APPROFONDIMENTO
Hip Hop
Libertá di Parola 4/2018 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
L'Hip Hop, genere musicale e movimento culturale, e i sui filoni, dalla breakdance ai graffiti, sono al centro dell'approfondimento. Nato negli anni Settanta del secolo scorso negli Stati Uniti come sottocultura, il movimento è poi espatriato, arrivando a diffondersi anche in Italia, e si è evoluto. Dagli anni Duemila è uscito dai centri sociali per entrare nei talent show e nei social network, assumendo una veste più commerciale. a pagina 7
PANKA AMBIENTE
Lago di Barcis ed ultime alluvioni, ritorna l'annosa questione della necessità di uno sghiaiamento a pagina 6
INVIATI NEL MONDO
I miei quattordici anni in Tanzania, “padre” in una casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII a pagina 11
PANKAMBIENTE
LAUREARSI A PORDENONE Da 27 anni un campus all'avanguardia, con iscritti in crescita: ma la città sembra non essersene ancora accorta Il 28 gennaio del 1992, ventisette anni fa, nasceva il Consorzio universitario di Pordenone: il Comune di Pordenone, la Camera di commercio e la Provincia ne sottoscrissero la costituzione. L'ente aveva ed ha tutt'ora il compito di favorire e coordinare l'inserimento universitario a Pordenone. Negli anni la composizione del Consorzio è mutata. Presieduto da Giuseppe Amadio, di esso oggi fanno parte il Comune di Pordenone (unico socio fondatore rimasto e di maggioranza, che ha incamerato anche le quote dell'ex Provincia), la Fondazione Friuli,
Unindustria, gli istituti di credito BCC Pordenonese e Crédit Agricole FriulAdria, e i Comuni di Prata, Porcia e Roveredo. I primi corsi si tennero nei prefabbricati del liceo Grigoletti, in via Interna; nell'anno accademico 1994-95 vennero trasferiti nell'attuale sede in via Prasecco e nel 2004 furono realizzati tutt'intorno i nuovi edifici. Oggi la sede del Consorzio è una struttura all’avanguardia, un campus che soddisfa tutte le necessità della vita accademica. Si sviluppa su un’area di oltre 15 mila metri quadrati, divisa in tre edifici nei quali ci sono anche una mensa e una
struttura dedicata agli alloggi per gli studenti. Pordenone è oggi la sede staccata delle Università di Udine e Trieste, di cui assorbe il 10 per cento degli studenti, e dell'Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA) di Roma, dove si propongono percorsi universitari di eccellenza ed innovativi, integrati con il tessuto aziendale del territorio. Parliamo di una popolazione universitaria che è arrivata a contare 1.500 studenti, il 20% dei quali fuori sede, che ancora non riesce ad integrarsi a pieno nel tessuto cittadino del capoluogo. Il perchè lo abbiamo chiesto a loro.
“Finale di partita”, nel primo libro di Massimo Pighin la storia di cadute, rivincite e rinascite a pagina 12
NON SOLO SPORT
Il fenomeno giochi da tavolo e giochi di ruolo a Pordenone: luoghi e curiosità a pagina 14
IL TEMA
Polo d'eccellenza, ponte tra le aziende e 1500 studenti Degli iscritti il 20% è fuori sede: per loro c'è il problema degli alloggi in affitto di Milena Bidinost I primi due corsi attivati a Pordenone nell'anno accademico 1992-93 furono i vecchi diplomi universitari di Ingegneria Logistica dell'Università di Trieste e di Ingegneria Meccanica di Udine. Si partì con una ventina di iscritti per corso. Sono passati quasi ventisette anni ed oggi quello di Pordenone è diventato un polo universitario – sede staccata delle Università di Udine e di Trieste – di eccellenza. Udine si mantiene radicata, Trieste si è defilata rimanendo presente con il solo corso di laurea in Production Engineering, e nel frattempo si è inserito anche l'Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA) di Roma. Dal 2010 il campus di via Prasecco ospita inoltre anche i corsi della Fondazione ICT Kennedy. Ci sono infine sei laboratori di ricerca. Attualmente i corsi di laurea triennali sono quattro (Infermieristica, Design del
prodotto, Scienze e tecnologie miltimediali e Banca e finanza); tre invece i corsi di laurea magistrali(Product Engineering and Management; Comunicazione Multimediale e Tecnologie dell’Informazione e Banca e finanza). «Le iscrizioni per l’a.a. 2018/19 – dice il direttore del Consorzio, Andrea Zanni – confermano il trend in costante crescita e si attestano su un aumento del +20% rispetto allo scorso anno
portando il totale degli iscritti a circa 1500, che rappresenta il 10 per cento del totale degli studenti dell’Università di Udine. Gli studenti “fuori sede” – aggiunge – che attualmente risiedono a Pordenone nella residenza del campus o in appartamenti in città sono circa il 15-20% degli iscritti, cioè 250-300 studenti». Che l'offerta formativa sia al passo con i tempi lo confermano i dati occupazionali post laurea. «Nonostante Pordenone sia una sede staccata – osserva il direttore – il valore aggiunto è che qui si svolgono percorsi
Punti di forza e criticità
Paolo, studente pordenonese: «Ottima la didattica, ma pochi collegamenti con il centro» di Chiara Zorzi Paolo ha 23 anni, è pordenonese ed è neolaureato in infermieristica all’Università di Udine, nella sede staccata del Consorzio universitario di Pordenone. Gli abbiamo dato un nome di fantasia, per rispettare la sua richiesta di anonimato, e con lui abbiamo cercato di capire cosa significa per un giovane universitario, studiare nella propria città. «All’inizio, sia per i ritmi che per il numero esiguo di studenti nel mio corso – racconta – mi sembrava di essere rimasto alle superiori. Poi,
negli anni, con l'aumentare delle ore di tirocinio e il diminuire di quelle di lezione, ho comiciato a realizzare». Paolo ha scelto Pordenone principalmente per un motivo economico, poiché studiare fuori sede sarebbe stato uno sforzo eccessivo. Le sue aspettative rispetto all’Università sono state pienamente soddisfatte dal punto di vista didattico perché «avendo partecipando ad un corso con un esiguo numero di studenti, abbiamo iniziato in 45 e abbiamo finito in 30, ho avuto l’occasione di
imparare meglio, di stare più tempo nei laboratori e di avere un rapporto stretto con gli insegnanti», dice. Meno soddisfacente invece la vita universitaria. «Mi immaginavo altro – ammette Paolo – sia dal punto di vista della struttura, sia di quello che viene organizzato dal Consorzio nel tempo extra didattico. Pensavo di trovare un ambiente nel quale trascorrere molto altro tempo oltre a quello dedicato alle lezioni, ad esempio un’associazione studentesca alla quale partecipare o qualco-
di studio attuali e in linea con l'evoluzione del mercato. I dati occupazionali ci narrano percentuali molto confortanti: dopo i percorsi ITS il 95% degli studenti trova lavoro a sei mesi dal diploma, dopo quelli di Ingegneria della Produzione di Trieste il 100% a tre mesi dalla laurea e dopo il percorso di ISIA circa 80% a dodici mesi dalla laurea». Ci sono poi i percorsi infermieristici che hanno tempi molto legati ai concorsi pubblici. «In media abbiamo una occupabilità di circa l’80% a dodici mesi dal conseguimento del titolo di studio dei nostri percorsi», dice Zanni. Del resto il campus di Pordenone è stato pionieristico in più di un caso: nel 1997 con l'avvio di quelo che è oggi il corso di laurea in “Scienze e tecnologie multimediali” erogato dall'Università di Udine e tutt'ora un unicum in Italia; nel 2010 con l'introduzione del corso in Design del prodotto dall'Isia di Roma e infine nel 2017 con il corso Banca e finanza sempre dell'Universa che venisse organizzato in facoltà, ma che non fosse sempre calato dall’alto come i soliti convegni». La struttura mette a disposizione spazi adeguati per lo studio e per le esercitazioni nei laboratori, mentre il servizio mensa è problematico perché i posti a disposizione nella mensa del campus non sono sufficienti e quindi gli studenti devono far riferimento ad un’altra mensa in centro città o portarsi il cibo da casa o fermarsi a mangiare al bar, perché spostarsi in centro per chi è senza macchina, con magari 40 minuti di pausa pranzo, diventa un problema. Cosa offre la città ad uno studente universitario? «Per il tempo libero non ci sono eventi o attività dedicate e quindi resta la libera aggregazione come per qualunque altra persona – osserva il giovane –. Mancano eventi spe-
sità di Udine. «Pordenone ha un'Università di eccellenza, con corsi di livello, con numeri di iscritti in aumento, in un territorio in cui le aziende hanno con la stessa Università una buona interazione – ammette il direttore – ma la città non è ancora pronta a dare risposta alla popolazione universitaria fuori sede». Molti pordenonesi non sanno ancora che c'è un'Università e c'è il problema dell'offerta di alloggi. «La residenza per gli studenti è attiva dal 2008 e ha 96 posti letto sempre occupati – dice il direttore – cui si accede con bando regionale. Il grosso problema a Pordenone è quindi trovare un appartamento in affitto, perchè c'è ancora un'ingiustificata diffidenza su come gli studenti possono tenere i locali». Su questo fronte, il Consorzio sta lavorando per “creare un portale che incroci offerta e domanda di alloggi in città”. C'è infine il problema trasporti, sul quale il Consorzio sta cercando una soluzione con il Comune. «L'autobus in via Prasecco con partenza dalla stazione fa poche corse e la flessibilità degli orari univesitari complica le cose», conclude il direttore.
cifici che invoglino ad esempio i pendolari a fermarsi più a lungo in città, magari anche specifici rispetto ai diversi corsi presenti in università visto che sono molto diversi, e che se vengono organizzati fuori dal centro restano preclusi a chi vive in casa dello studente perché i mezzi pubblici sono abbastanza scarsi». Quanto è conosciuta l’università di Pordenone? «La fascia d’età che è interessata sa che anche a Pordenone c’è l'Università – dice Paolo –, perché alle superiori ha fatto orientamento; le altre non so. Del resto, se la Città non vede gli universitari in giro, è difficile che i cittadini ne percepiscano la presenza. Anche da studente hai la netta sensazione che non sia inserita nel tessuto cittadino: è fuori dal centro e le interazioni con il territorio non sono molte».
Io studente fuori sede a Pordenone «Bella perché immersa nella natura e vicina a mare e montagna, la città comincia solo da poco a mostrare una mentalità universitaria» di Francesca Chiappini, 22 anni, di Novara Poco meno di un mese fa mi sono laureata in Design del Prodotto presso l’Isia di Roma, nella sede decentrata a Pordenone. Perché Pordenone, vi chiederete, nonostante viva nel mezzo dei maggiori Poli del Design italiano? Beh, il tutto è nato da un caso piuttosto fortuito: durante il test d’ingresso alla Iuav di Venezia ho conosciuto Claudia, una ragazza di quelle parti. Entrambe purtroppo non abbiamo soddisfatto i requisiti per l’ammissione, perciò ho deciso di ripiegare su un percorso alternativo in un’università di Torino, nonostante il Design sia sempre stato il mio sogno da che mi ricordi. Dopo pochi giorni dall’inizio dei corsi proprio Claudia mi ha dato la bella notizia: l’Isia a Pordenone aveva aperto le iscrizioni, non avendo raggiunto il tetto massimo di iscritti. È stata la prima volta che sentivo parlare di Pordenone. A quel punto dopo essermi informata sull’università, sulla città, chiesto ai miei genitori il loro parere sulla possibilità di andare a vivere così lontano, neanche due settimane dopo mi sono trasferita. Essendo a ridosso dell'avvio delle lezioni, non avevo avuto molto tempo di cercare un appartamento, quindi il primo anno ho trovato alloggio nella Casa dello Studente, insieme alla mia compagna di avventure Claudia. Il giorno dopo il trasloco sono iniziati i corsi. Ovviamente ero agitata: nuova città, nuovo ambiente, nuove persone e responsabilità a chilometri di distanza da casa. Erano tanti cambiamenti concentrati in pochissimo tempo. Tutto sommato le mie ansie erano ingiustificate, adattarsi è stato semplice: il posto era piccolo, l’università, come la città, è popolata da persone cordiali e accoglienti. Presto ho saputo apprendere i ritmi universitari e anche quelli friulani: l’arte dell’aperitivo a tutte le ore è vostra. Dal punto di vista universitario le mie aspettative sono state soddisfatte quasi nella loro to-
talità: speravo di poter accrescere le mie competenze del campo design, imparando un metodo di lavoro efficace, di imparare ad utilizzare nuovi programmi e mettermi alla prova nel parlare di fronte a persone del tutto sconosciute, riuscire a lavorare in gruppo. Contavo molto sulla presenza nel territorio della mia università per poter partecipare a diverse uscite formative e relazionarmi con le aziende, ma purtroppo non è avvenuto tanto quanto sperassi. Aspettative riguardanti la città? Non particolarmente, diciamo che vista la velocità con cui si sono susseguiti gli eventi non ho realmente avuto il tempo di formulare delle aspettative. Una grande differenza che ho apprezzato particolarmente è che questa città è immersa nella natura, tra parchi, montagne, il mare a poca distanza, non mancavano posti dove potersi rilassare o divertirsi per staccare dallo studio “matto e disperatissimo” a cui uno studente deve fare fronte. I primi anni a Pordenone non si sentiva l’aria di città universitaria, è stata una caratteristica che è cresciuta nel tempo: solo quest’anno i locali hanno iniziato ad organizzare eventi per far conoscere la presenza del Consorzio di Pordenone.
La Design Week promossa dall’Isia, ha sicuramente portato anno dopo anno ventate d’aria fresca che hanno spinto la città ad accendersi e animarsi. Gli eventi in realtà a Pordenone non mancano, però sono concentrati nel periodo estivo, quando noi studenti fuorisede torniamo in patria per le vacanze. Della mia città ovviamente mi sono mancati gli affetti, i miei cari, la mia compagnia, soprattutto nei weekend dove i miei amici fuori sede tornavano a casa. Se dovessi cambiare qualcosa proporrei la creazione di un gruppo su un social, come Facebook, dove organizzarsi e partecipare attivamente alla creazione di eventi durante i weekend uggiosi d’inverno. Nell’insieme, posso definirmi soddisfatta di aver intrapreso questo percorso. Pordenone ha significato tanto per me in questi tre anni, mi ha permesso di uscire dal mio guscio, di imparare a cavarmela da sola, di vivere e conoscere una cultura diversa dalla mia, di sbagliare e imparare a risollevarmi con le mie forze, mi ha dato conoscenza, una nuova casa e una nuova famiglia di persone senza le quali non sarei mai riuscita ad affrontare questi anni, e che mi porterò per sempre nel cuore.
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RITROVANDO LA FIDUCIA «A volte vorrei mollare tutto, ma mi ripeto che se voglio posso farcela e niente mi fermerà» di Alessandro Amato Sono Alessandro e sono in comunità da marzo 2015. Ormai sono passati tre anni e mezzo e mi trovo nella fase finale del percorso, cioè il reinserimento, che prevede di condividere un appartamento con altri utenti e di essere autonomo nelle faccende domestiche, ma non solo. Sto cercando Ognuno percepisce e interpreta la realtà tramite e all’interno di paradigmi. Le strutture entro le quali ci muoviamo, però, non sono solide: nella storia della scienza, per esempio, ci sono stati molti cambi di pensiero che hanno rivoluzionato il modo di vedere e analizzare l’unità dei fenomeni. Potrebbe esistere il paradigma definitivo? Ogni scoperta generalmente intesa aumenta la precisione del metodo e delle conoscenze? Trattando queste tematiche è inevitabile affrontare un’altra questione trasversale che dà adito ad enormi paradossi e modifiche di prospettiva che coinvolgono ogni singolo ambito dell’esistenza dell’uomo, dalla teoresi alla politica, dalla morale alla religione e alle questioni più quotidiane possibili: la verità. Alcune fazioni di individui affermano di detenere una verità assoluta in mano e questa è la parte in genere, per il pensiero occidentale, più facilmente confutabile: il rifiuto degli estremismi è ormai un dogma per i più. La negazione degli stessi dogmi appare come dogma,
lavoro come magazziniere o commesso, ma la mia aspirazione sarebbe lavorare con gli animali ed aprire un rifugio con una specializzazione in veterinaria. Mi piacciono molto gli animali ed ho fatto esperienza nel canile “Dingo” a Cordenons dove mi sono trovato benissimo ed ho sco-
perto quanto sia importante prendersi cura di loro. Sto facendo la patente, anche se temo che l’abuso di sostanze abbia rovinato la mia memoria e ho paura di non passare l’esame. Penso spesso a tutte le cose che ho perso o sprecato, come il non aver fatto le superiori: mi sarebbe piaciuto continuare gli studi e fare delle esperienze che mi avrebbero formato come uomo ed aiutato ad inserirmi nella società. Avrei voluto creare delle relazioni durature, di quelle che, anche a distanza di tempo, rimangono come il primo giorno o giocare a pallone o trascorrere le serate a casa di amici, anzichè vegetare “sfatto” completamente, aspettando che il tempo passasse, seppur consapevole che non sarebbe passato mai abbastanza velocemente e sperando che il giorno dopo sarebbe stato diverso, per poi ritrovarmi puntualmente a cercare le stesse persone e sensazioni. Devo fidarmi di più di chi mi sta vicino. Non l’ho mai fatto, per indole, per proteggere la vita sbandata che facevo e per paura che gli altri potessero avere ragione su tutto. Essermi fidato delle persone che ho accanto mi ha aiutato a raggiungere un traguardo tanto sognato, quasi che per loro io fossi più importante di
Esiste la verità? È una questione trasversale che si dibatte tra enormi paradossi e modifiche di prosepettiva di Marlene Prosdocimo dunque una verità di fondo parrebbe esistere in quanto non è possibile eliminare in toto le proposizioni sulle quali fondare un discorso. Il relativismo (di qualunque tipo: storico, culturale e via dicendo) sembrerebbe essere la più veloce “soluzione” al problema: dal momento in cui si contemplano diverse e compresenti concezioni del mondo, nessuna di queste può assumere un valore assoluto. Ma
non è così semplice: in tal caso o si portano sullo stesso piano verità differenti, ma pur sempre verità, magari riconosciute come le migliori possibili per quell’epoca storica o la determinata cultura, oppure si
quanto io stesso non credessi di essere. Ho 29 anni, di vita davanti ne ho certamente ancora molta, ma sento di avere perso delle occasioni. Il rapporto distaccato dalla famiglia e il mio carattere chiuso hanno fatto sì che da adulto allontanassi le persone, anche se per questo mi odiavo tantissimo. Ora che sto meglio rimpiango tante amicizie perse, ma posso andare avanti creandomi nuovi legami, anche se la nostalgia del passato mi tormenta. Dovrò cercare di essere sempre positivo per non ricadere in quei meccanismi che mi hanno ucciso dentro, creando sempre più uno stato di depressione misto alla ricerca del rischio e dell'adrenalina che mi ha portato a dipendere da una sostanza che era diventata l'unico scopo alla mia esistenza. Vivevo solo per me stesso e per l’eroina, illudendomi che potesse rendermi vivo e libero facendo scivolare via i problemi di tutta la vita. Invece creavo una ragnatela di menzogne e storie sempre più confuse, come se vivere al massimo del rischio mi ripagasse di tutte le sofferenze, quando invece perdevo la concezione di giusto o sbagliato. A volte vorrei mollare tutto, ma mi ripeto che se voglio posso farcela e niente mi fermerà. ritorna al punto di prima per cui si afferma che non sussiste un veritiero apparato universale, esprimendo dunque una base per la costruzione di pensieri, una verità. Lo scetticismo più assoluto non è una posizione facilmente sostenibile. La fallacità dell’esperienza - e della conseguente tentata conoscenza - può indurre ad una posizione di paralisi, di afasia, sospensione del giudizio. L’uomo non può conoscere, ma non è anche questo approdo di verità? Questi ragionamenti vengono costantemente compiuti in modo estremamente complesso da filosofi e scienziati in quanto ha effetto sull’approccio alla vita di tutti i giorni: essendo quello della verità un problema non risolto (e forse nemmeno risolvibile), come possono agire di conseguenza i singoli organizzati in società? L’evoluzione delle civiltà potrebbe essere interpretata in chiave finalistica con la verità issata a fine, ma lo stesso concetto di “fine” fa parte di un paradigma che potrebbe cambiare: e così in loop. La questione resta aperta.
Basta un niente per diventarne vittima
a diffondersi, non c'è la certezza che smetta di girare e potrebbe riemergere in qualsiasi momento. È una ferita dalla quale difficilmente si guarisce e, provando a immedesimarmi, ho colto, solo in parte, quanto distruttiva possa essere. #Cuoriconnessi vuole raccontare le testimonianze di persone che
ce l'hanno fatta, perché sia chiaro che solo parlando e chiedendo aiuto si possono cercare di risolvere questi problemi. Purtroppo il bullismo è sempre esistito, ma quello in rete è nettamente più dannoso: diffusione incontrollabile e portata maggiore. Riflettendo, mi sono stupito della cattiveria che sembra essere diffusa tra le persone, tra i giovani; durante l'incontro, però, si è parlato della “spersonificazione” della vittima. Da dietro una tastiera non si ha il senso di gravità di quello che si sta facendo, spesso non si riflette sulle conseguenze e quindi più che con cattiveria si agisce con ignoranza, superficialità e ingenuità. Per un cyberbullo che agisce con intenzionalità negativa, c'è una massa di persone che si rende complice semplicemente perché non ragiona e pensa sia lecito perché lo fanno tutti. Un'idea per il futuro di #Cuoriconnessi è quella di portare la testimonianza di qualche bullo pentito, in modo da aiutare i ragazzi a ragionare prima di essere complici di errori che possono avere gravi conseguenze. Il progetto vuole fermamente dire: la domanda non è smartphone si o no, la domanda è smartphone come.
che ho la fortuna di incrociarti, ti accenno un saluto e la mia mente scatta foto a ripetizione del tuo volto per fissarle indelebilmente nel mio cuore, come per eternizzare un attimo fuggente che voglio ancora sentire mio, che mi doni qualcosa di te e che alla sera, nella mia solitudine, mi sia dolce e lenisca il mio bisogno di te. Quando ti vedo non ti disturbo, sei il mio dolce cristallo che temo con una mossa sbagliata possa andare ancora di più in frantumi. Persino nei miei pensieri ti coccolo discretamente per timore di commettere degli errori, ne ho già fatti troppi. Ma ora non esiste più l’abbruttimento dell’alcol
ed i sentimenti sono riaffiorati più forti che mai Ali e tu ne sei tanta parte. Ho pagato il mio conto, sono di nuovo in pista, ho ritrovato la via, spero tanto tu torni a far parte di me prima o poi, io non ti disturbo ma ti osservo, tu non mi vedi, ma sappi che io ci sono. Ho tanto da dare e spero un giorno di potertelo dimostrare, non ho fretta, prenditi i tuoi tempi, rifletti, ma sappi che quando vuoi io ci sono, abbiamo troppo tempo perso, non perdiamone ancora Ali. Io ti aspetto e nel mentre custodisco nel mio cuore tutto quell’immenso amore che tu sei per me. Tuo papà.
L'incontro a Pordenonelegge sul progetto #cuoriconnessi di prevenzione al Cyberbullismo. Le testimonianze di chi ne è uscito di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon Grazie alla vittoria del concorso letterario “Il classico scritto da me”, organizzato da I Ragazzi della Panchina, ho potuto partecipare all'incontro “#cuoriconnessi. No al Cyberbullismo”, evento di Pordenonelegge con ospiti Marco Titi e Luca Pagliari. Il progetto #cuoriconnessi è un importante iniziativa che mira a sensibilizzare rispetto al problema del Cyberbullismo, incontrando migliaia di ragazzi in tutta Italia e dando loro voce per raccogliere testimonianze preziose per la prevenzione. Un aspetto che mi ha colpito è stato quello del “tranne che”. Quasi tutti i ragazzi sanno già che non si devono mandare le foto, purtroppo, però, il problema è quando entra in scena l'eccezione. "Sapevo che non si doveva fare. Non lo avevo mai fatto, tranne quella
volta". Questa frase spesso si ritrova alla base di storie drammatiche, dove una foto nelle mani, anzi, nel telefono sbagliato, può essere fatale. Pensavo che il problema della viralità potesse essere risolto con l'intervento della polizia, invece, i relatori sono stati chiari spiegando che,quando una foto inizia
A MIA FIGLIA «Ho pagato il mio conto e sono di nuovo in pista. Spero tanto tu torni a far parte della mia vita, prima o poi» di Antonio Zani Manca un sorriso nelle mie giornate solitarie, manca una voce nei momenti che trascorro al lavoro, a casa, con quei pochi amici che mi son rimasti e che ho scelto per rinascere, mancano i tuoi gesti quando cala il buio ed io mi rattrappisco sul divano cercando di sognare con il solo calore di un cagnolino che adoro. Manca tanto nonostante il tanto che ho ricostruito e quel tanto sei tu. Non so quanto mi manchi, non so quantificare l’amore di un padre. Ed io sono tuo padre nonostante tante cose sbagliate che l’alcol mi ha indotto a fare nei miei tempi bui che purtroppo anche tu hai subìto. Il passato
non l’ho dimenticato e ne ho tratto insegnamento, la solitudine malinconica che mi ha accompagnato mi ha illuminato ed ho invertito la rotta, forse tardi, sicuramente tardi, ma ho capito. L’alcol è un mostro che ti trasfigura e ti affossa lentamente e non ti dà modo di prenderne atto mentre lentamente ti abbruttisce. Ce l’ho fatta dopo lunghe battaglie contro me stesso ed ho capito. Ora mi manchi tu Ali, mi manca il tuo respiro, i tuoi gesti, il sentirmi chiamare “piciul”, nomignolo che sta marchiato a fuoco tra le pieghe del mio cuore. Tu sei parte di me, ti sento dentro di me, ti osservo quelle poche volte
PANKADOG
IL TIMING La funzione del tempo nella gestione del cane di Giorgio Achino Tecnicamente la parola timing significa calcolare, determinare i tempi di un’azione; il tempo in cui viene svolta un’azione e quanto questo sia adeguato rispetto alle nostre intenzioni. Se ricevo i saluti di mio cugino che abita lontano attraverso una persona amica che lo ha incontrato, nel momento in cui l’ho rincontrerò potrò ringraziarlo dei saluti senza che il rapporto tra me e mio cugino venga rovinato. Per i nostri amici a quattro zampe, che vivono emotivamente il presente e non pensano a quello che è accaduto ieri o se è da tanto tempo che non
vedono un amico, è fondamentale il timing delle nostre azioni, sia quando li gratifichiamo che quando imponiamo loro dei limiti. Diventa fondamentale il come e il quando si gratifica o si dà il limite. La gratifica deve essere sempre motivata: cerchiamo di non utilizzare il nostro amico come un peluche antistress. In altre parole, come sempre, è importante contestualizzare e attribuire il giusto significato alle nostre azioni. Quindi, se siete sdraiati in un prato fianco a fianco con il vostro “bau”, già il contatto con lui è una gratifica; se in più lo coccolate, è sicura-
mente una cosa positiva. Se invece siete fuori a spasso o in una situazione che non sia quella del relax, coccolare il cane può diventare inutile. Quindi, associate sempre una gratifica ad un’azione e, possibilmente, con una tempistica adeguata. Ricordate che più corto sarà il tempo tra l’azione compiuta del cane e la vostra gratifica (o limite) più il cane avrà la possibilità di associare la sua azione ad una cosa positiva o al limite da voi richiesto. Importante diventa capire per voi quale sia la migliore gratifica da dare al vostro amico. Ci sono soggetti a cui basta uno stimolo vocale perché altrimenti, con le coccole, potrebbero eccitarsi troppo. Viceversa altri devono essere fortemente stimolati con il contatto fisico. Lascio per ultima, e non a caso, la gratificazione basata sul cibo. Molti consigliano il premio in cibo, essendo, il più delle volte, la via più semplice. In questo
caso dovrete fare attenzione affinché non ci sia un apporto di cibo eccessivo tale da far ingrassare il cane e, soprattutto, affinchè questo sistema non diventi l'unico efficiace. Per prima cosa fate in modo che il premio al cane rientri nella porzione di cibo che gli date abitualmente. Tenete presente che per far apprendere un esercizio al cane non servono ore, ma minuti, quindi quando avete una decina di crocchette siete più che a posto. In seconda battuta ricordate che una volta appreso il comportamento non sarà necessario premiarlo sempre ed esclusivamente con il cibo. Un buon metodo potrebbe essere anche solo sporcarsi le mani di cibo oppure alternare questa gratificazione con delle coccole o con un gioco come la pallina, il bastone e così via. Di come utilizzare i giochi e quindi seguire l’istinto predatorio del cane, ne parleremo in un’altra puntata.
PANKA AMBIENTE
Nel lago di Barcis, un'isola di ghiaia Dopo l'ultimo evento alluvionale, ciò che emerge è il grido di aiuto del territorio di Elisa Cozzarini L'ultimo sole della giornata riscalda il borgo di Barcis d'inverno. Un'immagine da cartolina, ma il lago non è più lo stesso, dopo l'evento alluvionale che ha colpito il Nordest tra il 29 ottobre e il 2 novembre: un'isola di ghiaia emerge dalle acque turchesi e, vicino al paese, si estende una macchia marrone di fango, rami, plastica. La necessità dello sghiaiamento non è novità di questi giorni. Afferma il circolo Legambiente delle Prealpi Carniche di Montereale Valcellina: «Lo ripetiamo da oltre vent’anni: per risolvere il problema dell’accumulo di ghiaia a nord del lago di Barcis serve un intervento strutturale, che affronti tutte le fasi: dal prelievo al trasporto della ghiaia fino ai possibili utilizzi, con valutazioni tecniche, economiche e di impatto ambientale. Invece sono stati spesi milioni di euro per interventi d’emergenza, come il rialzo della strada in corrispondenza del Varma, per
ritrovarci sempre al punto di partenza». Per Legambiente, il trasporto della ghiaia con i camion implicherebbe impatti importanti sulla viabilità e sull'ambiente. Il Cellina infatti trascina a valle mediamente 150mila metri cubi di ghiaia all’anno. «Volendo anche recuperare parzialmente il volume del lago, il lavoro da
fare sarebbe continuo nel tempo. Per questo il progetto richiede un’attenta analisi, senza fermarsi alla soluzione più immediata, semplicistica e apparentemente più economica, cioè il trasporto su gomma». Le soluzioni alternative ci sono ed escludono, o comunque prevedono solo l’uso parziale, dei camion: si è
discusso della realizzazione di scarichi di fondo, del trasporto su nastro in galleria o di un sistema misto camion e nastro con terminale la ferrovia. Nel 2009, nell’ambito di un protocollo Stato - Regione sulla mobilità sostenibile delle merci, è stato prodotto uno studio di fattibilità che prevedeva proprio il trasporto su nastro e il riutilizzo della ferrovia. Ed è questa, per Legambiente, la soluzione migliore. Il recente evento che ha distrutto boschi, strade, sentieri ha acceso i riflettori sulla fragilità delle nostre montagne, non solo in Valcellina. Eppure lo Stato dovrebbe tutelare le terre alte: il secondo comma dell'articolo 44 della nostra Costituzione prevede di agire in favore delle montagne. Fu Michele Gortani, eletto in Carnia, a ottenerne l'approvazione dall’Assemblea Costituente il 13 maggio 1947, appoggiato dal suo partito, la Democrazia Cristiana. E, quando le montagne erano molto popolate, ancora Gortani ottenne, nel 1951, l'approvazione della prima legge per la montagna. Le immagini del disastro sono il grido di un grande territorio oggi spopolato, che pretende maggiore attenzione, per i suoi problemi, ma soprattutto per il patrimonio naturale e culturale che lo caratterizza: acque, boschi, biodiversità, tradizioni e storia.
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
L'Hip Hop e le sue espressioni di Gianluca Giannetto Negli ultimi anni vi è stato in Italia un prepotente ritorno nella cultura “mainstream” dell’Hip-Hop. In televisione, nei talent, in radio e sui social network assistiamo ad una presenza sempre più diffusa di rappers, cantanti e termini riconducibili a questo mondo, creando, talvolta, anche molta confusione sull’argomento. Ma di cosa parliamo quando utilizziamo il termine Hip-Hop? Innanzitutto parliamo di un movimento che ha una certa storia. La nascita dell’Hip-Hop risale agli anni ‘70 del secolo scorso negli Stati Uniti ed è quindi un genere storico nato dall’incontro di vari generi di Black Music (funk, blues, reggae, rock), durante i Block Party, feste di quartiere all’aperto, che si svolgevano nei quartieri di New York. La seconda precisazione è che parliamo di un qualcosa di vasto. L’Hip-Hop è diviso in quattro sottogeneri, o discipline; il Djing, pietra angolare del movimento, ovvero la capacità di campionare beat e musiche e di mixarle insieme, il Breakdancing, genere di ballo dove b-boy e b-girl si sfidano a colpi di danza; il Writing, o graffitismo, l’arte grafica di pittura murale e il Mcing (da Master of ceremonies, maestro di cerimonia), più conosciuto come Rap, ovvero la tecnica del canto “parlato” sopra una base musicale. Parliamo, quindi, di una vera
e propria sottocultura che esiste da decenni e che si è evoluta nel tempo attraverso il continuo incontro e sperimentazione di tecniche e culture. In Italia l’Hip-Hop arriva negli anni ‘80 e si diffonde soprattutto grazie al lavoro delle Posse, formazioni musicali alternative e dei Centri Sociali, luoghi di socialità caratterizzati da impegno sociale e politico. Grazie a questo lavoro il Rap vive la sua Golden Age (età dell’oro) dall’inizio degli anni ‘90 fino a metà anni 2000, con la diffusione del genere in tutto il Paese, caratterizzandosi con particolarità anche tutte italiane, come l’utilizzo dei dialetti locali soprattutto nel Sud ma anche in Friuli Venezia Giulia con i Carnicats. Ad inizio degli anni 2000 l’HipHop esce dall’ambito underground e sottoculturale e arriva ad un livello mainstream e commerciale, uscendo dai centri sociali e arrivando in televisione e in radio e iniziando quel processo di diffusione e espansione, fino ai giorni odierni. E da noi? Qual è il livello del movimento Hip-Hop nel nord-est e come si è diffusa in questi anni? Per scoprirlo abbiamo intervistato i diretti interessati, che praticano questa cultura da anni, cercando di capire quali sono le passioni e le emozioni che spingono un giovane ad impegnarsi e aderire a questo movimento.
Prima di girare pagina ed immergersi nella lettura, ecco un glossario veloce utilizzato nell'ambiente Hip-Hop che tornerà utile per meglio comprendere ed apprezzare il genere. Freestyle: la capacità di improvvisare rime sopra una base musicale o a “cappella” Flow: lett. "flusso", la capacità di trascinare le persone con il proprio flusso di parole Beatbox: da molti considerata la quinta disciplina, è la capacità di produrre beat (suoni) imitandoli con il suono della voce. Scratch: suono ottenuto dal DJ manipolando manualmente il vinile. Cypher: lett. il “cerchio”, in cui rapper, b-boy e b-girl si sfidano a colpi di freestyle e danza. Tag: la “firma” del writer, prodotta sotto un graffito Stencil: stile di graffiti ottenuto da uno stencil (maschera normografica) attraverso cui viene spruzzata vernice spray
Rap pordenonese, l'Invisibile si racconta Fedro d'Altilia: «Il rap è libertà, è un processo di liberazione dalle catene del quotidiano» di Gianluca Giannetto Fedro d’Altilia, classe 1990 originario di San Vito al Tagliamento, in arte è conosciuto con il nome di “Invisibile”. È attivo nella scena Hip-Hop locale e di tutto il Nord-Est da molti anni ed è noto per il suo stile di scrittura ermetico e “ragionato”, per la capacità di trasmettere emozioni e sentimenti all’interno delle sue canzoni e per trattare argomenti maturi e introspettivi oltre che “conscious” e impegnati. Sono queste le abilità che lo hanno portato ad entrare nella “scuderia” di Bonnot, importante dj e producer italiano, per la pubblicazione del suo ultimo album “Mentre tutto dorme” e a solcare grandi palchi, aprendo le serate di molti artisti italiani, tra cui gli “Assalti Frontali”, storico gruppo hip-hop romano. Quando è cominciata la passione per il Rap? La mia passione per la musica Hip-Hop nasce molto presto durante l’adolescenza: a 12 anni ho iniziato ad ascoltare rap, soprattutto americano e a scrivere le prime rime e i primi versi. La mia “prima volta” a Pordenone è stata molto importante. È successo nel 2006, quando avevo 16 anni, durante una serata di due rapper pordenonesi, “Trich e Mirty”, al Deposito Giordani. Una serata che ricordo volentieri per il mio primo incontro con il rap cantato in italiano e, soprattutto, per il viaggio: in motorino da Portogruaro a
Pordenone sotto la pioggia e in pieno inverno. Da pazzi. Come è iniziato e proseguito il tuo percorso musicale? Ho iniziato pubblicando i miei primi EP e LP tra il 2006 e il 2008, continuando piano piano a fare esperienza e a frequentare serate a tema hip-hop tra il Veneto e il Friuli Venezia Giulia. Nel 2009 nacque Playou, collettivo che iniziò ad organizzare serate coinvolgendo ragazzi di Pordenone, Udine e Treviso; erano eventi molti liberi, strutturati come Battle (sfida a colpi di rime tra rapper ndr) + Live, con artisti anche importanti: è qui che iniziai a fare i primi live, a stringere molte amicizie, a prendere confidenza col palco; nacque anche una compilation che raccoglie pezzi di artisti di tutto il triveneto. Cominciai a collaborare con altri rapper, come i Boyz Slenga, posse storica
di Pordenone, a collezionare tanti live e a produrre il mio primo album “Come se non bastassero le illusioni”, con le basi di Under, amico di sempre. Nel 2013 pubblicai, sempre con Under e sempre da indipendenti, “Parliamone”, che ci permise di fare oltre un centinaio di serate live e di conoscere e fare rete con tanti appassionati di rap in tutto il nord Italia. Durante una di queste serate conobbi Bonnot che curò il mixaggio del nuovo album “Mentre tutto dorme”, pubblicato successivamente per la sua etichetta Bonnot Music. Qual è il tuo rapporto con Pordenone? La mia passione è iniziata a Pordenone, però non ho mai fatto tanti live in città. All’inizio c’erano molte serate al Deposito Giordani, in cui tanti ragazzi potevano cono-
Il tuo ultimo lavoro? Il mio ultimo lavoro coincide con una svolta che ho voluto dare alla mia vita. Dopo aver alternato per tanti anni la mia passione per il rap con il lavoro quotidiano, ho deciso di licenziarmi e di trasferirmi a Milano. Ho sentito il bisogno di fare nuove esperienze, avevo voglia di vivere le storie che ho sempre letto nelle biografie degli scrittori e di evolvermi a livello personale. È stato un periodo di intensa scrittura culminato con la pubblicazione di “Ammutolismo” vol.2, mixtape uscito nel maggio 2018. Cos’è il rap per te? Fare Rap è sempre stata una passione fortissima, un viag-
Le potenzialità educative dell’Hip Hop Hip Hop non solo come forma di divertimento ed espressione di sé, ma anche come strumento educativo. È una funzione questa che questo fenomeno sociale ha sempre avuto fin dalle sue origini. Anche oggi, in situazioni anche molto differenti – dalle favelas in Brasile ai campi nomadi ai centri di formazione professionale – viene sperimentata con successo
scersi e fare rap. Poi, tra lo scemare delle attività del Deposito e la sua chiusura, non c’erano molti spazi dove suonare ed esprimersi, tranne le serate allo skate park durante la Festa in Piassa. Poi nel 2016 la musica è un po’ cambiata con il PNRebel che ha iniziato ad organizzare eventi e momenti di socialità, dalle piazze al Prefabbrikato di Villanova, permettendomi di tornare a suonare a Pordenone, cosa che mi mancava tantissimo. Non si può suonare sempre in trasferta, ci vorrebbero più spazi liberi per i giovani e la musica.
nel lavoro con i ragazzi più «difficili». Ciò che conferisce all’hip-hop grande potere di coinvolgimento, oltre al fatto di essere alla moda, è la sua caratteristica di valorizzare la dimensione competitiva, pur essendo una forma espressiva. In tale contesto la ricerca dello stile, della tecnica, dell’originalità è stimolata da un insieme di pratiche che alimentano un'attitudine al continuo superamento del livello
delle proprie performance, esigendo al contempo il rispetto di regole ben definite. I migliori writer, i rapper, i DJ più innovativi vengono riconosciuti attraverso vere e proprie gare. Spronati da questo immaginario, i ragazzi si dedicano con costanza e perseveranza al disegno, al ballo, alla scrittura di testi come se si preparassero per una gara sportiva; grazie all’attrattiva della sfida, i ragazzi sono
portati a sviluppare proprie capacità e peculiarità, in un processo introspettivo e di autonarrazione, nella quale si sperimenta un'esperienza diversa dal pensiero dominante del “tutto e subito”, in cui è viva la dimensione intrinseca del desiderio indipendentemente dalla logica utilitaristica. L'adolescente che abbraccia questa cultura si ritrova quindi in un contesto di sperimentazione, in cui mettersi in gioco e vedersi crescere, mettendo in atto dinamiche che lo porteranno
gio personale in cui mettere tutto me stesso. Il rap è libertà, è un processo di liberazione dalle catene del quotidiano. A 16 anni il foglio in cui scrivevo le mie rime e i miei testi è stato il mio psicologo personale, dove sfogare e affrontare i conflitti che mi affliggevano. Il mio nome, “Invisibile”, viene proprio dallo stato d’animo del tempo, da come mi sentivo e ascoltavo la mia voce in mezzo alle altre. Rileggere i miei testi è stato come riguardarmi da un altro punto di vista. Grazie a questa esperienza di introspezione sono cresciuto e migliorato fino ad arrivare all’uomo che sono adesso. Quale consiglio daresti ad un ragazzo che si vuole approcciare al Rap? Secondo me fare Rap è essere, non apparire. Non si vive per le stories di Instagram o cose del genere, il rap può fare crescere una persona più di quanto crede. Non mi sento di dare un consiglio, ma per me scrivere e fare musica è sempre stato cercare di trasmettere le mie esperienze, consapevolezze raggiunte e visioni della vita in generale. Un microfono può essere un mezzo potente per esprimere la propria etica: il rap è un incentivo a migliorarsi e crescere.
a trasformarsi, a costruire la propria identità. Si tratta di una sfida con sé stessi in cui in uno spazio protetto è possibile porsi in relazione con il limite, mettendo in atto dinamiche che era possibile trovare nei riti di passaggio caratteristici delle società tribali, pratiche di riconoscimento sociale e individuale atte a marcare l'avvenire di un cambiamento. Tratto dal sito: www.pedagogiahiphop.org
Breakdance ed Hip Hop, dalla strada alle scuole di ballo Davide Fasanelli, in arte Fasa, e il potere comunicativo della danza. «Contagia bambini e ragazzi e grazie a loro anche molti adulti» di Chiara Zorzi Davide Fasanelli, in arte Fasa, è insegnante di Hip Hop e uno dei componenti degli Street Warriors, professional team di breakdancers molto conosciuto nell'ambiente. La danza per lui è stata un colpo di fulmine. «Un giorno a teatro ho visto dei ragazzi ballare e ho pensato che era quello che avrei voluto fare – racconta il 33enne –. Non ho potuto studiare danza perché la mia famiglia non aveva possibilità economiche, ma in seconda superiore ho conosciuto un ragazzo che faceva breakdance e da lì è iniziato tutto. Ci allenavamo in alcuni esercizi base negli oratori o per strada. Un punto di allenamento fisso era diventato il biscione a Conegliano, dove vivo e dove all'epoca passavamo quattro, cinque ore ogni giorno dopo la scuola, con risultati scolastici pessimi». Hai sempre fatto hip hop o anche altri generi? La moglie di mio padre è sudamericana e da bambino ho frequentato le feste sudamericane, dove ho imparato a ballare la salsa che mi piaceva molto, ma ancora di più mi piaceva l’idea della festa, dell’usare la danza come strumento di comunicazione. Quindi a dodici anni ho iniziato con la salsa, poi sono passato al breaking, cioè la danza a terra che significa muoversi a terra con i passi oltre che svolgere delle figure acrobatiche. Sono poi ritornato a rispolverare le danze caraibiche che mi sono tornate utili per arrivare all’hip hop, cioè alla parte più dance, al movimento in piedi, che è quello che secondo me permette di esprimere meglio la propria personalità. Quando, da passione, è diventata il tuo lavoro? È stato un percorso lungo, iniziato per caso quando ballavo per strada insieme al mio amico Thomas. Una ragazza ci ha notati e ci ha proposto di insegnare agli allievi della sua scuola. Per farlo ci ha spinti a conseguire il patentino per insegnare; per pa-
garci il corso ci ha trovato un piccolo ingaggio in uno spettacolo che ci ha permesso di raccimolare la cifra. Essendo uscito di casa a 19 anni ho dovuto mantenermi da solo: ho lavorato per anni in fabbrica e nel resto del tempo studiavo e mi allenavo nella danza. A 25 anni ho deciso di “buttarmi” e dedicarmi intermente a questa passione: oggi insegno nelle scuole di danza e al mattino ai ragazzi delle scuole superiori e soprattutto medie, nell'ambito di progetti educativi nei quali la danza è usata come un linguaggio comune che mette tutti sullo stesso piano. Fai inoltre anche parte di un gruppo di breackdancers, gli Street Warrior. Dal 2006 cerchiamo di creare eventi, occasioni di incontro con il pubblico per diffondere un'informazione positiva su questa danza. Da ragazzino ballavo senza chiedermi cosa vedessero gli altri del mio ballo: poi un artista mi ha spiegato che se volevo diventare grande dovevo creare un ponte, guardare la mia danza attraverso gli occhi dell’altro e trovare una mediazione: potevo cioè fare delle cose solo per me e delle cose che gli altri capivano. Questo è diventato il mio obiettivo, quando cerco di fare un evento. Com'è cambiato la pratica dell'Hip Hop negli anni? Oggi è un genere molto più diffuso di quando ho iniziato a praticarlo io. Non ci si alle-
na più per strada, ma nelle scuole, anche se le esibizioni continuano ad essere portate in strada proprio perchè questo è l’ambiente in cui è nato l'Hip Hop e nel quale rende di più. Anche la fascia d'età è cambiata. Oggi i miei allievi vanno dai 6 ai 60 anni. Gli adulti vengono perché vedono i loro figli stare bene ballandolo, da bambini molto timidi diventare più socevoli, che riuscendo ad esprimersi nel ballo acquisiscono anche autostima. Lo spirito di chi balla Hip Hop è rimasto lo stesso? Oggi ci sono molti giovani, come quelli della mia squadra, che si spendono nel creare opportunità costruttive per gli altri. Quando ho iniziato io non era così: ti sfidavi perché dovevi dimostrare di essere il più bravo. Ad un certo punto però ho cambiato filosofia e mi sono detto “se sei un numero uno, allora sei disposto a dare agli altri qualcosa di te”. E così oggi di fronte ad un bambino che ha voglia di ballare, desidero solo trasmettergli ciò che so fare io così lui sarà felice e cercherà a sua volta di trasmetterlo ad altri.
Secse, «Cosi affermo la mia personalità» Il writer trevisano, da vent'anni sul campo, e la sua arte di Secse Ciao, sono Secse, writer trevisano di 37 anni. Attualmente non ho un lavoro "ufficiale", quindi ho più tempo per dipingere, ma meno soldi per farlo. Prima era viceversa, ma ho sempre portato avanti questa passione, ed ormai sono passati oltre 20 anni. Con ciò che faccio affermo me stesso e mi esprimo in un mondo "cattivo" che snobba e reprime chi ha un'identità e valorizza invece standard e canoni imposti, dove si spendono più per bombardieri che per ospedali, e devi barattare il tuo tempo per i soldi che servono a vivere. In caso contrario sei per strada. A differenza della "Street Art", fatta di figurativi, il Writing ha come protagoniste le lettere, che ognuno evolve ed elabora secondo una visione
personale, formando col tempo il proprio stile; il mio è fatto di forme morbide e squadrate che coesistono assieme. Scrivo il mio nome in più luoghi possibili per affermare la mia identità, prendermi uno spazio e lasciare qualcosa di
me stesso al mondo. Eh già, è puro egocentrismo, che non vedo come mera vanità fine a se stessa ,ma come valorizzazione di sè. Molto spesso metto delle frasi accanto al mio "pezzo", con cui comunico un mio stato d'animo, un parere o qualche spunto per riflettere, e questa cosa mi caratterizza rispetto ad altri writer. La società è cambiata negli anni e con essa
anche molte abitudini di vita e certe dinamiche all'interno delle "sub-culture". Una volta affermarsi e farsi conoscere presupponeva una perseveranza massiccia e viaggiare il più possibile; ora, con internet, è più veloce e facile, ma
Il gatto che fa capolino sui muri È la firma di Sqon: «Se non avessi incontrato i graffiti, non avrei mai continuato a disegnare» di Julia Ghergu Famoso è il soggetto tipico dei suoi graffiti, un gatto che ha disegnato in giro per Friuli e Veneto. Nella vita si chiama Andrea Alzetta, in arte è Sqon, un writer che vive a Montereale Valcellina, dove ha lo studio, e che svolge lavori su commissione per Comuni, locali o anche privati: lavori di grafica, loghi, disegni, stampa. Attualmente tiene anche dei corsi per bambini e ragazzi. Il disegno è sempre stato la sua passione, ma, nonostante abbia fatto il liceo artistico, confessa: «Non penso che avrei continuato a disegnare, se non avessi scoperto i graffiti». I primi li vide a Bologna nel 1996. «Feci delle foto, me le guardai e riguardai e ci misi due anni prima di iniziare a fare qualcosa». Oggi lo stile di Sqon è figurativo, ma anche lui come altri ha iniziato con il lettering, cioè l’evoluzione dello stile della lettera: siccome su questo genere il livello
in Veneto era già molto alto, ha cominciato a disegnare il gatto che è diventato un graffito-logo (lo stesso marchio ripetuto in maniera seriale) molto significativo e anche visibilmente riconosciuto dalle persone. «Mi piaceva e si differenziava da tutte le altre scritte - dice - era veloce da realizzare e non richiedeva
spazi molto ampi per essere disegnato». Il graffito per Sqon è una necessità, gli ha dato un’identità. Essere riconosciuto è una cosa che gli piace, ma il momento migliore è quando sta per uscire a realizzarlo, il “mentre lo fa” è la parte che lo affascina di più. Riguardo la scelta del luogo, inzialmente, per affinare lo stile cerca-
allo stesso tempo sono "tutti alla pari" e quindi emergere non è comunque semplice se non sai distinguerti. Ecco, distinguersi è a mio avviso molto importante, perchè non siamo nè i primi nè gli ultimi, ma possiamo essere gli unici. Vale la pena quindi esserlo. Chi non fa parte di questo ambiente solitamente non ne capisce e apprezza troppo, spesso perchè non legge cosa c'è scritto, mentre la Street Art ha più consensi perchè i figurativi sono fruibili da tutti; ciò nonostante, c'è molta meno ostilità verso il Writing rispetto a quando ho iniziato, la gente non li vede solo per strada o sui treni ma anche negli spazi legali, che oggi sono un po' più diffusi. Se chiedi ad un bimbo cosa sono i graffiti oggi sa dirtelo, ai miei tempi no. Ormai fanno parte della società, quindi sono un po' meno mal visti, ma "accettati" è un termine che purtroppo non mi sento ancora di usare. Concludo consigliandovi di elevare la vostra personalità e di non aver paura di essere voi stessi, questa vita è una: un giorno saremo tutti "stesi", quindi meglio lasciare qualcosa al mondo anzichè toglierlo soltanto. Ciao. va luoghi più isolati come, le grave, poi quando è nato il logo del gatto «ho cercato luoghi esposti e ben visibili alle persone perché più il luogo è pericoloso e impegnativo, più riesci ad emergere e ad essere riconosciuto», dice. Nella sua evoluzione come artista ha giocato ad interagire con l’ambiente circostante, lasciandosi ispirare dagli oggetti che trova e sfruttando le loro forme. «Ho disegnato sul cellophane – racconta – utilizzandolo come un muro, ad esempio ho disegnato cappuccetto rosso e il lupo su del cellophane steso tra degli alberi in mezzo al bosco, oppure ho dipinto un fenicottero su un irrigatore agricolo». Se in origine le strade e i muri erano la cornice di un graffito illegale, oggi la città ha iniziato a modificare le proprie dinamiche sia sociologiche che urbane sfruttando il lavoro degli artisti quasi al pari di quello dei progettisti. «Il fatto che le amministrazioni comunali – conclude Sqon – abbiano iniziato a chiamare i writers per decorare alcuni spazi ha sicuramente aiutato a fare accettare la street art, ma a mio parere molto di quello che viene commissionato è più una decorazione edile che poco ha a che fare con il writing».
INVIATI NEL MONDO
Perchè non sia solo una parentesi di vita «I miei quattordici anni ad Iringa, in Tanzania, in una casa famiglia per bambini in difficoltà» di Giuseppe Falcomer Di notte, se mi svegliavo, non guardavo mai l’ora. Ascoltavo se gli uccelli cinguettavano. Se loro erano svegli, allora significava che erano passate le 5.30 e nel giro di quaranta minuti mi sarei dovuto alzare. Se tutto era silenzioso, potevo ancora riaddormentarmi tranquillo, mancava per lo meno un’ora o più alla sveglia. Succedeva ad Iringa, alcune decine di chilometri sotto l’equatore, a 1600 metri di altitudine, in un altopiano in mezzo alla Tanzania, tra il parco naturale del Ruaha e la zona più a nord, più arida, dove c’è la capitale dello stato Dodoma. Iringa è la mia città d’adozione, vi ho vissuto quattordici anni, più di un terzo della mia vita, e per giunta tutta la vita che si definisce adulta, ovvero gli anni successivi alla laurea. Ora, che di anni ne ho 40, sono ritornato in Italia. A Iringa non si dormiva praticamente mai con le finestre chiuse, se non durante la stagione delle piogge, dato che con la spinta del vento l’acqua poteva sgocciolare in casa attraverso le zanzariere. Non che cambiasse qualcosa: gli infissi erano fatti a mano e sempre erano imprecisi di alcuni millimetri. La pioggia entrava comunque, così come i rumori del mondo fuori, li sentivi ugualmente. A Iringa gli uccelli cantano anche se piove, sotto i fitti rami e le forti foglie dello mzaituni, piantato di fronte alla finestra della nostra camera da letto tra gli alberi di frangipane e le bouganville. Io ero il papà di una “casa famiglia”: davamo, al meglio delle nostre possibilità, un nucleo famigliare a bimbi che non lo avevano, in modo che crescessero il più possibile sereni. Accoglievamo anche bambini con gravissimi handicap fisici e cerebrali o con altre patologie o traumi che qui, in Italia, verrebbero curati anche con cure e medicine
specifiche, ma lì mancavano quasi totalmente. L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, di cui ero volontario, si impegnava molto nella rimozione delle cause che portano alla povertà: organizzava seminari per le mamme, alle quali forniva anche un aiuto in cibo, per insegnare loro come meglio cucinare per i loro bimbi malnutriti; ad altre persone faceva prestiti senza interessi e proponeva corsi di formazione per gestire un'attività commerciale o aprire una qualche attività lavorativa; svolgeva inoltre attività di
sensibilizzazione affinchè cessassero le punizioni corporali nelle scuole, ci si occupasse dei ragazzi di strada, fossero promossi attivamente i diritti delle donne. Seminari, corsi, conferenze, manifestazioni: un po' di tutto, anche per arginare l’ignoranza che le scuole tanzaniane nel tempo avevano creato. Erano scuole che permettevano a tutti di imparare a leggere e a scrivere, ma che per molti versi non facevano altro, non sviluppavano ad esempio nessun altro talento nei giovani studenti, nessun senso critico o creativo. Ora sono tornato a vivere in Italia e ancora quell'esperienza di vita mi fa riflettere. Di recente, presenziando ad un incontro di formazione per persone intenzionate a fare del volontariato all’estero, ho sentito dire questa frase: “Ho ricevuto molto di più di quello che ho dato”. È la frase che di solito si sente dire da chi ha già fatto un'esperienza di volontariato all'estero. Una frase banale, ma che ho usato anche io in passato: è un cliché da dire dopo essere tornato la prima o anche la seconda volta. È normale, nessuno da biasimare. Eppure dopo quell'incontro, mentre guidavo per
tornare a casa, quell'espressione continuava a non darmi tregua. Non mi piaceva e mi chiedevo il perchè. Poi ho capito. Non mi piaceva perché non mi piaccio, io non piaccio a me stesso. Quando fai un’esperienza del genere dai tutto te stesso, il meglio di te, soprattutto se il periodo è relativamente breve, di alcune settimane o di pochi mesi. Ma la domanda da porsi è: perché non essere il migliore me stesso sempre? Perché aspettare una parentesi più o meno lunga, come ad esempio le proprie ferie dal lavoro, per vivere un'esperienza fuori dalla quotidianità? Perchè voler innamorarsi di continuo, ma scappare quando la passione cala? Innamorarsi, prendere il meglio e poi andarsene, senza la prospettiva di condividere l’affitto da pagare. Ho riflettuto su me stesso e mi sono chiesto perché, qui in Italia, non posso essere come ero in Tanzania, perchè non dare il meglio di me anche qui? Perchè pensare che in un paese benestante come l'Italia sia fatica sprecata spendersi per gli altri? Essere la migliore versione di me stesso costa molta sforzo, impegno, dedizione, tempo ed energia. È molto più facile essere banale. So di poter essere migliore di come sono normalmente ma lo dimostro, purtroppo, quasi sempre solamente in condizioni speciali. Mi accorgo invece che mio figlio saluta le persone che incontra per la strada anche se non le conosce; dice “Ciao Vittorio” al nostro vicino con cui ci diamo del lei e vedo lui che gli risponde sorridendo. Mio figlio che per tre anni è cresciuto sotto l’equatore, mi ricorda come là vivevamo e che dovrei essere io la persona che contribuisce a creare anche da noi in Italia quell’ambiente in cui “ognuno riceve molto più di quello che ha dato”.
PANKAKULTURA Ad ottobre, nella meravigliosa cornice dell'ex Convento di San Francesco, ho assistito al doppio live di Simonne Jones e Hannah Epperson proposto da Scenasonica. Ad accogliere le due artiste c’era una sala gremita di persone composte e “severe” come spesso succede a Nord Est. Simonne Jones è una cantautrice multistrumentista indiana cherokee e africana, che scrive intense liriche usando parole affilate come rasoi. Canta con una voce cristallina con estensione ampissima; suona la tastiera, la chitarra, la lira greca e l’omnichord. Cresciuta a Los Angeles, ora vive con la sorella a Berlino. Ha una Laurea in Ingegneria bio chimica e dopo aver lavorato in un laboratorio come ricercatrice, impegnata a trovare una cura per l’HIV, ha intrapreso un viaggio in Ghana per poter continuare i suoi studi a contatto con le persone. Ha deciso poi di dar voce al suo talento ed ora gira il mondo per portare la sua musica con la consapevolezza che, come canta lei stessa, il nostro tempo non è illimitato. La sua ultima canzone narra di due particelle che una volta unite diventano una cosa sola e che se anche allontanate in
Anime e musica da brividi Scenasonica: Simonne Jones & Hannah Epperson all’ex Convento di San Francesco di Virginia Bettinelli due universi diversi e distanti continuano a vivere in simbiosi; un’idea che per lei ha del romantico e fonde il suo amore per la scienza con la passione del suo spirito. Ha lasciato il palco poi alla canadese Hannah Epperson, cantautrice e musicista sperimentale. Capelli lunghi e
biondi, volto angelico, voce da bambina mentre parla ed enorme quando canta. Hannah, figlia di un predicatore, prova ansia per lo stato del mondo attuale e definisce l’America, dove ora vive a New York, senza mezzi termini “totally fucked up”. La sua angoscia la porta a pensare
Cadere si può, rialzarsi si deve Il libro d'esordio del giornalista Massimo Pighin di Julia Ghergu “Finale di partita” è il titolo dell'opera prima di Massimo Pighin, giornalista friulano, collaboratore del Messaggero Veneto di Pordenone con alle spalle altre collaborazioni per agenzie stampa. Il romanzo, edito da Alba Edizioni, è la storia di Roberto, un ragazzo che ha subito danni psicotici in seguito all’assunzione di ecstasy, un'esperienza a causa della quale la sua vita non è stata più la stessa. Dopo aver smarrito la strada, aver perso la fidanzata e aver mandato in fumo tanti progetti di vita, il protagonista decide di darsi un'altra opportunità e affronta un percorso di recupero in una clinica privata. La storia è ispirata a più storie che l'autore ha incrociato nella sua vita, mescolate a vicende che ha affrontato in prima persona. Il romanzo è il frutto di un lavoro interiore e di riflessioni, che Pighin ha
cominciato a mettere nero su bianco a febbraio del 2018 senza la sicurezza che le sue pagine sarebbero state pubblicate. Tanti i passaggi che fanno riflettere. Ad un certo punto, ad esempio, Roberto dice: “Io sono caduto, non soltanto nello sport, ma anche nel gioco chiamato vita”. «Significa che la forza sta nel volere rialzarsi – racconta Pighin - e che la cosa più difficile è il dolore che provochiamo alle persone che ci vogliono bene». Rimbomba al lettore anche lo sfogo del protagonista che dice “ho paura di essermi rovinato per sempre” e quella parola che spaventa,
“suicidio”. «Personalmente non avrei mai il coraggio di farlo – dice l'autore – ma molte volte mi sono chiesto cosa spinga le persone ad arrivare a compiere questo gesto estremo e attraverso il libro cerco di interrogarmi su questo delicatissimo tema». Poi c'è il tema del cambiamento: il protagonista, uscito dalla clinica, non è più lo stesso di prima, «perché il cambiamento è inevitabile – riflette Pighin – si cambia per molte cose e cambiare vuol dire anche capire i propri sbagli, ammetterli e cercare di non commetterli più ; è qualcosa di diverso dal voler ambire alla perfezione. La mia
e a scrivere quasi sempre liriche con un tema principale: l’apocalisse. Con il violino crea armonie che riproduce in loop sulle quali compie assoli e canta; cammina scalza sul palco, dove di tanto in tanto con precisione chirurgica schiaccia delle pedaliere. La sua formazione classica lascia spazio all’improvvisazione creando atmosfere più leggere o molto pesanti che Hannah modula in base alle sensazioni che le arrivano dal pubblico. La sua è una bellezza ellenica indiscutibile, come la sua bravura. Sono entrambe donne giovani, talentuose e coraggiose, che esplorano il mondo portando all’esterno quello che sentono dentro attraverso la loro arte. Vedo le loro anime o che sia l’aura? Non avevo dubbi a riguardo, gli artisti quelli veri ti fanno venire la pelle d’oca. L’ex Convento di San Francesco, che incornicia il palco con i suoi archi rinascimentali e gli affreschi, ha un’acustica da sballo ed accoglie gli artisti e gli spettatori con la sua intimità dignitosa. Grazie a Scenasonica, fondata nel 2013 da Claudio Scircoli, che ha portato “a casa”, in questa cornice da togliere il fiato, un numero di eventi di altissima qualità. fortuna – aggiunge – è di avere una famiglia fantastica e tanti amici che mi vogliono bene: questo per me è stato molto importante per affrontare i momenti brutti della vita». Elisabetta, invece, è il personaggio che nel libro impersona un amore vissuto realmente. «Oggi io non cerco più un amore per riempire i vuoti o la solitudine, soprattutto dopo aver imparato ad essere forte anche da solo», commenta Pighin. "Finale di partita" è tutto questo: vita vera, concreta, cadute e perdite, ma anche rivincite e rinascite. Al suo esordio come scrittore Pighin ha già conquistato i lettori. «Ciò che mi fa più piacere – dice – e che la gente mi riconosce la capacità di essere riuscito ad esprimere ciò che tante persone non hanno avuto il coraggio di manifestare e spero che “Finale di partita” possa far loro riflettere che, ad ogni caduta, è possibile risollevarsi. Non voglio dare lezioni di vita a nessuno, solo invitare a valutare bene ogni situazione perchè ad ogni azione corrisponde una reazione e questa può a volte fare molto male a sé e a chi vi vuole bene».
PANKA NEWS
Hiv Day 2018 con I Papu A novembre la serata sulla prevenzione de “I Ragazzi della Panchina”. Ospite d'eccezione il duo comico pordenonese di Federico Marino
A fine novembre si è tenuta, nella sala Teresina Degan della biblioteca civica di Pordenone, la conferenza sulla prevenzione da contrazione da HIV, con ospiti l’infettivologo dottor Massimo Crapis dell’AAS5 e la presidente de “I Ragazzi della Panchina”, Ada Moznich, che hanno dialogato assieme al duo Andrea Appi e Ramiro Besa, in arte “I Papu”. Lo scopo dell’incontro era di informare, in modo corretto, i cittadini sull’importanza dell’abbattimento dello stigma che per anni si è venuto a creare, ovvero che chi è affetto da questa malattia non possa essere libero di condurre una
vita normale se svolge un percorso di cura corretto e, soprattutto, se non viene etichettato. Ma perché si è tenuta il 29 novembre quando due giorni dopo ci sarebbe stata la giornata mondiale contro l’Aids? Perché non aspettare? È molto semplice, perché come per tutte le cose importanti, è necessario che queste vadano ricordate sempre, in qualunque giorno dell’anno e non solo il primo dicembre. Proprio per questo motivo, ogni anno, “I Ragazzi della Panchina” organizzano tale incontro in un giorno sempre diverso dal primo dicembre. La professionalità dei relatori e la comicità dei due presen-
tatori, han fatto sì che il tema venisse trattato in modo “semiserio”, in modo chiaro, leggero e adatto a tutti, in primis i giovani che, troppo spesso, sono convinti che a loro questa malattia non toccherà mai: spesso, invece, chi è affetto da questa malattia non ne è a conoscenza e, proprio per evitare ci contagiare altre persone, è importante fare un controllo preventivo che è gratuito e che avviene nel massimo rispetto della privacy di una persona. I dati dicono che In Italia nel 2017 sono 3443 le infezioni rilevate (3451 nel 2016, 3444 nel 2015, 3.850 nel 2014, 3845 nel 2013) di cui: 38,5% maschi
che fanno sesso con maschi (compresi i bisessuali); 25,3% maschi eterosessuali; 20,5% donne eterosessuali; 2,7% tossicodipendenti per via iniettiva; 3% non si sa. Le percentuali per fascia d’età sono: 26% dai 30-39 anni, 23% dai 40-49 anni, 15% dai 5059 anni, 15% dai 25-29 anni. Infine in Friuli Venezia Giulia nel 2017 sono state rilevate 40 infezioni che corrispondono al 1,2% sul totale italiano, con un’incidenza di 3,2 persone ogni 100.000 residenti. Come riportato, il contagio da HIV non è più solo un problema di un gruppo ristretto di persone, ma è un problema di tutti: uomini e donne eterosessuali, omosessuali, “tossicodipendenti” e non. Non vi è più nessuna distinzione, ecco perché per l’HIV siamo davvero tutti uguali. Durante la serata è stato spiegato come possa avvenire l’infezione da HIV, cercando di smontare le false credenze e i luoghi comuni che diventano facilmente i protagonisti del processo di etichettamento sociale. La campagna di sensibilizzazione ha visto la partnership di NPS Italia Onlus (Network Persone Sieropositive) e del Dipartimento delle Dipendenze di Pordenone ed è stata patrocinata dall’AAS5.
Dieci anni di LDP, cari lettori diteci la vostra Un sondaggio per festeggiare i dieci anni di “Libertà di Parola” e fare in modo che siate voi – i nostri lettori – ad indicarci la strada per migliorarci ancora di più nei prossimi dieci anni. È l'iniziativa che lanciamo in questo inizio di 2019, un anno in cui il nostro giornale, edito dall'associazione “I Ragazzi della Panchina”, taglia un traguardo che mai ci saremmo immaginati di raggiungere quando, nel settembre del 2009, uscimmo con il primo numero. C'era tanto entusiasmo, la voglia di
fare di questo foglio un megafono per far esprimere chi di spazi sui giornali non ne ha mai. Ed è quello che è successo, ma ciò che ci ha stupiti di più è che, numero dopo numero, la voce de I Ragazzi della Panchina si è mescolata con quella della città, di gente comune, associazioni, privati che volevano scrivere o lasciarsi scrivere, fino a non distinguersi più. Noi il nostro obiettivo quindi lo abbiamo raggiunto ed è l'avere fatto della scrittura uno strumento di integrazione, nel quale
i confini tra chi sono io e chi sei tu non contano più, ma ciò che conta è ciò che si va a dire. Ed ecco la ragione del sondaggio, ciò che per noi è altrettanto importante, cioè fare contenti voi lettori, far sì che incontrarci ogni tre mesi in un punto della città o sul web sia sempre un piacere ed un interesse. Perciò questa volta la parola passa a voi. Nel sondaggio vi poniamo poche domande in cui vorremo sapere quali, secondo voi, sono i punti di forza e di debolezza di questo progetto
editoriale e come ci suggerite di renderlo più interessante sotto ogni aspetto, dai contenuti, alla grafica, alla distribuzione. Rispondere al sondaggio è molto semplice e intuitivo, basta riempire i campi richiesti. Sarà pubblicato a partire dal 15 gennaio 2019 sulla pagina FB: La Panka Pordenone. Le vostre risposte ci serviranno inoltre per conoscere voi e programmare per i numeri futuri di Ldp argomenti che sempre più possano incontrare i vostri interessi.
NON SOLO SPORT
Il bello dei giochi da tavolo e di ruolo
aggregativa, di socialità, di stimolo per la fantasia e la vivacità della mente. Nelle associazioni si ha l'occasione di mettersi alla prova, partecipando anche alle fiere più importanti come Lucca Comics, Play di Modena o Essen in Germania. L'enorme
versatilità dei giochi li rende accessibili a tutti, con una varietà infinita riguardo a numero partecipanti, tempi di gioco, difficoltà, limiti di età e accessibilità a lingue diverse. Si deve solo cercare il gioco su misura. I giochi da tavolo hanno regole fisse, tabelloni fisici e obiettivi definiti. Nei giochi di ruolo, invece, l'unico ingrediente è la fantasia, necessaria per creare personaggi e storie che, come in Dungeons and Dragons, il più famoso role-game, possono durare anche anni. Le possibilità sono tante ma, se si fa sul serio e nei tornei ufficiali, si usano i “german” ovvero i giochi nei quali viene eliminata la casualità e si vince solo per abilità. I giochi online, inclusi i videogames, nascono sicuramente dai giochi da tavolo/ ruolo e tra le due realtà c'è continua influenza e ispirazione reciproca. Esistono portali in rete nei quali giocare con altri utenti connessi utilizzando il tempo libero ma rimane impareggiabile la bellezza di sedersi intorno a un tavolo, magari con un grande classico, ed entrare insieme nel fantastico mondo di un gioco da tavolo.
giovedì sera e sabato pomeriggio, da molti giovani (con giochi di carte e roleplaying) e da persone più “mature”, che preferiscono sperimentare nuovi giochi da tavolo. Proprio da questa ricerca di nuove modalità di gioco, nel 2016 è nato “Civì: la terra delle grandi opportunità”, un gioco realizzato da due componenti del circolo e prodotto dall’udinese “Apokalypse Inc”. Gli ideatori sono un grafico e un “teorico” all'epoca disoccupati, che hanno deciso di raccontare e giocare le proprie disavventure lavorative. Il risultato è un gioco da tavolo che va ad interagire in maniera satirica ed arguta con le pro-
blematiche della ricerca del lavoro, del precariato e della disoccupazione. Un gioco molto divertente, nonostante la serietà dell’argomento trattato, andato completamente esaurito in pochi mesi. Ed è poco prima di salutarci che Andrea Massimo mi lancia un vero e proprio scoop: «Stiamo lavorando ad una nuova versione di Civì, pronta al 90% e in fase di testing. Si chiamerà “Civì International” ed affronterà, sempre in maniera satirica ,due degli argomenti più dibattuti dagli italiani: il lavoro e l’immigrazione». Non resta che aspettare e vedere: io sinceramente non vedo l’ora di giocarci.
Un genere dalla lunga storia e dalle tante evoluzioni. Tre le associazioni in provincia che raggruppano gli appassionati di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon La storia dei giochi da tavolo è molto antica e inizia con i dadi, il primo gioco risalente addirittura a 5000 anni fa. Dal '900 in poi ci fu l'invenzione dei moderni giochi in scatola e, negli anni Trenta, grazie ad una signora inglese, nacque il primo, vero e proprio gioco da tavolo, “Land Lord game”, ovvero il gioco più diffuso al mondo: Monopoli. L'exploit, però, avvenne a fine anni Settanta con Monopoli, Cluedo e Risiko che entrarono nelle case come passatempo familiare. Oggi i giochi da tavolo sono numerosissimi e rispondono ad ogni esigenza: solitari, competitivi, cooperativi, di carte, astratti, interpretativi, di abilità o giochi di ruolo. Il piacere di condividere una partita come sano momen-
to aggregativo si è diffuso a macchia d'olio nel mondo e i giochi si trovano ovunque, esistono anche locali e associazioni che ad essi si dedicano. In Friuli abbiamo una decina di associazioni di giochi da tavolo e di ruolo, tre di queste hanno sede nella nostra provincia. L'Inner Circle di Pordenone, La Torre Arcana di San Vito al Tagliamento e il Foro Ludico Spilimberghese sono realtà nelle quali gli associati tengono viva insieme la passione per i giochi, promuovendone la dimensione
“Civì”, il gioco ideato da due pordenonesi Iscritti all'Inner Circle, gli autori hanno raccontato le loro disavventure lavorative. Presto in arrivo la nuova versione di Gianluca Giannetto Inner Circle è un’associazione nata nel 1995 e fa parte della “galassia” dell’associazione Panorama di Pordenone, che ha da poco festeggiato i 50 anni di attività. I frequentatori iniziali sono stati perlopiù appassionati di giochi di ruolo o roleplaying games (il nome dell’associazione deriva, infatti, dal gioco di ruolo “Vampire”), ma anche di giochi in scatola e da tavolo e di wargaming con le miniature. L’obiettivo è sempre stato quello di diventare un punto di riferimento per gli appassionati pordenonesi e divertirsi, giocare e sperimentare giochi diversi insieme. «Gli iscritti al circolo sono stabili da anni, tra
i 40 e i 60 - racconta Andrea Massimo Valcher, uno degli storici promotori delle iniziative di Inner Circle - ma i giocatori di ruolo e da tavolo, tra frequentatori di fumetterie, giocatori “casalinghi” (gruppi di amici che si ritrovano a giocare in luoghi privati ndr) e “giocatori occasionali”, sono molti di più in città, un dato dimostrato dalle ormai oltre 5000 persone che visitano il Naoniscon, giunto alla ventesima edizione, ogni anno». Il circolo, che ha cambiato da qualche anno posizione - spostandosi dalla storica sede di via Selvatico a quella più centrale di piazzetta Ottoboni - continua ad essere frequentato ogni
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada de I Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost
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Antonio Zani Quando una persona legge molto, quando poi si accorge che scrivere gli riesce, quando è costretto a fare attività fisica ma non gli riesce e non ne ha voglia, quando in tutto questo conosce la Panka, allora che fa? La risposta è Libertà di Parola! Dopo una gavetta alle rubriche ora spazia anche in altre pagine, ma non ti preoccupare Antonio, sempre senza correre!
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Chiara Zorzi S: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: "...si bello, ma non si scrive così in Italiano!" S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giusta!”. Quando scorri, la consapevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara
Elisa Cozzarini Liberata dai fardelli del dover fare per gli altri si è messa in proprio, così può scrivere, leggere, scrivere, progettare, scrivere, studiare, scrivere. Non manca di farlo anche per la Panka perché, se è vero che il futuro è, appunto, tutto da scrivere, quello che sei lo ritrovi nei posti che abiti.
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Milena Bidinost Per noi avere a che fare con una giornalista di professione non è mai facile: “Milena sai che ho sentito dire che.. vabbè dai, non importa”. Per lei avere a che fare con gli articoli che escono dalla Panka non è mai facile: “Scusate ma non credo che questa cosa si possa scrivere così perché giornalisticamente.. vabbè dai, non importa”. Milena, la mediazione è un’arte! Ben arrivata al MoMA!
Gianluca Giannetto La Panka ha da sempre ospitato la tifoseria dei ramarri con affetto ed entusiasmo. “Out Low” identifica uno dei gruppi storici e quale miglior contesto se non quello della Panka poteva dare voce ai Fuori Legge?! Per LDP Gianluca scrive articoli dalle tematiche più diverse ma... voi non accontentatevi semplicemente di leggerli perché, essendo le parole capaci di un colore, troverete sempre il nero-verde ad esaltarle!
Andrea Lenardon Tirocinante, educatore, psicologo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.
Editore Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto
Stampa Grafoteca S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione. Foto a pagina 1 e 2 a cura dell'Università di Pordenone Foto a pagina 3 di Francesca Chiappini Foto a pagina 4, 5 e 7 dal sito: https://pixabay.com/it/ Foto a pagina 6 di Elisa Cozzarini Foto a pagina 8, 9 e 10 a cura degli artisti Foto a pagina 11 di Giuseppe Falcomer Foto a pagina 12 di Scenasonica Foto a pagina 14 a cura di Inner Circle Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle Dipendenze di Pordenone
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Giorgio Achino Teatrante per diletto adesso applica la tecnica in Panka. A tutti dice: "Sarò chi vuoi, nella tua personale rappresentazione della vita"; palco e Panka si confondono. Benarrivato in questo teatro! Sempre in scena Giorgio
Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Fiume 8, 33170 Pordenone Tel. 0434 371310 email: panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it FB: La Panka Pordenone Instagram: panka_pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN BCC: IT69R0835612500000000019539 Codice IBAN Credit Agricol Friuladria: IT80M0533612501000030666575 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930
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Alain Sacilotto Avete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuocata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, coraggio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fedelmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire... Chapeau!
Redazione Francesxa Chiappini, Alessandro Amato, Marlene Prosdocimo, Alain Sacilotto, Andrea Lenardon, Antonio Zani, Giorgio Achino, Elisa Cozzarini, Gialluca Giannetto. Secse, Julia Ghergu, Giuseppe Falcomer, Virginia Bettinelli, federico Marino.
Impaginazione Ada Moznich
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Capo Redattore Chiara Zorzi
La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00
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Marlene Prosdocimo Se fosse nata in Trentino avrebbe vissuto una adolescenza drammatica ma in Friuli no, meno. Alleggerita da questo peso studia filosofia ed ama le arti. LdP esiste proprio perché è questione di arte realizzarlo ed anche perché senza la giusta filosofia sarebbe impossibile leggerlo. Lei l’ha letto ed ora ci scrive sopra. Perfetta... proprio come la mela!
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Ada Moznich Delle quote rosa lei se ne infischia, non le servono! Essere presidente donna di un’associazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci servirebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costano..!”
LE ETICHETTE SONO ADATTE AI BARATTOLI, NON ALLE PERSONE ANTHONY RAPP
I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DE I RAGAZZI DELLA PANCHINA