APPROFONDIMENTO
Sport e disabilità
Libertá di Parola 4/2017 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
Per le persone con disabilità fisiche ed intellettive lo sport è lo strumento migliore per la riabilitazione e per la promozione dell’inclusione sociale. Porta con sé i benefici tipici della pratica sportiva, migliorando la salute ed il benessere della persona, aiuta a sviluppare l'autonomia e a superare l'isolamento. A tu per tu con le società sportive che, sul territorio, si dedicano alle discipline paralimpiche. a pagina 7
PANKA NEWS
Il concerto di fine anno al Verdi chiude il 2017 dei Ragazzi della panchina, l'anno della nuova sede associativa a pagina 11
IL RICORDO
Gil, l'ultimo autentico anarchico della pedemontana a pagina 11
INVIATI NEL MONDO
Professione regista Il cinema e gli audiovisivi in Friuli Venezia Giulia di Riccardo Costantini Il Friuli Venezia Giulia è – lo dicono gli altri, sia chiaro – la regione più cinematografica d'Italia. Ne siamo orgogliosi. Film prodotti, film distribuiti, Festival di tutti i generi, sale di qualità, mediateche, progetti didattici. C'è solo l'imbarazzo della scelta. Perché proprio qui tutta questa attività? Le ragioni sono storiche e articolate, perciò prendiamo un punto di riferimento vicino. Nel 2006 la Regione Friuli Venezia Giulia, riconoscendo e fotografando appunto lo storico lavoro fatto da molteplici associazioni e sodalizi, si dota di una “legge cinema”,
una delle poche a livello nazionale. Lo strumento normativo nasce come frutto di un complesso e lungo lavoro di sintesi fra tutti coloro che si occupano di cinema in regione. La legge non solo riconosce l'esistente (e non è cosa da poco, considerando che in Italia le leggi si scrivono spesso stravolgendo quanto già presente), ma rilancia promuovendo, direttamente e indirettamente, la sinergia fra i vari attori. La parte del leone sul versante produttivo la fanno la locale Film Commission - che già dal 2000, semplificando, promuove il
territorio (le locations) e la possibilità di realizzarvi film importanti, anche con incentivi economici - e il Fondo Regionale per l'Audiovisivo, prima esperienza del genere in Italia, creata proprio dalla legge cinema. Quest'ultimo ha il pregio particolare di incentivare la parte che la Film Commission non può promuovere: ovvero lo sviluppo dei progetti di film, la loro distribuzione, la formazione dei professionisti, a patto che provengano dal territorio regionale. Una filiera completa, dunque, che in brevissimo tempo porta a chiudere il cerchio: crescono in Friuli Venezia Giulia nuovi professionisti, nuovi talenti, mentre molte sono le troupe nazionali e internazionali che girano da noi. Non solo registi, ma anche tutte le altre professioni dell'audiovisivo vedono una crescita esponenziale, qualicontinua a pagina 3
Dalle storie tristi dei sobborghi di San Diego, in California, agli usi e costumi dei parigini, nella capitale francese a pagina 12
PANKAULTRÀ
Allo stadio San Siro il Pordenone è entrato nella storia del calcio. La sfida con l'Inter raccontata dalla tribuna neroverde a pagina 14
IL TEMA
Da "tuttofare" nel cinema a regista, seguendo una passione Il sanvitese Alberto Fasulo oggi è alle prese con il suo quarto film “Menocchio”, in uscita il prossimo anno di Chiara Zorzi Incontriamo Alberto Fasulo, classe 1976, a San Vito al Tagliamento, suo paese natale. Lo lasciò vent’anni fa per trasferirsi a Roma e lavorare nel mondo del cinema. Da dieci vi è ritornato a vivere ed oggi è tra i registi friulani di maggiore spicco. Lo incontriamo mentre è in fase di post-produzione il suo ultimo film “Menocchio” che uscirà nel 2018: più che sulla vicenda biografica del mugnaio di Montreale Valcellina processato e giustiziato per eresia dall'Inquisizione, la pellicola si concentra sul concetto della "verità e del coraggio di difenderla". È il quarto film del regista sanvitese, dopo “Rumore Bianco” (2008), “Tir” (2013),
“Genitori” (2015). La sua professione Fasulo ama meglio definirla come una passione. «Sono una persona che ogni mattina decide di fare questo mestiere, per adesso – esordisce -. Mio padre, di professione pizzaiolo, ha sempre avuto la passione del filmare e io l'ho eredita da lui». Il regista sanvitese nel cinema è partito da zero. «A Roma ho fatto sette anni di gavetta facendo di tutto, dal porta
Cambia lavoro e scopre il fascino della macchina da presa Dopo “The Special Need”, il regista sta lavorando a due nuovi progetti. Noti i suoi video per i concerti di Jovanotti Il friulano Carlo Zoratti è quello che si può definire un regista autodidatta, approdato nel mondo del cinema e degli audiovisivi perché stanco di ciò che stava facendo. Dopo la laurea, ha lavorato nel campo dell’Interaction Design, finché non ha cercato una nuova forma espressiva che gli piacesse. E l'ha trovata. «Il periodo in cui stavo decidendo di cambiare la mia professione – racconta Zoratti - è coinciso con l'incontro con un mio vecchio amico, Enea, che non vedevo da anni. Abbiamo iniziato a parlare e gli ho chiesto se aveva trovato la morosa: da questa domanda si è aperto un universo più grande». È così che è nato il film “The
Special Need”, opera prima uscita nelle sale nel 2014 e suo progetto più importante. È la storia di Enea alla ricerca di una ragazza e di due suoi amici che lo accompa-
gnano in questa avventura. I progetti più noti di Zoratti sono i concerti di Jovanotti per i quali cura la direzione creativa da una decina d’anni, cioè la creazione dei
caffè al fonico, dall’operatore all’assistente al montaggio – racconta -. Dopo qualche anno ho cominciato a desiderare di fare un mio film ed è nato “Rumore Bianco”. Nessuno ci credeva perché non avevo nessun tipo di credenziale, non ero nessuno». Oggi quello è il primo di altri quattro film che portano la sua firma: sono diversi gli uni dagli altri, ma nati tutti da un medesimo processo. «In me l'idea di un nuovo film non è mai definita all'inizio – sottolinea Fasulo -, ma composta da sensazioni, desideri di riuscita; è un processo che passa attraverso molti incontri fortuiti, cercati, desiderati e un costante rapporto con me stesso, con il desiderio di fare il film; a volte è un percorso di vita, perché ci metto anche quattro o cinque anni a realizzarla e in questo tempo io stesso cambio, evolvo». Realizzata l'idea e terminato il film si riparte da zero. «Il mondo del cinema è estremamente precario – prosegue -. Un regista, finito un film, è di nuovo al punto di partenza, non ha nulla di garantito. Se un film va male avrà difficoltà a farne un altro, indipendentemente dal desiderio o dalle video proiettati durante i concerti, che influenzano buona parte dell'atmosfera generale dell'evento. Oggi il regista sta lavorando ad altri due progetti, non ancora chiusi. «Uno è “The Wooden Mirror“ dice - un corto animato, nato da un’idea mia e dell’amico pordenonese Claudio Deiuri; l’altro è “La vita nuova”, un lungometraggio di finzione. Sono tutte e due storie di persone che cercano un ruolo per dare senso alla propria vita, ognuno con strade e sistemi diversi, facendo più o meno fatica a trovarlo». Nella realizzazione dei suoi progetti, Zoratti è ancora alla ricerca di un proprio metodo perché, nel cinema, non ci sono ricette da seguire. «Nella versione più standard del lavoro – dice - circa 70% del tempo è dedicato a fare sviluppo, ed è il tempo più difficile anche perché è quello in cui vieni pagato poco o niente. Si parte da un’intuizione, un momento di grande entusiasmo che dura pochi secondi e che è seguito da ore, giorni e anche anni di prove di testi per raggiungere qualcosa che convinca se stessi e chi finanzierà l'idea. L'altro 30% lo si spende a mettere in opera
sue capacità. Anche la competizione e lo stress sono altissimi perché fare un film non costa poco e la responsabilità di un regista è grande. È un mestiere che unisce l’industria con l’arte, nel quale la figura del produttore vale quanto quella del regista, anche se non è molto conosciuta». Da vent'anni a questa parte le cose sono cambiate: all'epoca era impensabile fare un film da solo, avere una videocamera e montarlo in casa. «ll mio primo lavoro l’ho montato nel 2004 – ricorda Fasulo - e a Roma fui uno dei primi ad avere la possibilità di montarlo in un computer a casa, con un montatore molto importante. Fu quasi una scommessa e molti montatori venivano a vedere come facevamo perché era ancora molto strano. Oggi che i costi della strumentazione si sono di molto abbassati, la produzione video è possibile ovunque. Inoltre il nostro territorio regionale vanta – conclude - la presenza di collettivi che sono diventati centri culturali cinematografici, di una Film Commission e di un Fondo Audiovisivo. Si è sviluppato cioè un ambiente molto florido anche per il mio ritorno in regione». il progetto. È come se tu dovessi attraversare il deserto in solitaria – aggiunge il regista - per arrivare in un circo, nel quale tu sei il capo e devi far partire tutta la baracca. Può essere quindi che ci arrivi stanco a quel punto di svolta». La professione del regista, più che romantica è difficile. «L'ambiente del cinema lo è – conferma Zoratti – ed è molto selettivo, quindi devi dimostrare grande volontà. Se stai combattendo per un tuo progetto significa che ci tieni tanto. Se non hai voglia di combattere, è meglio che tu non vada avanti. Io dico che questo rappresenta una fortuna perché altrimenti chiunque, anche chi non ha niente da dire, starebbe a fare film». Fare il regista in Friuli Venezia Giulia è un pochino meno difficile? «Da noi – fa notare Zoratti - il rapporto tra numero di abitanti e gente che va al cinema a guardare bei film è veramente alto. Merito anche di un sistema cinema sostenuto dalla politica, ma nato dalla volontà di alcune persone “illuminate” che lo hanno reso virtuoso. Con investimenti minimi si stanno facendo salti da gigante». (c.z.)
La sottile arte della pazienza Il goriziano Matteo Oleotto, regista di “Zoran, il mio nipote scemo”: «Faccio film perché ne ho bisogno» di Chiara Zorzi Nel 2013 ha realizzato il suo film più famoso - “Zoran il mio nipote scemo” - premiato alla 70ª mostra internazionale cinematografica di Venezia con il Premio del pubblico “RaroVideo”. Per il regista goriziano Matteo Oleotto quello è stato il percorso più bello della sua vita, che lo ha fatto conoscere al grande pubblico e viaggiare nel mondo. Classe 1977, si diploma all’Accademia di Arte drammatica “Nico Pepe” di Udine e successivamente riesce ad entrare, dopo una selezione durissima, nell’unica scuola statale che si occupa di regia in Italia, il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Inizia la sua carriera nel 2005 nella capitale e il suo primo approdo, per necessità, è la televisione. Lavora in Sky, Fox, MTV, La7, History Channel, tutta la Rai: tra i suoi progetti più importanti ci sono la regia del programma “Delitti” in onda su History Channel e quella di alcuni racconti del programma “Sfide” di Rai3. Dopo alcuni primi progetti nel cinema – meno noti perché inseriti in circuiti minori – il film. «Rientrato a Gorizia – racconta Oleotto - ho incontrato quello che sarebbe diventato il mio produttore. Alle prime armi lui come produttore, alle prime armi io come regista, ci siamo detti: “perché non proviamo a fare una cosa alle primissime armi tutti e due?”. Così è iniziato il percorso che mi ha portato a realizzare Zoran». Oleotto racconta l’ambiente del cinema come difficile, violento, motivo che lo ha indotto ad andarsene da Roma; i soldi per fare cinema sono sempre
meno e le persone che vogliono farlo sono sempre di più e ciò crea un ingorgo per uscire dal quale bisogna un po’ sgomitare, fare i furbi, atteggiamenti che non gli appartengono. È un lavoro per tutti oppure no? «Non lo so – dice - non ho ancora chiaro quali doti servano per stare in questo ambiente lavorativo, ma so che è fondamentale la pazienza: nel caso di “Zoran” ci abbiamo impiegato quattro anni e mezzo per metterlo in piedi, abbiamo girato per cinque settimane, montato in tre mesi e la promozione è durata sei mesi, quindi un anno di gioie a dispetto dei cinque senza niente in mano. Tempi così lunghi – aggiunge – rendono inoltre ancora più difficile gestire, ad esempio, un eventuale insuccesso del film per il quale ha speso anni del tuo lavoro». Da buon scaramantico Oleotto non fa trapelare molto sul futuro, se non che le idee sono tantis-
sime, ora si tratta di trovare i produttori e le persone che lo aiutino a realizzare questi sogni. «Ho sempre pensato che fare un film debba essere un’esigenza – spiega -. Da spettatore vedo troppi film che sembrano gratuiti, raccontati perché uno deve fare un film e non perché ha bisogno o voglia di farne uno. A me piacerebbe continuare a fare i film perché ne ho bisogno, non per routine». Oleotto è tra i registi espressione di un Friuli Venezia Giulia che nel campo cinematografico può insegnare molto. «Grazie all'investimento di persone illuminate – conferma Oleotto - che invece di pensare al mese successivo hanno iniziato a pensare al lustro successivo e quindi ad organizzare la struttura cinema, ogni anno il Fvg è presente con un film a Berlino, Cannes, Venezia, Toronto, Locarno: sono risultati pazzeschi per una regione piccola come la nostra».
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so. In breve tempo, in questo percorso virtuoso, arrivano affermazioni importanti a livello internazionale per registi coraggiosi, aggiornati per tecniche e tematiche, capaci anche di usare le nuove tecnologie digitali, che rendono le loro creazioni (in particolare per il documentario o il cinema legato alla realtà) moderne, leggere, fresche. Può
una legge creare un sistema creativo virtuoso con simili ricadute? Sì, senz'altro. Ma non dimentichiamo che prima di tutto ci sono l'intelligenza, la determinazione, l'originalità: caratteristiche chiave – e rare - per chiunque voglia affermarsi come autore cinematografico. I registi di cui leggete in questo numero di Ldp le possiedono tutte.
tativa e quantitativa: produttori, distributori, maestranze (sì, anche i “vecchi” e classici mestieri del cinema). Ci sono i Festival e le mediateche per valorizzare occasioni d'incontro, le sale di qualità per mostrare il meglio e innescare il confronto col pubblico. Insomma, una filiera di succes-
RUBRICHE
Montagnaterapia: la mia prima volta «Temevo il confronto con il gruppo, ma mi sbagliavo: quella è stata la parte più bella di questa esperienza» di Rossella Z. Domenica, partenza ore 7.30, destinazione Trieste-Risorgive del Timavo. La sera prima avevo preparato lo zaino, lo avevo controllato più volte per non dimenticare niente: ero molto emozionata e spaventata perché era la mia prima esperienza. Mi spaventava la possibilità di non saper affrontare un discorso con le altre persone del gruppo e di essere giudicata per come sono. Una volta saliti in corriera, nella mia testa c’erano tanti pensieri negativi. ”Sicuramente sarà la solita uscita, con persone più vecchie con cui non ho niente da condividere“, mi ripetevo. Invece, dopo qualche ora, mi sono accorta che accanto a me c’erano persone semplici e senza pregiudizio, persone di cui potermi fidare, che ti
aiutano senza pretendere nulla in cambio. I miei pensieri si accavallavano, finché mi sono tranquillizzata. Una volta arrivati, Enza, un’infermiera del Ser.T, ci ha proposto un esercizio di rilassamento-riscaldamento necessario ad iniziare la giornata. Prima di partire ci siamo divisi in tre gruppi da dieci persone e abbiamo iniziato a percorrere il sentiero, trovando ostacoli da superare insieme e convivendo i progressi di ogni uno di noi. Durante la giornata ho ricevuto molti complimenti che mi hanno caricato positivamente, dandomi una spinta in più. Mi sono dovuta ricredere perché sono riuscita a confrontarmi con il mio gruppo che mi ha fatto sentire partecipe. Questo è stato un grande passo avanti per
me: sono una persona che fa fatica ad esprimersi, quindi sento - per una mia crescita personale - di fare queste esperienze. In alcuni tratti non riuscivo ad andare avanti perché avevo il fiatone, ma mi fermavo un attimo, prendevo fiato e mi dicevo “Forza ce la puoi fare” e cosi è stato ogni volta. A fine sentiero ci siamo ritrovati tutti insieme per mangiare ed è stato molto bello condividere sia il cibo che le risate. Devo dire la verità, tutto quello che abbiamo visto non ha attirato la mia curiosità, ma ho trovato molto importante ed interessante stare e comunicare con persone nuove. Questo era il mio obiettivo. La mia frequentazione del gruppo di “Montagnaterapia” è iniziata grazie alla mia frequentazione de
Millennials, fotografia di una generazione Sono gli adolescenti e i giovani adulti: ottimisti, sempre connessi, ma con la paura di perdersi di Irene Vendrame Generazione Y, ovvero chi sono, cosa fanno e come pensano i Millennials. Sono domande che non si pongono soltanto i sociologi o gli esperti di marketing, ma anche chi semplicemente in questa categoria non rientra. I Millennials sono infatti i nati dai primi anni Ottanta fino ai primi anni Duemila: sono gli adolescenti e i giovani di oggi, tra i quali ci sono anche io. Nel 2013 il “Time” aveva pubblicato un articolo su questa apparentemente strana generazione ("Millennials: The Me Me Me Generation" - 20 Maggio 2013) arrivando alla conclusione che, nonostante possiamo risultare pi-
gri e narcisisti, noi Millennials siamo il frutto di un processo storico e sociale iniziato ben prima degli anni ‘80. Siamo quelli la cui infanzia ed adolescenza è stata caratterizzata da un maggiore utilizzo e da una maggiore familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. Joel Stein, autore di quell'articolo, riconosceva che abbiamo diversi lati positivi: siamo ottimisti, coscienziosi, siamo degli idealisti pragmatici, preferiamo pensare bene prima di agire, in modo da programmare ogni mossa; non riconosciamo nessun leader, nessuna grande istituzione, né l’autorità in generale ed
è per questo che lo spirito di ribellione che ha caratterizzato le generazioni prima di noi nemmeno ci sfiora. Forse per questo, a differenza di chi si trova in difficoltà di fronte ad un presente sempre in movimento, dove le più solide certezze crollano da un giorno all’altro, noi potremmo davvero essere in grado di fronteggiare al meglio la nostra epoca. Tuttavia esiste un rovescio della medaglia, a cui Stein forse non dava abbastanza peso, ossia il continuo sentimento di incertezza e di ansia che caratterizza le nostre esistenze. Siamo costantemente insicuri, in cerca di approvazione con ogni mezzo
“I Ragazzi della Panchina”. Devo ringraziare Andrea che mi ha proposto di unirmi al gruppo. Ho deciso di buttarmi in questa nuova avventura e alla fine posso dire che la montagna ti dà tanta libertà e la carica per affrontare la realtà con grinta. Un altro momento importante trascorso con il gruppo è stato quello della verifica dell'uscita fatta, riguardando tutte le foto, esprimendo con il cuore ciò che si aveva provato durante la giornata. È stata una bella esperienza, sicuramente da rifare. Tornata a casa ho ripensato alla giornata trascorsa in ottima compagnia, con persone che amano la montagna e soprattutto che amano stare insieme. Aspetto con ansia la prossima uscita per rivivere nuove emozioni. e, proprio perché non ci riconosciamo in nessun modello e non riusciamo ad accettare nessun leader, abbiamo sempre paura di perderci. I Non-Millennials sottovalutano la nostra difficoltà di vivere in un mondo dove qualsiasi cosa pare insignificante in confronto a quel mare sconfinato e mutevole che è la realtà, spesso minacciosa; anche se non lo vogliamo ammettere a noi stessi e agli altri, la consapevolezza che niente è assoluto provoca in noi una tremenda inquietudine latente, la quale a volte sfocia in disturbi di natura patologica come ansia, depressione e dipendenze. Il mio suggerimento da Millennial è quello di non fermarsi a guardarci solamente da fuori, rimanendo fermi all’immagine superficiale di giovani sorridenti, belli, iperconnessi e un po’ narcisisti, ma di scavare a fondo in ognuno di noi. Perché noi Millennials siamo diversi, mutevoli e complessi, proprio come la realtà in cui siamo nati.
Primo viaggio all'estero da sola Alessia, 19 anni, esperienza di volontariato in Polonia a lavorare con i bambini di Piero Della Putta Primo viaggio da sola. Primo periodo lungo lontano da casa. Prima esperienza in luoghi dove la lingua corrente non è l’italiano. E ancora, prima esperienza in totale autonomia. Prima volta a contatto con persone provenienti da tutta Europa. In una serie di “prime volte” si riassume quanto ha fatto Alessia, studentessa 19enne che, grazie alla mediazione della sua scuola e dell’Informagiovani del Comune di Pordenone la scorsa estate si è rivolta all’Anffas per aderire ad un progetto di Servizio Volontariato Europeo che l’ha portata a Stettino, in Polonia, ad operare con i bambini. La prima domanda è semplice: lo rifaresti? «Sicuramente: mi ha fatto crescere, ha abbattuto mille stereotipi. Lavorare con i bambini mi ha insegnato tantissimo, e sarò utile anche dovessi operare in ambiti diversi. Ho migliorato il mio in-
glese, apprendendo le basi del polacco, interessante anche se dovessi continuare gli studi in campo linguistico». Cosa serve per poter decidere di andare verso l’ignoto? «La voglia di scoprire qualcosa di nuovo e di cambiare approccio sono state determinanti:volevo guardare l’Italia da fuori, e ora so cosa qui mi piaccia e cosa invece io apprezzi di meno. Mi volevo mettere alla prova, e l’ho fatto. Volevo vedere come me la sarei cavata da sola, e ho scoperto di poter affrontare problemi che prima mi spaventavano» È servita anche una gran dose di coraggio. Confermi? «Certamente. Se sulla mia famiglia non ho mai avuto dubbi, i timori erano su me stessa: ho migliorato la mia
Il giusto senso delle cose Camminata di gruppo in montagna a Erto e Casso di Alì Ore 7.30 ritrovo per la partenza: destinazione Erto e Casso. Tutti pronti per una nuova esperienza-passeggiata in montagna. Il viaggio in corriera per me è stata occasione per conoscere le persone con cui avrei trascorso la giornata. Si sono dimostrate semplici ragazzi di una comunità con i loro problemi e semplici persone appassionate di montagna. Durante il viaggio mi aspettavo la solita gita obbligatoria e noiosa che non avrei dovuto accettare di fare. Un po’ lo è stata, ma il ricordo dell’esperienza in sé non lo è perché comunque ho partecipato ad un’attività produttiva e di contatto tra le persone. Arrivati a destinazione ci siamo divisi in quattro gruppi
e abbiamo iniziato a percorrere il sentiero che porta da Erto a Casso. Le mie vere emozioni le ho provate più intensamente una volta tornato a casa mentre ripensavo all’esperienza. Durante la camminata sentivo una forte ansia di finire il percorso e ho capito che andare in montagna potrebbe essere un buon modo per allenare la mente ad affrontare le ansie, lo stress della vita quotidiana con calma, pazienza e parsimonia. È stata una giornata allegra per tutti, anche se il tempo era nuvoloso. Un'esperienza che ci ha insegnato che ogni clima ha il suo fascino, che per avere felicità spesso ci vuole impegno, volontà ma soprattutto determinazione. È
consapevolezza, e ora mi sento più sicura» Cosa facevi a Stettino, di preciso? «Seguivo bambini ed adolescenti, organizzando workshop per loro, cooperando con gli altri componenti del nostro gruppo, provenienti anche da Cipro, Grecia, Portogallo e Ungheria. Operavamo in grande autonomia, confrontandoci tra noi in inglese. Sono stata accolta nel migliore dei modi: appena stata la prima volta che ho dato un senso ad un’attività di gruppo, in questo caso in montagna. È molto complicato, più di quanto si creda, dare costantemente un senso alle attività mentre le si sta vivendo. Questa esperienza è stata come vivere una sorte di continuo teletrasporto: discutendo con il gruppo ci si assentava rientrando mentalmente in città, con i suoi stili di vita e di pensiero, per poi accorgersi, invece, di essere fisicamente in montagna facendo emergere il lato personale che entra a contatto con la natura. L’unico aspetto negativo della giornata è
arrivata mi aspettava una sorta di comitato di ricevimento che mi ha emozionata. Successivamente sono stati pronti a risolvere ogni più piccolo problema». Cosa ti ha regalato quel periodo di vita all’estero, in un ambiente completamente nuovo? «Sono tornata decisamente arricchita, sotto il profilo culturale e umano. Ho potuto conoscere un sacco di gente, con la quale mantengo tutt’ora i contatti. Il contatto con la gente del posto è stato un altro fattore straordinario, e mi ha stupito come io abbia saputo cogliere i vantaggi del vivere all’estero. Ritornata a casa apprezzo molto di più ciò che prima mi sembrava normale, quasi scontato». Consiglieresti una esperienza del genere ai tuoi coetanei? «Sicuramente si, credo che tutti dovrebbero affrontare una cosa del genere, provateci!» Per ogni informazione su ogni argomento riguardante l’Europa è possibile rivolgersi all’Informagiovani di Pordenone, chiamando il numero 0434.392537, o telefonare alle Politiche europee – 0434.392566 - per fissare un appuntamento. stato prendere coscienza della disgrazia vissuta da quei luoghi: molta gente è morta a causa dell’irresponsabilità umana che di fronte agli interessi economici non ha considerato volutamente l’impossibilità di costruire una diga in mezzo a delle pareti rocciose inadatte mettendo, così, a repentaglio la vita di molte persone. Abbiamo riflettuto molto e ci siamo confrontati cambiando notevolmente il modo di vedere e sentire i fatti che sono accaduti, sentendoci sempre più vicini alle persone che ora vivono quei luoghi, a quelle decedute e a quelle mai nate.
RUBRICHE La piazza era straripante di tensostrutture ricolme di libri di ogni sorta e le viuzze del centro affollate di gente. Molti turisti interessati all'evento scoprivano incuriositi le meraviglie cittadine tra una sbirciata ad un libro ed una chiacchiera con i compagni di viaggio. La serata era piacevole e le luci del centro creavano un'atmosfera di festa intellettuale. Il Teatro Verdi all'esterno sfoggiava tappeti gialli per l'inaugurazione dell'evento data in carico allo scrittore spagnolo Carlos Ruiz Zafon ed alla presentazione tramite intervista della sua ultima fatica letteraria "Il labirinto degli spiriti". Quella sera, accompagnato da mia figlia Greta e dalle amiche Ada e Chiara, io c'ero. All'interno il Teatro si presentava elegante e sobrio come nelle migliori occasioni. L'ingresso dello scrittore fu accolto da applausi scroscianti e l'intervista che ne segui fu particolarmente interessante in quanto spiegava come nascono i suoi romanzi e cosa accende in lui la miccia dell'ispirazione. Finita la presentazione, ci fu uno scatenarsi di fotogra-
Io tra il pubblico di Pordenonelegge 2017 «Una serata a nutrirmi di cultura di alto livello, fiero della mia città» di Antonio Zani
fi e cacciatori di autografi, mentre già il palcoscenico si preparava ad accogliere l'evento successivo. Uscii con le mie accompagnatrici tra
la bolgia del centro per un trancio di pizza. Giusto il tempo per riprendere posto poi in platea per il secondo evento che il Verdi offriva al proprio
Prevenire l'uso di sostanze in adolescenza: insegnanti a scuola È un progetto di formazione rivolto alle scuole della provincia promosso da Acat di Pordenone e dal Dipartimento delle Dipendenze di Marta Pozzi, Monica Vanzella e Manuela D'Andrea Le revisioni sistematiche della letteratura sugli interventi preventivi dell’uso di sostanze in adolescenza indicano che gli interventi più efficaci sono quelli effettuati nel contesto scolastico, da insegnanti o da pari, che mirano ad aumentare le risorse personali e relazionali degli studenti e che utilizzano una metodologia attiva ed esperienziale. L’Acat (Associazione Club Alcolisti in Trattamento) di Pordenone e il Dipartimento delle Dipendenze dell’Azienda per l’Assistenza Sanitaria numero 5 Friuli Occidentale hanno così promosso un percorso formativo per insegnanti delle scuole secondarie di primo e secondo grado della provincia e per operatori di diverse professionalità, che lavorano
a contatto con i giovani del territorio. L’obiettivo era di promuovere negli adolescenti le “coping skills”, ossia le strategie per fronteggiare gli eventi stressanti della loro vita e, conseguentemente, prevenire l’uso di sostanze. Gli operatori del Dipartimento delle Dipendenze e altri collaboratori hanno formato circa quaranta docenti e operatori per favorire lo sviluppo di strategie di fronteggiamento costruttive attraverso una metodologia che segue quei principi considerati efficaci a livello preventivo. Tale percorso rappresenta un esempio concreto di come si possa superare l'approccio caratterizzato da interventi episodici, non partecipativi e spesso, puramente informativi, che vengono an-
cora oggi realizzati in molte scuole italiane, non tendendo conto delle evidenze scientifiche sull'argomento. Nell'esperienza svolta, i docenti e gli educatori hanno mostrato un elevato livello di partecipazione e coinvolgimento, ponendosi in una posizione attiva nell'apprendere, loro per primi rispetto ai ragazzi, le abilità personali e relazionali incluse nello strumento di lavoro. Hanno sperimentato in prima persona la fatica e l'opportunità di mettersi in discussione all'interno di un gruppo, di rivedere le proprie convinzioni e modificare i propri atteggiamenti verso gli altri, di sperimentare in pratica comportamenti assertivi e prosociali attraverso degli esempi concreti e un continuo
pubblico quella sera. Un dialogo di altissimo livello socio culturale sul significato della parola “Democrazia” messo in scena da due uomini di cultura di primissimo ordine come Corrado Augias e Luciano Canfora. Fu un idillio intellettuale ascoltare le loro argute disquisizioni dal grandioso tasso culturale, che finì quasi troppo presto tanto era bello e raffinato quel colloquio indimenticabile tra due titani della cultura. Uscii nuovamente dal teatro e mi avviai verso casa con la mente in sollucchero per quanto avevo potuto ascoltare quella sera. Iniziai ad elaborare il tutto con un piacere che rasentava uno stato di beatitudine. È estremamente bello nutrirsi di cultura ed appagante vedere la tua città che ne diviene per pochi giorni un fulcro internazionale. Credo che "Pordenonelegge" sia un fiore all'occhiello del nostro amato territorio da coccolare, migliorare ed ampliare e di cui andare fieri. Vedere la mia città punto di riferimento della cultura internazionale mi ha reso ancora più orgoglioso di essere pordenonese. confronto. I risultati ottenuti indicano non solo che il corso è andato incontro alle aspettative dei partecipanti ed è stato da loro molto apprezzato, ma anche che il senso di autoefficacia di docenti ed educatori è migliorato in diverse aree: scolastica/educativa, nella soluzione di problemi e nella comunicazione interpersonale e sociale. Infine, i questionari somministrati ai ragazzi di dieci classi prima e dopo l’intervento dei docenti hanno evidenziato un incremento delle loro abilità nel far fronte agli eventi di vita stressanti, verificando così l’utilità e l’efficacia del progetto svolto.
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
Sport per tutti senza barriere di Milena Bidinost C'è un mondo dove esiste un eccesso di protezione verso chi tenta, si mette in gioco nonostante i suoi limiti fisici o intellettivi, per cercare di superarli. È il mondo delle persone disabili, individui a cui la vita ha dato “diverse abilità” che – se non vengono allenate - rischiano di diventare causa di esclusione: per quell'eccesso di protezione che a volte nasce dall'amore della famiglia e dal pregiudizio di una parte della società. In questo mondo lo sport sa fare la grande differenza, perché sa ridurre, perfino annullare, le distanze; sa creare circuiti di benessere psicofisico e di inclusione come pochi altri ambiti della quotidianità. L’inserimento di persone disabili in un contesto sportivo risale ad un periodo relativamente recente, alla metà del secolo scorso, e oggi rappresenta - anche nella nostra regione e nel nostro territorio - una realtà piuttosto diffusa. Succede grazie a società sportive che hanno saputo aprire lo sport a questo mondo parallelo, integrandolo e sostenendolo. Succede grazie a Federazioni sportive nazionali a cui queste società sono affiliate e ad un organo nazionale, al quale queste Federazioni fanno capo, che è il Comitato paralimpico italiano. Il Cip da quest'anno è stato finalmente riconosciuto dal Governo come ente pubblico, dopo anni di attesa. È una rete di collaborazioni che, attraverso il Cip, si estende al resto del territorio – dalle scuole, alle aziende e strutture sanitarie, alle associazioni che operano nell'ambito dell'handicap – e che punta a promuovere lo sport come buona pratica per la salute e per il benessere della persona. A Pordenone ha la sede il Comitato paralimpico regionale del Friuli Venezia Giulia, al quale solamente nella provincia di Pordenone sono iscritte una dozzina di società. Il ventaglio delle discipline sportive praticate sul nostro territorio è ampio, a livello agonistico e di socializzazione. In quest'ultimo caso, la competizione è vissuta nell'ambito di gare e tornei organizzati tra società in quanto è un momento importante per il percorso di questi atleti. Chi “osa” vivere lo sport a dispetto del proprio handicap, infatti, lo fa perché conscio del valore del tentativo e
della fatica che mette in campo ed è qui che la competizione, la gara, assume il suo significato più nobile: è un confronto con se stessi che porta a dire “ce la posso fare”, il senso dato alle ore di allenamento, una rivincita sul proprio handicap, ma soprattutto un posto dove non sentirsi isolati. I benefici dello sport sono tantissimi, per tutti, si sa. Per chi ha “abilità diverse” è inoltre l'unico modo per confrontarsi con gli altri e con se stessi in competizione. L’educazione psicomotoria e la pratica sportiva migliorano la conoscenza del proprio corpo, dello spazio, del tempo e della velocità, la forza muscolare, la capacità di equilibrio, la coordinazione motoria, la capacità di superare la fatica, la comunicazione interpersonale e lo stare in gruppo. Migliorano l'autonomia. Tutto questo aiuta a superare paure, pregiudizi e isolamento. L'avviamento allo sport può avvenire fin da bambini, in molti casi già all'interno delle attività sportive promosse dalle scuole, ma la pratica sportiva è importante per una persona con handicap anche dopo la scuola, quando l'inserimento nel mondo del lavoro magari non è possibile e lo sport permette di lasciare aperta nella sua vita la porta del confronto con gli altri. In tutti questi casi essenziale è l'atteggiamento delle famiglie, la loro capacità di lasciare andare l'eccesso di protezione - “mio figlio non ce la fa, si stanca” - e di affidarsi all'esperienza delle società. In questo approfondimento, per ragioni di spazio, ne abbiamo intervistate solamente alcune di quelle che, nel Pordenonese, ogni giorno si spendono per far affrontare paure, limiti fisici ed intellettivi a tante persone – bambini, ragazzi ed adulti – che attraverso lo sport possono vincere al pari di tutti le loro sfide quotidiane. Quello sport che mette al centro l'Uomo e non la competizione, che non è un fine, ma un mezzo; che azzera, non moltiplica le distanze; che è entusiasmo e senso di squadra, che è sacrificio. Quel mondo fatto di volontariato competente e preparato ad accompagnare la persona alla scoperta delle sue “diverse abilità”, indipendentemente dal suo destino di campione paralimpico o meno.
L’importante non è ma partecipare con I cinque sport dell'Arcobaleno L'associazione di San Vito: nuoto, basket, volley, tennis e motricità per bambini e ragazzi di Milena Bidinost È una piccola realtà, ma con grandi numeri, dove gli insegnanti sono istruttori ed educatori al tempo stesso, con esperienza nel campo: volontari impegnati a costruire per bambini e ragazzi con disabilità intellettiva e motoria percorsi strutturati che ne rispettino le capacità ed i tempi. Un ambiente sportivo ed umano dove l'obiettivo non è la vittoria, ma il recupero motorio, lo sviluppo dell'autostima e dell'autonomia e, non ultima, l'integrazione di questi ragazzi speciali con il resto del mondo. Si tratta dell'Associazione culturale sportiva dilettantistica “Arcobaleno” di San Vito al Tagliamento, attiva anche nell'Azzanese. Si è costituita nel 2012 su richiesta di alcuni
genitori con figli disabili che avevano manifestato all'Associazione “Nostra famiglia” di San Vito al Tagliamento *l'esigenza di avere sul territorio una realtà in cui far praticare loro dello sport. A raccogliere la sfida è stato Vincenzo Mor-
gante, presidente e fondatore dell'associazione, di professione educatore, insegnante di sostegno alle scuole primarie e insegnante di tennis. «Partimmo – dice Morgante – con cinque bambini e a distanza di cinque anni ora abbiamo
Sekai Budo Pordenone, dieci anni di esperienza nella disabilità intellettiva Il Judo come occasione per sperimentare la relazione con il gruppo e con se stessi di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon Il Judo non è solo sport. Questa disciplina affonda le radici nella filosofia nipponica e si pone come metodo educativo utile per la vita, rifacendosi alla via della cedevolezza: saper utilizzare la forza degli eventi per cambiare la situazione a proprio vantaggio. Con questo spirito Ermanno Furia, all'interno del Sekai Budo Pordenone, da oltre dieci anni, insegna Judo a dei ragazzi con disabilità intellettiva. Attualmente il gruppo è composto da dieci ragazzi con diverse disabilità intellettive, che praticano ogni saba-
to per un'ora nella palestra dell'ex fiera. L'iscrizione alla Fisdir (Federazione italiana sport disabili intellettivi relazionali) permette di partecipare a due diversi campionati. Due ragazzi fanno parte del settore agonistico, partecipando al campionato italiano e ad alcuni tornei internazionali, e hanno già raggiunto degli ottimi risultati in Italia. Gli altri competono in un campionato promozionale non riconosciuto, ma utile per mettersi alla prova. Il Judo mette ogni ragazzo, normodotato o meno, davanti alla sfida di dover
vincere l'avversario. Trovarsi di fronte ad una difficoltà tanto concreta, può diventare per i disabili un modo per imparare ad affrontare non solo la situazione sportiva ma anche la vita. Furia parla di un allenamento graduale e ragionato che può portare il disabile a raggiungere una migliore ca-
raggiunto la cinquantina di iscritti, con età compresa tra i 5 e i 25 anni». A loro e alle loro famiglie “Arcobaleno” offre la possibilità di ben quattro discipline sportive diverse – dal nuoto al tennis, dal basket alla pallavolo – più un percorso di motricità di base per i casi più gravi. Mancando ancora di una sede fisica, i volontari istruttori si dividono tra le strutture messe a disposizione dalle Amministrazioni comunali di San Vito al Tagliamento (nuoto, tennis e basket) e di Azzano Decimo (motricità). «Ciò che per noi è fondamentale – dice Morgante – è mantenere un rapporto numerico efficacie tra istruttori e ragazzi: nel caso ad esempio di un piccolo gruppetto di bambini con disabilità grave il rapporto è di uno ad uno, nel nuoto il gruppo degli istruttori è piuttosto corposo, mentre nel tennis in cui sono impegnati per lo più ragazzi con disabilità intellettiva si è assistito in questi anni all'acquisizione da parte di molti di loro di un'autonomia che prima non avevapacità di gestione. Il disabile intellettivo tende a vivere l'incontro con una tensione nervosa maggiore ed è normale chiedersi se questo gli crei troppo disagio. «Il fastidio provato dal disabile – dice Furia - è lo stesso provato da chiunque faccia sollevamento pesi: fa fatica, ma ne ha un giovamento. Mettersi alla prova è difficile, ma aiuta a conoscersi e migliorarsi. Chiaramente assume un ruolo importantissimo l'arbitro, che deve avere la sensibilità e capacità di capire le situazioni per intervenire in anticipo». L'obiettivo dell'attività non è esclusivamente sportivo: il Judo deve essere solo una delle opportunità a portata di mano per i ragazzi disabili. È un'occasione per sperimentare le dinami-
vincere, spirito vincente no, anche nel raggiungere l'impianto sportivo da soli». Le attività all'Arcobaleno si svolgono settimanalmente, da ottobre a maggio. A luglio, fiore all'occhiello dell'Associazione, è il Centro estivo. «Rivolto inizialmente a bambini e ragazzi con disabilità – sottolinea il presidente – negli ultimi anni abbiamo assistito all'avvicinarsi a questo servizio anche di ragazzi normodotati. Su una settantina di iscritti questi ultimi rappresentano il dieci per cento. È un'importante esperienza di integrazione che in questo modo possiamo offrire a tutti». In “Arcobaleno”, come detto, lo sport non equivale a competizione, ma non per questo non si punta anche ad ampliare le occasioni di crescita: quest'anno, a settembre, per la prima volta l'Associazione ha ospitato una delle tappe del Campionato italiano Fisdir (Federazione italiana sport disabili intellettivo relazionali), partecipata da 35 ragazzi da tutta Italia e si sta cercando di partecipare anche a qualche torneo di basket. che di gruppo e relazione e per vivere autenticamente lo sport. «La sincerità è fondamentale – sottolinea Furia - . Al disabile non importa della medaglietta compassionevole, vuole giustamente sapere se ha vinto o perso. La falsità e la compassione sono tra i peggiori nemici del relazionarsi con i disabili». Proprio per questo l'allenatore mette prima i nomi e le persone rispetto alle diagnosi. All'interno del gruppo i ragazzi sono molto affiatati e c'è un forte senso di squadra. «Sono molto schietti e severi tra di loro - dice Furia - e le dinamiche interne sono utili perché la vera forza risiede proprio nel gruppo più che sulla capacità dell'allenatore. Il maestro deve solo saper dosare le nozioni in modo da adattarle all'allievo che ha di fronte, pretendere il giusto sapendo aspettare i tempi di ogni ragazzo. Si applica nella realtà il paragone che vede il Judo come l'acqua, ovvero capace di adattarsi al contenitore».
Al Pinnasub l'acqua diventa luogo di integrazione La società di San Vito al Tagliamento è stata la pioniera dell'inclusione dei disabili nel nuoto pinnato. Ecco la sua filosofia di Marlene Prosdocimo L'acqua è il luogo in cui per eccellenza si appiattiscono le differenze tra gli esseri umani: lì ogni certezza acquisita sulla terraferma si sgretola, rimandandoci ad una realtà condivisa da ognuno prima della nascita. L'obiettivo dell'associazione “Pinnasub” di San Vito al Tagliamento, con presidente Franco Popaiz e affiliata alla federazione Fipsas, è proprio questo: avvicinare all'attività natatoria ogni persona, con disabilità o meno, senza distinzioni. Nata vent'anni fa, conta oggi 230 iscritti e ha all'attivo diversi traguardi a livello agonistico su base nazionale. Le specialità praticate spaziano dall'apnea al nuoto pinnato e all'attività subacquea. Proprio nel nuoto pinnato, la società è stata la pioniera in Italia nel coinvolgimento dei disabili. «Il “Pinnasub” - dice Massimiliano Popaiz, direttore della scuola di nuoto pinnato e allenatore della società ha adottato una filosofia ben precisa in relazione al modo di vivere lo sport. Innanzitutto l'approccio all'agonismo non costituisce una minaccia all'autostima individuale in quanto la prospettiva della vittoria viene ribaltata: l'attenzione si sposta dal "vincere la gara" al "vincere con se stessi", superare un proprio limite o timore per esprimere se
stessi e la propria abilità, sviluppando uno spirito di sacrificio per raggiungere l'autonomia». Ognuno è stimolato a partecipare, ma le gare non vengono imposte. Gli allenamenti raggruppano ragazzi normodotati, le cui classi si differenziano in base all'età, e ragazzi con disabilità, secondo una classificazione funzionale. La disabilità può essere sia di tipo fisico che relazionale e lo studio del percorso di formazione dell'atleta deve soddisfare varie esigenze. «Inizialmente – spiega Popaiz - viene instaurato un rapporto quasi individuale; quindi, quando il ragazzo ha acquisito sicurezza, si procede al suo inserimento in un allenamento inclusivo con un gruppo d'appartenenza misto». Nel caso della disabilità relazionale lo scopo principale delle lezioni, oltre alla preparazione sportiva, è quello di abbattere le barriere trovando la chiave della comunicazione. «Spesso questa consiste in parole o atteggiamenti a prima vista banali, ma che in realtà sono addirittura capaci di far inten-
dere il senso della vita e ciò che nel quotidiano sfugge», sottolinea l'allenatore. A svolgere questo compito è un comitato scientifico composto da medici fisiatri e fisioterapisti; lo stesso Popaiz è al contempo allenatore e pedagogista. Altro punto di forza di "Pinnasub" sono i numerosi volontari che contribuiscono ogni giorno a sviluppare le attività. Per "comunicazione" non si intende solo l'universo del verbale, ma anche (forse soprattutto) quello del non verbale: in acqua, ambiente che annulla i rumori esterni e che dona protezione, le modalità di relazione sono diverse rispetto a quelle che si svolgono al suo esterno. Gli atteggiamenti sono semplici, liberati dall'aspettativa del risultato e proiettati verso la condivisione dei momenti: il valore assunto dalle vittorie o dalle sconfitte è il medesimo per quanto riguarda i disabili e i normodotati. “Pinnasub” è attiva nella divulgazione di questa mentalità d'integrazione che la anima da sempre: dall'1 al 3 dicembre, ad esempio, ha organizzato "Acqua senza barriere", manifestazione che ha offerto ai cittadini una panoramica sulla società sportiva secondo l'aspetto psicologico, scientifico, sportivo, tecnologico, illustrando nell'occasione le storie di atleti paralimpici e i loro traguardi.
Judo Libertas Villanova, non solo sport Una giovane realtà associativa nata da una costola della Polisportiva Libertas Villanova dove si allenano mente e corpo di Giorgio Achino La Judo Libertas Villanova è un giovane realtà judoistica del pordenonese nata due anni fa, ma radicata nel territorio già dai cinque anni precedenti. Nasce dal desiderio del territorio e dalla volontà di Luciano Carlet, cintura nera 2° dan ottenuta per meriti sportivi con alle spalle diverse competizioni a livello nazionale. Questa società è una costola della Polisportiva Villanova di Pordenone con cui mantiene un rapporto di collaborazione e di scambio continuo. Coinvolge trentadue minori dai 5 anni ai 15 di età e un realtà amatoriale fino ad un massimo totale di cinquanta persone. Entrando nella palestra della scuola elementare Edmondo De Amicis di Cordenons, dove la Judo Libertas Villanova conduce gli allenamenti, si sentono i rumori dei tatami e la voce baritonale di Luciano
che con assertività indica strategie e tecniche ai suoi giovani atleti in preparazione della prossima gara. L’allenamento scorre veloce e termina con un momento di meditazione e concentrazione, un momento per rivedere e ripensare a quanto fatto per distaccarsi dall’attività e rimettersi nel mondo, un momento in cui tutti, anche i più piccoli, partecipano impegnandosi nel mantenere posizione ed occhi chiusi. È un momento necessario, uno stimolo alla riflessione, un angolo dedicato a sé stessi che sempre più difficilmente ci si prende nella vita quotidiana. La presenza di Carlet si mostra come una figura decisa nel sapere cosa vuole: ovvero offrire un’opportunità a tutti e soprattutto a coloro che altrimenti non ne avrebbero la possibilità, in un ambiente in cui mente e corpo possano crescere insieme nel rispet-
to reciproco di sé e dell’altro. «Questa è la filosofia sportiva dice Carlet - che viene proposta a tutti, anche ai bambini a cui vengono riscontrati dei disagi che non sempre rientrano nelle categorizzazioni legislative, ma semplicemente da situazioni di difficoltà famigliari o scolastiche. Offrire un posto in cui l’accoglienza e la presenza costante di istruttoriallenatori come figure di riferimento sono elementi decisivi per aiutare questi ragazzini nel trovare una strada un po’ più solida e sicura». L’attenzione è quella di far trovare una porta aperta a tutti coloro che di solito la trovano chiusa, accogliere e sollevare, per il periodo dell’allenamento, una famiglia che affronta queste difficoltà è fondamentale. Far sentire il bambino-ragazzo accolto e dargli la possibilità di condividere delle esperienze corporee e sociali che altri-
“Facciamo Bisboccia”, l'inizio della storia A Cordenons il primo gruppo pordenonese dedicato alla boccia paralimpica. Con Francesco Rampogna ha già portato a casa un argento di Paolo Facchin Sarà stato il 2012. Durante l'incontro con Donatella Lovisato, presidente ANSHAF, l'Associazione nazionale sportiva handicappati fisici di Trieste, lei mi mise in mano una boccia, dicendomi «questo è lo sport per te». Si trattava della Boccia paralimpica. Non stava a significare che, dopo aver provato altre discipline, avrei potuto praticare quella perché vi ero portato. No. Significava che la Boccia paralimpica era l'unica disciplina che potevo fare, vista la gravità del mio handicap. Due anni più tardi Donatella sbar-
cò, con la boccia, a Pordenone e portò con sé l'adepta che aveva personalmente istruito, Giulia Borin. Organizzammo sul territorio due giornate promo dedicate a questo sport. E' molto simile al gioco delle bocce, ma qui le bocce, boccino compreso, sono più grandi e fatte d'un materiale più morbido così da garantire presa sicura a coloro ai quali la vita ha scombinato la coordinazione dei movimenti a causa di traumi di varia natura. In tale disciplina sportiva i tetra spastici possono fare la voce grossa, ma possono
parteciparvi anche atetosici, atassici e distrofici. Tutte parole complicate che significano: limitazione funzionale molto alta e quindi possibilità di fare solamente piccoli e brevi movimenti. Ancora però non scattò in me l'amore per questo sport, ma solamente la volontà di continuare la missione avviata da Donatella nell'allora provincia di Pordenone. Così, assieme al Comitato Paralimpico regionale Friuli Venezia Giulia e alla FISPES, Federazione italiana sport paralimpici e sperimentali, nel maggio di quest'anno
menti non potrebbe esperire è importantissimo. Gli aspetti strettamente finalizzati alla competizione possono essere una naturale conseguenza e non l’obiettivo principale. «Dopo una vita di gare posso affermare - aggiunge Carlet che delle medaglie ti rimane ben poco, mentre aver condotto un’esperienza di vita formativa, coinvolgente e coinvolta rimane con te tutta la vita in tutte le sue sfaccettature». Di certo queste attività minori, dove minore è un fattore dipendente esclusivamente dall’esposizione mediatica, hanno bisogno di un sostegno economico che le sole iscrizioni o i pochi sponsor non riescono a coprire. Auspichiamo che i Comuni possano intervenire per sostenere iniziative ed attività che producano un beneficio a più livelli per la propria cittadinanza. partimmo con un corso di avviamento all'attività. In cinque di noi, io, Giuseppe, Matteo, Riccardo e Paolo abbiamo bussato, trovando abbracci di ospitalità, alla sede provinciale pordenonese dell'AISM, a Cordenons. All'interno di questa struttura sono così iniziati gli allenamenti settimanali, seguiti dalla stessa Giulia Borin. Il gruppetto nel frattempo si è dato un nome, i “Facciamo Bisboccia...a Cordenons". Questo percorso è stato impreziosito – grazie all'interessamento dell'amministrazione comunale di Cordenons - con uscite del gruppo sul territorio. In questo modo i visitatori delle sagre dei quartieri del Pasch e di Villa d'Arco e della Festa dello Sport cittadina, tra agosto e ottobre, hanno potuto conoscere le prodezze di noi “Bisbocciari”. L'8 dicembre, inoltre, io e Francesco Rampogna - che nel frattempo si è aggregato al gruppo – ci siamo presentati alla corte di Donatella Lovisato per partecipare ad un torneo dove erano presenti le più forti società sportive d'Italia della disciplina. Francesco (in foto) ne è uscito con una splendida medaglia d'Argento. Ma questo è solamente l'inizio della nostra storia.
PANKA NEWS
La Panka saluta un 2017 ricco di risultati Concerto di fine anno al Ridotto del Verdi, in occasione della giornata mondiale contro l'Hiv. Sensibilizzare con la cultura di Stefano Venuto A conclusione del 2017 la Panka ha voluto offrire alla città un concerto intenso, per salutare un anno di lavoro ricco facendo coincidere date, pensieri e luoghi con forza, dandone significati importanti. Venerdì 1° dicembre al Ridotto del Verdi di Pordenone ci si è dati appuntamento per condividere obiettivi, azioni, dati, valori, di un 2017 che ha visto la Panchina cambiare sede, si spera in maniera definitiva, ed avviare un percorso di rinnovamento indispensabile. L’opportunità
di incontrarsi il 1° dicembre, che è la data mondiale della lotta contro l’Hiv, è stata colta al volo perché la storia della Panka nasce da un gruppo di ragazzi che proprio con l’Hiv e con l’Aids ha dovuto fare i conti e sono stati conti di perdite. Genesi, storia, sviluppo senza perdere il tratto somatico dell’associazione, che è la cultura. Si è scelto di fare il concerto al Ridotto del Verdi, proprio a voler rimarcare la centralità della città in ogni pensiero che dalla Panka emerge e della cultura
in ogni azione e progettualità che l’associazione propone. Sulle fantastiche note di Gaetano Valli, Mauro Costantini, Alessandro Turchet, Aljosa Jeric, che hanno dato spessore alla magistrale voce di Lorena Favot, ha preso corpo il progetto “Landscapes”. Un concerto raffinato, che ha cullato ed anche esaltato il centinaio di spettatori presenti in sala. Durante il concerto ci sono stati quattro momenti di riflessione in merito al tema dell’Hiv, attraverso due voci fuori campo che hanno ri-
portato dati, poesie, citazioni, considerazioni, su un tema che sembra erroneamente dimenticato, ma che è fortemente attuale e presente. Il nostro motto da diversi anni è “Non solo il 1° dicembre” proprio a voler dire con forza della necessità che di Hiv e di Aids se ne parli, ben oltre e con molta più profondità di un solo giorno all’anno. Questa necessità è stata rimarcata proprio in centro città, il 1° dicembre, attraverso la cultura, perché per evolversi non ci si può permettere di perdersi.
IL RICORDO Scrivere per salutare qualcuno che non leggerà queste righe fa male, un dolore che è determinato dalla mancanza, l’assenza di un dopo, perché oggi come domani Gil non ci sarà. Lui però ha lasciato traccia, ha vissuto questa sua esistenza combattendo l’ogni giorno, a volte affrontandolo, spesso dimenticandolo nel tentativo di cercare una cura. È vivo e lo resterà per sempre nelle sue parole friulane, nel cuore grande che ha sempre avuto; è vivo nell’amore dedicato a Patty, è vivo nella figlia della quale comunque resterà padre. È vivo perché
Gil, l'ultimo anarchico della pedemontana Il saluto dei Ragazzi della Panchina ad un amico che ci ha lasciato questa estate Gil non si è mai camuffato, profumava di bosco e fatica, conosceva l’amicizia e sapeva quanto potesse essere crudele, conosceva la piazza
e sapeva che era simile all’amicizia, conosceva l’amore e sapeva che nessuno regala nulla. Si è fatto rapire da un bosco, dalla fatica, dall’amicizia, dalla crudeltà, dalla piazza, dall’amore, dall’assenza di regali. Se n’è andato consapevole, forse l’unico, di sicuro il più grande, regalo che una persona può fare a sé stesso. Nel salutarlo scegliamo di usare le parole di Alessandro, un amico, con tutto quello che esserlo ha voluto dire. «Caro Gil, ti ricordi quante feste fatte assieme, quante volte a casa tua? Quante giornate passate a dimenticare i dolori della vita e del tempo? Mi manca tutto e, se penso alla fatica che hai fatto per diventare genitore assieme alla Patty, mi viene difficile crederci,
anzi non ci credo che tu te ne sia andato. Pure tu. Ora con chi potrò parlare, con chi potrò dimenticare, con chi potrà crescere tua figlia? Con te ho imparato a sopravvivere e a sperare nelle cose impossibili. Dove sei ora? Non ti vedo quasi più, stai già diventando una delle tante immagini sfumate che ho in testa. Spero solo di non dimenticarmi di te, non me lo perdonerei. Tu sei stato un lottatore, ma questa volta sei stato sconfitto dalla vita, la stessa che abbiamo rifiutato per anni, ridendo e piangendo su essa. Allora addio Gil. Salutami tutti gli altri quando li vedrai». (s.v.)
INVIATI NEL MONDO
Downtown San Diego, California Viaggio tra storie tristi e spazi meravigliosi di Virginia Bettinelli Volo: Venezia - Philadelphia - San Diego. Il volo si svolge di giorno, ma io sono chiusa dentro ad un mortadellone spaziale buio; nessuno apre più i finestrini per vedere fuori, neanche durante il decollo ed io sono seduta nel mezzo, inerme. Non solleverebbero le tendine neanche se ci fosse l’alba boreale lì fuori, è pazzesco! Mi domando se la stiano cercando ora su Youtube con il wi- fi in volo, che se non è abbastanza performante, stabile e veloce a loro, che stanno volando con una sedia in cielo per dirla alla Louis CK, viene la faccia stressata e digitano in ansia, come non ci fosse un domani. Ricordo che fino a qualche tempo fa, perlomeno sulla costa californiana, gli america-
ni si contenevano; quest’anno li ho trovati grossi, ancora più grossi. Masse enormi su scheletri sotto sforzo. Per una settimana mi sono sentita un fuscello e, motivata, ho cercato di limitare al minimo il junk food durante il mio soggiorno. A San Diego, l’albergo di lusso nel quale alloggiavo era sulla Quindicesima strada; quarantacinque piani di acciaio, cemento e vetro con vista sul parco, dieci blocchi più a sud del Gaslamp, quartiere “storico” confezionato a misura di turista sulla Quinta. E poco meno di one mile, solo diciassette minuti a piedi, fino al Convention Center dove dovevo recarmi per assistere alle conferenze d’aggiornamento. L’albergo era circondato da homeless in costante migrazione da Nord a Sud dell’America per poter sopravvivere le notti all’aperto in tutte le stagioni senza correre il rischio di morire per ipotermia. Ora stanno riqualificando la zona del Downtown, but it’s not cleaned yet. Spinti sempre più lontano dal
centro, gli homeless si concentrano lì. In realtà una “casa” la possiedono: un carrello della spesa ricolmo dei loro averi. Dall’anoressica con le gambe scheletriche, all’anziano canuto, al ragazzo con gli spasmi. Tutti trascinati e sostenuti dai loro carrelli-casa. Uno di loro girava sulla Sesta con un cartone con su scritto: “Mi servono i soldi per l’erba e donne scatenate”. Gli ho fatto una foto, ma lui si è arrabbiato come una biscia e anche quando gli ho dato un dollaro, l’ha accartocciato e me l’ha tirato contro. Si allungava con le braccia inveendo e sbraitando attraverso la ringhiera. Sì, nel bar c’era il recinto. Tutti in gabbia: chi fuori e chi dentro. Fine della prima storia triste. Ad uno sull’Ottava ho chiesto quale fosse la sua storia e lui ha risposto: Just a bad life. Fine della seconda storia triste. Uno con le gambe mangiate dal crack sulla Settima mi aveva detto: “Non ti voglio chiedere soldi, ma sto morendo di fame, mi potresti dare qualcosa?”. Ho cercato
della frutta secca che avevo nello zaino e quando gliel’ho mostrata, ha biascicato: “Non posso mangiarla quella, sono senza denti”. Fine della terza storia triste. C’era poi quel carrello-casa pieno di stracci e carabattole, abbandonato sull’Undicesima, con sopra un oggetto che ogni mattina quando ci passavo davanti, mi faceva salire il magone: un orso di peluche enorme, impolverato, macchiato e sdrucito. Pensare alla solitudine immensa di quella persona, che l’aveva preso per dormirci abbracciato e che poi l’aveva dovuto, per chissà quale ragione, abbandonare lì, mi mandava in paranoia. Fine della quarta storia triste. Nel mio albergo era permesso alloggiare con cani, ma non con bambini. Già la prima sera ero rimasta stupita nel vedere un cane che al garrese mi arrivava al petto, una sorta di mucca praticamente, prendere l’ascensore disinvolto con me. Probabilmente a breve i suoi padroni avrebbero dovuto alimentarlo a Diet Dog Food, che costa il triplo, per farlo dimagrire. Fine della quinta storia triste. Gli Stati Uniti sono un luogo dove non vorrei vivere. Ogni volta che ci torno mi sento come Travis Bickle all’inizio di Taxi Driver: alienata. Ma c’è un aspetto che ha del romantico ed è quello naturale, dei paesaggi della costa del Pacifico dove il tramonto rosso fuoco proietta ombre sinuose dalla scogliera a picco sull’acqua impetuosa. Tuffarmi fra le onde di mille bolle e potenza dell’Oceano a me sconosciuta. Grandi territori di parchi, canyon, fiumi e boschi e deserti a perdita d’occhio. Questo sì, è un aspetto che vorrei ancora poter esplorare dell’America, lontano dall’uomo e forse anche un po’ dentro di me. Da San Diego è tutto.
Parigi in tutta libertà Una settimana in vacanza nella capitale francese osservando usi e costumi dei parigini di Emanuele Celotto Mi sveglio presto: stazione, Treviso e poi Parigi. Wow! Finalmente si esaudisce il mio desiderio di vedere "la capital du mond". L'arrivo è su un hub e ci vorrà più di un'ora di tragitto per giungere vicino al metrò. Qui iniziano i primi casini. L'hotel si chiama “Chabrol Opèra”, ma è parecchio lontano dal famoso teatro, con il quale non ha nulla a che vedere. Col mio francese "arrugginito", dopo un triste girovagare a vuoto, trovo l'informazione per il bus con fermata che mi porta a pochi passi dall'hotel. Entro, mi presento alla ragazza alla reception e dico che ho la prenotazione. Lei controlla e dopo un cenno affermativo, mi dice che devo pagare. Come? «No, è già pagato», rispondo. Metto la mano in tasca per prendere il cellulare e farle vedere la mail di conferma. Ma, triste sorpresa, il telefonino non c'è più. Per fortuna la ragazza riesce - dopo un'ora - a trovare il pagamento effettuato. Dopo la registrazione e la sistemazione in camera, è già ora di cercare un ristorante ed il primo giorno è andato. L'indomani, al risveglio, mi sale la domanda: provo a recuperare il cellulare col rischio di giocarmi la giornata o mi dedico a vivere a pieno Parigi? Opto per la città e pazienza per il telefonino. Parigi offre talmente tanto da vedere che non riuscirei a fare l'elenco dei vari musei e luoghi che ho visitato. Ho acquistato la carta “Paris en toute liberté”, con validità cinque giorni, che ti consente di viaggiare
con tutti i mezzi pubblici: la prima cosa che risalta agli occhi è che la città è ben servita ed i parigini sfruttano al meglio i mezzi; il traffico non è nevrotico o congestionato, pedoni e ciclisti (ottime le ciclabili) sono rispettati e l'aria è più respirabile che in molte nostre città. Poi, senza nemmeno accorgerti, cammini tanto perché ci sono parchi e giardini ben tenuti, le strade sono pulite. La raccolta differenziata nelle vie principali non si fa (renderebbe più difficoltoso mantenerle pulite): i contenitori li trovi appena fuori dal centro. Lo stile architettonico degli edifici, bello e maestoso, è ben preservato; niente ecomostri. Nei cantieri, ponteggi e reti di sicurezza sono coperti da un telo che ripristina il disegno originale e mantiene inalterato il colpo d'occhio; è talmente ben fatto, che da lontano non ti accorgi della differenza. Nelle visite ai vari siti si nota che il livello di allarme è alto, ma allo stesso tempo non si ha la percezione di una città militarizzata. Ho visitato parecchie delle cose che "sono dovute" ad un turista, i giorni a disposizione non erano molti quindi il girare a piedi mi ha consentito di entrare meglio nell'anima della città. Ho avuto la sensazione di una cit-
tà molto aperta e multiculturale, dove convivono ragazze islamiche velate e non, gay che si baciano per strada, compagnie di ragazzi/e appartenenti alle più svariate etnie. Una città dal cuore pulsante. Vero che ci sono tanti turisti, ma i parigini vivono la loro città; nonostante i traumi degli attentati non si sono arresi alla paura, continuano a vivere. Il lungo-Senna è sempre animato ed ho avuto modo di fare delle conoscenze (lì si mi è dispiaciuto non avere il cellulare). Altra cosa che non puoi non notare a Parigi è il senso della patria e non solo quando gioca la Nazionale: è inteso come bene comune e non come mero populismo. Sui metrò e sui bus la gente paga il biglietto, ma ci sono anche controlli frequenti (io ne ho avuti quattro in una settimana). In un'occasione (ero in uno dei due centri nevralgici del metrò) mi sono messo ad osservare per una mezz'ora, curioso di vedere quanti “furbetti” beccavano: ne hanno fermati tre. Inevitabile porsi la domanda: “E a Roma quanti?”. Sicuramente “furbetti” ce ne
saranno anche lì, ma è molto più difficile evadere visto che l'utilizzo dei contanti è ridotto ai minimi termini, dato che si paga quasi ovunque con carta di credito, e ad emettere lo scontrino sono anche le bancarelle sotto il metrò. Come in tante città, c'è il bike sharing e viene usato tanto, ma a Parigi le biciclette non sono maltrattate come da noi, sono considerate bene pubblico. Il 1° ottobre il Musèe d'Orsay è ad ingresso gratuito e ci son volute due ore prima di entrare, ma ne è valsa la pena. Non sono riuscito a salire sulle torri di Notre Dame in quanto ingressi esauriti già quattro ore prima della chiusura. Ho camminato e mi sono goduto i parchi immensi della città che sono molto frequentati; c'erano lezioni all'aperto di varie discipline sportive ed io ho rimpianto di non avere avuto una tuta per poter correre immerso nel verde. Non ho trovato Mac Donald's e Burgher King, inoltre, ho visto che ristoranti e bistrot non servono acqua in bottiglie di plastica, ma ti viene portata una bottiglia di acqua di Parigi che ho trovato più buona della nostra. La città è un po' cara, come quasi tutte le capitali. Con la cucina, qualche difficoltà l'ho avuta, dato che sono vegetariano e non ho gli stessi gusti culinari dei francesi. Anche lì l’uso dei cel-
lulari è spropositato: tutti sono risucchiati dallo smartphone e socializzare non mi è stato semplice. A parte questo, Parigi la rivedrei altre cento mila volte, tante cose ha da offrire. Una settimana è stata troppo poco ed è volata. Niente foto ricordo a causa del cellulare perso, ma la città resterà ugualmente nel mio cuore. “Au revoir Paris, mon amour!”, alla prossima.
PANKAKULTURA
Il mosaico omaggia le star In autunno Pordenone ha ospitato la mostra “Icon of Art Mosaic - Young Talent” di Andrea S. e Giorgio Achino Dal 2 settembre al 29 ottobre alla galleria comunale Harry Bertoia di Pordenone è stata presente la mostra intitolata “Icon of Art Mosaic - Young Talent”. E' un progetto artistico e formativo nato per valorizzare i giovani talenti provenienti dalla scuola Mosaicisti del Friuli. Per il curatore, Guglielmo Zanette, regista e designer e membro dell’Associazione Culturale Naonis di Pordenone, «rappresenta un unicum nella neo pop contemporanea e ha il pregio di far convergere in una serie di occasioni espositive numerosi talenti italiani e internazionali capaci di coniugare qualità tecniche e slanci costruttivi d’arte autentica». L'esposizione è ritornata
in città dopo avere percorso un lungo tour nel 2016 fatto di appuntamenti nazionali (Pordenone e Roma) ed internazionali (Izola e Miami). Diciotto gli artisti coinvolti, provenienti da Italia, Kazakistan, Albania, Corea del sud, Russia, Slovenia, Venezuela, ognuno dei quali ha interagito non solo con pietre e smalti propri del mosaico, ma anche con tela, vinile e corteccia, proponendo l’immagine di attori, musicisti e personaggi di fama mondiale del presente e del passato recente come Sophia Loren, Johnny Depp, Morgan Freeman, Roberto Benigni, Will Smith, Leonardo di Caprio, Sean Penn, Totò, Natalie Portman e Clint Eastwood. La forza incisiva di
questa produzione si coglieva appena entrati in galleria. Impressionante come gli artisti abbiano rappresentato la profondità e l’emozione di ogni volto delle singole star. È stato come entrare in uno stato emozionale dove, girando lo sguardo, più che da un quadro venivi colpito da un’emozione profonda: a piccole dosi, le emozioni delle Icone dei nostri tempi. Quello che ci è rimasto più impresso è stato il quadro di Sophia Loren, realizzato da Vanessa D’Andrea. L’immagine riprodotta è quella della Loren avvolta da un turbante, immagine vista e rivista e decisamente tra le più rappresentative dell’attrice, ma non la più famosa. In questo quadro
sono stati utilizzati smalti veneziani, marmi, tessere in vetro e foglie d’oro, ma è il tessuto che l’avvolge a rendere ancora più affascinante l’opera. Di questo quadro colpisce la profondità che è data dagli occhi, occhi che sembrano parlare. Gli orecchini realizzati con tessere in vetro e foglie d’oro completano l’immagine di un'icona italiana che ha rappresentato i canoni della bellezza (italiana appunto) nel mondo. L’artista ha colto e riprodotto l’attimo dello scatto di una attrice straordinaria per capacità, stile e bellezza restituendo allo spettatore la sua viva plasticità.
PANKARAULTRÀ Questa è una di quelle occasioni in cui non importa la stanchezza dei giorni prima, il sonno non arriva. L'appuntamento con la Storia, inizia alle 4.45 nel parcheggio dello stadio Bottecchia. Non è la mia prima trasferta insieme ai Supporters, gruppo ultras organizzato attivo dal 2008, ragazzi che seguono, tifano e cantano per il Pordenone dagli anni dell'Eccellenza, passando per i fallimenti societari, lo scudetto serie D, la Lega Pro e le finali play-off. Da sempre presenti e da sempre coerenti. A Cagliari è tutto diverso, dal grigio e freddo del Nordest, si passa in poche ore al caldo ed ai meravigliosi colori accesi dell'isola sarda. L'entusiasmo, già alto per tutto il viaggio, si trasforma in emozioni fortissime, anche nei gesti di routine come appendere le pezze, nostre e dei Bandoleros. Inizia la partita, si chiude lo stomaco e noi non ci fermiamo un attimo, cantiamo a pieni polmoni. Al 7'pt Maza, con un tiro meraviglioso, porta in vantaggio il Pordenone. Assurdo, siamo in vantaggio alla Sardinia Arena!Dopo pochi minuti, Dessena pareggia, ma il Pordenone continua ad attaccare, a fare il suo gioco, senza timori reverenziali, così come
Pordenone è leggenda A Cagliari e a Milano due pagine di storia straordinaria di Gianluca Giannetto noi non smettiamo di incitare i nostri colori. Al 17' del secondo tempo, su azione partita da un calcio d'angolo, il centrale difensivo Bassoli insacca e ci porta nuovamente in vantaggio. Nella testa si insinua piano piano l'idea di farcela, di riuscire a portare a casa il risultato. Triplice fischio il Pordenone batte 2-1 il Cagliari. Ed esplode la gioia nel nostro settore, un turbinio di emozio-
ni, di grida, abbracci, lacrime e passione. Solo pochi anni fa si combatteva nei campi di provincia ed oggi si espugna uno stadio di serie A. Per me è ancora difficile descrivere ciò che ho provato: due aerei, migliaia di chilometri macinati, il non dormire, i sacrifici, tutto per un sogno. Un sogno che dopo la partita di Cagliari, si è chiamato Inter. A Cagliari abbiamo scritto un'altra pagi-
na della nostra meravigliosa storia, ma ci siamo ritrovati a scriverne un'altra, contro l'Inter a Milano. A fine primo tempo c’era chi esultava per lo 0-0 come una gran vittoria, a fine partita aver portato la Beneamata ai tempi supplementari come la vittoria di un campionato e ai rigori come la vittoria della Champion’s League. Era come sentire, palpare quella verità che hai sempre pensato potesse esistere ma che non potevi permetterti di pensarne l’esistenza per non essere chiamato sognatore. Ed invece, si stava materializzando quella frase che molti ripetevano come un mantra: «non succede ma se succede». I rigori sono rigori ma quei momenti, quelle mani strette, quegli abbracci di tensione, quelle lacrime di gioia che già solcavano i nostri visi ad ogni rigore tirato per noi valgono come una vittoria. Quanti potranno raccontare di aver sentito risuonare ed esplodere, con una potenza tale che l'eco sembrava quasi ritornare indietro come una ventata, il nome della propria città a San Siro?Noi il 12 dicembre lo abbiamo fatto e per molti anni sarà una delle emozioni che ci porteremo dentro, dentro la nostra storia.
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada de I Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost Capo Redattore Chiara Zorzi
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Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!
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Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: ”...si bello, ma non si scrive così in Italiano!” S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara
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Virginia Bettinelli Scrive scrive scrive, piacere esigenza amore. Non trova pace nella sua vita trafelata, in perenne corsa alla ricerca di stare al passo con l’orologio che invece, implacabile, indica il tempo troppo velocemente. Nella scrittura trova invece la quiete, la pausa, sopra il delirio. Scrive per la Panka anche per questo, tentativo di pace in un mondo ostile.
Andrea S. Quando la storia della tua vita è un film di Tarantino, quando decidi che la voglia di vivere diventi il finale del film, quando tutto questo è condensato in un unico uomo, all’accendersi delle luci in sala non puoi che applaudire il protagonista. Fa dell’informatica la sua ragione di vita e per ora riesce con grande stile ad accendere il computer! In miglioramento!
Irene Vendrame È arrivata in redazione una cucciola! Giovanissima, timida e delicata, ma altrettanto determinata e ambiziosa. Sogna di diventare una famosa giornalista come Oriana Fallaci, così è stata arruolata da LDP per farsi le ossa. Benvenuta Irene!
Marlene Prosdocimo Se fosse nata in Trentino avrebbe vissuto una adolescenza drammatica ma in Friuli no, meno. Alleggerita da questo peso studia filosofia ed ama le arti. LdP esiste proprio perché è questione di arte realizzarlo ed anche perché senza la giusta filosofia sarebbe impossibile leggerlo. Lei l’ha letto ed ora ci scrive sopra. Perfetta... proprio come la mela!
Antonio Zani Quando una persona legge molto, quando poi si accorge che scrivere gli riesce, quando è costretto a fare attività fisica ma non gli riesce e non ne ha voglia, quando in tutto questo conosce la Panka, allora che fa? La risposta è Libertà di Parola! Dopo una gavetta alle rubriche ora esce con l’approfondimento, ma non ti preoccupare Antonio, sempre senza correre!
Editore Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto Impaginazione Ada Moznich
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Emanuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante questo difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricordo di antichi fasti e disavventure inenarrabili.
Stampa Grafoteca S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione. Foto a pagina 1 dal sito www. storyblocks.com Foto a pagina 2 e 3 a cura degli intervistati Foto a pagina 7 dal sito https:// pixabay.com/ Foto a pagina 8, 9 e 10 a cura delle società sportive Foto a pagina 12 Virginia Bettinelli Foto a Pagina 13 Piero della Putta Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle Dipendenze di Pordenone
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Piero Della Putta La particolarità di questo uomo è quella di non farti capire immediatamente da che parte sta. Ci parli, ti chiede, tu chiedi, analizza, critica ma poi ti regala il lato che funziona. La cosa straordinaria è che poi, senza particolari, ti accorgi che sta con te.
Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 371310 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN BCC: IT69R0835612500000000019539 Codice IBAN Credit Agricol Friuladria: IT80M0533612501000030666575 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00
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Redazione Riccardo Costantini, Rossella Z., Irene Vendrame, Alì, Piero Della Putta, Antonio Zani, Marta Pozzi, Monica Vanzella, Manuela D'Andrea, Alain Sacilotto, Andrea Lenardon, Marlene Prosdocimo, Giorgio Achino, Paolo Facchin, Stefano Venuto, Virginia Bettinelli, Emanuele Celotto, Andrea S., Gianluca Giannetto.
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Milena Bidinost Da giornalista arriva quando meno te lo aspetti, si accorge di cose che tu non ti aspetti, le scrive come tu non ti saresti aspettato. Spesso i giornalisti non li aspetti, te li ritrovi. Noi invece l’aspettiamo, ci siamo scelti.
IL CINEMA È UN’ESPLOSIONE DEL MIO AMORE PER LA REALTÀ PIER PAOLO PASOLINI
I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA