APPROFONDIMENTO
GRAZIE NAPOLI
Libertá di Parola 4/2012 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
Dal 18 al 21 ottobre I Ragazzi della Panchina erano a Napoli con la compagnia nata dal laboratorio di teatro per rappresentare la commedia di Pino Roveredo “La Legge è uguale per tutti?”. Due i teatri calcati dagli attori: Afragola e Scampia. Con loro anche la dottoressa Roberta Sabbion e il dottore Alessandro Zamai, in rappresentanza dell’Azienda sanitaria del Friuli Occidentale, e il sindaco di Pordenone, Claudio Pedrotti. a pagina 9
L' EDItoriale
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non solo sport
Pezzutto e Pittacolo: «Lo sport ci ha dato una seconda vita» INVIATI NEL MONDO
di Pino Roveredo
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Alcol, quando nessuna fonte disseta
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ASPETTANDO GINETTO… Quando mi hanno chiamato al telefono, e con una voce senza scherzo, mi hanno annunciato che Ginetto se ne andato, dico la verità, non sono riusciuto a sentire addosso il dolore tragico che si prova per una scomparsa definitiva, ma piuttosto ho provato l’ansia che solitamente si dedica alle partenze improvvise, quella che dopo aver pagato la moneta dell’attesa, ti regala la soddisfazione del ritorno. Gino se ne andato! Certo, ma poi ritorna, e noi siamo qui che lo stiamo aspettando. Sì, Ginetto tornerà, come sempre, col suo passo incerto, le mani in tasca, la sigaretta in bocca. Tornerà con la puntualità del suo ritardo, e spartirà saluti, distribuirà battute, e ci regalerà il suo sorriso nascosto tra la smorfia della barba e l’assenza dei denti. E sarà il solito Gino, con gli occhi accesi del gatto, pronto a saltare sui commenti di passaggio con le frasi brevi e secche della sentenza, proprio lui, che ha speso una vita a farsi colpire dai verdetti, e senza mai ferirsi, senza mai ammazzarsi, ma trattando la condanna col sussulto delle spalle e la faccia immobile del “Chi se ne frega”! Gino se ne andato! Ma quando mai, Gino è sempre qui che va, viene, torna, ritarda, è qui col suo carico di condanne e
IL TEMA
Laghi di Plitvice, un patrimonio dell’Umanità a pagina 15
Pankakultura
FINALMENTE A CASA La nuova sede dei Ragazzi è aperta tutti i pomeriggi in via Selvatico a Pordenone Dopo un anno esatto trascorso “senza fissa dimora” per I Ragazzi della Panchina riparte la quotidianità. Apre la nuova sede, provvisoria, in via Selvatico 26, a Pordenone. L’operatività a “pieno regime” si realizzerà a gennaio, ultimati i lavori di pittura delle stanze, trasloco, attivazione linea internet. Saranno queste delle azioni che alla fine ci permetteranno di riattivare un processo lasciato in sospeso con i ragazzi. Saranno azioni che regaleranno ai ragazzi uno spazio al caldo, una doccia ed una lavatrice, momenti di convivio e relazioni in un
terreno equilibrato, formato da assenza di pregiudizi e da presenze di opportunità. La strada infatti rappresenta la genesi dell’associazione, ma non può essere “domus”. La strada è luogo con cui fare i conti ed al quale tendere ideologicamente per proporre cambiamento cittadino, ma si deve necessariamente passare attraverso il confronto ed in questo caso i luoghi, attraverso i valori che acquisiscono abitandoli, spesso, determinano il processo ed i risultati. La sede sarà aperta a tutti dal lunedì al venerdì dalle ore 14 alle 19.
Gianfranco D’Angelo, da dipendente Telecom ad attore a pagina 16
l'angolo della daniela
Caro ministro Fornero, io schizzinosa? No, solo una apprendista a vita a pag. 18
il tema
ALCOL E GIOVANI, UN PROBLEMA DEGLI ADULTI Sono loro che devono dare l’esempio. Le istituzioni invece ne combattano l'abuso di Paolo Cimarosti, medico e responsabile servizio di alcologia Pordenone Da qualche tempo tiene banco nei mass media e quindi nella società italiana il dibattito sul problema del consumo rischioso di alcol da parte dei giovani, adolescenti e preadolescenti, con Cassandre che si strappano le vesti ad ogni incidente stradale alcolcorrelato che vede vittima un giovane e “specialisti e conoscitori del problema” interesProsegue la meravigliosa collaborazione tra la “Festa in Piassa” di Villanova di Pordenone e l’associazione I Ragazzi della Panchina. L’iniziativa ha confermato, per il terzo anno consecutivo, la presenza dell’associazione all’interno della manifestazione “Festa in Piassa 2012”, attraverso la realizzazione di stand posizionati all’interno dell’area Skate Park (area giovani) della manifestazione stessa. Anche in questa edizione è risultata vincente la presenza negli stand, oltre che degli operatori e dei ragazzi dell'associazione, degli educatori del Ser.T e dell’Alcologia di Pordenone. Queste presenze multi professionali, hanno dato la possibilità di interagire con i presenti alla manifestazione in maniera ampia, dando risposte alle più svariate richieste. Nello stand si poteva prendere materiale informativo riguardante l’associazione, giornali “Libertà di Parola”, profilattici, libri, ma anche brochure riguardanti consumo e danni correlati al consumo di alcol, alle malattie sessualmente trasmissibili e via dicendo. L’azione diretta proposta era quella di dare la possibilità di poter misurare la propria alcolemia attraverso l’utilizzazione di etilometri professionali. Tutto questo in forma assolutamente gratuita ed anonima. Prima del classico “soffio” a tutti i partecipanti abbiamo somministrato un questionario da compilare, grazie al quale poter elaborare una lettura sui dati raccolti. Attraverso la collaborazione trai
sati che si affrettano a spegnere preoccupazioni, lacrime e rimorsi. In realtà le preoccupazioni per l’allontanarsi dei giovani dal modello del bere mediterraneo, che prevedeva l’assumere bevande alcoliche ai pasti ed in occasioni conviviali con la quasi esclusione delle donne, risalgono a quasi 20 anni fa; ma se cerchiamo nel passato troviamo
molti esempi di ubriacatura coinvolgenti i giovani. Ricordo, a questo proposito, una ricerca delle scuole di Parma del 1924 in cui il ricercatore si preoccupava perché solo l’11% dei ragazzi dichiarava di non assumere bevande alcoliche. Ricordiamo, inoltre, che la prima legge sull’alcol fu fatta da Giolitti nel 1913. E allora? L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha a cuore la salute delle popolazioni dei paesi membri, già nel 2001 con la Dichiarazione di Stoccolma sul “Alcol e Giovani” tracciava un percorso di interventi che man mano sono diventati sempre più chiari; tra questi, gli interventi più efficaci caldamente consigliati ai paesi membri sono: la riduzione della disponibilità degli alcolici e l’aumento del prezzo mediante tassazione. Esattamente il contrario di quanto sta accadendo: si
Si comincia da adolescenti, per divertimento L’esito dell’indagine condotta da Rdp alla “Festa in Piassa” su un campione di 156 giovani di Stefano Venuto e Giulia Rigo vari attori del pubblico e del sociale è stato raccolto il parere di ben 156 giovani in merito alle proprie abitudini nel consumo di sostanze e i “luoghi comuni in Piassa”. I giovani sono stati guidati nel rispondere ad alcune semplici domande dai 5 operatori coinvolti nelle sei serate, affiancati da alcuni giovani volontari della Croce Rossa Italiana, appartenenti alla componente dei Pionieri, da sempre impegnati anche loro nel campo della prevenzione alcologica e della sensibilizzazione pubblica. L’alcol ha giocato un ruolo centrale nell’indagine: svolge per i ragazzi più giovani (1517 anni) la funzione di divertimento, mentre con il crescere dell’età lascia lo spazio a funzioni diverse che caratterizzano la quotidianità. L’alcol è risultato infatti per la metà degli intervistati una sostanza di uso normale, soprattutto nei ragazzi con un età compresa tra i 20 e i 24 anni. Di pari passo, all’aumentare dell’età si è registrato il crescere del con-
sumo e l’incapacità a stimare correttamente la propria alcolemia. Il “soffio” ci ha permesso di osservare come il consumo possa far sottostimare il dato e quanto sia importante intervenire qualora l’alcolemia non consenta di mettersi alla guida: spesso i giovani non percepiscono questo come un rischio, forse in parte dovuto alla diversa frequenza con cui vengono assunti gli alcolici. Si evidenzia infatti dai risultati dell’indagine che sono più frequenti i consumatori che hanno più occasioni di uso duran-
inventano feste e sagre che coniugano bevande alcoliche e piatti tipici e proliferano i locali dove si attua il 3 per 2 (tre birre al prezzo di 2). Inoltre manca una legge sulla pubblicità che tuteli i giovani, ma anche gli adulti, da informazioni fuorvianti e falsi modelli . Di chi è la colpa? Il problema “Alcol e Giovani” è, in realtà, un problema degli adulti, sono gli adulti che devono occuparsene a partire dal singolo (genitore, nonno, zio ….) che deve porsi la domanda: quale esempio sto dando a mio figlio o nipote? Sono le istituzioni che devono responsabilmente occuparsi della salute dei giovani mettendo in pratica le indicazioni dell’OMS e intervenire con i rigori della legge dove necessario, anche applicando la recente legge che vieta di vendere alcol ai minori di 18 anni. te la settimana che quelli del fine settimana soltanto. Stare in relazione con chi liberamente si rivolgeva allo stand ci ha consentito di sfatare alcuni miti rispetto ai comportamenti a rischio, come il sentirsi in grado di guidare dopo l’assunzione di alcolici, sebbene la prontezza dei riflessi nel reagire agli stimoli sia rallentata e la percezione e l’attenzione risultino compromesse. La consapevolezza rispetto alle conseguenze delle situazioni come questa è inadeguata rispetto alla reale probabilità che i giovani consumatori si trovino in breve in una situazione di pericolo, per cui è stata ancor più preziosa la disponibilità degli operatori ad intrattenere le persone in caso di necessità. Anche quest’anno la presenza alla “Festa in Piassa” è risultata un’occasione dall’inestimabile valore, perché fiducia, riconoscimento di un servizio di prossimità, continuità, coerenza, sono risultati che non si comprano ma si conquistano nel tempo, in una azione pubblico-privato eccellente.
Giacomo, il ragazzo che aveva sete che sia fatta la Sua volontà e non la mia, trovando pace e serenità. È una verità assoluta che: «Una volta alcolista, resti alcolista per sempre; come una donna che non può essere gravida a metà». Questa condizione bisogna accettarla e poi ammetterla; non è un disonore, è solo che talune persone non riescono a controllare il loro bere. Nell’impari contesa con la bottiglia la loro volontà si azzera, così da oltrepassare quel confine invisibile che porta alla totale dipendenza. Un’altra verità dice che: «Non puoi togliere la bottiglia dalla mano di un alcolista senza dargli nulla in cambio». E Giacomo, il ragazzo che aveva sete, queste verità le ha ben stampate nella
mente e non vuole ritornare sulla croce. Così, al posto della bottiglia, oltre a fare il colibrì che con una goccia d’acqua nel becco vola a spegnere la foresta in fiamme mentre il leone fugge, ha messo un foglio e una penna e ha cominciato a scrivere. Con una nota casa editrice cittadina ho pubblicato tre volumi che raccontano storie di famiglia, di vita e di persone del luogo natio negli anni della fanciullezza. Poi ho sentito la necessità di quest’ultimo libro, che ho auto-editato, a rendimento di grazie per quello che ho ricevuto in questi quindici anni di sobrietà. Con la speranza che chi lo legge trovi qualche risposta, e magari serva al bisognoso, soprattutto se è giovane, per evitare di arrivare a toccare il suo fondo. Ringrazio “Libertà di Parola”, per questo spazio e per la recensione al libro “Quando nessuna fonte dissetava”. Sono certo che quella fonte è dentro di noi, non serve cercarla in effimere illusioni, che portano solo a una vita inenarrabile sino a toccare il fondo. E tu ragazzo credimi, pensare che: “A me non toccherà”, è solo un imbroglio perché potrebbe capitare proprio.
morire» - ma anche i familiari che evitano di farsi vedere in giro perché si vergognano di te. C’è poi il fisico che inizia a perdere colpi fino a quando non vengono a galla gli effetti (cirrosi e danni assortiti) e le conseguenze (ospedale, fegato mezzo andato), a cui spesso si aggiunge anche la disgregazione della famiglia. La narrazione si alterna tra il tentativo di Mauro di indirizzare Tony got verso la struttura del gruppo di aiuto degli Alcolisti Anonimi, il suo provare a cambiare e vedere che è possibile anche se non è stato facile, dato che resterà per sempre un alcolista, ma anche la sua rinascita, le difficoltà di approccio che sa di incontrare con Tony e la fidu-
cia nel sapere che sono amici e che lui è li per aiutarlo. Mauro ci tiene a restituire ciò che ha avuto, ovvero quella sobrietà che gli ha ridato la vita, e poterlo fare con l’amico sarebbe bello. Avvicinare i familiari alla struttura è il primo passo ed anche un altro cliente dell’hostaria, Pieri moneda, ha iniziato ad interessarsi alla cosa e da qualche giorno beve acqua e menta. Ad un certo punto l’autore si domanda se esistano davvero Tony got, l’hostaria ed il paesino. Alla fine, gli arriva una mappa con la descrizione dettagliata del paesino: incontrerà Tony e Mauro. Arriva e va al camposanto. Una volta giunto lì scopre però che il narratore e lo scrivano (in realtà una scrivana) senza penna sono due morti suicidi. Erano delle brave persone, ma la loro vita si è bruciata nell’alcool. Il libro è un modo per ricordarle e trasmettere un messaggio di vita e speranza a chi è ancora “preso dentro” con l’alcool. Particolare interessante: il libro è diviso in dodici tappe, esattamente come il programma di Alcolisti Anonimi è basato sui dodici passi
«Meglio sarebbe fermarsi prima di toccare il fondo. Ma tutti pensano: “A me non toccherà!”» di Giacomo Miniutti «Il mio nome è Giacomo e ho bisogno di aiuto». Questo è ciò che ho detto e fatto oltre quindici anni fa. Dal fondo dell’abisso in cui ero precipitato, ho raccolto i mille pezzi del mio corpo e ho avuto l’umiltà e il coraggio di bussare alla porta di un gruppo di auto-aiuto per alcolisti. Lì ho trovato il sostegno che mi serviva e poi, con il tempo, l’ho restituito ad altri bisognosi come lo ero stato io. Ho capito che: «È dando che si riceve» e questo è divenuto il mio motto. Solo aiutando gli altri trovo la forza per dire no, un giorno alla volta, al primo bicchiere. So che ci sono due giorni all’anno in cui non posso fare niente: uno è ieri e l’altro è domani, ma l’oggi è
qui presente e posso e devo viverlo nell’assoluta pienezza. A onore del vero devo dire che sono stati due infermieri a raccattare i pezzi e caricarli sull’ambulanza con meta l’ospedale cittadino. Da lì, l’incontro con il Sert e poi la frequenza del dispensario di alcologia. Alla dimissione, credo di aver fatto la scelta più importante della mia vita, che tuttora continua e che si concretizza nella frase e nell’azione menzionate. Allora avevo quarantacinque anni; o mi fermavo o continuavo. E così ora sarei là, dove tutti dormono. Ma ho scelto la vita, accettandola com’era; ero io che dovevo cambiare, non lei o le altre persone. Ho chiesto al Signore
“Quando nessuna fonte dissetava” Storia di chi ne è uscito e di chi ci sta ancora dentro recensione di Emanuele Celotto L’ultimo libro del pordenonese Giacomo Miniutti narra le peripezie di gente appassionata di bevute. Il testo viaggia a “tre voci”. C’è il narratore, lo scrivano senza penna (via e-mail) e l’autore del libro che deve assemblare quanto gli arriva. Il protagonista (Mauro) racconta uno spaccato della sua vita, il paesino dove tutti si conoscono e dove sono sepolti alcuni amici; parla di uno (Nicola) che ha accompagnato al cimitero e di Tony got che al cimitero ci lavora, scavando a mano le buche per i defunti. Il paesino è quello tipico con l’hostaria dove si incontravano e dove va tuttora Tony a rifornirsi. Mauro è sobrio da un bel po’ di anni e vorreb-
be fare qualcosa per aiutare l’amico Tony got ad uscire dal circolo vizioso della bottiglia. Nel suo parlare, in alcuni momenti Mauro rivive il suo passato, le bevute in compagnia – «Un buon bicchiere non ha mai ammazzato nessuno»- e il bere che diventa motivo di aggregazione, poi il desiderio di bere che si fa sentire sempre più, fino a trasformarsi in una sete perenne. E’ l’inizio di una spirale perversa ed autodistruttiva che finisce per coinvolgere la famiglia e le persone che ti sono vicine, esattamente ciò che sta attraversando Tony. Quasi sempre c’è la difficoltà ad ammettere il problema, finendo quasi per negarlo o giustificarlo – «Di qualcosa si deve sempre
non solo sport
Sport e disabilità, oltre ogni barriera Sono 200 in provincia gli atleti iscritti al Comitato Paralimpico di Milena Bidinost Ancora meglio delle Olimpiadi, le Paralimpiadi di Londra 2012 hanno celebrato lo sport vero, senza barriere, che è tale grazie alla tecnologia ma soprattutto al talento e alla determinazione di chi nello sport ha trovato il luogo della sua personale rivincita. Un luogo fatto ancora di semplicità, valori e relazioni umane: qui la vittoria non è qualcosa di scontato, la si suda di più. A Londra 2012, ad agosto, c’erano anche i nostri atleti
paralimpici. Era infatti di sette partecipanti la spedizione Fvg. La pongista Pamela Pezzutto è pordenonese di Brugnera, la velista Marta Zanetti è di Trieste, gli altri friulani erano i ciclisti Michele Pittacolo di Varmo e Andrea Tarlao di Fiumicello, il cestista Fabio Bernardis di Tavagnacco, il pongista Giuseppe Vella di Lignano Sabbiadoro e l’arbitro di basket in carrozzina Cristian Roia di San Daniele. Tutti usciti da un sotterraneo che fa
parte della quotidianità dello sport, oltre le luci della ribalta. In provincia di Pordenone, in particolare, sono circa un centinaio gli atleti agonisti ed altrettanti quelli che praticano costantemente l’attività promozionale, in tutte le tre disabilità paralimpiche: disabili fisici, non vedenti e intellettivi relazionali. Si mescolano agli atleti normodotati, all’interno delle società che aderiscono al Comitato Paralimpico del Friuli Venezia Giulia, presieduto da Marinella Ambrosio. Esso fa capo al Cip nazionale, del presidente Luca Pancalli, e ha sede a Cordenons, in viale del Benessere (www. cipfriulivg.it). Il praticare attività sportiva tra gli atleti normodotati è un traguardo conquistato di recente, che eleva all’ennesima potenza i benefici che lo sport regala a chi è portatore di una disabilità: ne permette cioè di “curare il corpo”, rafforzare “mente e
spirito” e soprattutto abbattere le barriere sociali. A questo tende la storia del Cip che è tutt’ora in evoluzione. Essa affonda le sue radici negli anni ’70, nell’Associazione nazionale Sportiva Paraplegici Italia (Anspi), denominazione poi convertita in Federazione Sport Handicappati (Fisha). Nel 1981, con l’adesione al Comitato Olimpico nazionale (Coni), la Fisha divenne una federazione organizzata e diede una svolta storica alla propria attività. Nel 1987, grazie al riconoscimento giuridico decretato dal Coni, la Fisha divenne a pieno titolo una delle allora 39 Federazioni sportive che lo costituivano, in rappresentanza anche delle altre due federazioni Fics (Federazione Italiana Ciechi Sportivi) e Fssi (Federazione Silenziosi Sportivi Italia). Nel 1990 le tre si fusero nella Federazione Italiana Sport Disabili (Fisd), che nel 2003 si
non farmi sentire il peso del cambiamento, facendomi, nel possibile, condurre le giornate nella quotidianità che vivevo un tempo, elemento che fu fondamentale per riuscire ad accettare le nuove condizioni di vita». Alla fine del 2004 per recuperare la forza motoria che aveva perso con l’incidente, fu accompagnata nella clinica di riabilitazione “Centro Progetto Spilimbergo”, che offre anche la possibilità a persone disabili di trovare inserimento nello sport. Grazie ad un amico conosciuto in quella clinica, che le trasmise la passione per il tennis tavolo, Pamela iniziò così a giocare e fu notata da un tecnico della Nazionale. Entrò a far parte della società associazione sportiva dilettanti Polisportiva di S. Giorgio di Porcia. In questa specialità ottenne velocemente grandi risultati e svariati podi grazie ai quali
conquistò i punti necessari per partecipare, nel 2008, alle Paralimpiadi di Pechino, dove vinse la medaglia d’argento. Quest’anno ha partecipato anche a Londra 2012, bissando quel risultato. Pamela ora ha 31 anni e ritiene lo sport una bellissima, ma sacrificante parentesi della sua vita. Per questo ha deciso che parteciperà ancora ad un ultimo campionato, per poi dedicarsi con la stessa passione che ha messo nello sport al suo vero sogno, ovvero quello di dare alla luce un bimbo. «Alle persone come me dico – è il messaggio che lancia la campionessa paraolimpica di Sacile - di non voltarsi indietro perché proprio lì davanti c’è un mondo che aspetta comunque di essere vissuto». E se Maometto non va alla montagna, Pamela dimostra che anche a quattro ruote si può arrivare in cima.
«Anche su quattro ruote si può arrivare in cima» La campionessa di tennis tavolo Pamela Pezzuto, da tredici anni in carrozzina, ora punta a diventare mamma di Daniela Russo «Quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano». I versi di Francesco Guccini sembrano scritti per Pamela e per i tanti ragazzi che come lei vengono travolti improvvisamente da un destino inaspettato che cambia loro la vita. Quella sera del 2000, Pamela Pezzutto, allora 19enne, uscì in macchina con delle amiche per passare la serata. Quattro chiacchiere, qualche risata poi, nel rientrare a casa, quello schianto, che le fece perdere i sensi per poi risvegliarsi sul ciglio della strada con la spaventosa sensazione di aver perso per sempre qualcosa. Pur non avendo completa chiarezza dei dettagli dell’incidente, Pamela ricorda che da distesa aveva chiamato sua sorella dicendole di non sentire più le gambe. Trasportata a Udine in elicottero, le diagnosticarono una le-
sione cervicale con fuoriuscita del midollo spinale. Trascorse due mesi in terapia intensiva, intubata a seguito di una tracheotomia. «In quel periodo – racconta oggi Pamela - non avevo perso le speranze di tornare in piedi e credevo che con la riabilitazione avrei potuto riprendere lo sci e le mie amate escursioni in montagna, che fino a prima riempivano le mie giornate». Pamela realizzò solo dopo tempo che non abrebbe mai più recuperato l’uso delle gambe, e che avrebbe dovuto vivere con questo handicap. Fu un recupero molto lungo, durato un anno e mezzo tra fisioterapia ed incontri psicologici. «Trovai nella mia famiglia – afferma la ragazza - in quell’amico speciale, conosciuto due mesi prima dell’incidente diventato dopo tempo suo marito il sostegno morale necessario ad andare avanti. Sono riusciti a
trasformerà nel Comitato Italiano Paralimpico.
LE SOCIETÀ In regione sono 33 le società sportive iscritte al Comitato Italiano Paralimpico, di cui 11 nella provincia di Trieste, 9 nel Pordenonese, 8 in Friuli e 5 nel Goriziano. Da noi le società iscritte al Cip Fvg sono: “Polisportiva Villanova” di Pordenone (judo blind); Polisportiva “S. Giorgio” di Porcia (tennistavolo); S.c. Fontanafredda (settore H.F.); Anb Fiamme Cremesi di San Vito al Tagliamento (tiro con l’arco); Asd Roveredo (ciclismo); Sekay Budo Pordenone (judo); Team “La Rosa” di Cordenons (ciclismo); Curling Club Claut (culing); “Anche noi a cavallo” di Porcia (equitazione).
LA CARRIERA Pamela Pezzutto nasce il 17/07/1981 a Sacile. Nel 2000 perde l'uso delle gambe in seguito ad un incidente stradale e nel 2004 durante la riabilitazione si avvicina al tennis tavolo. Nel 2005 inizia la carriera agonistica vincendo subito il titolo europeo a squadre a Jesolo, e nel 2006 il bronzo singolo ai campionati italiani di Torino. Il 2007 è argento nel singolo ai nazionali di Lignano e squadre all’europeo di Kranjsca Gora. Nel 2008 arriva il primo titolo italiano nel singolo ancora a Lignano, e l’argento singolo e squadre alle Paralimpiadi di Pechino. Nel 2009 bissa il titolo nazionale singolo a Messina e a Genova vince il titolo europeo singolo e squadre. Il 2010 la vede bronzo sempre nel singolo ed argento a squadre ai mondiali di Gwangju in Corea del Sud, oltre agli ori dei campionati italiani di Giaveno: singolo e doppio femminile. Nel 2011 a Spalato in Croazia si laurea campionessa europea singolo e a squadre. Ancora oro nel singolo ai nazionali di Lignano nel 2012 e argento nel doppio femminile e nel open 1-5. Poi la sua seconda paralimpiade a Londra 2012 dove è argento nel singolo e quarta a squadre.
Una bicicletta per tornare a vivere Pittacolo: «Dopo l'incidente che mi distusse il corpo, capii che potevo ricominciare daccapo» di Guerrino Faggiani A volte la vita può cambiare di colpo e trasformarsi in un’esistenza completamente diversa che costringe a ricominciare daccapo. Così è successo a Michele Pittacolo, che il 12 settembre 2007 si è visto stravolgere la vita dalle fondamenta a causa di un incidente stradale. Michele aveva nella bicicletta una grande passione e proprio mentre si allenava, a Medea nei pressi di Villesse, è stato investito da una macchina. «Non ricordo niente dell’incidente - racconta oggi Michele - so che sono stato elitrasportato al Cattinara di Trieste con la base cranica frantumata nel lato destro». All’asportazione dell’osso seguirono il coma farmacologico, cinque interventi chirurgici e mesi di traversie come le ha chiamate Michele. «Poi una volta ricucito - continua poggiandosi la mano sulla testa - avevo una conca che rientrava, praticamente la pelle aderiva al cervello. Sono rimasto in quelle condizioni fino ai primi di gennaio del 2008 quando mi è stata ricostruita la calotta cranica in resina e titanio». Come conseguenza dell’incidente, il ciclista oggi ha anche una spalla fratturata e calcificata male perché curata in ritardo in quanto la testa aveva la precedenza. «Mi è poi rimasto anche un problema alla mano destra - dice Michele aprendola piano-. Non ho forza, si atrofizza e i nervi non lavorano più. Mi sono sottoposto a degli interventi ai tunnel ulnare e cubitale per cercare di sbloccarla ma.. adesso ad esempio mi fa malissimo, perché oggi l’ho un po’ usata». Ha anche problemi di equilibrio, soprattutto quando è stanco. «Quando mi alzo - spiega - devo stare attento a coordinarmi bene e magari muovermi radente ad un muro. Poi ho difficoltà di linguaggio, un problema all’occhio sinistro e forti mal di testa con cui convivo». Oggi
la sua è una vita difficile che va conquistata giorno per giorno. «Non è facile - annuisce il paralimpico - ma sono felice, molto felice. Per me anche solo svegliarmi alla mattina è una vittoria». Dall’assistenza continua di cui aveva bisogno dopo l’incidente, alle condizioni attuali c’è un mare. Come è cominciata la scalata? «È stato quando a fine gennaio mi è arrivato a casa un regalo - ricorda Michele Eusebi, un costruttore di biciclette, avendo saputo quello che mi era successo me ne ha mandata una. Mia moglie e mia suocera mi hanno
incitato a provare - prosegue - così ci sono salito sopra e mi sono messo in strada. La prima volta ho fatto circa cinque chilometri con mia moglie dietro che mi seguiva in macchina». Alla volta successiva il percorso si è allungato e poi anche alla terza, fino a quando Michele ha realizzato che stava migliorando. «Allora mi sono detto - afferma - se miglioro con la bici, di conseguenza miglioro anche nella vita. E così un po’ alla volta sono tornato alle corse, in questo modo ho anche superato il problema del rapporto con le altre persone. Dopo l’incidente non avevo neanche il coraggio di uscire di casa - ricorda Michele - tra cicatrici e sbandamenti avevo addosso gli occhi di tutti, ma correndo in bici ho superato anche questo». E nel futuro? Cosa farà Michele Pittacolo quando non gareggerà più? «Vorrei aiutare chi è in condizioni simili alle mie conclude - a trovare la voglia ed il coraggio di tornare a vivere nel mondo assieme agli altri e magari a farlo proprio attraverso lo sport».
LA CARRIERA Michele Pittacolo è nato a Udine il 5 settembre 1970 e risiede a Varmo. Dilettante di ottimo livello fino al 2007 quando un brutto incidente lo costringe a smettere. Ma nel 2009 si ripresenta alle gare, esegue le visite mediche di classificazione del CIP, Comitato Italiano Paralimpico, e viene classificato nella categoria C 4. Subito vince due campionati italiani su pista e a Borgonovo (NO) i titoli mondiali cronometro e strada. A Manchester (GB) si aggiudica l’oro nell’inseguimento individuale su pista con il record del mondo. Nel 2010 arriva il bronzo
mondiale su strada a Baie Comeau in Canada, la coppa del mondo sempre su strada, tre titoli nazionali ed il 2° posto nel ranking mondiale UCI. Nel 2011 si riprende il titolo iridato su strada a Roskilde (Dan), vince due prove di coppa del mondo e la classifica finale. 5 prove di coppa Europa, 4 titoli nazionali e 1° nel Ranking mondiale. Nel 2012 si è aggiudicato quattro titoli italiani, un oro di coppa Europa su strada a Piacenza, ed in quella del mondo a Roma. Ed il bronzo olimpico di Londra che da solo può valere una carriera.
Dietro le quinte di una periferia per bene
L'ANGOLO DELLA FRANCA
Viaggio nella notte, tra prostitute, giocatori e giovani alle prime armi con la roba di Ferdinando Parigi Soffro di insonnia e da anni vivo anche di notte. A volte, verso le 4 mi capita di proiettarmi in un bar tabacchi della periferia che, per la fortuna di tanti, tiene aperto 24 ore al giorno, per 365 giorni all’anno. E’ un’immersione totale in un mondo parallelo, in cui si incontra la gente più impensata. Le ragazze al banco subiscono un turnover rapidissimo, ma hanno tutte la caratteristica di essere simpatiche. La porta si spalanca ed entrano saltellando tre giovani e bellissime prostitute, seguite dal loro magnaccia. Sono vestite di niente e fa un freddo cane, ma non sentono nulla perché sono ubriache e fatte di coca. Il magnaccia è l’icona del magnaccia: non molto alto, moro coi capelli corti, barba di tre giorni e un ghigno odioso stampato sul muso per via dei lauti incassi della notte. Ogni volta cerco di registrare tutto senza farmi notare. Dalla sala fumatori escono, gioconde, due ventenni. Ridono beate, sono vestite come se dovessero andare a scuola. Alle quattro del mattino. Mah! Entrano due tizi giovani vestiti eleganti, visibilmente svegli da ore e chiaramente in procinto di affrontare un nuovo giorno, o quello che resta della notte. Che lavoro faranno? Questo bar ha un vago odore caratteristico che non saprei definire. C’è un etilometro appena entrati, e attaccato a questo c’è il frigo delle birre. Una delle tre tipe di cui sopra insiste per prendere una birra, e quella del bar, paziente le dice: «No, non puoi, fino alle 6 non posso darti niente». Lì inizia un tira e molla in cui la giovane prostituta si dimostra molestissima. Entrano due della Polstrada. Lei ha un crollo dell’umore molto evidente e finalmente ammutolisce. Grazie a Dio ha smesso di rompere. Per fortuna il bar è frequentatissimo dalle forze dell’ordine, o nel giro di tre settimane diventereb-
be un feudo inespugnabile in mano a quelli dell’est. Su cinque auto con equipaggio prostitute più magnaccia, tre o quattro sono della Romania. Una volta un amico poliziotto mi disse: «Di notte la gente per bene sta a casa». Grande verità, con qualche rara eccezione a confermare la regola. La “figona” del banco, la più appariscente delle quattro, è un insieme di abbronzatura, tacchi, minigonna, ombelico di fuori e trucco potente. Tutti a sbavare dietro di lei, ognuno crede di dire la parola che fa breccia, e lei dosa la corda da dare a ciascuno. Divertentissimo. Arriva ora un personaggio che meriterebbe un libro. Dico solo che è enorme, paonazzo, biondo, miopissimo, faccia da mastino e camicia aperta fino alla pancia anche in gennaio. Lo vedo da trentacinque anni in città e delinque da sempre senza alcun profitto. Dalla sala delle slot machines esce un tizio con un secchiello zeppo di gettoni e va a cambiarli in cassa. Ha vinto 300 e rotti euro e sta incassando, ma è gelido e indifferente all’ambiente. Come un automa, torna alle slot a rigiocarseli (a perderli). Vuole così, e nulla può fermarlo. Sembra un tossico quando sta andando a farsi. «Chissà quanto comodo avrebbero fatto quei soldi alla sua famiglia», penso io. Mentre bevo il mio cappuccino, due ragazzini accanto a me si scambiano fumo contro soldi, convinti di non essere notati. Ma sono imbranatissimi, sbagliano il passaggio e il pezzetto di fumo cade a terra. Mi sento come un veterano che osserva delle reclute mentre sbagliano tutto. Molto divertente. Guardo l’ora e mi cade l’occhio anche sulla data. Sono le cinque ed è domenica 18 novembre. Mi rendo conto che in questo istante compio cinquant’anni, essendo nato alle 5 del mattino del 18 novembre 1962. Era di domenica, proprio come oggi.
Stefan Wernl
Polveri sottili, tra realtà e metafora del vivere La mentalità del Bel Paese, vista da un’italiana all'estero di Franca Merlo Tornando per qualche giorno in Italia dopo un anno di vita inglese mi è stato evidente un fatto: le polveri sottili ci sono, e fanno male. Non che prima non lo sapessi, ma solo ora, al confronto, me ne accorgo: là c’è sempre un vento taglien-
te e l’aria è pulita, qui invece sento la gola intasata. E’ una sensazione difficile da definire, è un qualcosa che senza far rumore, senza che ce ne accorgiamo, si appiccica nelle vie respiratorie e immette in noi delle sostanze inquinanti.
celox
L’ Europa in crisi e il fallimento dell’Euro Il caso Grecia deve far riflettere. Attenzione ad imporre troppo rigore senza offrire agli Stati strumenti nuovi di crescita di Emanuele Celotto Quasi ogni giorno sentiamo parlare di crisi ed inevitabilmente viene fuori la Grecia. Perché è così importante la Grecia? Pur non essendo uno degli “stati cardine” dell’Unione, ha finito col mettere in risalto un lato debole della stessa, ovvero che una politica europea basata soprattutto su unione e solidità monetaria non regge più, nè può avere alcun futuro. L’euro non può essere l’asse portante dell’Unione, ma ormai, Europa ed euro sono una cosa inscindibile ed irreversibile. Se Atene piange, il resto d’Europa non ride. Il default o l’uscita dall’euro di uno Stato aggraverebbe le difficoltà di tutto il contesto. Il fatto di dover centrare il pareggio di bilancio e rientrare col debito pubblico, ha finito per accentuare una crisi che già è forte di suo. Molti Stati hanno l’economia che arranca o sono in recessione. I sacrifici imposti come misure per il risanamento finanziario, hanno alzato il livello di malcontento sociale e il senso di ostilità verso Merkel-Germany in più
Proprio come avviene per altre polveri, non materiali, che quotianamente respiriamo: la polvere sottile dell’apparire rispetto all’essere, del peso attribuito al denaro rispetto all’onestà e al bene comune, della vittoria a tutti i costi perché solo il vincente vale. Non solo gli sportivi, ma tutti dimostriamo di averla respirata, quando vogliamo prevalere sugli altri anche se non abbiamo ragione. E ancora, il ridurre tutto a denaro, a merce. La donna nei mass-media è solo un corpo da esibire, oggetto di lusso. Per cui quando un rapporto finisce e lei se ne va, il maschio la uccide. Lo spiega Riccardo Iacona nel suo libro “Se questi sono gli uomini. Italia 2012. La strage delle donne”: in Italia, oggi, ogni tre giorni una donna viene uccisa dal suo ex. La mentalità inquinata si rivela fin dalle piccole cose: a Liverpool Street dovendo prendere il bus per l’aeroporto, il bigliettaio italiano “si dimentica” di darmi il resto; in aeroporto c’è sempre qualche italiano che fa il furbo e scavalca la coda. Non siamo poi molto diversi dai politici che giustamente critichiamo: le polveri sottili pian piano, impercettibilmente ci appannano la coscienza. Nel Regno Unito i disonesti ci sono come dovunque, ma la disonestà non fa
parte di una mentalità diffusa; c’è il senso del bene comune. Non solo non si salta la coda, ma si cede il posto all’anziano. Nelle scuole gli insegnanti, non vincolati da adempienze assurde, dimostrano l’amore agli scolari attraverso la ricerca del metodo più adatto a ciascuno e il monitoraggio dei risultati (nei primi anni ogni insegnante ha un tutor all’Università). Le festività civili sono spiegate e poi enfatizzate in modi piacevoli (party, sagre, modi di vestire) e diventano occasione per creare socialità e mentalità civile. I ricconi per farsi pubblicità mettono in piedi un museo o una mostra d’arte, che porterà il loro nome nel tempo. Si fa cultura. Nel mio distretto, Hillingdon, io frequento uno dei tanti “Adult Learning Center”: si insegna inglese ed educazione civica agli stranieri, un lavoro adatto a persone down, paraplegiche o variamente svantaggiate. Nella brochure c’è scritto: Investor in people. Bellissimo! Ecco, io penso che dovremmo ricostruire il nostro tessuto sociale muovendoci proprio in questa direzione: investire sulla gente, ridare peso alla cultura. Difendendo strenuamente la scuola pubblica, ma anche creando una mentalità che senta e sappia “far cultura” in molti modi, e dappertutto.
di qualche Stato. Anche se non piacciono e sono mal distribuiti, i compiti (sacrifici) erano e sono necessari per arrivare ad una moneta davvero unica e ad un’Europa che sia davvero Unione europea. Ma da soli questi sacrifici valgono ben poco: come succede nel calcio, il rigore senza crescita (senza cioè che finisca in goal) fa solo aumentare rabbia e frustrazione. Però una moneta davvero unica vuol dire euro bond e niente più spread, il che non è poco. Il nodo principale resta l’Unione. Dovremmo iniziare a pensarci come Euro-Italia e come Stati Uniti d’Europa. Andrebbero riscritti i vari trattati e il concetto di sovranità nazionale deve essere obbligatoriamente rivisto. Il punto di arrivo è avere politiche monetarie, energetiche ed ambientali comuni, leggi anti corruzione ed antimafia uguali in tutti gli Stati e molto altro ancora. In termini pratici avremo un’Europa più centrale; le politiche nazionali, economiche, legislative saranno inevitabilmente fatte con un occhio all’Europa. Di conseguenza va rivisto anche il ruolo della B.C.E. che deve essere dotata di maggiori strumenti di intervento. Una delle necessità è allentare la stretta creditizia ed immettere liquidità; ovvio che prima vengano imposte misure un po’ rigide e controlli. Adesso serve credito ad imprese e famiglie che si traduce in più possibilità di lavoro, più consumi e rilancio delle varie economie. C’era chi ipotizzava il default o l’uscita dall’Euro della Grecia (e anche dell’Italia per qualcuno). Pessima idea!! Gli stati U.E. detengono il 60% del debito greco (noi il 7%) e si ritroverebbero con un mucchio di carta straccia e poi la Grecia deve ripartire con una moneta svalutata al cubo ed acquistare materie prime ed energia in gran quantità. Lo stesso ragionamento della Grecia (per fortuna non siamo messi così male) si può applicare all’Italia. Più di metà del debito pubblico è detenuto da privati cittadini: vagli a spigare il default a quelli! Quanto ad uscire dall’Euro, chi sarebbe contento di trovarsi in tasca £££ super svalutate invece di Euro?
Rvongher
Naufragio Concordia, cronaca contro corrente Le colpe di quanti stavano al di sopra e al di sotto del comandante Schettino di Ferdinando Parigi E’ arduo difendere il comandate della Concordia, Francesco Schettino, (o meglio: accusare i suoi “complici”) in poche righe, ma ci proverò, con l’intento di dimostrare che agli italiani e al mondo comoda addossare ogni colpa su un unico soggetto. La ricetta per creare un buon capro espiatorio è: 1/3 di ignoranza, 1/3 di conformismo-ipocrisia e 1/3 di comodo. La nave Concordia stazzava 114mila tonnellate, era lunga quasi 300 metri e portava, tra passeggeri ed equipaggio, quasi cinquemila persone. La Concordia era un piccolo Comune immerso nel mare e capace di raggiungere i 45 km/h. Numeri immensi, e rischi proporzionati ai numeri. E’ ovvio che la responsabilità di portare a spasso questo mostro navigante salvaguardando 5.000 vite umane è distribuita su più persone. La nave ha un comandante, ma non è lui che la guida con un volante, e ogni manovra deve essere eseguita perfettamente da svariate persone, e se qualcuno di loro capisce fischi per fiaschi (come ha fatto il timoniere della nave Concordia per 10 fatali secondi, come da atti), se un intero sistema (proprietario, armatore, capitaneria) permette che si mettano a repentaglio 5mila vite con manovre folli come l’“inchino”, beh, se tutti sono d’accordo, non ho capito perché solo uno debba pa-
gare! E’ la solita storia di tutti contro uno. Tutto il mondo ha condannato e deriso Schettino, in Italia lo hanno crocifisso senza sapere NULLA sulla dinamica reale della sciagura che ha portato alla morte di 32 persone. Altre 4.900 circa si sono salvate, per fortuna. Incompetenti, impreparati, inadeguati molti dell’equipaggio, connivente l’Armatore, inesistente la Capitaneria di Porto, un timoniere che scambia la destra con la sinistra, un pirla come Schettino a comandare ‘sta bislacca compagnia… E’ andata molto bene, alla fine dei conti. Potevano morire quasi cinquemila persone, ne sono morte 32. Un dramma, una strage, ma visti i presupposti sarebbe potuta andare molto peggio. Schettino è una figura patetica e ridicola come comandante e un pavido come uomo (nella media, credo), ma “sopra” di lui c’erano degli incoscienti, negligenti, conniventi. E molti di quelli che stavano “sotto” di lui non erano all’altezza dei compiti assegnati loro. La colpa è di tanti, non di uno solo. Quando la totalità delle persone (secondo taluni “la massa”) si trasforma improvvisamente in giudice e va da una parte, prendete la direzione opposta e non potete sbagliare. In altre parole, è buona norma “mettere in dubbio le certezze” per cercare di avvicinarsi alla “verità”.
il ricordo
La rabbia e l'orgoglio di uno di noi
Amore e odio
Gino Dain era un Ragazzo della Panchina e una delle firme del nostro giornale. Ci ha lasciato a settembre di Elisa Cozzarini Aveva una bella grafia, Gino, molto meglio della mia. Leggibile, allungata, quasi femminile. Ricevevo i suoi pensieri dentro una busta, scritti sulla prima carta che trovava, anche unta, ma piena di dignità. Gino ha sempre scritto da solo, perché la scrittura è individuale, ma all'inizio ci vedevamo, parlavamo, decidevamo assieme cosa mettere negli articoli che abbiamo firmato assieme per "Libertà di parola". Poi, a un certo punto, non ha più avuto bisogno di confrontarsi con me, decideva da solo di cosa voleva scrivere. È stata una vittoria sua, ma un po' anche mia. La prima volta che l'ho visto, nella vecchia sede dei Ragazzi della Panchina, non ho nemmeno avuto il tempo di pensare: "E adesso cosa
mi invento per far scrivere un personaggio così?". Semplicemente l'ho guardato in faccia e ho pensato: "Proviamo". Ho ascoltato quello che aveva da dire, gli ho dato fiducia, non potevo fare altro. Mollare non è nella mia natura. E ha funzionato, perché Gino quella fiducia non l'ha mai tradita: anche se all'ultimo, dopo varie telefonate mie e di Ada, la busta per me, con l'articolo, alla fine arrivava sempre. Anche nell'ultimo periodo, nonostante lui stesse sempre peggio, entrasse e uscisse dall'ospedale, questa cosa la faceva. E adesso che se n'è andato, a volte me lo vedo davanti, Gino, con il suo sorriso irridente di fronte alle mille ipocrisie quotidiane. Magro che ti chiedevi come faceva
a stare in piedi. Con il pigiama azzurro di quando sono andata a trovarlo in ospedale. Gino che quando lo chiamavo per chiedergli a che punto era l'articolo, era fin troppo riconoscente per aver ricevuto una telefonata. Oggi che non c'è più, rileggo la sua ultima lettera, l'ultimo articolo che ha scritto per questo giornale, come un grido di dolore, rabbia, denuncia, per non aver mai trovato nella vita qualcuno davvero in grado di aiutarlo. Voglio pensarla come una sua liberazione, la fine di un percorso in cui lui, all'ultimo, scrivendo, è riuscito a buttare fuori da sé tanta negatività, trasferendola con la violenza delle parole su carta, per andarsene più sereno, leggero. Vorrei che fosse così. Ciao Gino.
continua dalla prima pagina
to lui non ti vende neanche sotto tortura, e nelle sue soste, se incrocia un’emozione non si vergogna di esibire la dolcezza fragile del pianto. Gino se ne andato! Non è vero, noi ci siamo dati appuntamento per le prove di teatro, e lui ha dato la sua parola. Lui ci sarà, e come sempre arriverà senza conoscere la parte, e per la nostra ansia, inizierà a
giocare con le sue pause e le sue amnesie, poi, come sempre, sparirà in qualche bar durante le prove generali, e puntuale nella rappresentazione… risulterà poi il migliore. Migliore come quella volta che non sapendo dove mettere i suoi cani, li trasformò in attori e se li portò in scena, migliore come quando a Malnisio arrivò con la
L' EDItoriale
ASPETTANDO GINETTO… di Pino Roveredo sbagli, a disposizione di tutte le presunte coscienze sane che hanno bisogno di distinguere una diversità. Ginetto è qui con la meraviglia della sua contraddizione, a colpirci con la sua lealtà, generosità, bontà, dimostrandoci con la spontaneità e semplicità del gesto che lui è il migliore. Alla faccia dei perplessi, o alla faccia della sua fedina penale senza fine, Gino è l’uomo più buono del mondo. Se gli chiedi in prestito le ultime cinque euro lui non fa una piega e te le concede, se hai bisogno di un aiuto lui si spacca in due per esserti utile, se gli confidi un segre-
Scrivere di Gino non è facile. Gino bisogna solo viverlo. L’ho conosciuto arrivata alla Panka, nel lontano 1998. Sul suo viso si leggeva, già allora, l’intera sua vita, con tutti i suoi problemi. Magro e con il fisico bastonato dai suoi tormenti, ma con un sorriso talmente solare che contagiava tutti e tutto. Gino non si può amare o odiare. Gino lo ami e lo odi al tempo stesso. Perché lui ha, aveva, la capacità di esaltare tutto e distruggere tutto poco dopo, per poi ricostruire da capo mandando in confusione gli altri. Però sapeva riempire gli spazi vuoti di tutti, con gli aneddoti delle sue disavventure che, anche quando erano tragiche, lui sapeva raccontare con la sua caratteristica ironia e il suo fatalismo, a tal punto da renderli grottescamente esilaranti. Anche le sue perle di saggezza erano chicche che ogni tanto ci regalava. Così come lo erano le sue analisi puntuali della realtà, che poi non sapeva concretizzare nella sua vita. Gino viveva così, perennemente in bilico tra contraddizione e irresponsabilità. Ma noi lo amavamo per quello che era. (a.m.)
confusione di una “canna” di troppo e scordò la battuta d’inizio, vendendo quel silenzio come un passaggio imposto dalla sceneggiatura. Migliore come quando dodici anni fa liberò un gesto dell’ombrello nell’aria, dedicandolo a quel medico che gli aveva pronosticato cinque mesi di vita. Povero scemo! Gino se ne andato! Ripeto, non è vero, Ginetto è ancora qua, e nonostante la malattia insista a massacrargli la figura, lui continua ad afferrare la vita con la forza dell’ultimo muscolo, la potenza delle unghie, la rabbia delle gengive. Gino vive, vive fuori, dentro, ovunque, anche dietro l’ultima preghiera, perché se andrebbe via si spaccherebbe l’anello di una catena, si moncherebbero le braccia dell’ultimo abbraccio rimasto, quello che stringeva la bellezza e la forza di un grande, straordinario, meraviglioso gruppo… i Ragazzi della Panchina. Aspettando Gino, sempre… con affetto. pino
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
GRAZIE NAPOLI di MIlena Bidinost Napoli l’avevamo vista già tre anni fa, nel 2009, quando assieme allo scrittore e autore di testi teatrali, Pino Roveredo, alcuni di noi furono nella sua compagnia instabile a recitare la commedia “La Panchina”, storia della storia della nostra associazione. Dal 18 al 21 ottobre di quest’anno, però, il viaggio Pordenone-Napoli ha assunto un valore aggiunto. E’ stata l’occasione di rinnovare l’amicizia tra l’associazione e il Dipartimento per le Dipendenze dell’Azienda sanitaria del Friuli Occidentale n.6 da un lato e il Ser.T di Casavatore, nella periferia del capoluogo campano, che fa capo all’Azienda sanitaria 2Nord di Napoli dall’altro. Ma al tempo stesso, per i Ragazzi della Panchina, è stata la prova generale in trasferta di una compagnia tutta sua, nata negli ultimi due anni all’interno del laboratorio di teatro diretto da Guerrino Faggiani. Il pretesto è stato il tour che la compagnia sta portando avanti con il nuovo testo di Roveredo, “La legge è uguale per tutti?”, e che è approdato in quei giorni nei teatri di Afragola, davanti ad un pubblico di 700 alunni, e soprattutto di Scampia, quartiere simbolo del fenomeno droga e dell’eterno dibattito sul tema della giusta giustizia, cui si rifà la commedia. Triplice il significato di questa esperienza. E’ stato infatti un viaggio istituzionale, vista la presenza il sabato a Scampia delle autorità locali e del sindaco di Pordenone Claudio Pedrotti e, per tutte e quattro le giornate, del primario del Ser.T dell’Ass6, Roberta Sabbion e del medico Alessandro Zamai. Un viaggio di integrazione nell’integrazione: la compagnia dei Ragazzi è composta infatti da persone con e senza problemi di dipendenza e si è incontrata con il gruppo di Casavatore per rafforzare questa filosofia dell’assenza di pregiudizi e barriere.
Un viaggio, infine, umano che ha toccato le emozioni di tutti. Pordenone – Napoli e viceversa: quattro giorni trascorsi a stare sul palco, a consumare i pranzi nella pizzeria di Michele, un utente del Ser.T di Casavatore, mescolati agli amici napoletani; a gettare le basi per future collaborazioni tra le due Aziende sanitarie e tra queste e il Comune di Pordenone; a fare il tifo ciascuno per la propria squadra nella partita Napoli-Juve del sabato sera fino a salutare, la domenica, la famiglia di Pietro Scurti, lo psicologo del Ser.T di Casavatore e nostro eccezionale ospite, con un caffè bevuto nella sua abitazione. Importante il bagaglio che ci siamo riportati indietro. E’ un sacco pieno di sfide superate per i ragazzi della compagnia, di modelli di approccio alla dipendenza da scambiarsi e di un progetto, lanciato dal sindaco di Pordenone, di far nascere tra Scampia e il capoluogo sul Noncello una gemellaggio. Importante infine è stato anche il nascere della volontà di dare scientificità all’esperienza del teatro, esportandola come modello possibile di riabilitazione dei soggetti con problematiche di dipendenza che vada perciò oltre ai limiti della mera cura. Sono filoni questi che partono da un unico centro, ovvero la coesione e l’amicizia nata all’interno della compagnia teatrale che ad Afragola e Scampia ha dimostrato di non temere difficoltà e che, quale valore aggiunto ulteriore a tutto ciò, in quei giorni ha reso speciale il ritorno alla libertà di uno dei suoi attori. Per Mihai, 27enne di nazionalità rumena, infatti il 18 ottobre, giorno della partenza per Napoli, ha coinciso con la data della scarcerazione dalla casa circondariale di Pordenone, dove aveva trascorso gli ultimi quattro anni.
PORDENONE - NAPOLI, SFIDA VINTA Nella prima trasferta fuori casa della compagnia teatrale dei Ragazzi tutta la forza dell'essere gruppo di Gurrino Faggiani Il viaggio a Napoli, per me, è stato come tirare un sospiro di sollievo. Più volte nei mesi che lo precedettero, di fronte al gestante gruppo teatrale de “I Ragazzi della Panchina”, avevo utilizzato come stimolo a lavorare e a fare squadra il miraggio del viaggio in terra partenopea. Nei momenti di cali di tensione, infatti, raccontavo loro dell'esperienza che in prima persona avevo vissuto tre anni prima, in occasione del precedente lavoro teatrale all’interno della compagnia di Pino Roveredo: "La panchina" , a cura dello stesso Roveredo nelle vesti di autore e regista. Mai è stato chiaramente promesso ai ragazzi il ripetersi di quell’esperienza, ma la speranza sa farsi strada da sola e questo è bastato perché il gruppo trovasse nuovi stimoli. Non è stato facile comunque andare avanti, perché per un
motivo o per l’altro non si riusciva neanche a debuttare, altro che viaggio a Napoli. Tanto che ad un certo punto appariva senza senso provare e riprovare sempre le stesse cose senza riuscire ad andare in scena. Ci sono stati anche momenti in cui ci siamo sentiti soli. Alla sera, stanchi, anziché andare a casa come tutti, ci si
Emozioni possibili oltre ogni schema sociale Sabbion, «L’esperienza del gruppo a Napoli ha confermato l’importanza della riabilitazione» di Roberta Sabbion, medico responsabile Dipartimento Dipendenze Pordenone L’obiettivo di questa esperienza “partenopea” era la condivisione fuori dalla sede abituale, di spazi e tempi diversi da quelli di sempre, con persone diverse da quelle di sempre e soprattutto con un ruolo diverso da quello di sempre. Lo strumento utilizzato in questo caso è stato il prodotto del laboratorio teatrale che, da un anno circa, si svolge tra le numerose attività che vengono effettuate dai Ragazzi della Panchina e dal Dipartimento Dipendenze: la messa in scena di “La legge è uguale per tutti?”. Non mi soffermerò sull’esito assolutamente positivo dell’uscita,
chiudeva tra quattro mura a provare, a volte con grande sacrificio per non mancare, e magari per poi scoprire che altri del gruppo non ce l’avevano fatta ad esserci, con la conseguenza di aver poco più di niente da fare se non i soliti inutili tediosi ripassi di spezzoni presi qua e là che facevano più male che bene,
perché di questo è già stato detto molto anche nei giornali locali, ma vorrei esprimere alcune emozioni che abbiamo condiviso e che abbiamo portato a casa. Emozioni, perché proprio l’emozione è il motore che ci da la forza, la motivazione, ma soprattutto la voglia di continuare a fare un lavoro che all’apparenza può sembrare sempre uguale e spesso frustrante. L’elemento che ci ha permesso di fare molti pensieri rispetto a quanto facevamo in quei giorni è stato proprio la rottura di azioni automatiche: non
Da sinistra Sabbion, lo psicologo Pietro Scurti, Giorgio Di Lauro Direttore Gen. Asl 2 Napoli Nord e Vincenzo D'Auria Primario Dip. Dipendenze Asl Napoli 2 Nord
perché eseguiti senza interpretazione con l’appiattimento della semplice lettura del copione. Il gruppo, tuttavia, in queste fasi ha dimostrato la sua genuinità, non perdendo mai l’umore giusto e trovando in se stesso la forza per andare avanti. Fondamentale è stato che nessuno era, e tutt’ora è, obbligato ad esserci. Chiunque, per ciò che mi riguarda, può andare e venire senza dover dare spiegazioni, anche per non rischiare di vedersi presi in giro dalla “balla” di turno. Così, alla fine, rimane solo chi ha davvero piacere ad esserci e a cui si può affidare una parte in forma definitiva. Era un bel dire all’inizio che una compagnia teatrale, come ogni squadra, trova il suo forte nell’armonia e che dovevamo costruire un’unione tra di noi che andasse al di là delle posizioni sociali e di quello che poteva o meno piacere dell'altro. Alla fine i ragazzi sono stati così intelligenti da cercare nei compagni il buono e non la critica, scegliendo la strada dell’aiuto reciproco che poi è maturato in vero affetto; peculiarità di questo gruppo, forte, capace di arrivare con l’acqua alla gola ma così tenace da non affondare. Questo è il gruppo attuale della compagnia instabile de “I Ragazzi dovevamo prescrivere terapie, fare progetti terapeutici o controllare il decorso dell’andamento tossicologico. Dovevamo condividere spazi nel palcoscenico, frasi imparate più o meno a memoria, gesti di scena, volume della voce, sorrisi, paure, trucco, vestiti adatti per la recita, microfoni non funzionanti. Tutte cose diverse dal solito modo di stare assieme. Non eravamo figure professionali, non utenti o carcerati o personaggi politici, solo tante “belle persone” che stavano assieme in un contesto di salute a condividere tutto. Persino la presenza del sindaco di Pordenone in questo clima e contesto era logica, per niente fuori luogo o sopra-il-luogo: anche il caro Pedrotti era uno di noi. Ecco ciò che di forte ci siamo portati a casa da questa esperienza a Napoli. Lo stare assieme in maniera diversa permette una diversa relazione non solo tra operatori e utenti di un servizio, ma tra operatori tra di loro, tra operatori, utenti e territorio. Il tutto a Napoli, con altre stupende persone che ci hanno accolti con caldissimo affetto, in una reale integrazione dove non importava chi fosse l’utente, contavano le persone e i lori
della Panchina” che è sbarcato a Napoli Capodichino, con tutta la sua timidezza e cortesia, ma con anche tutta la sua corteccia. All'arrivo in aeroporto, mentre si percorreva il terminal in uscita, mi chiedevo come sarebbero stati i saluti con i napoletani. Tre anni erano passati dalla precedente visita e la nostra comitiva era molto diversa, non sapevo in quali convenevoli mi sarei imbattuto. Ma una volta davanti agli amici napoletani sono saltati tutti gli schemi, i convenevoli sono stati superati dai calorosi abbracci partenopei, i quali hanno sconsacrato ogni nostra timidezza nordica. Alla fine era come se gli anni non fossero passati e ci fossimo salutati la sera prima, e gli amici napoletani fossero venuti a prenderci come hanno fatto ogni mattina nei giorni della nostra permanenza. E con nostro piacere abbiamo ritrovato subito la Napoli che tanto avevo raccontato ai ragazzi.
bisogni, chiunque esse fossero. Questa esperienza ha dato ancora una volta valore all’importanza della riabilitazione in campo delle dipendenze che deve avere pari dignità della cura. La riabilitazione non è solo inserimento lavorativo, ma è soprattutto reinserimento nel territorio, superando pregiudizi e stereotipi di pensiero che vede nei soggetti dipendenti da sostanze o da alcol delle persone irrecuperabili o prive di sensibilità. Si tratta di riappropriazione della dignità di cittadino. Questo pregiudizio si deve affrontare con parole, ma si modifica solo con azioni comuni che vedano la cittadinanza attiva e partecipe in esperienze simili, dove il contenuto emotivo favorisce il pensiero e la sua modificazione. Il cammino è ancora lungo. Per concludere, mi auguro di essere riuscita a fare entrare chi legge queste poche righe in quel caldo clima affettivo che ci ha abbracciati tutti, in quei quattro giorni napoletani, quel clima che permette anche a noi delle Dipendenze di amare il nostro lavoro e di superare frustrazioni e delusioni, trovando nelle relazioni, la forte motivazione alla professione.
Pedrotti: «Grazie ragazzi» Il sindaco di Pordenone a Napoli. Cronaca di un viaggio umano prima ancora che istituzionale di Claudio Pedrotti Sono le sei di mattina, una nebbia fitta, insolita in ottobre, mi accompagna verso l’aeroporto. Ho un appuntamento importante oggi: a Napoli mi aspettano i Ragazzi della Panchina che si esibiranno nel teatro della municipalità di Scampia per alcune scuole superiori. E’ da tanto che aspettiamo questo evento e avevo promesso che ci sarei stato. Non sono mai riuscito a vederli in “casa” e, allora, giochiamo in trasferta. Tutto procede come un promo del film “Benvenuti al Nord”. Dopo un’ora di volo, sono a Napoli in una giornata splendida, estiva, con una luce abbagliante. Il medico del Ser.T di Pordenone che accompagna nel viaggio la comitiva, Alessandro Zamai, mi aspetta agli arrivi. Insieme andiamo alla Clio di Pietro Scurti, piscologo del Ser.T di Casavatore, nostro ospite e nume tutelare. Una stretta di mano, due battute e, in un microsecondo, è come se ci si conoscesse da una vita. Simo in netto anticipo: sono solo le nove e lo spettacolo inizierà alle undici. Quindi, Pietro ci porta a fare un breve giro turistico per Napoli in direzione del quartiere di Scampia. Dopo aver percorso via Limitone (sarebbe via limit one, dal periodo di occupazione americana a Napoli, ma il nome è stato addomesticato), percorriamo vie già affollate con palazzoni mostruosi, ma il tutto con quella luce abbagliante che mi ha accolto. Poi il carcere di massima sicurezza di Secondigliano e, dopo un breve tragitto in uno scenario non improvvisato, ma progettato da qualche illustre urbanista, facciamo un giro attorno alle “Vele” di Scampia. Una
Da sinistra Pedrotti, Annamaria Palmieri Assessore a Scuola e Istruzione del Comune di Napoli e un amministratore della municipalità di Scampia
grande impressione: sono una vera isola rispetto a tutto il resto e, probabilmente, non erano nemmeno brutte. Ma quando, dopo il terremoto, vi hanno ghettizzato tutte le persone cha abitavano nei bassi del centro, in modo forzato, il risultato è stato certo. Questo ce lo spiega Pietro, facendoci una mappa di spaccio e clan. Due giorni prima, è stato ammazzato, per sbaglio, un ragazzo di diciotto anni e si vede un certo traffico di carabinieri e polizia che non è affatto la norma. Alla fine, arriviamo alla sede della municipalità di Scampia. Per avere un’idea sommaria, fa circa 40.000 abitanti, con una densità di popolazione di 9650 per chilometro quadrato. Pordenone ne ha 1354. Insomma, qualche confronto con la nostra città viene spontaneo e, forse, anche interrogativi sulle nostre paturnie. Ritrovo i Ragazzi e l'accento ritorna ad essere quello del Nord. Entriamo insieme nell'auditorium che scopriamo essere per niente male: cento posti, un palco ben organizzato. Le prove cominciano: c'è una certa euforia, ma anche
un’ansia palpabile. Mi dicono che il giorno prima, inscenare la loro commedia al teatro del quartiere di Afragola, davanti a 700 ragazzi come spettatori, è stato molto impegnativo. Sono le undici e i ragazzi delle scuole cominciano ad arrivare. Poi è la volta dei politici: oltre a quelli di Scampia, c'è l'assessore alla istruzione di Napoli. Soliti saluti delle autorità, ma con tocco da parte dell'assessore che ricorda il ragazzo ammazzato. E si parte. Lo spettacolo ti inghiotte, letteralmente: è una lunga fila di emozioni, nel silenzio generale. Non è come nessuna altra pièce teatrale: qualcuno recita se stesso, ma sono tutti uguali e trasmettono una energia coinvolgente che ti tocca e commuove. Non si muove nessuno prima della fine, nemmeno i politici. Poi un grande applauso liberatorio. Il dopo è una lunga festa che inizia con le mitiche pizze di Michele, un ex tossico che sprizza felicità dal suo corpaccione e ci ospita con un calore che trovi solo qui. Poi la visita al Ser.T di Casavatore, che fa capo all’Ass Napoli Nord: è la seconda casa di Pietro che ci coinvolge in una discussione collettiva, in cerchio, seduti a terra. Ma questo è troppo intimo per essere raccontato. L'epilogo della giornata non può essere più napoletano di così: partita Juve-Napoli, davanti alla Tv, in un hotel dove è in corso, in paralleo, un matrimonio. Grazie Ragazzi, grazie Pietro e alla sua famiglia, agli amici napoletani: vi aspettiamo a Pordenone. Grazie ad Alessandro, ad Ada, a Roberta, ai ragazzi di Itaca, alla stampa. Alla prossima.
“Per mio figlio ho detto addio alla cocaina” Ricominciare da zero dopo aver toccato il fondo, per non ripetere gli errori del padre di Milena Bidinost Michele ha 33 anni, gli stessi che aveva sua padre quand’è morto. Questi uscì dal carcere dopo tre anni di detenzione. Quel giorno telefonò a suo figlio allora undicenne dicendogli di tenersi pronto che lo sarebbe passato a prendere. Ma la tentazione della “roba” arrivò prima di quell’atteso incontro: il padre di Michele mori per overdose, in strada pochi metri prima di rivedere suo figlio. Di lì a qualche anno
un Michele appena ventenne cominciò a ripetere come in un copione “la carriera” di suo padre. Finché non toccò il fondo e chiese aiuto. La sua è una storia come tante ce ne sono nella periferia difficile di Napoli. Per noi che a Napoli siamo scesi dal nostro Nord quasi per bene, però, la sua è una storia forte, importante e testimone di una rinascita che anche nella terra della Camorra può esistere. Una testimonianza che ha il valore
dell’universalità. Più ancora che il suo passato, però, Michele ci è entrato nel cuore per l’amicizia e la grande accoglienza che in quei giorni ci ha riservato nella sua pizzeria “Tutta nata storia”, nome scelto non a caso. Già, perché quel luogo, dove per altro la cucina è degna della migliore tradizione partenopea, è stato per lui il punto di partenza di una storia che due anni fa ha cominciato a girare per il verso giusto. Grazie al suo lavoro, tramandatogli dal nonno pizzaiolo, Michele è riuscito a tirarsi fuori dalla morsa della droga e dello spaccio, dai debiti con la Camorra, da una vita di lusso ma di delinquenza, salvando sé dal destino che era stato di suo padre e suo figlio, che oggi ha dieci anni, dal non averne più uno. Oggi Michele Puzio ha 33 anni, un locale tutto suo dove lavora con la madre e la sorella, nuovi amici che lo supportano e che si è fatto al Ser.T di Casavatore, ha recuperato il rapporto con suo figlio avuto da un precedente matrimonio e, una settimana prima del nostro arrivo nella sua pizzeria, è diventato padre per la seconda volta. «Oggi mi sento visto per davvero – ci ha raccontato con il fare energico del napoletano - . Sono stato sempre uno con l’armatura addosso: arrabbiato perennemente, prendevo la cocaina per dormire. Ero cocainomane e spacciatore e giravo con così tanti
soldi in mano da pensare di non avere problemi. Finché non cominciai, per colpa di questa vita, a perdere ciò che più contava. Mia moglie, per proteggerlo, cominciò a non farmi più vedere mio figlio, la mia stessa famiglia d’origine non ce la faceva più, avevo debiti con la Camorra per 65mila euro e sotto casa mia girava ogni giorno gente con il mitra a minacciarmi». Fu il pensiero di suo figlio che non vedeva oramai da quattro anni e di suo padre morto prima di riabbracciarlo che fece ad un certo punto scattare la molla. «Chiesi aiuto a mia mamma – ha continuato a raccontare Michele – che mi portò al Ser.t. Qui conobbi lo psicologo Pietro Scurti, che mi tolse tutto: la macchina, il motorino, e mi costrinse così a girare con solo 2 euro in tasca, ad alzarmi presto al mattino e a muovermi in pullman per vedere le vite degli altri che andavano a lavorare. Cominciai a frequentare il gruppo del “cerchio” al Ser.T, e poco a poco l’armatura del guerriero lasciò il posto alle emozioni. Non è tutt’ora facile – ha ammesso – perché non c’è giorno in cui non pensi alla cocaina come via di fuga facile ai problemi, ma poi penso anche a mio figlio e al fatto che non voglio perderlo e oggi che ancora la mia battaglia contro la droga continua, so a chi posso chiedere aiuto». Michele non fa uso di droghe da due anni. rmi solo lei».
Noi, clienti di riguardo a Scampia Il viaggio di un giovane pordenonese nel posto più dimenticato da Dio Era il 2007, avevo 18 anni e aspettavo il treno assieme a Jim (nome di fantasia) alla stazione di Pordenone. Destinazione Scampia. Durante il viaggio, tra la “scimmia” da astinenza da eroina e l’agitazione non c’era spazio per le parole. Scendemmo alla stazione di Napoli e a quel punto la mia astinenza si faceva sentire tanto. Jim invece pareva reggerla meglio. Raggiungemmo Scampia in autobus. Una volta là non sarebbe stato difficile orientarci, bastava seguire “i tossici”, ma il mio amico volle chiedere comunque indicazioni ad un passante sulla cinquantina. «Ragazzi – ci rispose – vorrei avere anch’io la vostra fortuna
di non sapere dov’è la strada per il cimitero». Non realizzai, sul momento, che volessi dirci, lo feci poi. Ci incamminammo. Ci accostò un ragazzo in scooter che ci parlò in napoletano stretto. Rispondemmo che non capivamo, che cercavamo della “roba”. «Per 20 euro ve la posso procurare io», si affrettò a dirci. Non stavamo bene, a causa dell’astinenza, perciò accettammo. Un grammo per 20euro era un buon prezzo, da noi costava più del doppio. Cominciarono a passare i minuti senza che quel ragazzo tornasse a portarci la “roba” e cominciammo a realizzare di essere a Scampia: la paura mi paralizzò. Ad un certo punto un altro uomo ci
fece segno di raggiungerlo. Gli raccontammo tutto, anche del ragazzo con lo scooter. Si offrì così di accompagnarci nel cuore del quartiere. Lungo la strada lui parlò sempre al telefono, mentre io memorizzavo più luoghi possibili, se mai avessi avuto necessità di scappare. Ci trovammo così davanti ad una porta con una finestrella. Lì ad aspettarci c’era un altro uomo: stava trattenendo il ragazzo dello scooter; gli stava dando una lezione perché ci aveva derubati. Alla fine il giovane ci restituì i soldi e ci chiese addirittura scusa, come fossimo in un ristorante di lusso in cui il cliente, soprattutto quello nuovo, ha sempre ragione. Io e Jim
acquistammo così, da un terzo uomo che stava dietro a quella finestrella, dell’eroina. Se volevamo “farci” però, ci dissero, dovevamo andare nella “scuola” (vecchio edificio poi demolito n.d.r.). Ubbidimmo. Ciò che trovammo l’addentro non lo scorderò mai: pipe di vetro, bottiglie e siringe usate abbandonate dappertutto. Non c’era molto spazio a terra per noi “tossici”. Nella “scuola” ci rimanemmo una mezzoretta appena, poi di nuovo a casa. Nel ritornare indietro in treno mi ripresi poco a poco la leggerezza di luoghi in cui avevo la sensazione non esistessero cose o persone brutte. Era come scappare da un posto dimenticato da Dio. (l.g.)
intervista doppia
Glenda da Pordenone
di Caterina Traetta e Chiara Zorzi
Giuseppe da Napoli
Glenda ha 33 anni e vive in provincia di Pordenone. Ha fatto uso di eroina per circa 10 anni. Periodicamente seguita dal Ser.T. di Pordenone, l’ultimo periodo è di un anno e mezzo.
Giuseppe, 23 anni della periferia di Napoli. Padre di due figlie. Ha fatto uso di cocaina per un paio di mesi. Da poche settimane è seguito dal Ser.T di Casavatore.
Come si sono accorti che consumavi droga? I miei genitori hanno prima trovato delle stagnole, che mi servivano per fumare l’eroina, nella mia camera. Io ero riuscita a far credere loro che avevo fumato un po’ di erba in quel modo, poi però un amico di famiglia ha detto loro che, secondo lui, io e suo figlio facevamo uso di eroina e da lì sono iniziati i problemi.
Come si sono accorti che consumavi droga? Di carattere sono un ragazzo vivace, un birbante insomma, e la sostanza non aveva cambiato il mio comportamento. Ma avevo sempre il "raffreddore", così i miei genitori hanno insistito perché facessi le analisi, dalle quali sono risultato positivo alla coca.
Perché hai accettato di farti aiutare? La mia è una “storia infinita”. Arrivai al Ser.T nel 2004 accompagnata dai miei genitori, che avevano chiesto aiuto al consultorio familiare. All’epoca però ero spinta solo dal vedere la mia famiglia distrutta. Nel 2005 sono anche entrata in comunità a San Patrignano, dove sono rimasta pulita per un anno e sette mesi. Finché, dopo tanta “terra bruciata”, l’anno scorso mi sono rivolta di nuovo al servizio: questa è la prima volta che l’aiuto che chiedo è sincero, dettato da un bisogno profondo di rompere le catene della mia “non libertà” Quali sono i servizi che il Ser.T di Pordenone offre a voi ragazzi? Ce ne sono di diversi. C’è il gruppo di cui faccio parte a Maniago, che cerca di condividere le difficoltà. Io ho la tendenza a tenere tutto dentro e questo non fa bene, perché rischio di ingigantire un problema che magari è risolvibile. C’è il gruppo della montagna, che organizza camminate in diversi rifugi, per condivide la bellezza della natura con il piacere di stare assieme. C’è poi il gruppo del teatro, che mi è servito per scoprire delle capacità che credevo di non avere. Ora ho recuperato un po’ di fiducia in me stessa, ma soprattutto ho trovato un gruppo di amici veri. A Pordenone e provincia, ci sono altri enti o associazioni che aiutano nella cura e nel recupero dalla tossicodipendenza? Credo ce ne siano, ma sottoforma di comunità private e associazioni che indirizzano i ragazzi nelle loro strutture Come vivi ora? Vivo in una roulotte, nel posto in cui lavoro. Si tratta di un rifugio per cavalli, salvati dal rischio di finire al macello. Tramite il Ser.T. ho una borsa lavoro, fatico ad andare avanti, ma lavoro per il momento non se ne trova. Spero a gennaio di riuscire a passare la selezione per fare il corso OSS così forse, avrò più possibilità di trovare lavoro. Il lavoro, secondo te, è un aiuto o un ostacolo per chi sta cercando di uscire dalla dipendenza? Il lavoro è comunque un aiuto perché ti tiene impegnata la giornata e ti fa sentire utile, capace, indipendente. Bisogna però stare attenti a non esagerare perché si rischia di stressarsi, di ammalarsi e questo può portare magari alla ricerca di evasione e alla ricaduta nelle sostanze. Anche i troppi soldi in mano possono essere un rischio. Ma alla fine tutto sta nel voler davvero uscire o meno dalla tossicodipendenza. Che differenza c’è tra un tossicodipendente che sta al Nord ed uno che sta al Sud Italia? Credo proprio non ci sia alcuna differenza. La tossicodipendenza è più o meno uguale ovunque, forse cambia il modo di affrontarla, ma questo dipende anche dalle persone. Cosa ti senti di dire ad un ragazzo del Sud che fa uso di sostanze? Dico che purtroppo ci siamo messi in un bel casino e che sarà dura uscirne, ma se lo vogliamo veramente che ce la possiamo fare. La vita è altro e la droga non porta che dolore, solitudine. Non ne vale la pena. So che il ricordo dell’eroina non se ne andrà, ma ora io vivo con la consapevolezza di quello che mi ha portato a fare e a perdere. Non voglio più stare male e fare del male. Ti auguro di trovare dentro di te la spinta per uscirne e per tornare a vivere.
Perché hai accettato di farti aiutare? Ho fatto uso di cocaina per due mesi. Mi faceva stare bene e dimenticare i problemi fino a quando ce n'era. Sono padre e anche figlio e perciò capisco il dolore che ho causato ai miei genitori. Già da cinque anni frequentavo il Ser.T per parlare dei miei problemi con la psicologa. Quando poi è uscita anche la questione della coca i miei genitori hanno voluto che mi iscrivessi. All’inizio però pensavo di non avere bisogno di aiuto. Ora invece so che tutti i consumatori di sostanze psicoattive sono uguali: una grande famiglia con la quale bisogna confrontarsi per capire la gravità del problema e uscirne insieme. Quali sono i servizi che il Ser.T di Casavatore offre a voi ragazzi? Ci sono i cerchi della condivisione (gruppi di aiuto guidati dallo psicologo Pietro Scurti n.d.r.), il calcio e corsi di teatro. Sono importanti perché mi fanno distrarre e mi danno la speranza di fare cose positive per ricostruire la mia vita. In generale credo che questo servizio sia un aiuto non solo per i dipendenti da sostanze stupefacenti, tanto che lo consiglierei a chiunque abbia bisogno di essere ascoltato. A Napoli e periferia, ci sono altri enti o associazioni che aiutano nella cura e nel recupero dalla tossicodipendenza? Si ci sono, ma secondo me il Ser.T è la risposta migliore. Io ad esempio ho accettato perché mi sentivo in colpa verso i miei genitori per averli delusi. Sto comunque capendo, grazie al gruppo, che la cosa più importante è parlare del problema e sono molto felice di aver cominciato a farlo anche con mia mamma. Come vivi ora? Lavoravo nella tabaccheria di mio padre, ma adesso la evito così come i miei vecchi amici e tutti quei posti dove facevo uso di coca perché mi fanno venire nostalgia della sostanza. Ho mantenuto i contatti solamente con un mio amico, che ha un carattere chiuso e che cerco di aiutare riportandogli il percorso che ho iniziato al Ser.T. Quanto al lavoro, anche a Napoli la situazione è critica come in tutta italia. Ora io sto per andare a Reggio Calabria per cambiare aria ed è la prima volta che mi allontano dalla mia famiglia alla quale sono molto legato. Devo fare però questa prova per creare un avvenire per le mie figlie. Il lavoro, secondo te, è un aiuto o un ostacolo per chi sta cercando di uscire dalla dipendenza? Il lavoro non è un bene se fai uso di sostanze perché hai sempre soldi in tasca per comprare la roba. La famiglia per aiutarti cerca di trattenere una parte del tuo guadagno, ma poi ci litighi e nascono i conflitti quindi per non pensare ai problemi vai a comprarti la droga. E’ un circolo vizioso. Che differenza c’è tra un tossicodipendente che sta al Nord ed uno che sta al Sud Italia? Credo che siano i politici a fare la differenza tra Nord e Sud. La tossicodipendenza è uguale ovunque, dipende solo dal carattere di ognuno, se è forte o debole. Cosa ti senti di dire ad un ragazzo del Nord che fa uso di sostanze? Vorrei solo dire a quelli che ho conosciuto in questi giorni (I Ragazzi della Panchina n.d.r.) che sono un gruppo fantastico e che mi sarebbe piaciuto uscire da soli, senza dottori ed educatori, per stare insieme liberi, anche solo di dire una parolaccia, senza limiti. Per conoscerli realmente.
REP "NDUSSUCAT"
NOI SIAMO "INTOSSICATI"
Nuje simm ndussucat Campamm nsiem all’at Guardamm a vita aret o’muro Pe’ nun ce fa guarda’ Nuje stamm semp ngazzat Co’ tiemp ca nun pass Ccu ddio ca ce sorpass e Ccu nuje nun se vo’ ferma’
Noi siamo “intossicati” Viviamo insieme agli altri Guardiamo la vita dietro un muro Per non essere guardati Noi stiamo sempre arrabbiati Con il tempo che non passa Con Dio che ci sorpassa E con noi non si vuole fermare
Ma aret all’uocchie nuost Ce sta na storia grande Nu segno forte e ddoce e na vita ca c’aspett Ma aret all’uocchie nuost Tu truov na’ fenesta, addo’ Si tu t’affacci nisciuno te ne caccia
Ma dietro agli occhi nostri C’è una storia grande Un segno forte e dolce di una vita che ci aspetta Ma dietro agli occhi nostri Tu trovi una finestra, dove Se tu ti affacci nessuno ti manda via
Nuje simm ndussucat Po’ munn simm fallit Pa’ legge carcerat Ma pa’ vita simm a’vita Nuje stamm senza ciat Currenn appriess a vita Cull’anema ca ride Indo o’piett ca se stregn
Noi siamo “intossicati” Per il mondo siamo falliti Per la legge carcerati Ma per la vita siamo la vita Noi siamo senza fiato Correndo dietro alla vita Con l’anima che ride Nel petto che si stringe
Ma a ret all’uocchie nuost
Ma dietro agli occhi nostri
Ce sta na storia grande Ne segn fort e ddoce e na vita ca c’aspetta Ma a ret all’uocchie nuost Tu truov na fenest, addo’ si t’affacci Nisciun te ne caccia
C’è una storia grande Un segno forte e dolce di una vita che ci aspetta Ma dietro agli occhi nostri Tu trovi una finestra, dove Se tu ti affacci nessuno ti manda via
Nuje simm aneme sole Ca chiagnenn pe’ niente Ma e’ lacrime so’ spiccioli E si cadono pe’ terra rummore nun ne fann Nuje simm esseri umani Ca cercano risposte dint a sti quatt mani “Chiurit e pregiudizi, arap a curiosita’ E vedi ca rint o’ core tuoje, pure a me m’truov lla’.
Noi siamo anime sole Che piangono per niente Ma le lacrime sono spiccioli che se cadono per terra rumore non ne fanno Noi siamo esseri umani Che cercano risposte dentro a queste quattro mani “Chiudete i pregiudizi” apriti alla curiosità E vedi che dentro il cuore tuo, ci sono pure io
Ma addret all’uochie nuost Si guard fino nfunn Ce truov nu criatur Ca sta chiammann a mamm Addret all’uocchie tuoi Si cerc senza paura C’truov a’ vita toje che cerca cumpagnia E allor alluong a man dint a cchist abbracc Ca chell ca te stregn è proprio a vita mia
Ma dietro agli occhi nostri Se guardi fino in fondo Ci trovi un bambino Che sta chiamando la mamma Dietro agli occhi tuoi Se cerchi senza paura Ci trovi la vita tua che cerca compagnia E allora allunga la mano dentro a questo abbraccio Che quella che ti stringe è proprio la vita mia
di Pietro Scurti
di Pietro Scurti
INVIATI NEL MONDO
Croazia, sulla strada verso le cascate di Plitvice Prima delle moderne strutture turistiche del Parco nazionale, attraverso i resti di una Nazione segnata dalla recente guerra civile di Guerrino Faggiani
È sicuramente un posto che non ha eguali al mondo, mentre lo si visita non se ne ha alcun dubbio anche se nel resto del mondo non ci si è stati. Mi riferisco ai laghi di Plitvice, nel Parco nazionale di Plitvicka Jezera in Croazia, a 140 km da Zagabria, 219 da Spalato e a due passi dalla Bosnia-Erzegovina. Se si ha la fortuna di arrivarci dalla costa (alcuni direbbero la disgrazia, viste le difficoltà) e la voglia di abbandonare le vie più attrezzate per quelle meno frequentate, ci si inoltra in un mondo assolutamente endemico. Fatto di lunghe strade solitarie che si inoltrano in montagne e valli tagliando in due paesini di case senza cancelli e recinzioni come gli alberi e i torrenti. Curve e sobbalzi continui su
carreggiate strette rattoppate alla meglio e senza protezioni sui cigli, tra falsipiani e dirupi, ombre di boschi scuri e sole a picco nel verde steso. Quasi senza incrociare anima viva se non qualcuno in bicicletta, in mezzo al niente che raggiunge la sua meta a forza di gambe. Passando tra le case, gli occhi si incollano sui buchi delle pallottole nei muri rimasti in piedi dalla recente guerra. Davanti ai travi neri dei tetti sfondati e incendiati dalle granate ci si chiede cosa può aver significato vivere tutto questo. Trovarsi in un punto sperduto di una Nazione impazzita, soli senza un posto dove andare e senza possibilità di aiuto prede di uomini venuti per uccidere. Nelle facce che si incontrano si cercano i segni di quell’or-
rore, quanto loro cercano nelle nostre quelli del benessere dai nostri macchinoni targati stranieri. Ciò che aumenta la sensazione di isolamento di questi posti è che i nuclei abitati si susseguono senza vedere l’ombra di un negozio, un fornaio un distributore di benzina.. niente. Non ci sono neanche le immancabili antenne paraboliche che si vedono ovunque, anche nelle baraccopoli delle favelas. Ma qui mancano anche le antenne ci sono neanche quelle tradizionali, forse perché questi posti non sono raggiunti da segnali e ripetitori. E allora qui il mondo si riduce a poche case e famiglie, che vivono di quello che producono e sporadiche vendite con gli stranieri di passaggio. Unica nota fuori dal coro che ho incontrato, un raduno di colorati monaci Hare Krishna in uno di questi paesi occupato per l’occasione. Poi quasi a sorpresa l’arrivo alla civilizzata zona dei laghi. Strutture ed impianti ad uso di turisti numerosi e provenienti da ogni
dove richiamati dalla fama e dalla bellezza del parco nazionale. Pensate che nel 2008 si è sfiorato il milione di visitatori. Ma il motivo di tanto seguito lo si capisce subito, come si entra si intravvedono in lontananza le cascate giganti, e dopo una pausa inevitabile per ammirarle, ci si incammina di buon grado per scoprire il resto ed arrivare anche ai loro piedi. Su passerelle posizionate a pelo d’acqua che conducono a costoni e laghi che comunicano tra loro con cascate di ogni tipo, grotte specchi d’acqua doline e crepacci. Ci sono più percorsi a disposizione dei visitatori con vari livelli di difficoltà, quindi alla portata di tutte le gambe. Compresa quella di un signore all’ingresso con stampelle e protesi che non mostrava alcuna esitazione nell’avventurarsi. Comunque, qualsiasi percorso si faccia, alla sera la stanchezza pesa e le gambe girano lente, ma una volta raggiunta la comodità dell’auto non si dice: “era meglio se non venivo”.
Plitvicka Jezera, dal 1979 Patrimonio dell’Umanità Il Parco nazionale dei laghi di Plitvice (Plitvicka Jezera in croato) è stato fondato e dichiarato zona protetta nel 1949 e, dal 1979, è nella lista dei “Patrimoni dell’Umanità” dell’Unesco. Con i suoi 29.686 ettari è il più grande della Croazia, caratterizzato da un territorio carsico dinamico con abbondanza d’acqua e con grande collegamento tra sottosuolo e superficie. Due fiumi, il Fiume Bianco ed il Fiume Nero che si fondono nel fiume Korana, danno vita a 16 laghi in successione che comunicano tra loro con delle cascate. Il primo a 1279 metri di altezza e l’ultimo a 367. L’acqua ricca
di sali calcarei sottratti alle rocce porose, scorrendo forma degli sbarramenti naturali che modella continuamente, innalzandoli anche di un centimetro all’anno, da cui esce e precipita da innumerevoli punti. Ma il parco non è solo i laghi di Plitvice, grande infatti è la ricchezza di flora e fauna. I suoi boschi sono popolati da 50 specie di mammiferi, 157 di uccelli, 20 tipi di pipistrelli, 321 specie di farfalle (76 diurne 245 notturne) e numerosi animali tra i quali l’orso bruno, il lupo e la lince. Come si può vedere sono specie e numeri importanti da Patrimonio dell’umanità.
PANKAKULTURA
Gianfranco D’Angelo: «A 76 anni continuo a fare ciò che sognavo da bambino» Il cabarettista di “Drive In”, “La sberla” e il “Bagaglino” in tournè a Cordenons con la commedia “California Suite” di Guerrino Faggiani A novembre, al teatro del Centro Culturale Aldo Moro di Cordenons, Gianfranco D’Angelo, attore tra i protagonisti con Alvaro Vitali, Lino Banfi e Renzo Montagnani della commedia italiana anni settanta cosi detta “scollacciata”, e cabarettista della nota trasmissione tv del “Bagaglino, è stato di scena con Barbara Terrinoni nella commedia di Neil Simon “California Suite” con la regia di Massimiliano Farau.Una carriera la sua, che è la realizzazione di un sogno da bambino. «Faccio ciò che volevo fare - ci ha raccontato - sono stato un bambino del dopoguerra, quando la gente soffriva veramente la fame e da grande volevo fare l’attore. Oggi ci lamentiamo perché c’è una crisi economica in atto che ci fa star male - ha
proseguito - molte famiglie non riescono ad arrivare a fine mese, però se devo fare un confronto con gli anni in cui ero bambino io, devo dire che quei tempi erano molto più duri. Mi ricordo che avevamo giornalmente problemi per vivere». All’epoca si soffriva la fame, ora cosa soffriamo secondo lei? «Il consumismo: ci ha abituati a troppe cose, abbiamo cominciato con gli elettrodomestici ed ora abbiamo tre apparecchi televisivi, due macchine, chi può una casa al mare o in montagna. Ci siamo abituati male e siamo andati oltre le nostre possibilità secondo me. Ed oggi soffriamo di questo perché tutto ha un costo e tutto sembra
una necessità, mentre si può vivere con meno cose». Prima di dedicarsi a tempo pieno allo spettacolo ha svolto parecchi lavori. Che ruolo aveva all’epoca il suo naturale umorismo? «Fin da ragazzo ero molto vivace, gli amici mi coinvolgevano sempre e mi volevano alle feste proprio perché ero così, divertivo la compagnia e così anche al lavoro. Sapevo cogliere i lati divertenti della vita quotidiana, i difetti e i pregi. Anche in situazioni difficili o addirittura drammatiche riuscivo sempre a trovare un lato comico. Diciamo che ho sempre avuto una certa predisposizione alla comicità».
«Si, ma non è stato così automatico. Quando mi stavo affacciando in modo professionale allo spettacolo, svolgevo anche un altro lavoro. Ero dipendente di una grande società telefonica e alla sera dopo il lavoro andavo a fare cabaret. Era durissima finire alle 2 di notte e svegliarsi poi alla mattina alle 7 per andare in ufficio, però l’ho sempre fatto con forza e grande passione. Ma a lasciare la compagnia telefonica c’è voluto coraggio perché avevo moglie e già una delle mie due figlie».
Che ad un certo punto è diventata professione.
La sua famiglia l’ha assecondata nella decisione o ha dovuto convincerla? «Ho dovuto convincerla, perché mia moglie Annamaria mi aveva conosciuto che ero
davvero in forma sull'enorme ma semplice palco, senza dimenticare colui che si nasconde oramai da dieci anni dietro al suo organo, vale a dire Boom Gaspar, amico e compagno di surf di Eddie Vedder, che ora imbraccia la sua Telecaster e si prepara ad accendere un vero e proprio delirio sui tre accordi di Corduroy. La scaletta della serata è davvero sorprendente, tanto che vi trovano spazio anche due b-sides come Sad e Down, due canzoni che hanno trovato spazio solo in una raccolta di qualche anno fa intitolata Lost dogs. Tra un pezzo e l'altro Vedder invita il
pubblico a fare alcuni passi indietro rispetto alle transenne con un “One, two, three: back step! Thank you guys”. Troppo vivo ancora il ricordo della tragedia di Roskilde, quando morirono nove persone sotto il fango durante il loro spettacolo. Poco prima del primo break, ecco arrivare la dolcissima Come back, dedicata al leggendario Johnny Ramone, ed Eddie invita tutti a visitare il famoso museo dedicato ai Ramones, proprio qui a Berlino. Naturalmente noi abbiamo seguito il consiglio e non ne siamo rimasti delusi. Ma ciò non ferma gli assoli selvaggi di chitarra di Mike McCready, i salti pirotecnici di Jeff Ament ed i suoi bassi coloratissimi, la solidità ritmica di Matt Cameron e l'aspetto pacato di Stone Gossard, che insieme accolgono sul palco la madre di Mike, che festeggia così il suo compleanno e alla quale viene dedicata un'intensa cover di Mother dei Pink Floyd. Ma come ogni
PANKAROCK
Vent'anni di Pearl Jam A Berlino per il concerto 999 della band rock americana di Fabio Passador Qualche mese prima del grande evento, assieme a due amici, avevamo scelto Stoccolma come meta del tour europeo dei Pearl Jam, la nota rock band statunitense che quest'anno ha festeggiato i suoi primi vent'anni di favolosa carriera. Il fascino della capitale svedese e l'incredibile coincidenza con il concerto numero mille in assoluto della band di Vedder e soci, stuzzicava quell'idea un po’ pazzerella di ognuno di noi. Ma era un concerto da tutto esaurito, perciò il piano B è stato Berlino, concerto 999 nella O2 Arena. Quella sera a fare da gruppo spalla ci sono gli X, una band ca-
liforniana molto punk e rock n' roll, con cui anche Eddie Vedder si diverte alla sua maniera, facendo impazzire il pubblico, che ancora non riempie gli spalti. Dopo alcuni minuti di lavoro dei roadies per sistemare gli strumenti, ecco che la band fa il suo ingresso sul palco, spiazzando chi si aspetta un inizio a suon di riff di chitarra. Ma il buon rock non si fa attendere molto: si prosegue ad alto voltaggio con Breaker Fall, Animal, Save you ed In hiding, dopo la quale il front man della band improvvisa uno sgangherato dialogo con il pubblico in lingua locale. I nostri cinque beniamini sembrano
RUBRICA LIBRI una persona con uno stipendio fisso ed una vita d’ufficio davanti a sé, così invece era tutta un’altra cosa». Quale lavoro le ha dato più soddisfazione o ricorda più volentieri? «Sicuramente i 15 anni ininterrotti di televisione, ma anche il “Drive In”, “La Sberla” con cui abbiamo raggiunto i 19 milioni di ascolto. E poi negli anni ‘77e‘78 ho fatto anche il cronista del “Giro Ciclistico d’Italia”: sono molto appassionato di sport ed ho conosciuto il ciclismo da vicino, ho imparato ad apprezzare e rispettare la fatica dei corridori». Le piacerebbe lanciare qualche giovane? «Ma come no! L’ho sempre fatto! Ho dedicato molto della mia professione ai giovani, sia in teatro che in televisione li ho sempre agevolati senza remore. Poi chi era bravo andava avanti, gli altri purtroppo si perdevano». A 76 anni Gianfranco D’angelo ha ancora voglia di palcoscenico. Vedere la gente che se ne va contenta dopo gli spettacoli è la sua grande soddisfazione, ed è per questo che nel suo futuro c’è ancora teatro finché la salute glie lo permette.
loro spettacolo che si rispetti, ecco arrivare le pietre miliari della loro ventennale storia: Better man, durante la quale le voci del pubblico sovrastano e talvolta sostituiscono le parole di Eddie, l'inno per eccellenza Alive, con Vedder che indossa la maschera di un noto personaggio del wrestling ed emula più volta la posa da “macho”; fino ad arrivare alla classica citazione all'amico Neil Young con Baba O'Riley, quando tutte le luci si riaccendono e tu già sai che poco manca al termine di un concerto indimenticabile come quello dei Pearl Jam. Ci salutano così, con la melodia che tutto il pubblico canta, Yellow ledbetter, mentre il nostro caro Eddie raccoglie una bandiera italiana arrivata sul palco e saluta i numerosi fans arrivati fin qui per loro. Un gran bel regalo che ci ripaga pienamente e che rende ancor più piacevoli i giorni seguenti passati da turisti per la moderna capitale tedesca.
Tutta la verità su Fort Alamo, vista da Paco Inacio Taibo II Il nuovo libro dello scrittore messicano, ospite di Pordenonelegge 2012, che dice: «L’America Latina sta crescendo e non tornerà più indietro” di Fabio Passador Forse il suo nome non dirà molto a molti nostri lettori, eppure Paco Ignacio Taibo II, scrittore e storico messicano, oramai è di casa a Pordenone. Infatti, in occasione del festival del libro Pordenonelegge di settembre, la fila di persone per entrare al Teatro Verdi era davvero impressionante. Per l'occasione accompagnato dal giornalista Gianni Minà, insieme al quale ha parlato del “Risveglio dell'America Latina”, Taibo II ha dimostrato ancora una volta l'affetto per una città che lo ha praticamente adottato, grazie soprattutto alla sua ironia e cordialità, che si uniscono ad un'indiscussa capacità storico-letteraria. Autore della più completa biografia sulla figura di Ernesto “Che” Guevara, lo scrittore messicano ha dimostrato durante quest'ultimo suo incontro un forte spirito di coerenza verso ciò che scrive e vive. Infatti nelle sue opere sia storiche che romantiche, i personaggi che racconta sono spesso legati ai miti della sua terra, dal più celebre Pancho Villa, di cui ha scritto una completa biografia, ai personaggi più comuni, quelli che spesso ha incontrato durante le numerose manifestazioni a Città del Messico o negli scioperi di fabbrica. Lo spunto che l'incontro pordenonese gli ha offerto è stato davvero stimolante ad una conversazione coinvolgente anche con il pubblico, non risparmiando battute e scambi dialettali, dimostrando una rara intelligenza nel confrontare, in questo momento storico delicato di crisi economica, le diverse esperienze socio-politiche che due continenti come Europa e Sudamerica stanno provando sulla propria pelle. Da una parte il nostro vecchio continente alle prese con la recessione causata dalle politiche neoliberiste che, come
denunciano Taibo II e Minà, hanno consentito lo sviluppo dell'economia finanziaria senza regole che ha portato all'esplosione della crisi con le conseguenze che ben conosciamo; dall'altra il nuovo mondo, il processo democratico dei numerosi paesi del Cono Sur, che finalmente riprendono le proprie sovranità nazionali, per poi unirle in un'alleanza politico-economica strategica ai fini di non sottostare più all'influenza nordamericana. «L’America Latina esiste e non è solo una questione di lingua comune, spagnolo o portoghese che sia – ha detto Taibo - Il Latinoamerica sta imponendo un modello di socialità diverso da quello finora vigente. Un certo Rinascimento si percepisce. In alcuni Paesi è evidente, in altri è ancora in costruzione. Abbiamo nemici comuni e sogni meravigliosi a cui abbiamo imparato a guardare insieme. E mi spiace – ha aggiunto - per chi non lo vede. L’America Latina sta crescendo e non tornerà più indietro». E’ proprio il paese più settentrionale di questo continente, il Messico, che Paco Ignacio Taibo II rende protagonista di una ricerca che vuol far luce su una delle vicende più intriganti della nascita del Paese a stelle e strisce. Il titolo del suo nuovo libro recita “Per la storia non fidatevi di Hollywood” è centrato sulla battaglia di Alamo. Una vicenda storica fortemente falsata dai ben 26 film che l'hanno resa una dei baluardi fondanti dello stato americano. Una cocente sconfitta per i secessionisti texani contro il mal ridotto esercito messicano che, in verità, erano un manipolo di mercenari interessati più a speculare sui grandi territori del Sud e per il commercio illecito degli schiavi, che per allargare i confini nazionali. Da qui nasce il mito di Ala-
mo, su cui perfino Walt Disney riuscì a costruirci un immaginario come quello del cappello di pelo di David Crockett. Peccato fosse falso anche quello. Ad accendere la miccia della ricerca storiografica, in questo caso, è stato un incontro imprevisto. «Stavo scrivendo il libro su Pancho Villa – ha raccontato Paco – quando ad Austin mi sono imbattuto in una serie di titoli sulla battaglia di Alamo. Un rapido controllo su Amazon, la più grande libreria online negli Usa, e ho scoperto che se ne potevano contare migliaia. Sul corrispondente latinoamericano di Amazon, invece, c’erano solo tre libri su tema. E lì – ha ammesso Paco – è nata la domanda: cosa sapevo io di Fort Alamo? La risposta era imbarazzante. Sapevo solo ciò che ha raccontato Hollywood. Come scrittore latinoamericano, mi sono detto, sono un irresponsabile». Perfino la politica, soprattutto quella repubblicana, prese la vicenda di Alamo come simbolo dell'unità nazionale durante la Guerra Fredda, quando i nemici non erano più i scapestrati militari messicani ma ben sì i temuti eserciti comunisti, in qualsiasi parte del mondo. Ed è proprio così che quella marginale storia legata alla nascita del moderno stato americano, diventa il simbolo dell'imperialismo statunitense, fondato sul falso storico, i cui complici sono da ricercare tra i più potenti mezzi di persuasione che l'uomo abbia inventato. Il cinema, per lo più rivolto verso le generazioni più giovani, è stato lo strumento con il quale si è costruita una delle menzogne che fino ad ora, grazie al minuzioso lavoro come quello che ci presenta Taibo II, ci è stata tenuta nascosta. Nel nostro paese, un autore che si spinge così a fondo verrebbe tacciato di revisionismo.
L'ANGOLO DELLA DANIELA Mi ricordo la mia entrata nel mondo del lavoro, a 15 anni, con un contratto da apprendista. Succedeva un decennio fa ed io allora credevo che questo tipo di contratto fossero una “gavetta” utile, che avrebbe portato ogni giovane ad apprendere un mestiere. L’obbiettivo era l’esperienza e la formazione per avere poi un posto fisso. Iniziai con la voglia e la determinazione di crescere, così da dare più opportunità al mio avvenire. In un’Italia che allora lo permetteva ancora, iniziai con un lavoro stagionale come apprendista barista. Dopo di questo, vista la mia giovane età, faticai un po’ a trovare un altro bar con orari notturni e così ripiegai su una ditta di volantinaggio pubblicitario. Armata di brochure e bicicletta, sfidavo il freddo e le alture di Tolmezzo con l’idea che anche quest’esperienza mi avrebbe aiutata a raggiungere l’obbiettivo. Ad ogni pedalata mi ripetevo «Impara, impara». Orgogliosa, oltre al volantinaggio, di sera, trovai finalmente lavoro in un’enoteca accettando una povera paga, ma trovando un titolare che aveva voglia di insegnarmi. Mi servì, perché poco più tardi passai a lavorare in una vinoteca del centro di Pordenone, dove rimasi un’apprendista
parla di giovani, quelli magari tra i 18 e i 29 anni per i quali sono previsto contratti di apprendistato che, sulla carta, dovrebbero garantire un’esperienza formativa utile a passare poi nel mondo del lavoro a pieno titolo. Ebbene, caro ministro, io da dieci anni faccio l’apprendista, quando e se ho la possibilità di un’assunzione. L’azienda in cambio di agevolazioni si impegna a formare, per un periodo che va dai 3 ai 5 anni, il giovane. Questo, mi ripeto, sulla carta perché si sa che “fatta la legge è trovato l’inganno”. Nella realtà delle cose l’apprendista diventa uno strumento di guadagno per un sistema che in futuro non gli darà lavoro. Questo tipo di contratti, sostenuti dalla Regione, prevedono che il giovane frequenti settimanalmente dei corsi di formazione con tanto di professori, che hanno davvero a cuore il nostro futuro, tant’è che ci raccontano tante di quelle “storie”. Anticamera del lavoro a tempo indeterminato, nelle buone intenzioni di chi lo ha inventato, nella
realtà aiuta chi dà lavoro e non piuttosto chi lo cerca. Infatti, nella maggior parte dei casi al termine del periodo il datore di lavoro ti saluta, ti ringrazia del grande risparmio che gli hai fatto guadagnare e, poiché non sarebbe per lui conveniente assumerti con contratti standard, ti dà una pacca sulla spalla e avanti il prossimo apprendista. A te a quel punto non resta che cercare altro lavoro, tanto a consolarti ci pensa la “disoccupazione”. Ed invece no, perché – sgradevole notizia – l’apprendista non ha diritto a questo ammortizzatore sociale. Di lì in poi è un cane che si mangia la coda, dato che tra i 18 e i 29 anni magari avresti anche da mantenerti tra affitti, macchina e bollette varie e senza prospettive di lavoro né di paghe dignitose diventa sempre più frustrante. Perciò caro ministro Fornero, mi permetta di dare un consiglio ai miei coetanei, io che vivo nella realtà: «Restate pure da mamma e papà, perché fuori di là siete in mezzo ad una strada». (d.r.)
Russell Lee
UNA VITA DA APPRENDISTA Dopo dieci anni e tanti lavori, di nuovo senza occupazione e con l’affitto da pagare di Daniela Russo per un intero anno. Non finii il periodo: ero giovane e mi convinsi che era presto per fossilizzarsi in un unico posto. Grazie ad un’agenzia interinale, passai a lavorare in un azienda agricola, a raccogliere cadaveri di polli e selezionare uova. Durò poco perché sono di idee anima-
«Caro ministro Fornero, ma dove vive?» «I ragazzi di oggi sono schizzinosi, non si sanno adattare e per questo stanno a casa con mamma e papà», lessi più o meno così un giorno sul giornale. Erano le dichiara-
liste e soffrivo in quel posto, perciò mi licenziai. Di nuovo alla ricerca di un lavoro, finché non finii in un negozio di abbigliamento cinese, sempre da apprendista: dovendo io assentarmi una volta a settimana per seguire il corso previsto dalla legge, i titolari storgevano il naso e io mi
licenziai di nuovo. Gli anni nel frattempo passavano e la crisi cominciava a farsi sentire. Le difficoltà aumentavano. Fui assunta come operaia apprendista in un distributore di benzina: durai un anno sui quattro previsti, perché cominciavo a progettare di vivere da sola e quella sorta di “sfruttamento” non mi avrebbe permesso di mantenermi. Mi adattai a lavoretti saltuari di pulizia che alla fine però mi davano più possibilità di vivere dignitosamente. Ed ecco che trovai quello che avrei desiderato diventasse il lavoro della mia vita: sempre contratto di tre anni di apprendistato, ma questa volta in un panificio. I miei oramai ex titolari mi assunsero con la promessa che mi avrebbero tenuta con loro. Così non fu e da alcuni mesi sono tornata ad essere disoccupata, a 25 anni. Il mio lavoro oggi è “cercare un lavoro” che mi garantisca di pagare l’affitto, le bollette, nemmeno i vizi o i lussi, ma la semplice sopravvivenza. Ebbene, l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma dal momento che il lavoro oggi giorno scarseggia su cosa di fonda? Chi si occupa di quei figli di oggi che domani dovranno tenere fede al primo articolo e principio della nostra Costituzione?
zioni del ministro del lavoro, Elsa Fornero. Ero già senza un lavoro e di fronte a tanto, mi resi conto che la nostra politica è distante anni luce dal mondo reale. Il ministro
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009
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Pino Roveredo Penna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. Toscano, non di origine ma fedele compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.
Direttore Responsabile Milena Bidinost
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Roberta Sabbion Se le giornate durassero 30 ore, a lei non basterebbero comunque! Come ogni ottimo scalatore, conosce perfettamente il significato del gruppo, della fiducia, dell’insieme, dell’obiettivo comune. Legati ma liberi, legati e quindi liberi, per l’Associazione è linfa sempre nuova.
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Daniela Russo Giovane Amica di vecchia data. Spirito etereo e garbato si è incendiata alla notiazia dello sfratto. Ma quando la rabbia diventa potenza, si è capaci di qualsiasi risultato. Lei si è sfogata con penna e foglio ed ora... non può più fermarsi!
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Manuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili
Luca Gaspardis E’ il più piccolo della compagnia ma non certo per l’altezza! Quando ci ha incontrati per la prima volta sembrava impaurito anche della sua ombra, adesso è diventato un fiume in piena! Siamo sicuri che abbia molte cose da dare, anche se per ora non ricorda dove le ha messe!
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Elisa Cozzarini Bici gialla per passare inosservata, capello corto per non rischiare mai di non osservare. Fedelissima firma di LDP, presenza eterea in una fossa di leoni.
Redazione Claudio Pedrotti, Franca Merlo, Paolo Cimarosti, Ada Moznich, Giulia Rigo, Giacomo Miniutti, Ferdinando Parigi, Emanuele Celotto, Fabio Passador, Luca Gaspardis, Stefano Venuto, Elisa Cozzarini, Roberta Sabbion, Daniela Russo, Chiara Zorzi, Caterina Traetta
Creazione grafica Maurizio Poletto
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Caterina Traetta Arriva in Associazione in punta di piedi per poi divenire un’attrice alla quale non si può rinunciare. Come non si può rinunciare alla sua simpatia, alla sua dolcezza, ai suoi modi garbati ma decisi. Da attrice a scrittrice, senza limiti.
Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immergersi nella bolgia dell’Associazione con delicatezza e costanza, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un articolo! Ma confidiamo nella sua amicizia
Impaginazione Ada Moznich Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie Foto a pag. 4 e 5 del Comitato regionale CIP FVG Foto a pag. 6, 7 e 18 dal sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page Foto a pag. 15 di Guerrino Faggiani Foto a pag. 16 Giuliano Ceccaci Foto a pag. 17 di Fabio Passador Dove non citate, a cura della redazione Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it
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Capo Redattore Guerrino Faggiani
Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone
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Guerrino Faggiani Se è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka cavalca la vita, non tanto per saltare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli
Direttore Editoriale Pino Roveredo
Stefano Venuto Mimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!
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Fabio Passador Attualmente panchinaro di lusso! Come ogni giocatore di calcio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di testa, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist
Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo del Comune di Pordenone Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 338 1298911 email: info@iragazzidellapanchina.it www.iragazzidellapanchina.it FB: La Pnka Pordenone Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00
—————————————— Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: ”...si bello, ma non si scrive così in Italiano!” S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara
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Franca Merlo Presidentessa onoraria dell’Associazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non manca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.
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Ferdinando Parigi Voce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si trovano raramente, la nostra nuova penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800
C'E' una storia nella vitadi tutti gli uomini William Shakespeare
I ragazzi della panchina campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale DEI RAGAZZI DELLA PANCHINA CON IL PATROCINIO del comune di pordenone