo stesso rispetto del lavoro delle forze dell'ordine e delle emozioni dei famigliari coinvolti in un fatto che devi raccontare per informare. Velocità, qualità e sapersi comportare per me stanno alla base di tutto». Unite anche ad una buona dose di sacrificio. «Lavorare per un quotidiano – spiega Missinato – significa seguire le regole dell'informazione, che non ha orari: non sai mai quando finisci e il livello di stress è alto».
INVIARI NEL MONDO
Il Brasile, il paese dalle due facce «Si passa dal verde lussureggiante alle terre aride, dalle spiagge festose all'entroterra silenzioso» di Marco Ciot Spiagge incontaminate, natura rigogliosa, caipirinha, danze e feste sfrenate. Tutto questo viene in mente quando si sente nominare il Brasile, giusto? Invece no, è bagliato. O meglio, il Brasile non è solamente questo. Nel mio anno di servizio civile passato a Crateús, piccola città dispersa nel nulla a 500 chilometri da Fortaleza, non c’era nulla di tutto ciò, caipirinha a parte. Mi sono invece trovato quotidianamente a vivere con un ecosistema particolare: il semiarido. Il verde lussureggiante qui è visibile solo durante i brevi mesi delle piogge, da gennaio a marzo. Certo non mancano le feste, come l’incredibile follia scatenata dal Carnevale. Il Carnevale in Brasile inizia ben prima dell’ufficiale periodo di celebrazione. Vengono organizzati in moltissimi quartieri degli eventi detti di “pre-carneval”. L’assordante ritmo del forró (tipica danza del Nord Est brasiliano) non si ferma mai. Io però vivevo nel cosiddetto “interior”, cioè nella zone rurali. Il Nord Est è un’area abitata per la maggior parte da persone di etnia india, nativi brasiliani. Non è una zona famosa per il turismo in quanto molto povera, socialmente difficile e pericolosa. Quando raccontavo
chi ero e cosa facevo, molti mi chiedevano: «Cosa sei venuto a fare qui, all’inferno?». Climaticamente la domanda non faceva un piega: raramente si scendeva sotto i 28 gradi. Di giorno si andava dai 30 ai 38. In moto dovevo indossare abiti lunghi per evitare di ustionarmi. La vita qui è molto diversa rispetto alle grandi città come Fortaleza, capitale del Cearà. Fortaleza offre in continuazione eventi sulla spiaggia, la fantastica Praia de Iracema. Da qui è possibile anche fare un giro della baia su barche piene di gente che balla, con musica ad altissimo volume e bagno finale nel porto. Per spostarsi a Fortaleza, il mezzo migliore è l’autobus, sempre che riusciate a salirci.
Ho visto persone cercare disperatamente di entrare nella vettura strapiena, ed altrettante mollare la presa per cadere rovinosamente sulla strada. Il bus porta agilmente ad un’altra spiaggia famosa: Praia do Futuro, dove per pochi Real si possono mangiare aragoste e gamberi di fronte all’Atlantico. Scordatevi di salire a bordo di un bus senza biglietto. Ogni Stato brasiliano ha le sue regole, le sue abitudini e le sue tradizioni. A Fortaleza è obbligatorio passare attraverso un tornello dove c’è l’addetto ai biglietti. A Belo Horizonte (capitale del Minas Gerais) il biglietto viene acquistato e timbrato prima di salire sul mezzo. In questa città ci sono stato per un seminario internazionale su “Acqua e agricoltura familiare”. La città è ordinata, molto più “europea” rispetto a Fortaleza, soprattutto architettonicamente. Ho potuto girare poco perché eravamo sempre chiusi nella sconfinata università di BH. Dire che il Brasile è un Paese è estremamente riduttivo: oltre ad essere il territorio
più esteso dell’America Latina, è un intero mondo contenente infinite sfaccettature ed infinite storie. Molte sono bellissime, altre profondamente tragiche. Sono però tutte legate dall’orgoglio dell’essere “brasileiro”. Ho avuto la fortuna di visitare lo stato “nero” per eccellenza: Bahia. La sua capitale, Salvador, ricorda moltissimo il Portogallo: è piena di colori. Qui è ancora viva e palpabile la testimonianza dell’atrocità che fu la schiavitù. Nell’attuale mercato centrale, affacciato sul porto, sono ancora presenti le cantine dove venivano segregati a migliaia gli schiavi provenienti dall’Africa. Viaggiando con lo zaino in spalla, sono arrivato poi nello stato dell’Alagoas, al confine nord del Baiha. Ho fatto sosta in un monastero disperso nella giungla, abitato da un pugno di monaci e laici. I più erano provenienti da realtà di lotta per i diritti dei più poveri: chi nelle favela, chi per i lebbrosi, chi durante la guerra civile. Altri semplicemente hanno scelto di vivere una vita diversa. Hanno scelto di vivere con poco o niente, immersi in questo paradiso lontano da tutto ed irraggiungibile a piedi e dove il cellulare è utile solo come torcia di notte, per allontanare (si spera) serpenti e ragni. Indipendentemente da dove si vada, in Brasile bisogna sempre tenere gli occhi aperti: noi gringos abbiamo soldi, anche quando non ne abbiamo. Questo ci mette in una posizione di pericolo. Criminale o poliziotto non fa una grande differenza. In Brasile è possibile rimanere per tre mesi con visto turistico. Un tempo in cui è possibile visitare il Paese spostandosi con gli autobus. Viaggiando di notte si risparmia tempo e questi bus sono enormi e comodissimi per dormire. E’ un paese ricco di contraddizioni, dove si vedono scene di estremo amore contrastanti con l’estrema violenza di altre. C’è umanità, espressa al massimo in tutte le sue sfaccettature e senza filtri. Se ci tornerei? Subito.
IL RICORDO
Ciao “zio” Franco, non ti dimenticheremo Eri uno degli ultimi “ragazzi” ad essersi seduto sulla panchina di via Montereale, dove tutto iniziò di Patty Isola Ciao Franco. Così te ne sei andato anche tu. Ai tuoi occhi ero una bambina nonostante i miei trent’anni di età. E’ vero anche che, ai miei occhi, tu eri il Franco che esisteva da sempre. Quando mi dicevi che te ne saresti andato a breve, non ti stavi sbagliando. Te la sentivi addosso. Ogni tanto mi sembra ancora di vederti camminare, lungo quel tratto di strada che dal Ser.T. porta ai parcheggi dell’ospedale. Ti incontravo spesso là, anche sotto il sole cocente d’agosto e solo per farti compagnia, ed anche perché ero sola anche io, rallentavo il passo. Eri stufo. Questo lo posso dire perché me lo hai raccontato tu. Non so quali fossero i tuoi motivi, se ne avevi, se hai voluto tener duro fino alla fine prima dell’estremo, ultimo ricovero.
Mi dicevi: «No, non vado al pronto soccorso, poi mi tengono dentro fino alla fine». Di te sicuramente verrà ricordato il tuo grande contributo per dar vita alla sede de “I Ragazzi della Panchina” e sei anche stato una delle prime penne di Ldp. Eri rimasto uno degli ultimi “ragazzi” della panchina, intendo proprio di quelli che hanno appoggiato il loro fondoschiena su quella panchina, ora simbolo e logo della sede e dell’associazione. Mi raccontavi di come e quando era partita l’idea di mettere in piedi questa sede, di quando fu effettivamente aperta la prima, in viale Grigoletti: qualche cosa di quello che ti eri immaginato non è effettivamente andato come pensavi, e certo, hai avuto le tue da dire. Eri polemico, sicuro. Eri fatto
così. I tuoi sessantun’anni in qualche modo ti davano il permesso di esserlo. Ci hai lasciati, diciamo, non proprio come avresti voluto tu, ma è normale che chiunque preferisca morire a casa propria. A me piace pensare che, come appunto mi dicesti, tu sapevi quando sarebbe stato il tempo. Potevi curarti, hai lasciato perdere. Io non sono nessuno per poter parlare o giudicare la tua vita. Se dovessi raccontare la storia della tua vita si potrebbe spaziare in lungo e in largo, hai avuto, infatti, mille esperienze e portato avanti mille battaglie, purtroppo non tutte vinte. Ma anche se il tuo corpo era, per così dire, massacrato dal tempo e dalle tue storie, il carisma che avevi mostrava spesso e volentieri una sorta di “aura” che riusciva a tra-
smettere a noi ragazzi la sensazione che tu fossi, in modo affettuoso, un po' lo zio di tutti i giovani che ti conoscevano e ti rispettavano. Certo eri un personaggio abbastanza controverso, eri un grande osservatore, potevi farti amare od odiare, poco ti interessava. Ci conosciamo da dodici anni e, tante persone più di me, in virtù di una maggiore confidenza, potrebbero dire tante più cose per te. Ma in certi casi, le parole non dette, quelle a cui diamo un valore particolare, ce le vogliamo tenere ben stette. E queste parole sono quelle che, chiuse in un ricordo, rimangono dentro di noi. Quel ricordo diventerà memoria, anche grazie a quegli scritti che ci hai lasciato. Una persona non muore mai finché non viene dimenticata.
Franco, padre fondatore de I Ragazzi della Panchina Un intenso ricordo di Franco De Marchi, che del percorso storico dei Ragazzi della Panchina è stato, assieme ad altri, anima, cuore, ideale, presenza, lotta, contrasto, amore. Abbiamo ricevuto, nel giorno del suo funerale, uno scritto originale di Franco degli ultimi anni ’90, che raccoglie uno spaccato straordinario di quegli incredibili anni, degli incontri, dei pensieri, dell’evoluzione di un gruppo che poi ha creato tutto quello che ancora oggi c’è. Un cerchio che si chiude, parole dell’inizio nel giorno della fine, al cospetto, oggi come ieri, dei suoi compagni di viaggio. Ciao ragazzi, prospetto per un ordine del giorno. Per poter avere la sede dobbiamo dar loro delle corrette garanzie di autogestione. Queste garanzie, per forza di cose,
oltre che da noi, dovranno essere presentate a chi di dovere presso la Municipalità, o chi per essa, da un gruppo di persone che garantiscono il nostro reale comportamento, che si occupino anche di far rilevare come svolgiamo il nostro tempo, di chi faremo frequentare la sede ed in che condizioni saremo noi e la sede stessa. Quindi saranno da individuare le persone che siano in grado, anche materialmente, di assicurare questo gravoso impegno, nonché, insieme a loro, ampliare e definire meglio la bozza di statuto, poi sarà, anche se sembra prematuro (ma meglio cominciare, se no come al solito facciamo tutto all’ultimo minuto e male), l’impegno, che non è da poco, di redigere un programma di attività da svolgere all’interno della sede stessa (ad esempio possiamo cominciare a cercare libri per una nostra biblioteca, cerca-
re materiali per un laboratorio artigianale di grafica e pittura, ecc…). Questo programma poi potrebbe comprendere l’incontro e dibattito con persone, anche e soprattutto che non facciano parte del mondo della droga, ma che sul piano della vita possono darci molto (Zanzotto l’ha insegnato). Poi vi è da fare un calendario di incontri con i rappresentanti della cittadinanza di Pordenone, questo non tanto per la sede, ma per dimostrare la nostra volontà di conoscere realmente una facciata della città che fino ad ora abbiamo sempre rifiutato. Questi incontri sono molto importanti per conoscere con chi abbiamo a che fare e quindi cosa e come richiedere quello che ci abbisogna. In primis vorrei farvi un invito forte e di tutto cuore ed è quello di creare armonia, oltre che compattezza, nel gruppo. Senza armonia e rispetto non si può costru-
ire niente, se non cose che alle prime avversità crolleranno. Armonia e rispetto sono le pietre di base su cui costruire anche la dignità e quindi bisogna crearle e mantenerle a tutti i costi, anche lasciando da parte dei temi che, seppur urgenti ed importanti, creano tensione; è meglio rimandarli ad altro periodo. Questo mi ha scavato dentro dopo quella riunione che mi ha fatto perdere punti… Per questo dico che armonia e fiducia siano alla base del nostro essere, sia come Uomini che come gruppo. Su questo vi è da discutere e penso che sia un buon spunto per iniziare la riunione, chiariti in coscienza questi concetti il resto viene, non dico automaticamente, ma con molte meno difficoltà. Ciao Franco
PANKA NEWS
"Hiv Day non solo il 1° dicembre", quarta edizione in piazzetta Cavour Grande partecipazione all'evento, organizzato da I Ragazzi della Panchina e da Nps Italia di Stefano Venuto Si è tenuto sabato 3 dicembre a Pordenone in piazzetta Cavour l’evento Hiv Day “Non solo il 1° dicembre”, organizzato dalla nostra associazione in collaborazione con Nps Italia. Raggiunta la 4° edizione, il marchio “Non solo il 1° dicembre” sta diventando un appuntamento cadenzato nel panorama delle proposte della città di Pordenone. I commercianti del centro ormai recepiscono l'iniziativa con entusiasmo e partecipazione, esponendo in vetrina per l’intera settimana che anticipa l’evento il fiocco rosso simbolo mondiale della lotta all’Hiv. “Non solo il 1° dicembre” significa impegno, informazione, comportamenti consapevoli, che devono essere presenti ogni giorno
nella vita di tutti, ed appunto non solo il 1º dicembre, non solo un giorno all’anno, se si vuole contrastare la diffusione del virus dell’Hiv. L’evento di sabato 3 dicembre ha proposto alla cittadinanza due situazioni. Una più classica ma essenziale, cioè l’allestimento di uno stand nel quale educatori dell’associazione erano
a disposizione per dare informazioni legate alle malattie sessualmente trasmissibili, sostanze psicoattive, safer use, e distribuire materiale informativo e preservativi gratuiti. L’altra è stata una proposta più ludico-aggregativa, che ha visto esibirsi a lato del gazebo centrale due break dancer di Pordenone, Marco Salomon
e Attilio Bagnariol. I ragazzi hanno dato modo di poter assistere ad uno spettacolo che è stato apprezzato dai cittadini di ogni età, grazie al quale poter sfruttare l’occasione di fermarsi al gazebo per chiedere informazioni, prendere libri e giornali pubblicati da “I Ragazzi della Panchina”. Una giornata quindi dalla forte componente culturale e sanitaria, che l’associazione ha offerto alla città, perché convinti che solo attraverso una informazione di prossimità si possa incidere davvero. L’impegno e la speranza è che ogni anno si possano aumentare le collaborazioni, le presenze, le partecipazioni, senza le quali non si potrà mai raggiungere quei risultati che oggi più che mai sono necessari.
tutte le sfide che comporta. Non cambierà la fisionomia de “I Ragazzi della Panchina”, la sua anima, il suo approccio disincantato ed accogliente, ma tutto questo sarà arricchito, perfezionato, con proposte alternative, mirate, strutturate, per poter aumentare le risposte possibili alle sempre più varie domande ed esigenze di aiuto che dalla città, dalla strada e dal Servizio arrivano. Stiamo lavorando per chiudere al più presto ed al meglio le ultime esigenze tecniche, per poter ipotizzare di aprire
le porte al nuovo percorso entro e non oltre i primi due mesi dell’anno. La Panka ha vissuto, nei suoi 26 anni di storia, mille vite, è caduta e si è rialzata mille volte, è stata capace di reinventarsi mille volte per proporre altrettanti modi di essere. Continueremo ad essere un patrimonio della città, continueremo ad onorare chi non c’è più ma ha speso tutto quello che aveva per creare questa storia perché, immergendoci in tutto quello che c’è stato, che c’è e che ci sarà, “Noi viviamo”.
Nuova sede per I Ragazzi della Panchina Il trasloco da via Selvatico a via Fiume entro i primi mesi del 2017. Consentirà una maggiore sinergia con il Dipartimento delle dipendenze di Stefano Venuto Il 2017 sarà un anno che porterà un'importante novità alla vita dell’associazione “I Ragazzi della Panchina”, l’ingresso in una nova sede in via Fiume. L'associazione è assegnataria dei servizi integrati per il contrasto del consumo di sostanze psicoattive dell’Aas5 attraverso un bando di finanziamento annuale. Questo ha fatto si che l’Azienda abbia dato a noi la possibilità di usufruire dei nuovi locali, ad ampliamento della sede del Dipartimento per le Dipendenze, per poter svolgere le svariate at-
tività dell’associazione stessa. Un'importantissima occasione che permetterà di poter svolgere le attività attuali al meglio, di poter ipotizzare, programmare e attuare una serie di sviluppi dell’associazione. Una sinergia con l’Aas5 e con il Dipartimento che quindi si rafforza, che prende corpo, che cerca miglioramenti, coordinando gli sforzi verso interventi integrati. L’ingresso alla “sede” sarà autonoma, la gestione degli spazi anche, non mancherà la quotidianità che si apre alla strada, con
PANKA LIBRI
Storie di ordinario consumo Ne “La ragazza con gli anfibi”, Alessio Guidotti traccia storie di normalità, ripulendole dallo stigma del facile giudizio di Stefano Venuto “La ragazza con gli anfibi” di Alessio Guidotti non è un romanzo e nemmeno un saggio, non è un’inchiesta o un libro “contro”, è uno sguardo oltre il confine del banale e quindi facile e protettivo stigma. Parla di persone e di consumo ma, badate bene, di persone prima e di consumo poi, perché questo si dovrebbe fare, sempre. La forza di questo libro è la normalità. Una cavalcata attraverso un susseguirsi di storie di vita normali, di amori, di lotte, di disabilità, di figli, di madri, di padri, di nonni, di lavoro, di carcere, di balli, di musica, di paure, di speranze, di scelte, di errori, di disperazione, di rinascite. Certo, a condire il piatto c’è il consumo di so-
stanze, che altera, esagera, alimenta, frena, distrugge, amplifica, offre, raggruppa, protegge la normalità. Lo sforzo, riuscito, di questo libro è far percepire quanto le persone che consumano sostanze non vivano in un mondo parallelo, dissociato dalla realtà, ma sentano, decidano, percepiscano, esattamente come ogni persona fa, a prescindere dall’uso. In qualche modo cerca di avvicinare la realtà del consumo ripulendolo dallo stigma del “brutto e cattivo” per portarlo al vivere comune, facendo luce sul fatto che accanto a noi nell’autobus o alla guida dell’autobus, che il collega di lavoro, che il medico che ci consiglia, che il chirurgo che
ci opera, che la mamma o il papà che adoriamo e che sono bravi con noi figli, che la normalità insomma, è fatta anche da persone che consumano sostanze o che l’hanno pesantemente fatto e che per questo non sono meno capaci di altre di vivere, di pensare, di contribuire. In definitiva, questo libro delinea una verità che è tale in ogni contesto e cioè che il male lo si vede e lo si definisce e lo si giudica tale, sempre e solo fin tanto che non ci tocca personalmente. Quando questo accade allora lo chiamiamo con un altro nome, lo identifichiamo con canoni sociali diversi, cerchiamo di comprenderlo. Il dramma sta lì, le persone
“salve” giudicano l’altro da sé in funzione del fatto che è altro, che non li riguarda, non considerando però che tutto ci riguarda, che tutto si delinea e si sviluppa in funzione del nostro comportamento, di come ci poniamo verso l’altro. Un altro che non deve essere per forza un fratello, ma nemmeno un estraneo, perché lui stesso, nel suo agire, determina una normale quotidianità che è poi anche la nostra. Alessio Guidotti, dall’osservatorio sociale nel quale lavora ed è inserito, dalla conoscenza e dalla relazione diretta che ha con le persone, coglie come esigenza tutto questo e non lo dice, lo racconta, attraverso storie di persone normali.
"Il cibo produce e trasforma i paesaggi" Un libro di Legambiente, alla scoperta delle piccole produzioni locali del Friuli Occidentale di Elisa Cozzarini Cosa ci fa un pastore sardo a Pradis? Lo zafferano è un prodotto tipico friulano? La riscoperta della pitina e del formai dal cìt può portare alla rinascita della Valtramontina? Quale sarà il futuro dell'agricoltura e dell'allevamento nella nostra regione? Sono alcune delle domande a cui cerca di rispondere il libro corale "Il cibo produce e trasforma i paesaggi", risultato dell'ultima campagna di ricerca partecipata del Circolo Legambiente "Fabiano Grizzo" sulle recenti trasformazioni dei paesaggi agrari del Friuli Occidentale. Il progetto è stato realizzato nella provincia di Pordenone tra il 2015 e il 2016, grazie al contributo della Regione Fvg. «Lo spunto della campagna - spiega Moreno Baccichet, architetto e coordinatore del progetto - nasce da una riflessione a partire dal tema di Expo
2015. La nostra lettura della produzione di cibo è particolare: indaghiamo come le diverse tradizioni del cibo si siano via via sedimentate e abbiano prodotto paesaggi diversi sugli stessi luoghi, a partire dall'Ottocento fino a oggi. Ci interessa capire come l'evoluzione della società contemporanea e, soprattutto, del rapporto tra città e campagna, possa portare anche ad avere delle trasformazioni sul paesaggio, indotte dagli stili di vita, dai modelli comportamentali, dalle abitudini alimentari della popolazione». La ricerca di Baccichet parte dall'analisi delle cartografie, dai testi dell'Associazione agraria friulana e dalle riviste che si interessavano di agricoltura nei diversi periodi storici, per ricostruire quello che è stato in passato il rapporto dell'uomo con le produzioni locali. Alcuni cibi
sono completamente scomparsi dalla provincia di Pordenone e, assieme a loro, anche interi paesaggi sono stati cancellati, ad esempio quello delle risaie. L'obiettivo di Legambiente è anche lanciare un messaggio alla politica: il futuro dell'agricoltura non deve essere considerato solo in termini burocratici, per ottenere i finanziamenti che l'Ue mette a disposizione attraverso la Pac, serve invece una indirizzo autonomo, specifico dei diversi territori. Le nuove pratiche infatti producono trasformazioni con un impatto forte, basti pensare al boom nella produzione del prosecco nella pianura friulana, che non ha nulla a che fare con la tradizione e dipende esclusivamente dal mercato internazionale. Il libro, ricco di fotografie e mappe, ci accompagna alla scoperta di otto itinerari: si parte dalla
Pedemontana tra Aviano e Budoia per passare poi alla Valtramontina, ai nuovi progetti pastorali a Clauzetto e sul Monte di Asio, alle acque del Sanvitese. Da Pinzano e Castelnovo, con le complessità ecologiche e colturali tra pianura e collina, si percorrono poi le paludi del Sile a Panigai e Azzanello, si attraversano i paesaggi dell'agricoltura industrializzata a San Giorgio della Richinvelda per concludere tra le malghe di Caneva e Polcenigo. Scopriamo, tra le pagine, un microcosmo ricco di iniziative e storie di nuova agricoltura da raccontare, gustare e conoscere e che, messe assieme, hanno un potenziale rivoluzionario. Il libro è scaricabile gratuitamente al seguente link: nuoveconomie.legambientefvg. it. Per chi volesse una copia cartacea, contattare: pordenone@legambientefvg.it.
NON SOLO SPORT
Acrobazie e velocità sulle due ruote a tutto “Gas” Allo skatepark di Villanova, gestito dalla Loco Banks, il regno degli amanti della Bmx di di Giorgio Mazzon Presidente Loco Banks Il Bmx (abbreviazione di Bicycle Motocross, dove la x sta per cross, croce) è una disciplina ciclistica nata in America nel 1968 e rapidamente diffusasi nel resto del mondo nel corso del decennio successivo. In questa disciplina si usano biciclette con ruote da 20, quindi biciclette di dimensioni ridotte. Quasi tutta la bicicletta è in acciaio perché sia resistente ed affidabile viste le sollecitazioni a cui viene esposta. Non è da considerarsi una bicicletta da passeggio, ma un vero e proprio mezzo tecnico per poter effettuare varie evoluzioni o trick. In Italia la Bmx ha iniziato a muovere i suoi primi passi attorno agli anni '80, fino ad arrivare ai giorni nostri ed affermarsi sempre di più, con negozi specializzati in tutta Italia, che un tempo erano una rarità, dando vita ad una realtà sempre più forte. Ad essa e allo stile di vita che la caratterizza, i ragazzi si appassionano fin da giovanissimi. A Pordenone la scena Bmx inizia a farsi vedere attorno al 2007 con la costruzione di uno skatepark in cemento in via Interporto, nel quartiere di Villanova, battezzato dai ragazzi che hanno partecipato al progetto “Slim-
park”. Grazie all'introduzione di questa nuova struttura nel comune di Pordenone, molti ragazzi hanno iniziato ad affacciarsi a nuovi sport come lo skateboard, pattini inline e la bmx. Anni dopo il Comune ha voluto che lo Slimpark venisse dato in gestione ai ragazzi che quotidianamente lo frequentavano. Richiamati da questa prospettiva di poter fare diventare una passione un qualcosa che potesse essere a servizio della comunità, i ragazzi cominciarono a riunirsi. A partire dal 2012 hanno costituito l'associazione L.o.c.o. Banks per poter gestire in autonomia lo skatepark, dando vita ad eventi di varia natura per promuovere varie discipline e momenti di incontro tra i ragazzi sia del quartiere che da fuori Pordenone. La L.o.c.o. Banks oltre ad organizzare manifestazioni legate al mondo della bmx e skate coopera anche con le altre associazioni presenti nel territorio. Quasi tutti noi dell'associazione siamo bmxer e ci piace trovarci con tutta la Loco Crew nei fine settimana per girare assieme e divertirci allo Slimpark. La bmx ci ha dato modo di conoscere ragazzi da tutta Italia e di stringere con loro rap-
porti di amicizia che durano nel tempo. Quando possiamo, prendiamo la macchina, carichiamo la nostra bmx e partiamo raggiungere eventi in tutta Italia. Freddo, caldo, neve, pioggia: in ogni situazione riusciamo a trovare il modo di divertirci. Spiegare perché un ragazzo decide di andare in bmx è un po difficile, diciamo che è una sorta di vocazione alle “cartelle”, ovvero le botte che prendi quando una evoluzione o trick non va proprio per il
meglio, misto ad un pizzico di follia. Noi usiamo il termine “spegni il cervello” proprio perché il nostro è uno sport che ti porta a confrontarti con le tue paure e a volte il troppo pensarci o rifletterci ti frena. Quando le hai affrontate e chiudi il trick che da giorni ti gira in testa, senti un'energia esplosiva e un'euforia che in gergo chiamiamo “Gas”. E' una sensazione così forte che poi ne vuoi ancora. Da qui parte tutto. E' è il segreto di tutto.
“Freestyle” per tutti i gusti Le discipline nate a fianco dell'originaria Bmx, dove protagoniste sono le evoluzioni Al fianco della disciplina originaria della Bmx, negli anni se ne sono create altre dette "freestyle" nelle quali non conta la velocità in cui si percorre la pista, ma le evoluzioni che si eseguono. Queste le discipline. Il "Park", consiste nel compiere acrobazie con la Bmx saltando su delle infrastrutture tipo half-pipe, quarter-pipe, bank di qualsiasi altezza, dalle più basse infrastrutture: 1.30m alle più alte: 3-4m di altezza (vedi Slimpark). Lo "Street", consiste nel compiere acrobazie di ogni sorta sfruttando gli elementi del paesaggio urbano, come panchine, corrimano, scale in marmo. Il "Flatland",
dove l'atleta esegue delle evoluzioni continue con la sua Bmx, senza dover mai toccare terra con i piedi. Tra gli esponenti più conosciuti in Italia di questa specialità Luca Contoli, classificatosi 4º nel programma televisivo Italia's Got Talent. C'è poi il "Dirt", simile al race per via del tracciato in terra, questa disciplina non prevede un traguardo, ma solamente l'inventiva dell'atleta nel compiere le evoluzioni più spettacolari usando le rampe in terra del tracciato. Infine il "Vert", forse la disciplina più rischiosa di tutte quante, in quanto consiste nel compiere acrobazie con la Bmx in half-pipe alti anche fino a 10 metri ed oltre.
LA STORIA
La Libia ai tempi dell'embargo «Era il 1984 e partii per un anno di lavoro a Tripoli. Fui catapultato in un paese separato dal resto del mondo” di Emanuele Celotto Luglio 1984. Erano passati due mesi da quando mi ero lasciato con Lorena, ma soffrivo ancora. Da qualche mese non lavoravo ed i soldi erano finiti. A casa le cose non andavano per il meglio e le tensioni crescevano. Era il momento di cambiare aria: ne avevo un gran bisogno. Sarei andato all'estero per lavoro e aspettavo la telefonata per partire. Al di là delle ferie in Francia, Austria e Jugoslavia, era la prima volta che andavo a vivere all'estero. Andavo in Libia, a Tripoli, paese musulmano, Gheddafi, niente alcool, niente carne di maiale e tanto caldo. Avrei lavorato parecchio, con poco spazio per altro, giusto un po' di libri come compagnia. Non vedevo l'ora. La ditta per la quale avrei lavorato, mi aveva fatto un contratto di un anno come gruista, ma di fatto la gru non la utilizzai se non un paio di volte: in Libia lavorai prevalentemente come muratore e imbianchino. Finalmente arrivò il giorno della partenza: Venezia-Roma poi Roma-Tripoli. Quando arrivai in aeroporto era già buio: un tipo vestito in modo strano a colpo sicuro disse il nome ditta. Centrato. Cercava me. Salii sul Pick up e mi feci un'altra ora di strada prima di arrivare al campo. Passammo un controllo: gli ingressi dell'Università, dove si trovava il cantiere, erano tutti sorvegliati. Finalmente arrivammo al campo e all'alloggio. Ero sfinito. Mi detti una rinfrescata e andai a letto. Dopo quattro mesi a far nulla mi ritrovavo a faticare undici ore al giorno a 42 gradi di temperatura (minimo) con time out il venerdì pomeriggio, giorno festivo dei musulmani. A fine settembre ci furono i controlli dei supervisori: ero arrivato a lavorare tredici ore al giorno. Da quando ero arrivato
in Libia ero uscito solamente un paio di volte per andare al centro commerciale: da noi non esistevano ancora. Come in ogni paese socialista, vi trovavi i prodotti di una sola marca. Da qualche anno era in vigore l'embargo e tanti prodotti scarseggiavano. Le Marlboro erano finite, difficile trovare altre marche, vendevano solamente sigarette locali. Mi pentii di aver comprato un solo paio di stecche di sigarette al deuty free. Uscire la sera, per fare cosa? Non c'erano pub, sale giochi, discoteche ed era inoltre sconsigliato avvicinare le donne locali. Vivevo in altre parole in una realtà separata. Ho trascorso perciò mesi a leggere; seguii in televisione le Olimpiadi (interrotte all'ora della preghiera) e le trasmissioni dei canali italiani (il segnale arrivava solamente per sei mesi all'anno). Giocai a carte con un paio di coetanei con cui avevo legato. Il campo era la futura facoltà di medicina: sei palazzine di sei piani, più la direzione. Un complesso ultra moderno che in Italia te lo sognavi; il cantiere era quasi finito e la ditta puntava a prendere
l'appalto del complesso di chimica e biologia che sarebbe sorto a fianco. Passati i controlli, l'orario di lavoro tornò a dieci ore al giorno. Avrei potuto rientrare a casa di lì a poco, ma decisi di attendere Natale. In quel periodo il venerdì era diventato un giorno interamente libero per cui ebbi tempo di estendere le mie visite al suk, una località a 5 chilometri ad est di Tripoli, e al centro città. Giornali esteri non esistevano: trovavi il Guerin Sportivo e Onze vecchi oramai di otto giorni. A fine anno il segnale tv già non arrivava più e a quel punto rimaneva solamente la tv di Stato con il discorso serale di Gheddafi. Il suo nome era meglio non nominarlo, onde evitare guai. Un paio di volte chiamai a casa. Per farlo dovevo andare all'ufficio postale, consegnare un documento di identità e utilizzare una cabina: le telefonate venivano registrate. Era il paese della “paranoia”. Ho avuto modo di conoscere un po' di gente con origini disparate: portoghesi, turchi, pakistani, tunisini, marocchini, thailandesi. Un melting pot impressionante. Tutti dicevano la
stessa cosa: fino a qualche anno prima vivere in Libia era “okay”. Potevi cambiare l'80 per cento dei tuoi guadagni e avevi un sacco di prodotti da comprare. Iniziato l'embargo le merci avevano comiciato ad assottigliarsi, il cambio valuta si era ridotto progressivamente e dall'80 per cento in tre anni era sceso al 50 per cento. Per gli italiani, però, non era cambiato nulla; se mancava qualcosa ti veniva pagato in Italia, se era in più te lo tenevi. Gli altri stranieri dovevano spendere tutto lo stipendio in Libia. Finalmente arrivò il giorno del rientro. Passaggio in banca per ritirare i traveller's check e poi di volata in aeroporto. L'aereo era pieno di italiani e quando arrivammo all'aeroporto la maggior parte era ubriaca, rideva e parlava ad alta voce. Sbarcato a Venezia, mi sentivo gli occhi di tutti addosso. Ero l'unico in maglietta e scarpe da ginnastica: fuori nevicava. Vidi mio padre che mi guardava stranito: era da tre mesi mesi che non mi radevo, né mi mi tagliavo i capelli. Ci abbracciammo ed io mi sentii nuovamente a casa. Trascorsi il Natale in famiglia e dei giorni spensierati. All'idea di tornare in Libia stavo male, ma evitai di pensarci e finite le feste ripartii. A Tripoli al mio rientro partecipai, con mia incredibile sorpresa, alla prima ed unica festa con donne, musica giusta, ottima birra e sbronza in omaggio. E dove le trovi in un paese musulmano queste cose? Ritornato a Tipoli, a fatica riuscii ad arrivare a fine contratto e quando mi riproposero un rinnovo di un altro anno rifiutai. Ero contento di aver mantenuto l'impegno, ma a quel punto ne avevo abbastanza. Questa in Libia per me fu la prima di una serie di esperienze lavorative all'estero.
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi
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Cristina Colautti È arrivata in sede in punta di piedi, adesso non le sfugge niente, anzi. Dottoressa in sociologia Bis, porta a casa un 110 e lode a mani basse! Pare che “ansia” sia il suo secondo nome, ed infatti è la nostra donna per Codice a s-barre, così almeno lì, si sente al sicuro!
Andrea Lenardon Tirocinante, educatore, psicologo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.
Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!
Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost Capo Redattore Cristina Colautti Redazione Irene Vendrame, Ubaldo, Piero, Simone G., Simone F., Ermias, Alain Sacilotto, Andrea Lenardon, Antonio Zani, Andrea S., Mauro P., Virginia Bettinelli, Fabio Passador, Silvio Vicenzi, Marco Ciot, Patty Isola, Stefano Venuto, Elisa Cozzarini, Emanuele Celotto, Sara Lenardon. Editore Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto Impaginazione Ada Moznich
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Andrea S. Quando la storia della tua vita è un film di Tarantino, quando decidi che la voglia di vivere diventi il finale del film, quando tutto questo è condensato in un unico uomo, all’accendersi delle luci in sala non puoi che applaudire il protagonista. Fa dell’informatica la sua ragione di vita e per ora riesce con grande stile ad accendere il computer! In miglioramento!
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Patty Isola L’immagine che la identifica è quella di un folletto. Eterea, nel bene e nel male mai banale, sfuggente, pungente, che appare dal nulla lasciando segni colorati di pennelli e sensibilità per poi scomparire nel suo mondo. Mondo che un po’ la protegge ed un po’ la mangia.. ma i folletti vivono così, ricercando equilibro dentro la rischiosa magia del buio.
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Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia
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Irene Vendrame E’ arrivata in redazione una cucciola! Giovanissima, timida e delicata, ma altrettanto determinata e ambiziosa. Sogna di diventare una famosa giornalista come Oriana Fallaci, così è stata arruolata da LDP per farsi le ossa. Benvenuta Irene!
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Emanuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili
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Virginia Bettinelli Scrive scrive scrive, piacere esigenza amore. Non trova pace nella sua vita trafelata, in perenne corsa alla ricerca di stare al passo con l’orologio che invece, implacabile, indica il tempo troppo velocemente. Nella scrittura trova invece la quiete, la pausa, sopra il delirio. Scrive per la Panka anche per questo, tentativo di pace in un mondo ostile.
Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 1 di Paolo Baldini Foto a Pagina 2 e 3 a cura dei gruppi intervistati. Foto a pagina 4, 6, 7 e 8 dal sito: https://it.graphicstock.com/ Foto a pagina 9 di guido Cecere. Foto a pagina 10 di Pierpaolo Mittica. Foto a pagina 11 di Elio Ciol. Foto a Pagina 12 di Silvio Vicenzi e Michele Missinato. Foto a pagina 13 di Marco Ciot. Foto a pagina 14 Patty Isola. Foto a pagina 17 di Giorgio Mazzon. Foto a pagina 18 dal sito: https:// commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle dipendenze di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN BCC: IT69R0835612500000000019539 Codice IBAN Friuladria: IT80M0533612501000030666575
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Marco Ciot Ama della vita il romanticismo delle relazioni, la vicinanza agli altri che diventa calore che riscalda, abbracci e sorrisi che ti fanno credere che ci sia un meglio, che ci sia sempre di meglio. Questo calore l’ha portato in Brasile, dove il freddo non esiste e da dove, al rientro, un po’ di sole te lo tieni dentro. Scrive per noi perché non ha paure delle sfide, dell’oltre, del dopo.
Stampa Grafoteca S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN
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Mauro Paludetto Forse l’ultimo dei romantici, innamorato delle donne e dei loro difetti, ha momentaneamente abbandonato il regno. Una piccola e salvifica pausa di riflessione tra le colline per riprendere lo smalto, comunque solo sbiadito, di uomo d’altri tempi. La panchina è donna, si amano a vicenda.
Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930
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Fabio Passador Attualmente panchinaro di lusso! Come ogni giocatore di calcio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di testa, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist
La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00 Con il sostegno di:
UN'IMMAGINE VALE PIU' DI MILLE PAROLE CONFUCIO
I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA