APPROFONDIMENTO
1999 – 2009 I NOSTRI PRIMI 10 ANNI
Libertá di Parola 2/2009 ——
N°
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
L'EDITORIALE
Per gli altri, per noi, per me… di Pino Rovededo Per anni, con l’abito imposto del “diverso”, ho succhiato la vita dalla parte sbagliata, frequentato le discese col passo della salita, e scritto la mia storia con la mano incerta dell’analfabeta. Per anni, sono stato un “altro”, che gli altri, soprattutto quelli che si sono impediti la coscienza con la rigidità immobile di una morale, hanno sollevato, aiutato, incoraggiato, spinto… Ed è anche grazie a quei sostegni se nel tempo,
Il 9 aprile '99 nasce l’associazione I Ragazzi della Panchina. Un’associazione come le altre: in questo sta la sua straordinarietà. Un’associazione di liberi cittadini, non di “tossicodipendenti o ex tossicodipendenti o sieropositivi” e persone “normali”. RdP elimina per statuto le etichette che alimentano il senso comune. Dal 1999 al 2009: cos’è successo, in questi dieci anni? a pagina 7
DIPENDENZE
A Trieste i lavori del 5° Congresso nazionale Segue a pagina 2
il personaggio
Incontro con Paul Auster protagonista di Dedica a pagina 15
ho imboccato il percorso della “fatica”, una fatica dove non ci si salva con la scorciatoia del miracolo o della medicina, ma con l’assoluta consapevolezza di dover pagare un prezzo duro, faticoso, difficile, pesante… Però ce l’abbiamo fatta: io, noi, gli altri… Da anni, riflettendo su un pronostico sociale, morale, istituzionale, che mi aveva puntato e giocato con la certezza del “soggetto irrecuperabile”, penso che loro hanno vinto un abbaglio, io sto vincendo la vita, e sono felice del confronto. Ma è una felicità che spesso è costretta ad agitarsi col sobbalzo del rammarico, perché, lontano dai clamori di una cronaca che pochi hanno voglia di leggere, ogni tanto succede che
i ragazzi senza “recupero”, anche grazie all’altruismo degli ”altri”, riescono a sollevarsi e a conquistare la vita ogni giorno, un giorno… Però, sono tutti frammenti di esistenza che solitamente non meritano lo spreco di una sola virgola sul giornale, quasi che il mondo avesse bisogno di riflettere il suo “meglio”, dentro lo specchio del “peggio” altrui. Oggi, come un disturbo, temiamo il clamore di una buona notizia. Da anni, senza lode e senza applauso, con l’abito stretto dell’egoista, mi occupo degli altri per occuparmi di me stesso, o per aiutarmi a non dimenticare: chi, come, e cosa sono stato.
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l'evento
Claudio Magris, eterno argonauta a pagina 16
RI-SALTARE l'uomo
Ezio Vendrame raccontato da Gianni Mura a pagina 18
dietro le quinte della kermesse di Andrea Picco Il nostro tesserino è giallo, mica blu. E non c’è scritto “Partecipante”. C’è la nostra foto, nome e cognome e sotto c’è scritto “Stampa”. È questo che fa di noi, di me e di Guerrino, dei giornalisti accreditati. All’interno del Teatro Verdi di Trieste possiamo muoverci liberamente, spaziare, anche dietro le quinte di questa conferenza che è anche uno spettacolo, un evento mediatico. Ministri, Onorevoli, Presidenti, “servitori dello Stato”, li abbiamo a un metro di distanza, senza usare il telecomando. M’intrufolo con una scusa nel retropalco, l’ultima porta
è sorvegliata da tre poliziotti. Abbozzo, cerco di fare il simpatico e anche loro stanno al gioco, ma il tesserino, mi dicono, mi permette di arrivare fin là. Passa solo chi ha il tesserino verde. Gli dico che anche col giallo si passa, ogni tanto, ma cortesemente mi pregano di attendere. Sto lì un po’ con loro, tasto il polso di chi deve assicurare che nulla accada. Passa Pietro Grasso, il Procuratore antimafia, seguito dal Questore di Trieste, Francesco Zonno, e dalla scorta, e il più giovane dei tre poliziotti mi fa: “Ma questo, chi è? Ah, adesso capisco perché il vicequestore, prima..”. Zonno esce e intima ai suoi uomini: “Usciranno di qua, quindi in questa zona non voglio vedere l’ombra di un giornalista”. Io nascondo il tesserino con la mano, e lui se ne va. Il più simpatico dei poliziotti mi dice: “Sentito? Vai su al terzo piano, li becchi tutti là.” Non insisto, ho sì il tesserino, ma la stoffa del giornalista proprio no. “Ma quanti siete in servizio oggi?” Gli chiedo prima di andarmene. “Pensa un numero: di più. Sommozzatori compresi”. Alla faccia della crisi.
Vladimir Kosic: Contro le dipendenze servono azioni concrete
In occasione del 5° Congresso nazionale sulle dipendenze, l'assessore regionale alla salute e protezione sociale fa il punto sulla situazione in Friuli Venezia Giulia la redazione La 5° Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze, che si è tenuta a marzo a Trieste, ha acceso i riflettori anche sul Friuli Venezia Giulia. I lavori hanno messo in evidenza, tra tanti, un dato positivo: rispetto al resto del paese, da noi i problemi legati a dipendenze da sostanze legali (fumo e alcol) e illegali (le droghe) trovano nel complesso delle buone risposte da parte del sistema sanitario regionale. “Ma avere servizi adeguati non significa naturalmente accontentarsi”, è l’opinione dell’assessore regionale alla Sanità, Vladimir Kosic.
«In FVG più del 37%
della popolazione beve vino e liquori fuori pasto, contro il 26% nazionale»
Assessore, partiamo innanzitutto dalla fotografia del fenomeno. “Secondo le statistiche nella nostra regione è l’alcol la prima delle dipendenze. Si beve a tutte le età: i consumatori a rischio sono il 12,2% contro una media italiana del 9,2; più del 37% della popolazione beve vino e liquori fuori pasto, contro il 26% nazionale. Un fenomeno preoccupante è il “binge drinking”: ragazzi che bevono di tutto, in compagnia, con l’obiettivo preciso di ubriacarsi. Da noi sono il 13,4%, quasi il doppio (8%) del resto d’Italia. Ma esistono sempre più spesso pluridipendenze, legate soprattutto al disagio sociale”.
Quali i punti di forza e di debolezza del sistema sanitario regionale in materia? “Il principale è che alla presenza di Dipartimenti ben strutturati, si affianca un privato sociale attivo e ben organizzato, capace di erogare servizi e formulare proposte. Il primo limite invece è in seno alla stessa Direzione centrale salute e protezione sociale della Regione, che va certamente potenziata quanto a personale competente in materia. Il secondo consiste nella rete di presa in carico integrata del paziente da parte delle strutture sanitarie, un problema che è destinato ad essere superato grazie all’intera informatizzazione del settore, sulla quale stiamo investendo molte risorse.” Quali saranno le politiche regionali in materia? “Puntuali azioni di sensibilizzazione e campagne di educazione sanitaria, innanzitutto, tali da superare la frammentazione eccessiva delle diverse iniziative tra Regione, Aziende, servizi, volontariato. Tra gli altri, proprio nell’area pordenonese è in corso un progetto sui percorsi di salute che partirà dalla dipendenza da fumo, per allargarsi alla promozione di stili di vita corretti su tutti i fronti. Il progetto coinvolgerà gli istituti scolastici e vedrà la fattiva collaborazione del Centro per il Controllo delle Malattie dell’Istituto Superiore di Sanità e del volontariato, con in testa la Lilt, la Lega italiana per la lotta contro i tumori. E’ nostra intenzione poi bandire il fumo dalle corsie e da ogni ambiente ospedaliero, cortili compresi”. Per quanto riguarda nello specifico le tossicodipendenze?
“Anche in questo caso vanno promosse iniziative sempre più capillari, con il coinvolgimento delle associazioni di volontariato, come i Ragazzi della Panchina, e le scuole. Sta per partire un progetto comunitario interregionale di collaborazione transfrontaliera con l’Austria, mentre a breve porterò all’attenzione dei colleghi della Giunta regionale una delibera relativa alla rilevazione delle tossicodipendenze sui luoghi di lavoro. Come ha ben evidenziato il presidente della Regione, Renzo Tondo, nel suo intervento alla Conferenza di Trieste, per affrontare il problema della droga occorre un atteggiamento pragmatico e non ideologico. Serve anche uno stretto coordinamento tra le Polizie dei Paesi confinanti per individuare e reprimere i traffici illeciti”. Chiudiamo con un suo messaggio a quei giovani che stanno convivendo con una dipendenza. “Dico loro di ascoltarsi, di rispettarsi, di volersi bene. La trasgressione, inevitabile nelle fasi adolescenziali e giovanili, da qualche decennio e in modo crescente, espone i giovani a pericoli estremi. Quarant’anni fa si gareggiava nella trasgressione fumando le sigarette più pesanti. Il piacere represso era connesso a mete ostacolate da tabù che limitavano i rapporti interpersonali a livello corporeo. Alle generazioni precedenti, per un po’, è bastato. I tabù sono quasi tutti caduti: oggi i corpi si incontrano, ma non ci basta più. E’ la solitudine dell’anima il dramma odierno, che si supera solo con la consapevolezza che tanta parte della nostra vita sta anche nella vita degli altri”.
Eroina, coca e crack. Le mie notti ad Amsterdam di Vittorio Agate Freddo gelido, notte umida, sento pulsare le vene nella mia testa, pressione negli occhi, il cervello mi sta per scoppiare. Cammino tra le luci colorate del “red light district” mentre va scemando l’effetto dell’ultima pipa di crack. Stanchezza di tre notti di sonno arretrato vagando per la città, mentre l’energia della droga chimica abbandona il mio corpo. Aspiro con forza il fumo dalla sigaretta e riempio di cenere la mia pipa. Mi devo fare. Cammino pesantemente, le mie ossa piene
Serpelloni: Risposte tecniche al problema Qual è in Italia lo stato dell’arte in fatto di consumo di sostanze stupefacenti? Quali le politiche adottate per contrastarlo? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Serpelloni, direttore del Dipartimento nazionale politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dottor Serpelloni, è opinione condivisa che ci sia in Italia un au-
Gatti: Si rischia un dibattito vecchio Siamo sulla soglia del teatro Verdi di Trieste, in attesa che si aprano i lavori della 5. Conferenza nazionale sulle Dipendenze. C’è un discreto assembramento di persone e tra queste c’è anche Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento delle Dipendenze della Azienda sanitaria Città di Milano e professore all'Università statale di Milano Bicocca
di umidità, i miei piedi doloranti. Carico la pipa di crack guardandomi nervosamente attorno: devo stare attento alla polizia. Accendo e aspiro con forza trattenendo l’aria, espiro, nube di fumo, qualche secondo, è come una mazzata nella testa. Dolori e stanchezza scompaiono. Energia chimica che dura poco, ma ho il tempo di uscire dal centro e raggiungere un posto sicuro dove farmi una dose: speedball, molta eroina e un po’ di coca. Iniettarsi ero e coca dà al tuo corpo e alla mente molta energia, la mente pensa e trasmette al fisico con incredibile rapidità, a volte sei nell’attimo, nell’azione, veloce e potente come un Dio. Ma dopo tre notti insonni, nitrendoti di droga come un demone finchè non crolli, il fisico ti molla completamente, non te ne rendi neanche conto. Qui
i junkies (tossici di strada) vivono così, nelle notti invernali nel quartiere vedi quasi solo loro, lavorano per i pusher disputandosi ferocemente i compratori e i pochi turisti a caccia di droga nella gelida città. Alba: gelo, nebbia, umido, gettato a terra nell’ingresso di un palazzo muovo spasmodicamente la mandibola per l’abuso di crack, occhi semichiusi, membra congelate, semicoperto da un ridicolo giacchetto. La gente passa e ti ignora, qualche inquilino seccato ti fa spostare imprecando. Chi esce dalla funzione mattutina della chiesa del distretto guarda schifato e si gira dall’altra parte, magari incamminandosi verso la vicina gelateria. Chi meglio di un tossico per strada è qualcuno su cui puntare il dito, su cui scaricare la colpa di tutto?
mento dei consumatori di sostanze stupefacenti. “Il dato è reale e per niente rassicurante. In questi anni è aumentata la domanda, soprattutto in conseguenza del fatto che l’offerta si è fatta molto più forte. In particolare di cocaina, anfetamina e quella che chiamiamo cannabis potenziata, con un principio attivo quattro o cinque volte superiore rispetto a quello presente sul mercato qualche anno fa, dannosa come tutte le altre droghe”.
territorio. Gli interventi in apertura del congresso da parte dell’onorevole Livia Turco (ex Ministro della salute) e del senatore del Pdl, Maurizio Gasparri, hanno evidenziato come un tema come questo necessiti di un approccio apolitico, in cui il contributo dei tecnici deve essere centrale”.
Un fenomeno che va contrastato in che modo? “Un primo passo verso un’azione coordinata di contrasto forte al problema è stato già fatto in questi mesi di preparazione alla conferenza, stilando documenti comuni con le varie realtà che operano sul
Direttore, cosa si aspetta da questa Conferenza? “Mi aspetto che fosse un incontro istituzionale, le cui conclusioni siano comunicate al Parlamento che poi legifererà sulla materia. Originariamente questa Conferenza era stata pensata come un’interazione tra legislatore e settore. Ha notato che nelle ultime edizioni il Capo dello Stato non è presente? C’è stata una trasformazione, uno degli interlocutori è mutato. Non è più il Parlamento, ma il Governo a interloquire con chi lavora sul campo. La conseguenza è che si riproduce la dinamica politica, pro o contro il Governo, senza il filtro del Parlamento”. Rischia anche questa volta di essere una conferenza svuotata di
Quali sono secondo lei le risorse che vanno messe in gioco? “Soprattutto la prevenzione: non solo quella rivolta ai giovani, ma anche rispetto alla riduzione del danno, che noi preferiamo chiamare prevenzione degli effetti secondari (ad esempio il carcere o la trasmissione di malattie n.d.r.). Anche sulla somministrazione del metadone, infine, qualche modifica va fatta, alla luce delle esperienze di questi anni”.
significati, secondo lei? “Qualora fosse questa la dinamica, rimarrebbe il solo significato di vetrina, il più disturbante. Mi auguro che non sia così”. Non le sembra comunque una formula di scarsa efficacia riunire una conferenza ogni tre anni? “A mio avviso la Conferenza dovrebbe essere un organo permanente, che si relaziona costantemente col Parlamento. In questo settore i cambiamenti di scenario sono molto rapidi e quindi ci vorrebbe un organo che permetta al Parlamento di agire hic et nunc, di colmare una distanza tra azione legislativa e realtà che ogni anno aumenta. Temo che il dibattito a cui assisteremo in questi giorni si fondi invece sulla realtà di dieci anni fa”.
AL "MIELA" LE IPOTESI ALTERNATIVE di Guerrino Faggiani Nessun inno nazionale in apertura, nessun messaggio di saluto e di buon lavoro da parte del Presidente della Repubblica. Nessuna cravatta. Qui gli addetti ai lavori hanno un che di strada, di spartano. Giovani con un’idea in testa e professionisti di vari enti assistenziali hanno organizzato al teatro Miela, a margine di quella ufficiale, una controconferenza, che qui è chiamata "alternativa." Un incontro tra operatori, “operati”, e non. Non era richiesto il pass per entrare e non c’era nessun servizio d’ordine.
Tanto più che non ce n’è stato bisogno. La qualità, la natura e l’incidenza dell’assistenzialismo presente sul territorio nazionale sono stati documentati dai relatori attraverso la proiezione di filmati relativi ad alcuni progetti condotti sul campo. Gli oratori non hanno lesinato il disappunto sui lavori svoltisi in mattinata alla conferenza ufficiale, non da ultimo sulle “direttive guida” impartite dal “palazzo” che li ha esclusi da ogni possibilità di dialogo e confronto. Gaetano Bascola, del Centro igiene sociale ospedali riuniti di Foggia, nel suo intervento ha rappresentato bene il parere di tutti: “è un atteggiamento che ricalca la tipica linea della chiesa cattolica”, ha detto. “Dialogano loro come unici detentori della verità”. Non molto entusiasmo al Miela dunque, piuttosto rabbia e delusione, e l’amarezza di chi vive tutti i giorni sul campo la realtà delle dipendenze e che, invece, non si sente coinvolto dalle istituzioni nel processi decisionali che la riguardano.
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Per gli altri, per noi, per me…
Allora, tenendo sempre ben presente che la disgrazia non ha mai mete prestabilite, mi alleno i muscoli di una buona salute provando a sollevare chi, la buona salute, l’ha smarrita nella disattenzione di un percorso, e rischia, per la poca attenzione dei “sani”, di non trovare il filo di una rinascita, o anche il semplice sollievo di un piccolo, minimo, prezioso benessere.
Bisogna essere cortesi col dolore altrui, e usare la premura di conoscerlo, perché non è detto che improvvisamente decida di sbagliare mira e di colpire un’ignoranza col tormento feroce e atroce di una disgrazia… Alcuni anni fa, a Trieste, in una circoscrizione rionale, si discuteva sull’ubicazione di un camper di strada per la distribuzione del metadone. Ricordo che la discussione per quel “transito” non gradito, fu molto accesa, e andò avanti per ore. Ricordo anche che a un certo punto, un componente della circoscrizione sollevò un braccio e offrì in maniera (per lui) ironica, la sua soluzione. – Riapriamo la Risiera di San Sabba (monumento storico di Trieste che ricorda la tragica esistenza di un campo di concentramento nazista), e buttiamo i tossici dentro, così è risolta la questione!-. Ecco, con tutta l’angoscia possibile, rammento anche che un anno dopo, l’autore dell’ironia mi chiamò a casa e ribaltandosi il vecchio tono, mi sfogò la preoccupazione per suo figlio che stava scivolando nella tristezza della tossicodipendenza. Sì, bisogna essere molto cortesi e pazienti con le stanchezze altrui, e per le suscettibilità della vita, essere anche “egoisticamente” generosi, sempre… Generosi per me, per noi, per gli altri…Scusandomi per l’eccesso, Pino Roveredo
Angoli della nostra cittá
Bus Stop! di Guerrino Faggiani Già dal mattino gruppi di studenti si aggirano nella stazione dei treni con un occhio all’orologio. Qui il tempo non è un’opinione. I pendolari, con l’entusiasmo di chi deve, aspettano imbacuccati nei loro colletti alzati. La biglietteria è affollata dai soliti ritardatari abituati a muoversi sul filo del rasoio, conosciuti tra gli addetti come i viaggiatori last minute. Anche fuori tutto si muove, auto di genitori accompagnatori di turno svuotano il loro carico di ragazzi senza spegnere il motore, un breve saluto e via, avanti un altro. Ma fa freddo, c’è un’aria che a quest’ora del mattino non aiuta certo a scaldarsi, e come se non
Secondo i dati ISTAT nel 2008 in Friuli Venezia Giulia la metà della popolazione ha fatto l’orto
È LA RICETTA SCACCIACRISI Riscoperto da Michelle Obama, diventa l'hobby che fa risparmiare e mangiare sano di Gino Dain e Elisa Cozzarini La ricetta anticrisi? Inizia in giardino o nel terrazzo di casa, rimboccandosi le maniche e coltivando zucchine, pomodori, melanzane, basilico, radicchio, etc. Lo fanno persino i coniugi Obama alla Casa Bianca, anche perché i prodotti del territorio, a chilometri zero, sono più sani e rispettosi dell’ambiente. Consumando frutta e verdura locale e di stagione, infatti, si risparmiano le emissioni di anidride carbonica del trasporto, che provocano i cambiamenti climatici. In Friuli Venezia Giulia la metà della popolazione fa l’orto. Lo dice Coldiretti in base ai dati Istat 2008 sulle attività del tempo libero degli italiani. La percentuale è alta al Nord, mentre scende al 25% nel Sud Italia. Fare l’orto è un hobby che coinvolge maschi e femmine, l’interesse aumenta con l’età, ma uno su quattro ha tra i 25 e i 34 anni. C’è chi l’orto lo fa per passione, chi per risparmiare, chi per avere prodotti buoni e sicuri da mettere in tavola. È anche un modo utile per smaltire lo stress quotidiano, un luogo per staccare dal mondo almeno per un po’. Di recente è arrivata anche un’altra buona notizia: uno studio dell’Università svedese di Uppsala afferma che coltivare l’orto o fare giardinaggio allunga la vita. Fa bene soprattutto alle persone di una certa età, che si mantengono in forma con l’attività fisica. E per chi non ha terra né terrazzo, in Italia molti Comuni si stanno muovendo e mettono a disposizione soprattutto dei pensionati piccoli appezzamenti di terra da coltivare. Sono esperienze allargabili anche a Pordenone e provincia, dove potrebbero nascere “orti sociali”, luoghi di produzione di ortaggi, ma anche di incontro tra le persone. Proprio come in Gran Bretagna, dove il National Trust, che gestisce il patrimonio culturale del Paese, ha messo a disposizione dei cittadini appezzamenti di terreno in grado di produrre 2,6 milioni di cespi di lattuga. Nel nostro territorio c’è un grande patrimonio di saggezza popolare, contadina, a cui attingere per imparare i segreti dell’orto. Chi non conosce almeno un anziano che coltiva la terra praticamente da tutta la vita? Da loro si scopre, ad esempio, che la cenere e i fondi di caffè fanno bene alla terra, o che piantare il basilico vicino alle melanzane le protegge da un certo tipo di insetti. Ma prima di iniziare qualsiasi attività, bisogna procurarsi un calendario con le indicazioni delle fasi lunari: mai seminare quando la luna cresce, dice la saggezza popolare. E così, alla ricerca di un legame diretto con la terra, si scopre che la prima cosa da fare è guardare il cielo.
bastasse minaccia pioggia. Per i fortunati che hanno “Pn” come meta è naturale, appena arrivati, avviarsi in fretta verso le loro destinazioni: prima arrivano prima si tolgono da questo tempo. Gli altri si arrangiano tra bar, sale d’attesa o niente, come chi aspetta la corriera. Poi mentre la giornata matura il via vai diminuisce, viaggiatori sì ma con meno ressa, i convogli hanno posti a sedere, sono più a misura d’uomo, già, a volte ci si dimentica che il tutto deve essere fatto proprio a sua misura. Ma ci si mette il tempo a complicare le cose, la pioggia arriva a folate fradice, fa freddo. Poi verso l'ora di pranzo, uno scenario da entrata allo stadio appariva in strada: un flusso incessante di studenti provenienti dalle budella del centro stava impossessandosi delle stazioni, tutti cercavano riparo sotto l’ormai gremita tettoia adiacente ai binari, altri ammuc-
chiati sotto le misere pensiline delle porte dei prefabbricati adibiti a biglietterie dei torpedoni. Neanche un riparo se non un unico “gazebo” adiacente alle fermate dei pullman affollato all’inverosimile da ragazzi infreddoliti e fradici. Altri ancora si arrangiavano a liberare in fretta dai catenacci e dall’acqua le loro biciclette parcheggiate o meglio ammucchiate in uno spazio francamente misero. Qui è tutto nuovo, fermate nuove, parcheggi nuovi, ma per chi si muove su due ruote il casino è sempre quello, alla faccia degli incentivi a lasciare a casa le macchine. In quel mucchio di ferraglie che appare a prima vista da ogni parte è facile vedere che ci sia bisogno di qualcosa di nuovo. Stona lo spazio vuoto di tutta la stazione con quel mucchio selvaggio di biciclette. E intanto in questo casino pazzesco neanche un poliziotto di ronda, tutti rinta-
nati, non chiedetemi dove, non ha importanza dove, è invece importante che se ne deduce che con il brutto tempo la delinquenza non esiste. Però quei ragazzi che si contendono ogni buco di riparo danno una certa malinconia, non c’è una minima forma d’accoglienza, ha dell’incredibile che la costruzione di una stazione di nuova concezione non abbia considerato che ci siano anche giornate così. E anche i servizi sembrano persi di vista: non è molto che al mio ritorno in città ho trovato sul mio scooter un biglietto che diceva: "I motorini vanno parcheggiati al loro posto". Bravo, ma qual è il loro posto? Quei quattro segni a terra senza nessuna segnalazione? Che, se non ci passi per caso non li vedi neanche? Dove non starebbero neanche i motorini parcheggiati sotto un palazzo? C’è qualcuno di spirito in stazione!
DICONO DI NOI
Una serata con i "Supereroi" di Mariangela Bianchini
MONDO FELIX
MI PRENDO UN POMERIGGIO "LIBERO" di Felice Zuardi San Giovanni di Casarsa, via Mantegna, zona Pep, bronx: mia attuale dimora. Dall'inizio degli anni Novanta questi blocchi di case colorati venivano assegnati a meridionali, soprattutto a militari con famiglia in servizio in zone vicine. Da figlio di un militare, ho abitato in questa zona da quando avevo 5 anni fino circa ai 9 , fino allo sfratto dovuto all'arrivo nel paese degli americani della vicina base di Aviano. In quegli anni è bastato dare una “sistematina” al posto per far lievitare gli affitti e da zona "franca" si è passati a zona residenziale. È durato il tempo che gli americani andassero via ed è tornato tutto come prima. Ora sono tornato ad abitare qui. Gli affitti sono bassi, le case vecchie e umide. Quando piove, secchi un po’ ovunque. L'unica differenza è che invece di soli meridionali adesso la zona è abitata da ghanesi, senegalesi, indiani, rumeni e naturalmente da me e un'altra famiglia napoletana. Vi voglio parlare del mio pomeriggio trascorso sul gradino appena fuori il cancello di casa che mi divide dalla libertà in compagnia di una decina di bambini dai 6 agli 11 anni, figli di extracomunitari di varie religioni che guardavano l'Italia come un paese sicuro per il loro futuro. Bambini, ragazzini che frequentano le scuole italiane, che giocano a calcio con le squadre del paese. È iniziato tutto per caso. Pomeriggio di sole, loro che giocano a calcio nel giardino di fronte, io che con la mia birra Union, Skip Maggy e i sei cuccioli nati da un mese, decido di sedermi sul gradino. Guardando un po’ i cuccioli un po’ i bambini mi sento meno solo, apprezzo quella libertà che ho deciso di prendermi, fregandomene di essere ai limiti di ciò che mi è stato imposto. D'altra parte, cosa sto facendo di male? Davanti a me i cuccioli iniziano a scoprire il prato, giocano tranquilli. Richiamano l'attenzione dei bambini che in un attimo al grido di "guarda che belli" si fiondano da me chiedendomi di poterli accarezzare. Sono tutti lì distesi di fronte a me a giocare e fare domande su quando sono nati, chi è il padre, quanto sarebbero cresciuti, che nome gli avrei dato. Dopo un po’ di tempo i cuccioli, chi tra le braccia di uno chi in braccio a qualcun altro, si addormentano e mi trovo seduto per terra circondato da una decina di bambini a spiegare loro qualsiasi cosa, dai più piccoli che mi chiedono come funziona quando una cagna partorisce a quelli più grandi che mi domandano come mai porto dei dilatatori alle orecchie o cosa vogliano dire le scritte tatuate sul mio braccio. Scopro che molti di loro sono nati in Sicilia da genitori sbarcati a Lampedusa, alcuni in Ghana, altri sono stati bocciati perchè non parlano bene l'italiano. Siamo andati avanti per ore, abbiamo bevuto succo di frutta insieme e poi sono dovuti venire i genitori a chiamarli perchè non volevano più andare via. Un pomeriggio fantastico! La soddisfazione più grande per me è stata quando i genitori, gli stessi che vedono tutti i giorni i carabinieri venirmi a fare visita, mi hanno ringraziato per aver avuto la pazienza di stare lì con i loro figli. Sono io che ringrazio loro e i loro figli per non avermi giudicato, per non aver avuto paura di me, per avermi fatto vivere un pomeriggio libero.
Quando Alessandro mi ha invitata per una pizza con i Ragazzi, ho subito pensato che sarei stata assolutamente inadeguata alla situazione: cosa avrei potuto mai dire io in quel contesto? E il mio linguaggio sarebbe forse stato fuori luogo visto che pensavo di essere così “diversa” da loro? Però non potevo rifiutare l’invito di Alessandro. Lo ammiro molto per il suo lavoro. In sordina e con molta modestia ha portato avanti un progetto davvero importante, si vede che fa le cose con grande passione. E poi la curiosità mi stuzzicava: fin da quando ho letto il libro di Franca Merlo “Noi! Viviamo”, un libro che ho trovato molto toccante, ho sempre provato un pizzico di invidia per questa donna che da semplice passante è riuscita a intrufolarsi con tanta naturalezza nel gruppo (atti di grande generosità che sfociano in un vicendevole scambio d’amore) Così ho deciso di partecipare. Arrivata in anticipo, un po’ riluttante e timorosa, entro nella saletta della pizzeria, ancora deserta, e aspetto il loro arrivo. Arrivano poco dopo, tutti armati di un sorriso vero e sincero, senza retorica e senza finzioni, così disarmanti nella loro semplicità. Mi sento subito a mio agio. Certo avverto ancora un po’ di estraneità, è la prima volta che li incontro direttamente. Fra loro c’è una naturale complicità, frutto sicuramente di tanta vita vissuta insieme. Raccontano i loro aneddoti e magari non riesco a capire proprio tutto, ma Ginetto (un prodigio della natura nel vero senso della parola) e che è seduto accanto a me, mi fa un po’ da interprete. Poi, come se ci conoscessimo da sempre, mi racconta pezzi della sua vita, presente e passata, condita di umorismo e verità. Scopro così di essere seduta al tavolo con dei “supereroi da fumetto”. Già, perché qualche anno fa (quando ancora erano nel “giro”) si erano guadagnati il soprannome di Batman e Diabolik per le loro prodezze e per la polizia locale erano i primi nella lista degli “elementi più pericolosi della provincia”. Le mamme, quella volta, raccomandavano alle proprie figlie di stargli alla larga. Eppure ora, mentre sto seduta a chiacchierare con loro, ne posso assaporare la saggezza e trovo divertenti i loro racconti, sono persone dotate di grande generosità, dalle quali abbiamo molto da imparare. Ho im-
parato, per esempio, quanto è difficile, grazie alle leggi vigenti, far tornare al suo paese un immigrato clandestino provvisto di foglio di via. E’ il caso di Sani, il ragazzo indiano che è seduto alla nostra tavola e che il giorno dopo partirà per tornare in patria. L’Associazione dei Ragazzi della Panchina ha lavorato tre mesi per completare le pratiche burocratiche e ha dovuto ricorrere ad una colletta per pagargli il biglietto aereo. Sembra incredibile ma è così. Anche la storia di Sani mi colpisce, lui sta per tornare in India dalla sua famiglia dopo diversi anni e tante esperienze alcune non proprio piacevoli in Italia… Sani è un ragazzo gentile, dallo sguardo sincero e i ragazzi lo trattano come un loro amico. Andrea, l’educatore, ci fa ridere tutti mentre racconta e imita gli infermieri del pronto soccorso, dove Sani era finito più volte, quando anche loro facevano il tifo per il suo imminente rimpatrio. Insomma, fra risate e serie riflessioni, la serata è passata per me anche troppo in fretta e tornando a casa ho ringraziato in cuor mio Alessandro per avermi invitato e queste persone per tutto quello che sanno trasmettere.
CODICE A SBARRE Ciao raga, come va a Pordenone? Qui tutto, quasi, più o meno bene. Droga non ce n’è, fighe non ce ne sono (anzi ce ne sono ma non si possono toccare) in compenso c’è parecchia armonia. Ormai come vi ho detto sono convinto di quello che sto facendo, non vi nascondo che passo dei momenti ancora difficili (ma è normale anche perché sennò non avrei bisogno di stare qui) ma superarli significa maturare. Gigi non ti preoccupare che prima di “brusarmi” vado via da qua. La mia vita è lì fuori, la sfida più grande sarà quella di tornare dove sono nato e cresciuto perché qua è facile non drogarsi. Contenti che è arrivata la primavera, sono sbocciate le fighe? Qua siamo in un periodo molto impegnativo tra un mese ci sarà Squisito è abbiamo molto lavoro da fare per preparare ‘sta fiera. Tra un po’ è quasi un anno che sto qua, tutto sommato se non penso che devo stare qui tre anni il tempo vola. Raccontatemi un po’ di novità di PN, come stanno i vari personaggi? Mi farebbe piacere sentire Roby, ditegli di scrivermi se ha voglia. Giorgino è sempre in comunità? Riuscite a farmi avere l’indirizzo? Bon dai vi faccio gli auguri di buona Pasqua a tutti e un saluto in particolare al mio amico Reccia, Andrea e Diego. Roby
L'ANGOLO DELLA FRANCA
Parole che lasciano il segno Il mio incontro con Giuseppe, trent'anni dopo di Franca Merlo Mi aveva telefonato una settimana fa e aveva fatto fatica a spiegarmi chi era, dopo tanti anni. Io non ricordavo proprio, il nome in quel momento non mi diceva nulla. Ho tenuto a mente per decenni i nomi e i volti dei miei alunni, ma ormai la memoria cede al tempo che passa. E si trattava di andare indietro fino agli anni Settanta… Desiderava vedermi, gli ho dato appuntamento in un bar del centro. Al telefono ci siamo detti anche come eravamo nell'aspetto: lui i capelli rasati al posto della bionda chioma di un tempo e un giubbotto di pelle, io (ehm) un po’ più larghetta di allora e un cappotto color cammello. E, ovviamente, ambedue invecchiati. Non si aspettasse di vedere “la signorina Merlo” di allora! Seduti al tavolino di fronte a un buon caffè, un po’ alla volta abbiamo superato l’imbarazzo. Aveva vissuto in collegio fin da molto piccolo e per tutti gli anni delle elementari, senza mai vedere i genitori. Era tornato a casa come un estraneo, stentando ad inserirsi non solo in famiglia ma anche nel quartiere e a scuola. La prima media. Un po’ alla volta ho cominciato a ricordare quel biondino paffutello, sempre muto ma terribile e senza regole, che veniva a scuola quando voleva e faceva quel che voleva; intelligente, ma con la testa a mille miglia dagli argomenti di studio. Forse. Perché era difficile anche capire com’era, visto che non parlava mai con nessuno e se cercavo di prenderlo in disparte mi sfuggiva. Non sapevo nulla di lui, non sapevo che cosa albergasse in quella testolina che mi appariva autonoma e cocciuta, a suo modo matura, e invece era soltanto spaurita del mondo. Soltanto adesso che me lo dice, so quanto io sia stata importante per lui. Perché continuavo a parlargli e a lanciare ponti, aspettando pazientemente che si aprisse quando si sarebbe sentito di farlo.
EL CANTON DE GUERI
A casa dei noni -Atu finio de far i compiti? -Si nona, poso sogar adess? -Vara da star bon satu, che ai da fa da mangià -Mm.. che fame, me datu un tochet de cipola? -Se? Ancia i goloses cumò? Sta fermo eh! Vara che te le taie chele man -Nona go fame! -Magna corame! -Norina vara che vado a cior da fumar -Portete via anca el nini qua che’l me fa danar -Dai nini cori che n’demo a cior el trinciato -Va col nono dai, che almanco no ve vedo pa un fia -Movete dai.. eee.. varelo li che anda che l’à, un sscioso el fa pi strada de lu. Dai voia de far ben salteme dosso, n’demo! Ma vara li.. mi ala to età saltavo i fossi par lungo -Nono, me ciotu el gelato? -Cossa? A l’è anca visià sto fiol, veistu come che i li tira su to fia. La ga sempre vuo le man sbusae quela -Quel i lo ga ciapà da ti, come tuti i altri difeti, pecà che i te li ga anca lasai -Nini n’demo via prima che la tachi co la solita lienda -Ara da vignir casa come al solito satu? -Perché?
Come vegno casa? -Valà valà vergognate.. te spusa da vin da qua a la stala -Cossa parlitu su par gnint?! -Par gnint?? vergognete li invese! Tut par aria.. mi qua mi la.. e el giorno dopo? Che mal de testaaa.. l’avea reson me pore mare, che dio l’abi in gloria: a la sera leoni e a la matina coioni -Nini Dai che n’demo via prima che to nona la me fae vignir su le sfog agne dal nervoso -Vara da vignir casa par ora de sena satu? Senò te va a magnar col porsel stavolta -Perché cambielo qualcosa? -Si si te sta ben co lu ti! -Nini dai mo!! Vanti che ndemo.. eco bravo! Va pian dess no sta corer cussì! Ta tentoo.. no se va fora in strada cussì de corsa, sta in parte che pasa machinee.. lassa staar, no se ciol su la roba da par tera. Nooo!!! No l’è olive nere quele.. l’è pasae le pegore -Nono go fame! - Be ma neanca magnar merda stornel! Dai cori che n’den a farse un bocon qua che i ga pena vert, l’è cambià gestion, ghe se un de Roma (?!?) Cossa ghe ali scrit sul muro? Qualchi dun ga da verghe fat un scherso stanote. Nini ti che te lesi ben cossa elo scrit? -Traa-trato-tooria, tratoria.. da pee-pepii-no, tratoria da pe-
Invece, nelle vacanze estive suo padre si ammalò di cancro e Giuseppe decise di aggregarsi al fratello maggiore per portare avanti la piccola impresa familiare di imbianchino, al posto del padre. E il padre infatti poco dopo morì. Anni dopo morì anche la madre, ma lui - mi confida sommessamente - non sentì mai un vero dispiacere; non si era stabilito tra loro quel legame che normalmente s’instaura tra genitori e figli. Non era abituato ad esser preso in considerazione proprio da nessuno e forse per questo rimase del tutto sbalordito, quando a settembre di quell’anno seppi della sua decisione di abbandonare la scuola, e andai a casa sua per dissuaderlo. Un po’ alla volta, seguendo il suo ricordo, anche il mio riaffiora nitido e preciso: la casa di campagna, qualche filare di viti e più lontano un ruscello; e lui, innamorato della natura, amico di piante e di animali, che mi conduceva a visitare il suo regno… quel biondino capelluto che per la prima volta udivo fare dei discorsi completi! Non gli pareva possibile che qualcuno si preoccupasse di lui, che lo ritenesse degno di un pensiero, di un’attenzione. Ma mi disse che aveva già deciso e fu irremovibile. Quella visita apparentemente andò a vuoto. Eppure non fu in realtà vuota di conseguenze, se quel ragazzino allora seppe di valere, e di valere tanto, se un’insegnate si scomodava per lui. Soltanto ora capisco. Ora che vedo davanti a me un uomo garbato e civile, ben diverso dal piccolo selvaggio isolato dal mondo, di tanti anni fa. Un uomo che ha imboccato una strada di correttezza e di lavoro, nonostante le cattive compagnie e le "tentazioni" ci siano state; che ora ha un’impresa propria e dei dipendenti, ha una famiglia e tre figli ben integrati nella società. E quando casualmente ha sentito il mio nome, da parenti dei parenti di parenti comuni, s’è illuminato come per un punto fermo mai perduto, e ha chiesto il mio numero di telefono. Ci sono cose a volte, nella vita di ogni persona, che camminano da sole, come per forza propria. Il bene cammina, si propaga, anche se si tratta solo di un piccolo gesto di attenzione. Ciò che si fa di autentico, di sincero “parla” e costruisce l’esistenza. Piccole grandi “parole” fatte concretezza, parole come pietre da costruzione - o viceversa come pietre da lanciare, distruttive - che toccano il cuore e contribuiscono a far andare una persona in una direzione o in un'altra. Parole che vengono dal pensiero e dal cuore. Pensiero e sentimento che si condensano in un gesto, in un fare; che danno consistenza all’agire, che fondano i progetti, creano rapporti… producono vita… Seminare intorno a noi sempre parole di attenzione e di rispetto, anche nell’eventualità di non vedere e di non sapere come va a finire, ma con la fede che il bene si propaga, sempre: ecco, sento che è questa la verità profonda della vita. Proprio di questa verità umile fatta concretezza, che coincide con il bene, io questa volta ho ricevuto un ritorno bellissimo. Un segno. E ringrazio Dio di questo inaspettato ritorno. pino.. da pepino o f.. o fr.. o frrr.. o frocio! TRATORIA DA PEPINO O FROCIO. Nono cos che l’è un frocio? -Ta chieto ti sempio, a ti no te à da interessar ste robe qua. Ti te à da pensar a studiar e basta. Dai che n’den dentro! Ostia che lusso, ara la un tavolin. Metete composto eh! -Buon giorno, volete mangiare? -Si, sel ne porta na roba par boca.. un piatin.. -Si va bene, consumè? -Si consumen si, basta che te porti qualcossa! -Allora niente consumè! Posso consigliare la specialità del giorno? Lingua salmistrata aglio olio e prezzemolo in marmellata di mirtilli -Cossa? Sotu mat? Che roba ela? No no! E po mi no voio roba che la vien da la boca dele bestie, pitost ne porti do vovi -Em.. e da bere? -Nono mi voio l’aranciata! -Tasi ti subiot, ti te bevi quel che digo mi: do rossi -Arrivano. -Ooo.. Moscheta, cossa fatu qua? -E.. sto spetando l’ispirasion pa n’dar a casa. Chi elo? To nevodo? Me ricordo de to fia co l’era in cinta -Si veistu cossa che l’è vignù fora -Che grando -Tasi tasi! Adess l’à tacà anca a n’dar a scuola! -A si? E l’ora el sa de sicuro cossa chel fa doi pi doi? -Dai mo nini, rispondi! -Doi pi doi fan quatri -No,
doi pidoi fan spissa -Eee ma no l’è valido.. -El fiol nol pol saver che i fa spissa, no li à vui ncora -Iii.. ma alora cossa ghe insegneli a scuola? Bon bon ociu che vado casa va, che ò da far un lavoro. A.. speta, varia da domandarte na roba -Tut fora che schei o blava -No no. Stanot se fa la luna e gò da travasar na damigiana de vin prima che’l me vai in aseo, vientu darme na man? -A travasar? Che no sia mai dita che no te iuto. Nini va casa e dighe a to nona che magno col porsel -E mi? El gelato? -Fate dar un toc de pan, de quel vecio pai cunici, dighe che te ò dita mi -E ma dioo, uffaa.. -Sta tento pa strada satu? E lassa star le olive. Ou Moscheta, e to femena co la ne vede rivar cossa dila? No l’à da eser tant contenta. A mi no la me ha mai posuo veder -Se seremo a ciave in cantina, a ghe né roba da magnar la.. e finchè no ven finio no vignin fora -Finio de cossa? Da travasar o da sbevasar? -Da quel che l’è, vedemo come che’l ne vien. -Mi go come un presentimento de saver sa come che’l ne vien, dura la vedo, na damigiana! -Te ga reson. Meio l’ora che se scaldeni co do ombre.
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
I Ragazzi della Panchina, patrimonio della Cittá di Sergio Bolzonello, Sindaco di Pordenone
La dignità della persona. L’uomo come fine. Essere dentro la comunità in cui si vive. Attorno a questi principi ruota l’esperienza straordinaria dei Ragazzi della Panchina, un fenomeno tutto pordenonese, nato dal disagio e dal dramma di una generazione che aveva smarrito i suoi punti di riferimento e il senso di una vita vera. La scoperta di una realtà drammatica, non certamente del tutto sconosciuta se non nelle forme e nelle dimensioni con cui essa si è manifestata, aveva avuto in cittá l’impatto di uno shock, di un pugno inferto a un corpo che rifiutava di riconoscere una realtà che era sotto gli occhi di tutti. La crudeltà delle vite stroncate con il corollario di dolore e di disperazione che queste fini comportano, avevano drammaticamente posto a tutte le coscienze il problema della tossicodipendenza e della sieropositività e conseguentemente della necessità di porre un argine al dilagare di un disagio di carattere soprattutto sociale. Non è stato un intervento esterno, calato magari dall’alto, a imprimere una decisa sterzata a questa pericolosa deriva. Le risorse e le energie sono nate invece dall’interno, da quelle capacità che emergono anche nei momenti e nelle situazioni in cui sembra che nulla si possa fare e che ogni sforzo si riveli inadeguato. Invece è proprio dai ragazzi stessi, con l’aiuto indispensabile di tante persone coinvolte, che nasce la consapevolezza che il ricorso alle accuse agli altri responsabili di tutto, all’additare il prossimo come fonte del loro disagio, non aiutava la loro situazione, semmai la aggravava. Lo scambio delle esperienze, le relazioni e il dialogo prima all’interno del gruppo e successiva-
mente all’esterno, diventano prassi e insieme l’inizio di una presa di coscienza che produrrà azioni e iniziative che avrebbero stupito tutti coloro che avevano guardato con profondo scetticismo o addirittura disprezzo, a questo mondo. Fondamentale è la decisione di aprirsi alla città, di farsi conoscere, di segnalare la propria presenza di persone vere, inserite nella comunità cittadina e non di soggetti emarginati. La risposta della città incoraggia lo sforzo dei ragazzi e degli operatori e li spinge ad accelerare la loro attività che raggiunge un punto di importanza essenziale con la costituzione della associazione I Ragazzi della Panchina. Gli scopi e le finalità sono ormai note a tutti e sono volte al recupero della dignità della persona e ispirate ai valori della solidarietà. Considero questa esperienza, di cui si sono occupati poeti, scrittori, uomini di cultura, sociologi, che sono stati preziosissimi sostegni e testimoni del travaglio dei ragazzi, un patrimonio di Pordenone e della sua cultura di integrazione sociale. Il problema della tossicodipendenza non è ancora cancellato, ma i Ragazzi della Panchina con le loro storie ci indicano che una via, basata sulla condivisione e sulla solidarietà, è possibile e praticabile. Da ragazzi bisognosi di aiuto, si sono trasformati in volontari al servizio di nuovi bisogni, ammonendoci e facendoci capire che dal disagio si può uscire se ci si sente comunità.
Le scarpe nuove di Guerrino Faggiani Cambiare vita e tornare nel mondo corrente non è cosa di tutti i giorni, non è facile rientrare nella società che dà le regole e che stabilisce cosa è giusto e cosa non lo è. Dopo aver vissuto ai suoi margini non la si capisce più, ti si ripresenta davanti in tutto il suo cambiamento e non è più quella di prima. È come ritornare al paese dove si è nati, o al quartiere; tutto è diverso, non ci sono più i tuoi amici ragazzini di una volta, sono cresciuti, sono cambiati, e così tutto il resto. Hanno aggiunto esperienze alla loro storia, la loro vita è maturata e tu che non c’eri ti sei perso tutto. Far parte di una cosa che non si capisce più come gira è una impresa seria, porta a degli immancabili fallimenti che generano una gran voglia di buttare tutto all’aria e ritornare nel solito conosciuto ambiente in cui ci si sa muovere. È solo una questione di tempo, fino a quando la misura è colma, poi si rinuncia e si ritorna, è un meccanismo di difesa che
scatta dentro: ritrarsi da quello che non si capisce. È questo il vero cruccio: reinserirsi in un mondo che nel frattempo è andato per la sua strada. Ci si ritrova pieni di buoni propositi, ma non se ne azzecca una, è tutto da modificare nel tuo modo di fare. Si ride di cose che agli altri non fanno nessun effetto, viceversa non si capisce perché tutti si divertano con cose che a te appaiono banali. Poi quello che gli altri dicono, al bar, al mercato, ovunque. Se parli con loro? Ti ritrovi circondato da sguardi esterrefatti come fossi un alieno: “Questo qui o è un chissà cosa o è un pirla”; naturalmente la seconda va per la maggiore, sei uno scarto della società, non c’è bisogno di capire quello che dici, meglio fare come se non ci fossi. Anche questo è un meccanismo di difesa, sottrarsi dalla vergogna di non capire uno scarto pirla. Dunque come se non bastasse anche porte sbattute in faccia. Tutto questo rende difficile ambientarsi che è la cosa più
DALLA MORTE IN EREDITá la vita
“Step by step”, scalino dopo scalino. Così è nato un progetto che anche a distanza di dieci anni, resta unico nel contesto nazionale intervista di Milena Bidinost Era l’estate del 1995 quando Alessandro Zamai, già medico al Sert dell’Azienda sanitaria di Pordenone, accolse le istanze di molti pazienti colpiti da Hiv. Succedeva in tempi in cui non c’erano terapie efficaci contro il virus. Tempi in cui di Aids si moriva. “Che cosa mi sta succedendo”? Da questa domanda che loro, i ragazzi, gli rivolgevano nell’approssimarsi ad una fine certa, partì l’idea di provare a prepararli alla morte usando la poesia. Fu quello l’inizio della storia de I Ragazzi della Panchina. Dottor Zamai perché proprio la poesia? “Serviva qualcosa che creasse condivisione, scambio tra i ragazzi che frequentavano il Sert e che erano impreparati a ciò che a causa della malattia li attendeva. Serviva l’occasione perché si formasse un gruppo di lavoro: la trovammo in un incontro pubblico con la poesia del grande Andrea Zanzotto. Furono proprio i ragazzi a organizzare l’evento, che si tenne il 14 ottobre 1995. Fu così che si creò un gruppo che cominciò, e che continuò anche dopo l’evento, ad incontrarsi tutte le settimane”. L’unico obbiettivo, dunque, allora fu di restituire a quelle persone la dignità della morte. Nessun'altra aspettativa. “Proprio così. Il gruppo scoprì il piacere
importante. Il primo passo: disintossicarsi da qualsiasi sostanza si voglia, è il meno, riesce sempre, ad ogni tentativo. È dopo che viene il vero nodo della questione. Ho sentito dire da un ragazzo in “carriera” che quando si esce dalla clinica si rimettono le stesse scarpe di quando si è entrati, senza volerlo ti ritrovi nei soliti posti, bisogna ricordarsi di non andarci altrimenti, se non ci pensi, sei di nuovo li. E allora si vaga senza meta con la speranza che succeda qualcosa, ma invano, provi ad inventartela, ma non va come ti aspetti e a forza di fallimenti cominci ad aver voglia del tuo vecchio mondo, magari solo per un passaggio, e poi quando ci sei ricordi quanto è bello essere in sintonia con qualcuno, tanto che prima o poi ci torni e così via fino a rimanerci fisso di nuovo. Ed è a questo punto che l’associazione I Ragazzi della Panchina riesce a darti quello che serve per resistere alla tentazione: ti dà un
posto dove andare. La sede di viale Grigoletti è come un porto franco, una terra di nessuno, anzi di tutti, dove fermarsi, leccarsi le ferite rimediate fuori e tirarsi su lo spirito con qualcuno che sa di cosa parli, che capisci cosa dice, un’isola dove puoi essere te stesso senza forzature e goderti una pausa per raccogliere le idee. Nel frattempo il morale ritorna, fa capolino la voglia di andare avanti e senza accorgertene ti ritrovi in strada a proporti di nuovo, magari poi per ritornare mestamente con la coda tra le gambe, ma in attesa di tempi migliori per riprovarci ancora… e ancora. È come una guerra, una guerra alla quale un luogo come la sede permette di sottrarsi in caso di mala parata, così hai il tempo di capire. È importante che ci sia un posto così, che dia il tempo di ritornare al passo con il mondo. È questa l’esigenza di chi vuole farsi delle scarpe nuove: non essere costretto a giocarsi tutto in un improbabile “o la va o la spacca” ma poter mollare quando la cosa comincia a spaventare e sfuggire di mano, una ritirata strategica è meglio di una disonorevole sconfitta, e qui la sconfitta va evitata con ogni mezzo, non esistono armi non convenzionali, come si dice.. in guerra e in amore tutto è lecito. D’accordissimo.
di incontrarsi, superando unito gli ostacoli. Ci riuscì anche quando morì il primo leader, Carlo: trovò infatti in Luigi Dal Bon il suo successore. Tanto che Gigi è a tutt’oggi un elemento imprescindibile dell’associazione. In quegli anni tuttavia quei ragazzi restavano ancora in una posizione antagonista e di scontro con il resto della società. Si cominciò perciò a lavorare per portarli al di fuori dalle pagine locali di cronaca nera, facendoli diventare soggetti propositivi. Fu importante per loro perché cominciarono a viversi e a definirsi non più come tossicodipendenti, bensì come collaboratori del gruppo”. Il 9 aprile 1999 segnò un’altra tappa importante. Nasce l’associazione de I Ragazzi della Panchina. Nel 2000, infine, arriva la sede. “L’istituzionalizzazione di questa esperienza umana fu in effetti un traguardo importante. La sede soprattutto è la storia mantenuta anche per chi non c’è più. Ciò che è straordinario è che delle vite che allora potevano sembrare prive di significato, etichettate come le ultime della società, in realtà a distanza di dieci anni hanno lasciato una grande eredità, così che il passato ha finito per contaminare il presente, e il futuro”. Qual è dunque l'ingrediente di una ricetta che da dieci anni sta contaminando positivamente tutto ciò che tocca? “Forse proprio la vicinanza al senso della morte, e quindi della vita. Ho un ricordo affettuoso di tutte le persone che sono passate per il gruppo e che, a causa di questa malattia, non ci sono più. A me come a tutti coloro che in qualche modo sono amici dei Ragazzi della Panchina hanno lasciato una traccia profonda. Tutto ciò che l’associazione fa lo fa anche per quelle vite e questo è il modo migliore per responsabilizzare i ragazzi, per fare integrazione attraverso ogni forma di azione: dal teatro alla scrittura, dalla testimonianza nelle scuole a quella nei luoghi istituzionalizzati, dalla collaborazione con l’Azienda sanitaria alla semplice accoglienza verso chi è in difficoltà”.
ALESSANDRO ZAMAI È dirigente medico presso il Dipartimento delle dipendenze di Pordenone. Laureato in medicina, in psicologia, specializzato in tossicoligia-farmacologia, è stato membro della Commissione nazionale dipendenze patologiche. Dal 2006 è vicepresidente dell'associazione "I Ragazzi della Panchina"
i numeri dei Ragazzi della Panchina
53000
Le visite al blog de I Ragazzi della Panchina, attivo dal Marzo 2008 www.iragazzidellapanchina.it
2123
Il numero dei commenti inviati al blog dei ragazzi della panchina
1500
18
Gli spettacoli teatrali messi in scena da I Ragazzi della Panchina in diversi teatri d'Italia
643
Il numero dei ragazzi accolti nella sede di viale Grigoletti dal 2000 ad oggi
2
Le partecipazioni come relatori alle Conferenze nazionali sulle dipendenze: Napoli 1997 e Genova 2001
Le copie che sono state stampate del primo numero di questo giornale nel Febbraio 2009
12
Le nazionalita che si sono presentate alla nostra sede in tutti questi anni di attivitá: Congolesi, Argentini, Indiani, Albanesi, Pakistani, Inglesi, Rumeni, Colombiani, Marocchini, Moldavi, Croati e ovviamente Italiani
4
I libri pubblicati sulla nostra storia: "I ragazzi della panchina" (Ed. Videe), "Karica Vitale" (Ed. Biblioteca dell'immagine), "Nei giardini che nessuno sa" (Ed. Ministero), "Noi!! Viviamo" (Ed. RDP)
2
Le donne che si sono avvicendate alla presidenza dell'associazione: Francesca Merlo e Ada Moznich
3°
Il piazzamento della squadra di calcetto de I Ragazzi della Panchina al torneo "Dai un calcio al Razzismo" di Pordenone nel maggio 2008
11500
Gli studenti che hanno assistito alle lezioni de I Ragazzi della Panchina nelle scuole superiori e universitá Italiane
Questa pagina non sarebbe mai nata senza l’intuizione e il contributo del presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Renzo Tondo.
1512 319 11340 27 Le lettere inviate da persone in carceri o comunità terapeutiche a cui abbiamo risposto, dal 2000 a oggi
Le ore in cui la sede é rimasta aperta dal 2000 a oggi
16
Le tesi di laurea sull'esperienza de I Ragazz della Panchina discusse in varie universitá Italiane
Il numero delle penne "prese in prestito" dai frequentatori della sede, dal 2000 ad oggi, approssimato per difetto
Il numero dei ragazzi della panchina che sono morti in questi 10 anni: Flavia, Betty, Gabry, Carla, Silvana, Ingrid, Gigliola, Domenico, Mauro, Giuseppe, Dario, Tiziano, Fabio, Paolo, Claudio, Tony, Fiore, Vittorio, Pierangelo, Gianni, Paolo, Giorgio, Luigi, Paolo, Christian, Pierluigi, Eligio
300 1
Le firme raccolte nel quartiere dal comitato contro l'apertura della sede dell'associazione nel marzo 1999
La lettera di scuse inviata al Direttore generale dell'Azienda Sanitaria dal primo firmatario del Comitato contro l'apertura delle sede de I Ragazzi della Panchina. ERa il 2001
Apriamo una fi – nestra …sulla droga, ma soprattutto sulla Panka, per scoprire il coraggio di raccontarsi oltre la paura e i pregiudizi di Lara Palù
Generositá, disponibilitá e L'orgoglio del riscatto di Enza Fucile, Insegnante del Liceo Leopardi Majorana di Pordenone Scrivere dei ragazzi della panchina non è cosa facile perché da dire c’è tanto e la sintesi, in questo caso, non renderebbe giustizia al loro grande impegno. Ho avuto modo di conoscerli sei anni fa, o giù di lì, a scuola , alla mia prima esperienza di referente per l’educazione alla salute. Al disagio iniziale, dovuto all’inesperienza ed alla sensazione di inadeguatezza per il ruolo da poco assunto, è subito subentrato un profondo e sincero sentimento di solidarietà. Disponibili ad incontrare i ragazzi della scuola, a discutere con loro del grave fenomeno della tossicodipendenza e delle intime dinamiche psicologiche che portano all’uso delle droghe, i ragazzi della panchina non si sono mai negati né risparmiati quando è stato chiesto loro di raccontarsi. Lo hanno fatto, senza remore e con l’orgoglio del riscatto! A poco a poco, le domande sempre più incalzanti, che gli alunni ponevano loro, lasciavano intuire che la droga non veniva più recepita come un male bensì come il male….da cui stare lontani,…lontanissimi! Non pochi sono stati gli alunni che a fine incontro hanno avvertito l’esigenza di ringraziare. “….Grazie per il racconto delle vostre storie che puntano sui sentimenti e sulle relazioni umane, ..per il racconto delle vostre fragilità, per la forza del vostro riscatto e per l’aiuto che ci date.”
La Panka… vista dalla 4aA LSS (Liceo delle Scienze Sociali)
Come ogni scuola di carattere sociale, in 3^ e in 4^ si svolgono degli stage che ci permettono di avere un approccio con il mondo esterno e “reale”, e di mettere in pratica ciò che studiamo sui libri. L’esperienza dell’anno scorso consisteva nell’entrare in contatto con i Ragazzi della Panchina; la proposta fatta dalla professoressa Daniela Leucci, nostra coordinatrice di classe, ci è apparsa subito interessante, anche se alcuni di noi nutrivano dei pregiudizi: questo stage ci faceva entrare direttamente in contatto con una realtà, quella della droga, di cui sentiamo continuamente parlare e che sappiamo ci circonda, ma che non è sempre facile da accettare. Il primissimo incontro tra le due “realtà”, se così si possono chiamare, è servito per uno studio reciproco: alcune persone della nostra classe e alcuni Raga della Panka si sono incontrati per istaurare un dialogo, per conoscere qualcuno che facesse da portavoce alle rispettive parti. In seguito gli incontri si sono svolti in parte nella nostra scuola, in parte nella sede dei Ragazzi a Pordenone, tutti caratterizzati da un clima un po’ teso ma in ogni caso cordiale e amichevole. Sono state poste domande, sono state date risposte e spiegazioni. Tutta la mia classe ha percepito una gran voglia da parte dei Ragazzi di coinvolgerci. Abbiamo ascoltato storie difficili da raccontare, ma che hanno rappresentato delle porte per entrare nel loro mondo. Sebbene avessimo già di nostro delle conoscenze su questo argomento, abbiamo apprezzato molto le spiegazioni del dottor Alessandro Zamai, in grado di trasmetterci tutta la passione quando parla dei suoi studi, delle sue conoscenze legate all’ambito della droga e della dipendenza, a volte molto dettagliate, forse troppo per un indirizzo non scientifico come il nostro..
A stage ultimato, e conclusosi con il “battesimo” delle due piante da noi regalate ai Ragazzi, ci siamo ritenuti soddisfatti dell’esperienza, e di quel che avevamo condiviso con loro. Solo di una cosa ci rammarichiamo: di non aver potuto partecipare più attivamente, dando una mano concreta a un’associazione forte, ma a cui volevamo lasciare un nostro ricordo che andasse oltre il semplice cartellone delle domande o le foto degli incontri. Forse, senza rendercene conto, abbiamo partecipato ugualmente: con le nostre domande, i nostri racconti, abbiamo preparato i Ragazzi della Panchina a conoscere meglio la realtà delle scuole, e i pensieri dei giovani riguardo la droga, contribuendo a un’ulteriore crescita dell’associazione e di coloro che la frequentano.
La Panka… vista dagli altri studenti!
L’esperienza fatta da alcune classi degli istituti superiori del pordenonese non accumuna però tutti gli studenti, che verso questo argomento provano ancora timore e rabbia. In tutte le città di tutta l’Italia si spaccia droga: ormai è un elemento tipico della società moderna, un elemento che pensiamo di conoscere ma con cui alcuni ragazzi, per fortuna, non si sono venuti a scontrare direttamente. Da questo mancato “incontro” non solo con la droga, ma anche con persone che ne hanno fatto uso, nascono i pregiudizi, le paure, a volte anche l’interesse, verso qualcosa di negativo ma allo stesso tempo accattivante. Intervistando alcuni ragazzi che non hanno conosciuto la droga e i Raga della Panka, ho notato il timore che io stessa provavo prima di svolgere lo stage con l’associazione. La colpa dell’assunzione di stupefacenti viene da loro attribuita alla moda e al conformismo, al voler sentirsi uguali agli altri, o meglio a quelli che, nella società giovanile, sono considerati dei veri esempi
da seguire; e in minima parte ai problemi personali ed economici vissuti dai ragazzi, riconoscendo loro stessi che l’adolescente attuale nasce immerso nel benessere, nel “tutto è dovuto” assicurato dalla famiglia e dalla società consumistica in cui vive. Possedendo tutto, si ricerca l’estremo per vivere quelle emozioni che non riusciamo più a trovare nei piccoli gesti e nelle occupazioni più semplici: evadere per provare emozioni, che una volta provate creano assuefazione e in un secondo momento dolore, a se stessi e agli altri. Per aiutare coloro che in questa trappola ci sono caduti, la strada che si tende a prendere è allora quella del dialogo, del conforto, dell’offrire aiuto: un gesto di grande umanità e amicizia che però da soli non ci si sente di affrontare, che si pensa più efficace se al posto di un amico ci sono tanti amici, se al posto di un parente c’è tutta la famiglia, se accanto a una persona amata c’è uno specialista. Spesso chi si droga considera chi lo aiuta incapace di capire cosa veramente pensa e prova. In questo caso viene quindi apprezzato dai ragazzi che hanno sentito parlare dei Raga della Panka il loro confrontarsi e raccontarsi alle scolaresche, mettendo da parte il timore di un giudizio per una causa più grande, per prevenire sì l’uso di droghe, ma anche per sapere che da quel circolo si può uscire, e in un certo senso, guarire.
La Panka… vista da me!
Interessante, stimolante, costruttiva: ecco come definirei l’esperienza di stage con i Raga della Panka. La proposta della nostra professoressa mi è apparsa subito interessante. Perché di droga e di drogati ne leggiamo e parliamo ogni giorno, sia a casa, attraverso le raccomandazioni di parenti e genitori e le notizie dei telegiornali, sia a scuola attraverso conferenze e lezioni dedicate al tema degli stupefacenti e delle dipendenze. Ma ascoltare testimonianze e vedere persone che hanno conosciuto e provato quello di cui professori ed esperti ci parlano fa un altro effetto, più forte, più positivo. Al primo incontro c’ero anch’io, e mi rendevo conto di essere studiata da chi mi parlava, ma anche di studiare a mia volta: stavo valutando cosa dire e cosa chiedere, in modo che le parole che pronunciavo non suonassero né presuntuose né ingenue, di porre domande che mi facessero capire chi avevo di fronte, e che lo facessero capire anche a loro, anche perché avevo come compito quello di descrivere poi alla mia classe l’incontro, e allo stesso tempo di presentarla ai “portavoce” dell’associazione. E ne sono uscita positivamente colpita, sia per le risposte ricevute ma anche e soprattutto per le domande che mi hanno fatto anche loro.
Ho vissuto questa esperienza con piacere e interesse; ho cercato di dimostrare la mia disponibilità proponendo idee e soluzioni sia nelle discussioni con la mia classe che negli incontri con i Ragazzi. In particolare, sono rimasta piacevolmente colpita dal loro mettersi in gioco, raccontarsi. Mi rendo conto che le nostre domande erano spesso molto personali: io stessa, in circostanze simili, sarei stata restia a farlo. Hanno anche cercato di coinvolgerci nelle loro iniziative, invitandoci a scrivere sugli incontri e su quello che ci hanno trasmesso, e sul blog da poco creato. Da parte mia, ho accettato di buon grado, sia per il mio amore per lo scrivere, ma anche perché spinta da tutte le emozioni che provavo a ogni incontro, e a tutti i pensieri che mi assalivano alla fine. Collaborando con i Ragazzi della Panchina, ho conosciuto storie e avvenimenti, e l’ambito degli stupefacenti in generale. Ma ho soprattutto incontrato persone che stanno mettendo tutta la loro vita e il loro impegno in questa associazione, utilizzando energie che non sembrano mai finire. E ancora di più ammiro coloro che invece in quel circolo non sono mai entrati, ma che non meno degli altri si impegnano per far camminare un’associazione in cui anch’io ho cominciato a credere, in modo che in futuro possa anche correre. Quindi… Buona corsa, Raga della Panka!
"Ho incontrato persone che stanno mettendo tutta la loro vita e il loro impegno in questa associazione"
UNO STAGE CHE HA ARRICCHITO ANCHE ME di Daniela Leucci, Insegnante del Liceo Pujati di Sacile Cammino per le stradine che si intrecciano dietro al Don Bosco sotto il sole inaspettatamente ancora caldo di Settembre. E’ qui, mi hanno detto, che dovrebbe trovarsi la sede dei “Ragazzi della Panchina”, ma per quanto io giri non riesco a trovarla. Ho proposto alla mia classe (4° A Scienze Sociali dei “Licei Pujati”) uno stage che riguarda le tematiche delle tossicodipendenze, e come mi aspettavo i ragazzi sono entusiasti. L’idea è nata per caso. Avevo conosciuto, infatti, il dott. Zamai che mi aveva parlato di questa esperienza. La sua passione ed il suo entusiasmo mi avevano immediatamente catturata e già pensavo quanto bello sarebbe stato portare la vita reale dentro la scuola, sentivo quanto questo fosse importante. Mentre girovago il caldo comincia ad irritarmi, mi chiedo il perché del mio entusiasmo, che è indispensabile, certo, per poter trasmettere alla classe qualcosa. Ma forse c’è dell’altro, forse anch’io sto cercando qualcosa, qualcosa per me, qualcosa che con il mio ruolo d’insegnante non ha niente a che vedere. Il cancello è aperto, entro in un giardino un po’ spoglio e abbandonato. Sulla soglia c’è una ragazza alla quale chiedo di Andrea, mi fa cenno di entrare, passo come un ospite inatteso attraverso gli sguardi un po’ incuriositi di alcuni ragazzi, cerco di mascherare il mio disagio ostentando sicurezza e mi dirigo verso la stanzetta dove mi accoglie Andrea. Il suo sorriso caloroso è un vero sollievo. La mia visita lo stupisce, direi positivamente. Riguadagno fiducia e mi sento immediatamente a mio agio. Gli illustro un po’ il progetto e lo vedo entusiasta perché, mi spiega, questa sarebbe la prima occasione di una collaborazione strutturata in forma di stage. C’è una bella atmosfera, si ride, si scherza, quel posto mi piace anche se colpisce per la sua essenzialità e sobrietà. Esco da lì carica di entusiasmo. Arriva il primo incontro con la classe. Mi sento emozionata e piena di perplessità. Come reagiranno i ragazzi, sapranno cogliere l’ opportunità che viene loro offerta, sapranno interagire o si sentiranno a disagio? Il dott. Zamai provvede immediatamente a sgombrare il terreno dai facili luoghi comuni che normalmente si associano a questo genere di tematiche. Vuole guidare i ragazzi a guardare oltre e dentro di sé. C’è silenzio, interviene Gigi. Il suo intervento è toccante ed anche il suo libro suscita grande interesse. I ragazzi non parlano, l’intervento si conclude ed io mi sento quasi in dovere di scusarmi per la loro scarsa partecipazione. Vado a casa e sono furente. E’ possibile che non avessero niente da dire?!? Dismetto per un attimo i panni della prof che c’è in me. Forse bisogna dare loro tempo, in fondo l’impatto era stato duro anche per me. Ma è Lara, qualche giorno dopo, che mi sorprende consegnandomi timidamente un suo scritto che, mi dice, ha intenzione di spedire ai Ragazzi. Lo leggo, un’onda di emozioni vibra attraverso quella pagina e mi commuovo. Allora c’è molto in loro, e forse questa esperienza può servire a trovare il modo di tirarlo fuori. Si susseguono altri incontri a scuola, e poi arriva il giorno della nostra visita alla Sede dei Ragazzi della Panchina. I ragazzi sono stupiti di trovarsi di fronte ad una vera e propria casa, non una di quelle strutture deputate alla cura di tossicodipendenti, ma uno spazio d’incontro aperto a tutti. Alle pareti le locandine delle molteplici iniziative a cui hanno dato vita nel corso del tempo testimoniano una storia che dà senso al loro presente e fa sperare in un futuro. Ci accolgono in modo caloroso e ognuno di loro è molto premuroso nel farci a sentire a nostro agio. Siamo disarmati di fronte a tanta disponibilità ed attenzione nei nostri confronti. Ci sono poi altri due incontri, nell’ultimo dei quali le ragazze decidono di preparare dei dolci da portare e due piantine che pianteremo nel loro giardino, a suggellare la nascita di un’amicizia che ci auguriamo crescerà nel tempo. E’ passato un anno, l’amicizia continua con la partecipazione di Lara al loro blog, quella di Arianna come attrice (una vera rivelazione per tutti noi!) a La Pankina, il lavoro teatrale scritto da Pino Roveredo sulla loro storia, l’attuale collaborazione al giornale. La conoscenza di Guerrino e di molti altri, delle loro storie e di tante altre persone che ruotano intorno all’Associazione e, ciascuno a loro modo, l’arricchiscono e ne sono a loro volta arricchiti. Come mi sono sentita arricchita io, che ho tratto da tutti loro quell’energia, quella” Karica Vitale” appunto, che in quel pomeriggio di Settembre confusamente andavo cercando.
IL VISIONARIO: Il premio “Best Bench of the World” Sono stati ricevuti al Palazzo delle Nazioni Unite i vincitori del Premio “Best Bench of the World”, Miglior Panchina del Mondo, giunto nel 2100 alla sua 50ma edizione. Il prestigioso riconoscimento è andato quest’anno agli “Hijos dela banquilla”, un gruppo di strada di Buenos Aires fondato nel 2030 da Manuel, argentino di Rosario che nei primi anni del secolo aveva vissuto a Pordenone e conosciuto direttamente l’esperienza, poi esportata in tutto il mondo, da cui il premio trae origine. La giuria ha scelto gli Hijos perché “a distanza di un secolo rimangono intatte nella versione argentina le origi-
narie peculiarità dell’esperienza pordenonese: lotta allo stigma, lavoro sul contesto, integrazione”. A premiare i ragazzi italo-argentini, capitanati dal loro leader Luis Del Bueno, oltre al segretario delle Nazioni Unite, Mobutu Seseseko Kukunguendo Wasabanga IV, quasi a suggellare un ideale passaggio di testimone anche i vincitori dello scorso anno, i neozelandesi Bastard Sons of the Bench. Ha voluto inoltre complimentarsi con i suoi sudditi con un messaggio in diretta a reti unificate il Re d’Italia e Argentina, l’ormai ultracentosettantenne Silvio Berlusconi.
inviati nel mondo
Volontaria in Africa, dove il tempo degli incontri diventa sacro Rita Capettini racconta il suo anno trascorso a lavorare in un progetto umanitario in Costa d’Avorio intervista di Andrea Picco Tra il 2007 e il 2008 Rita Capettini, assistente sociale al Comune di Zoppola, ha partecipato a “La casa di Anne”, un progetto umanitario realizzato in Costa d’Avorio dal Centro Volontariato Internazionale di Udine. In questo paese, dal 2002 al 2004, c'è stata una guerra civile e solo nel 2007 è stato firmato un trattato di pace tra le parti. Molte questioni tuttavia restano ancora aperte e seri sono i problemi per larga parte della popolazione. Il progetto “La casa di Anne”, nel quartiere di Lobia della città di Daloa, si pone in particolare l'obiettivo del sostegno a bambini e donne che per difficoltà economiche e sociali sono privi di formazione e di prospettive. “Ho vissuto per circa un anno - racconta così la sua esperienza umanitaria, Rita Capettini - a Daloa, una città nell’entroterra (zona governativa, quindi, non sotto il controllo dei ribelli, le Force Nouvelle), molto grande ma già più vicino al nostro immaginario d’Africa. Lì mi occupavo di avviare dei centri di alfabetizzazione per adulti e bambini, con un occhio di riguardo verso le donne”. Come sei stata accolta? “L’accoglienza è sempre positiva, ma in virtù delle aspettative che hanno nei tuoi confronti. Tu, quindi, resti la “blanche”, per cui ti risulta poi anche difficile costruire rapporti di amicizia veri. Devo dire che io mi ritengo fortunata perché per tutto il tempo ho lavorato con una ragazza ivoriana con la quale ho avuto grande sintonia, nel rispetto della diversità delle nostre culture di provenienza”.
FINE PENA "PRIMA O POI" Il carcere di Daloa in Costa d'Avorio di Rita Capettini La prigione di Daloa, nel nordest della Costa d’Avorio, è stata costruita in età coloniale. Serviva come luogo di detenzione per massimo 350 detenuti. Oggi ne contiene poco più di 1.000: prigionieri, il cui fine pena verrà stabilito “prima o poi”. Qui si è svolta una parte del progetto umanitario cui ho preso parte tra il 2007 e il 2008. La prigione è mista. Le donne detenute sono una quindicina e vivono all'interno di un'area a loro dedicata dove si autogestiscono per quanto riguarda la cucina, la pulizia dell'unica e
Ci racconti un fatto curioso che ti è successo. “Una cosa a cui noi non siamo abituati è il tempo dei saluti. Da noi quando c’incontriamo per lavoro veniamo subito al punto. Loro invece si prendono un buon quarto d’ora per conversare su tutto: salute, famiglia, amori. Una volta ad esempio ci è capitato di salutare lo chef, il capo villaggio. Arriviamo e c’è la prima stretta di mano. Gli animatori, cioè gli insegnanti dell’alfabetizzazione, spiegano allo chef chi siamo. Lui è seduto e loro gli si rivolgono in ginocchio, non essendo loro permesso stare al suo stesso livello, e tengono lo sguardo basso, perché quello diretto è di sfida. Lui ci ridà la mano, ci dà nuovamente il buongiorno e ci ringrazia di essere venuti. Ci conferma così la disponibilità del suo villaggio ad averci accolto. Dopo che è toccato a noi parlare, lo “chef” del villaggio ci ringrazia per la terza volta e ci stringe la mano, autorizzandoci a stare nel suo villaggio. E’ ovvio che qui, se hai fretta, hai sbagliato posto”. Cos’altro ti ha colpito di quelle popolazioni? “Le carceri di Daloa (ne parliamo nell’articolo sotto, ndr) da un lato e i giovani ribelli di Bouakè, la roccaforte delle Force Nouvelle. C’erano bambini con i corpi segnati dalla guerra. Siamo finiti in queste case abbandonate a cercare una ragazza, insieme ad un’assistente sociale. Era una sorta di cortile pieno di porte da cui uscivano giovani con cicatrici in ogni lembo di pelle, gli occhi persi dall’uso di sostanze. Lì ho avuto netta la sensazione che per loro la vita non valeva niente, e che ci avrebbero messo niente a farci fuori”. grande cella dove dormono sopra a nat (tappetini di plastica intrecciata) e con la lavanderia. Entrando nel carcere maschile ci si trova in un corridoio a cielo aperto che conduce verso uno spiazzo dove si affacciano diverse porte, una corrisponde alla cella dei minori, vicino c'è l'infermeria e di seguito piccole celle dove vivono i detenuti in semilibertà. All'inizio del corridoio non si può non notare una porta di ferro con una piccola finestra centrale da cui compaiono mille occhi e bocche che salutano, che chiedono denaro. Varcata la soglia ci si ritrova in una grande corte con un albero centrale dove sono appesi al sole vecchi panni. Tutt'intorno, le porte delle cinque grandi celle dove i detenuti dormono. Non c'è bisogno che le guardie entrino all'interno del carcere per controllare, perchè tutto è gestito dallo chef della prigione, un detenuto che insieme ai suoi scagnozzi è il garante dell'ordine. Durante il giorno
le celle sono vuote, tutti vivono nel cortile all'aria aperta e, girando fra persone seminude, è inevitabile vedere la drammatica situazione in cui versano. Anche se nel 2007 è stato fatto l'impianto idraulico e quindi tutti possono godere dell'acqua corrente per lavarsi, c'è comunque un odore strano, pesante. Molti si lamentano di grandi piaghe sulle gambe, alcune prendono tutto il polpaccio e sono coperte di stracci circondati da mosche. Altre persone poi sono distese a terra, tremanti per la febbre e altre ancora chiedono medicine di ogni genere. Eppure c'è un infermeria fuori dalla porta, vicino alla cella dei minori. Vuota. Viene utilizzata per portare le persone gravemente ammalate in attesa di morire, assieme ai detenuti deceduti che verranno “scarcerati”, non appena si presenterà un parente a rivendicarne il corpo. Le foto del carcere di Daloa sono di Stefania Montani
PANKAKULTURA
Nel teatro-canzone oltre Gaber non si può andare. la nostra redazione culturale
Intervista a Neri Marcorè, in città con "Un certo Signor G." Neri Marcorè è passato in città con “Un certo signor G.”, opera teatrale diretta dal regista Giorgio Gallione e tratta dalle opere di Giorgio Gaber e Sandro Luporini. Nonostante il tempo tiranno ha mantenuto fede all’impegno, e mi ha incontrato. Signor Marcorè, possiamo considerare questo spettacolo come un coronamento della sua carriera professionale? “Di sicuro è una fase importante, cantare e recitare insieme è una cosa a cui non ero abituato. Diciamo che è una tappa che sento tra le più decisive: dopo di questa credo sarà necessario passare su di un altro genere. Nel teatro- canzone oltre Gaber non si può andare”. Se la sente di affermare che si identifica in ciò che rappresenta sul palco o piuttosto se ne sente distaccato? “No distaccato proprio per niente, sono molto vicino al tipo di riflessioni che Gaber faceva, tant’è che lo seguivo proprio perché ammiravo questa sua capacità, sua e di Luporini, di interrogarsi e di farsi le domande che poi di conseguenza facevano anche al pubblico. Lo sento molto mio: non l’avrei neanche rappresentato se mi fossi sentito distante. Però da qui ad immedesimarmi ce ne passa, perché ovviamente questa è roba che hanno scritto loro con un altro percorso, un’altra maturazione che hanno avuto in altri anni”.
Perché Gallione ha scelto proprio lei per questo lavoro? Sapeva di questa sua predilezione per Gaber? “Si perché avevamo già fatto due anni di spettacolo insieme e quindi ci eravamo conosciuti già abbastanza. Io inoltre ero stato al Festival Gaber nell’estate precedente al nostro incontro, per cui ci sono stati vari elementi che hanno inciso su questa proposta. Ci siamo detti: proviamo a fare questo. Tante volte la vita è fatta di tanti piccoli incroci di casualità confluenti, ti ritrovi a fare una cosa e non ricordi il motivo per cui è nata, però poi ti metti ad analizzare e capisci tutto”. È un lavoro che le prende tutto il suo tempo o riesce a fare altro? “Intanto faccio questo, il lunedì registro “Per un pugno di libri”, poi quando posso vado dalla Dandini e quindi un po’ di svago me lo concedo. Però diciamo che mi impegna, in questo momento non riesco quasi a fare altro, sono sempre in giro”. Già a piedi scalzi con le scarpe in mano non ha faticato a farmi capire che non c’era più tempo. Tanto perché non si sentisse solo però, mentre si cambiava, a microfoni spenti, ho pensato di “tenergli compagnia” e naturalmente è arrivata la fatidica domanda: sa chi sono i Ragazzi Della Panchina? Ne abbiamo parlato e devo dire che i sorrisi migliori li ho visti proprio mentre gli raccontavo del nostro teatro come forma di aggregazione ed espressione: “E beh, lo trovo fondamentale”, ha commentato. Bene signor Marcorè, la lascio alle sue scarpe, grazie per la sua disponibilità, è stato un piacere.
La LINGUA DEL JAZZ Alla rassegna "Jazz Koinè" l'omaggio a Mal Waldron del Deep Down Sextet di Guerrino Faggiani Nell’ambito dell’ottava edizione di JAZZ KOINE’ al teatro Don Bosco di Pordenone è stato di scena il DEEP DOWN SEXTET con Cristina Mazza saxofonista e leader del gruppo e la straordinaria partecipazione di Sean Bergin al sax tenore. Signora Mazza in che cosa consiste questo spettacolo? “Dammi del tu! E’ un’esperienza che mi sta molto a cuore perché è de-
dicata alla musica di Mal Waldron, morto nel 2002, una specie di guru musicale che ho avuto l’onore di conoscere e con cui ho potuto studiare e suonare. E’ un jazz che ha un che di nuovo? “Beh non ho la presunzione di dire che ho inventato qualcosa di nuovo, lo stile di Waldron è così originale che per me è insostituibile; abbiamo però intrecciato il suo swing con altri ritmi, Nat Coleman ad esempio col suo free jazz è un altro dei musicisti che nella vita mi ha ispirato”. E infatti il concerto è scivolato tra swing e vene di free che spazia-
vano in sintonie curate a formare armonia in un jazz che ha entusiasmato il solito pubblico di appassionati doc. Con Daniele D’Agaro al sax tenore e clarinetto, vincitore di numerosi premi tra i quali il Top jazz 2007 oltre a Sean Bergin, un grande Bruno Marini al sax baritono, un giovane e superlativo Carmelo Leotta al contrabbasso (ricordate questo nome) e infine U. T. Gandhi alla batteria che nel privato è impegnato nel sociale e insegna percussioni nei carceri e ai portatori di handicap, il DEEP DOWN SEXTET ha presentato un jazz innovativo e piacevole che da queste parti non si era ancora sentito.
Cristina, arriveremo mai a dire ormai nel jazz si è fatto tutto? “Guarda, Frank Zappa che non era uno stupido disse che dopo John Coltrane sono solo dettagli, è chiaro che il jazz ha lo swing nel dna però è l’improvvisazione per eccellenza e io credo che sarà sempre vissuto in modo nuovo e importante”. Cristye (mi sono allargato) hai sogni nel cassetto? “Beh sì, un progetto molto ardito, che mi sta divertendo: lanciare un trio di saxofoni affiancati ad un trio di heavy metal” Per la miseria, e cosa ne uscirà? “Una follia totale”.
con obama l'america può uscire dal buio Lo scrittore newyorkese Paul Auster, autore di Uomo nel buio, dietro le quinte della 15ma edizione di Dedica Festival la nostra redazione culturale Accarezzavamo l’idea di conoscerlo da quando si è saputo che sarebbe stato il protagonista della 15ma edizione di Dedica. L’occasione si presenta all’incontro con gli studenti al convento di San Francesco. Agli organizzatori avevamo preventivamente chiesto se, in coda all’intervento, ci avrebbe riservato qualche minuto. Mi avvicino a lui mentre sta assolvendo il rito della firma dei suoi libri e, mentre contribuisco ad allungarlo con cinque o sei dei miei, gli spiego chi siamo e perché desideriamo incontrarlo.“Okay, basta che usciamo che avrei voglia di fumare”. L’interprete che è con lui mi fa presente che sta rispondendo alle più svariate domande dalla mattina presto. In tutta onestà le rivelo che le nostre se le sono bruciate in gran parte gli studenti e le chiedo aiuto per la traduzione. Paul Auster si alza e lo accompagno nel percorso verso il chiostro, tragitto lungo il quale l’interprete si perde. Realizzo che me la devo cavare da solo sperando nel soccorso del resto della redazione di LdP che è con me. Usciamo nel chiostro e Auster inforca un paio d’occhiali da sole e si accende un Toscanello. L’Irene riprende, Roby fa le foto. Mi affido a Sant’Alberto Sordi e al mio inglese maccheronico, e attacco. Mister Auster, ha appena incontrato gli studenti. Ma lei, da ragazzo, com’era? Si sentiva diverso dagli altri? “In un certo senso sì, in un certo senso no. Voglio dire mi piaceva giocare a baseball con gli amici, avevamo anche una squadra. Ma sentivo, era una sensazione che avevo, che nella vita avrei fatto qualcosa di diverso”.
Che cosa ha provato quando ha visto per la prima volta il suo primo libro? “È stato un momento fantastico, anche perché non me l’aspettavo. Da quel momento in poi tutto era possibile per me, tutto e niente”. Il suo ultimo libro, “Uomo nel buio”, inizia con uno scrittore alle prese con un nuovo racconto. “Lo metto in una buca. Mi sembra buono come inizio” dice lo scrittore del personaggio che sta creando. Ma come nasce, un suo personaggio? “Vorrei potervelo dire, ma non lo so nemmeno io. Ho provato tante volte a capirlo, ad analizzarmi, ma non ci sono riuscito. Un attimo prima non c’è niente e un attimo dopo è già nato. In mezzo per me ci sono suggestioni che riaffiorano in una specie di vuoto quantico che non so descrivere”. “In ognuno di noi c’è una parte che desidera morire”, dice Ben Sachs in Leviatano. “É ciò che in inglese si chiama deathwish. In noi c’è un continuo conflitto tra una parte che ci spinge a vivere e questo desiderio di morte, che io penso sia la parte di noi che poi ci rende capaci di uccidere, di fare guerre, della violenza contro gli altri.” Anche contro noi stessi, voglio dire anche le droghe in un certo senso… “Le droghe in effetti lo sono. Ma anche il fumo. Vede io fumo e so che mi fa male, ma lo faccio. Perciò non me la sento di condannare chi si auto danneggia. Diverso è il caso di chi fa del male agli altri ” Usciamo dai suoi libri e veniamo all’attualità. Lei si è speso molto in favore di Barack Obama e non ha nascosto le proprie antipatie per Bush. Crede che Obama sia figlio di Bush? “No, credo sia figlio della crisi economica. Credo sia stato eletto perché in settembre l’economia ha collassato. Fino a quel momento lui e McCain erano molto vicini e io pensavo che non ce l’avrebbe fatta. Poi è successo quello che è successo e così un disastro ha portato qualcosa di buono. Fosse andata diversamente avremmo ora due disastri. Vi dico la verità: il giorno che Obama è stato eletto, beh,vi confesso che ho pianto”.
Cos’è, Dedica festival?
Claudio Cattaruzza, Presidente di Dedica
Promossa e organizzata dall’associazione culturale pordenonese Thesis, la manifestazione che si svolge a Pordenone nel mese di marzo è un festival incentrato su una personalità del mondo della cultura proposto senza intenti celebrativi, ma con il dichiarato obiettivo di rendere omaggio al suo percorso artistico. È diventata ormai un appuntamento di rilievo internazionale, articolato in una serie di eventi che possono spaziare dalla presentazione di libri a spettacoli teatrali, da incontri con l’autore a concerti, da conferenze a tema a proiezioni cinematografiche. Punto fisso di ogni edizione è la pubblicazione di una monografia collegata all’iniziativa che nel corso delle edizioni ha dato vita ad una collana motivo di interesse per lettori, studiosi e studenti. Nata nel 1995, DEDICA ha visto le prime tre edizioni rendere omaggio al teatro di ricerca. Nel 1998, con il poliedrico autore Moni Ovadia, ha inizio il percorso che attualmente la caratterizza. Dal 1999, i protagonisti sono stati individuati tutti in ambito letterario: tra gli altri spiccano Claudio Magris (1999), Antonio Tabucchi (2001), Paco Ignacio Taibo II (2005), Amos Oz (2007) Nadine Gordimer (2008) e Paul Auster (2009). Tra i diversi riconoscimenti, la manifestazione ha ricevuto la Medaglia d’argento del Presidente della Repubblica.
Claudio Cattaruzza, Presidente di Dedica. Com’è andata questa 15ma edizione? "Benissimo, sia come pubblico sia per la copertura dei media. Una grande attenzione di tutta Italia verso la manifestazione che ha giovato alla città, finita in quest’ultimo periodo sotto i riflettori per un brutto episodio di cronaca che non la rappresenta." Quindici anni dedicati a grandissimi personaggi. Come sono dietro le quinte? "Sono persone disponibili, di grande sensibilità, curiose della storia e della cultura locale. Sanno che tutta l’attenzione per loro nei giorni di Dedica è una dimostrazione di affetto, non d’invadenza. Si crea un rapporto che dura nel tempo. Con Anita Desai, ad esempio, c’è una vera amicizia. Ma anche con Claudio Magris..." Ecco, Claudio Magris, e i suoi 70 anni.."Cogliamo l’occasione della consegna a Magris del Sigillo della Città di Pordenone, per festeggiare i suoi 70 anni e i 15 di Dedica, con “Claudio Magris. Argonauta”, un volume con i contributi di oltre trenta autori di rilevanza internazionale, e una mostra fotografica di Danilo De Marco." Dedica 2010: sarà un autore italiano o straniero? "É presto." Un autore o un'autrice? "C’è già il nome, ma non lo dico. Per scaramanzia."
Pordenone rende omaggio a Magris, l’eterno Argonauta di Milena Bidinost
Inutile, questa volta nemmeno l’avere dalla nostra un direttore editoriale come Pino Roveredo, suo intimo amico, ci ha permesso di fare il colpo grosso. Scusate se abbiamo voluto osare, ma mica capita tutti i giorni di conoscere di persona un potenziale Premio Nobel! Comunque, sfumata la possibilità di incontralo dietro le quinte, abbiamo superato la barriera della security e ci siamo seduti, tra il pubblico. E non che sia colpa di Pino, intendiamoci: quando si ha a che fare con un nome come il suo c’è solo da incrociare le dita e sperare di trovare un buco in agenda. Ad un certo punto ecco l’applauso, arriva il Professore. Però! Non glieli daresti mica 70 anni. Perché Claudio Magris, il grande saggista e narratore triestino la cui famiglia paterna era originaria di Malnisio di Montereale Valcellina; il più eminente germanista italiano; scrittore del Corriere della Sera e mancato premio Nobel per la letteratura nel 2007 (l’anno in cui lo vinse Doris Lessing) continua a mantenere l’aspetto, ma ancor di più quell’aria da eterno studente universitario: ir-
requieto e alla continua ricerca di spazi fisici e culturali da approfondire, studiare e narrare. Continuamente in viaggio, continuamente alla ricerca: spiritoso e brillante. E non si poteva che farsi prendere dalla sensazione del viaggio, mentre lo scorso 18 aprile il Professore si raccontava ad una città, quella di Pordenone, che stava rendendo omaggio ai suoi 70 anni di vita, compiuti il 10
«Nella vita non c'è
passato. Le cose si consumano e gli affetti rimangono» Claudio Magris
aprile. Comune di Pordenone, di Montereale Valcellina, Comunità montana e associazione Thesis insieme per organizzare in onore del Professore una cerimonia ufficiale di consegna della cittadinanza onoraria e del sigillo della città (cui hanno preso parte gli amici di sempre Gianluigi Bec-
carla, Guido Davico Bonino, Predrag Matvejevic, coordinati da Marzio Breda del Corriere della Sera), seguita dall’inaugurazione della straordinaria mostra fotografica del freelance friulano Danilo De Marco allestita prima al convento di S. Francesco e poi alla centrale idroelettrica Pitter di Malnisio di Montereale Valcellina (fino al 14 giugno). Festeggiamenti che sono culminati nella presentazione di un inedito album di ricordi che Pordenone ha voluto regalargli: "Claudio Magris. Argonauta", Forum editrice, è il libro curato da J. A. González Sainz e Danilo De Marco, con fotografie di quest'ultimo, nel quale è raccolta una serie scritti inediti a lui dedicati da uomini di cultura, ma soprattutto suoi amici. Si va da Nadine Gordimer a Giorgio Pressburger, da Mauro Corona a Corrado Stajano, da César Antonio Molinas a Javier Marías, a molti altri. Tra tanti anche il suo e nostro amico Pino Roveredo, di cui pubblichiamo qui sotto un estratto. Così da rubare attraverso di esso un pizzico di umana quotidianità a un quasi Premio Nobel.
Aspettaci, Lubiana… di Pino Roveredo Maggio ’97. Facevo ancora l’operaio, in fabbrica, turno di notte. Ricevere una telefonata alle due del pomeriggio, quando si è abituati a infilare la luna dentro il giorno e ad accendere il sole nei capannoni della fabbrica, oltre a rovinarti il sogno e il sonno, riesce anche a risvegliarti in un colpo solo tutti gli umori agitati e maleducati che ti girano dentro. «Vieni a Lubiana? C’è un convegno di scrittori. Non facciamo tardi, magari mangiamo qualcosa al ritorno!» A Lubiana?… Ma col Professore vado fino al Polo Sud (…). Aspettaci, Lubiana…L’appuntamento è per le ore 17 in via Flavia, davanti al vecchio Dancing Paradiso. (…) Sono le 17 e un minuto, adesso ho anche il diritto legale di lamentarmi e di soffiare l’impazienza verso ogni macchina che passa. A proposito di macchine, se verrà, il Professore, come verrà? Con l’austerità di una Lancia Flavia grigia scura, il lusso di una Mercedes, o la follia di una spider decapottabile a due posti? Pronostici tutti sbagliati, perché lui è appena arrivato, adesso, dentro la praticità di una vecchia Golf. Meno male! Si parte. Aspettaci, Lubiana…(…) Mentre parliamo e misuriamo, la strada continua a infilarsi sotto i nostri sedili. Superiamo le indicazioni di piccoli paesi: Trebiciano, Padriciano, Prosecco, Sgonico, tutti disponibili a farci entrare e a portarci fino al confine. Qualche chilometro più avanti un cartello, un segnale ci avvisa
Noi, amici oltre i confini Lo scrittore croato, ospite a Pordenone, racconta il suo incontro con Magris
«Il 9 novembre '89 eravamo a Vienna a presentare "Danubio" e ci arrivò la notizia della caduta del muro di Berlino»
di Predrag Matvejevic Dico sempre che le stelle sono uguali, a Zagabria e a Trieste. Devo molto a Claudio Magris, come scrittore e come uomo. Come uomo perché quando ho dovuto lasciare la Croazia, per le mie posizioni molto critiche nei confronti del regime di Tudjman, e mi sono trovato a vagare per l’Europa senza un documento che mi permettesse di sostare da qualche parte, si è molto preoccupato di farmi avere, lui e Raffaele La Capria, un passaporto italiano. Questo ha saldato un’unione già forte, risalente all’uscita nello stesso anno di "Danubio" e del mio "Breviario Mediterraneo". Come scrittore, ho avuto l’onore di presentare la prima traduzione di "Danubio" a Zagabria, e poi a Belgrado e Parigi. A Parigi, in particolare, riunimmo Maurice Nadeau, che ora ha 98 anni e proprio pochi giorni fa ha scritto l’ennesimo suo articolo su Claudio, e un grande scrittore jugoslavo di origine ungherese ora morto, Dànilo Kis. Dànilo non accettava mai di parlare dei libri altrui, Maurice Nadeau è soprannominato il Robespierre della critica francese, tante sono le teste di aspiranti scrittori che ha metaforicamente falciato. Potete immaginare
la reazione che ebbe l’editore francese quando gli proposi quest’idea! Credo che Claudio temesse anche lui quest’incontro. Dànilo iniziò il suo intervento con queste parole: “Predrag, ma questo tuo amico italiano sa scrivere!”. Maurice fece un discreto elogio della scrittura di Claudio, che era come se un critico normale avesse fatto un inno alla sua bravura! Poco tempo dopo Claudio mi chiese di accompagnarlo a Vienna, per presentare "Danubio" al pubblico austriaco. Lo stesso giorno, 9 novembre 1989, cadeva il muro di Berlino. Potete immaginare, io figlio di un esule russo e lui, con la sua grande cultura dell’Europa centrale: i giornalisti ci assediarono. Io ricordo che dissi che temevo il disordine slavo, che gli slavi non riuscissero a mettere in moto una riforma adeguata. La parola poi passò a Claudio e lui disse: “Io, invece, temo l’arroganza del mondo occidentale”. Credo tuttavia di essermi sdebitato con lui, perché vado fiero di avergli fatto conoscere una sera di tanti anni fa a Pola la grande scrittrice di origini istriane Marisa Madieri, che sarebbe poi diventata sua moglie.
che siamo arrivati a Sistiana mare. Sistiana? Io so poco, ma sono certo che da questa parte si va verso Venezia. Abbiamo sbagliato strada? … Sì, abbiamo sbagliato strada! Torniamo indietro, e paghiamo il pegno di venti chilometri suppletivi. (…) Aspettaci, Lubiana, che noi si arriva, magari tardi, ma si arriva… Entriamo a Opicina, ormai è fatta, se non scoppia un colpo di Stato o buchiamo tutte le quattro ruote ci siamo. Dopo l’agitazione di Sistiana, siamo convinti che il pedaggio con la “sfiga” sia stato pagato e invece, girata la curva che ci immette al valico, andiamo dritti a sbatterci contro. Infatti, davanti a noi si presenta una fila incredibile di macchine, camper, pullman, motrici e rimorchi. Una fila che, a provare a misurarla con l’umore, può andare dall’ottimismo dei due chilometri al pessimismo dei dieci. Io, a voce, mi dichiaro per la prima ipotesi, con il pensiero invece giurerei sulla seconda, la stessa sostenuta dal Professore. «No, non ce la facciamo!». «Sì, che ce la facciamo, tranquillo Professore!». (…) Se Dio vuole, finalmente, raggiungiamo la testa del serpente e arriviamo alla sospirata sbarra. Salutiamo, esibiamo i documenti e ci fermiamo un momento all’ufficio cambi, dove un impiegato ci trasforma le lire in dinari, poi ci si allaccia le cinture e si parte. Sembra fatta! Aspettaci, Lubiana…No, non è fatta, e non è ancora maledettamente finita! Sono le 18 e 50 e l’appuntamento è per le 19 in punto. (…) Ecco che la ‘sfiga’ di prima si risveglia e torna a esercitare il suo maleficio. La macchina. Su un tratto di strada che richiede un’andatura lenta, sembra che il motore della vecchia Golf s’intestardisca a proseguire col giro largo della quinta marcia. Sarà la frizione? (…)
Cancelliamo i disegni sul cruscotto, mi tolgo la giacca, alziamo le braccia e invertiamo la marcia. Addio Lubiana. Senza fretta e senza ansia ripassiamo la frontiera dalla parte opposta e, dopo tanto girare, aspettare e sperare, ci concediamo una sosta e ci fermiamo in un bar. Io prendo un caffè, il caffè del rassegnato, il Professore invece una piccola birra fresca, la birra della rinascita. Sì, perché improvvisamente è cambiato, non ha più l’ansia di arrivare e si è messo addosso la tranquillità del ritorno. «Domani devo andare a Cividale, che dici, mi fido di questa macchina?». A Cividale? Ma sarà già una fortuna arrivare a Trieste. Mi fermo un attimo, penso a quell’ottimismo e mi assale un dubbio: ma quella del Professore era solo una battuta spiritosa? Risaliamo e con grande precauzione ci avviamo sulla strada del rientro. Precauzione inutile, perché dopo pochi metri, come un mistero della vita e un miracolo della meccanica, la macchina va che è una perfezione. «Ma come può essere?». «Forse si sarà surriscaldata la frizione!». «Ma perché, le frizioni si surriscaldano?». «Se capita ai freni, perché no alla frizione. Caro Pino, tutto si surriscalda, la terra, la vita, l’umore, la pazienza, e anche la frizione…». Siamo arrivati a Trieste, e siamo arrivati anche al momento del congedo. (…) Vado, cammino, penso, e nella mia sospensione un dubbio improvvisamente mi fa sussultare: e se fossi stato vittima di uno scherzo? (…)
Estratto dal volume "Claudio Magris. Argonauta" Forum editrice, 2009
RI-SALTARE L'UOMO
di Gianni Mura
UN GOL MAI, NEMMENO SE MI AMMAZZATE Ritratto di Ezio Vendrame, piedi da brasiliano e testa da anarchico della Rive Gauche
Prima i numeri, anche se non dicono tutto. Ezio Vendrame (Casarsa, 21 novembre 1947) ha giocato in C con la Torres (11 partite, 1 gol), col Siena (31 partite, 1 gol), col Rovereto (9 partite). In A col Vicenza (48 partite, 1 gol) e col Napoli (3 partite). Totale: 102 partite, 3 gol. Non s’è mai capito se fosse centrocampista esterno, prima o seconda punta. Aveva piedi da brasiliano e una testa, a vederla, da anarchico della Rive Gauche. Sia come sia, all’esordio a San Siro si presentò con un tunnel a Rivera. Più che un calciatore, era un giocatore di calcio. Segnare non gli interessava ("il calcio è bellissimo, fino a che non devi tirare in porta") e la vita del calciatore-modello non era per lui. L’ho rivisto nel 1981, quando Paolo Rossi (non ancora Pablito) era squalificato e giocava partite amichevoli per tenersi in forma, con l’incasso devoluto in beneficenza. Capelli lunghi, barba, piedi brasiliani, un gol mai, nemmeno ad ammazzarlo: Vendrame era sempre quello. Lo chiamai da Milano per fissare un’intervista. Mi diede appuntamento al cimitero di Casarsa, davanti alla tomba di Pasolini. "E’ il più vivo degli abitanti", disse. A entrarci, per quanto sia possibile in un’intervista, la testa di Vendrame era davvero da anarchico della Rive Gauche, anche se il Tagliamento non è la Senna. Aveva, allora, un negozio di articoli sportivi di cui poi s’è disfatto. Non gli piace l’idea di possedere né quella di essere posseduto. Gli bastavano, e credo gli bastino, la chitarra, la tavolozza, i pennelli e quel po’ di vino e sigarette. Come da calciatore. Da calciatore, la Spal lo spedì a Sassari per punizione. Fingeva di essere infortunato ed era tappato in una stanza con un suo grande amore, uno dei tanti. Una volta in A, andava da Vicenza a Milano per ascoltare Piero Ciampi, e poi da Napoli a Roma, ed ogni volta erano grandi bevute e allenamenti saltati, oppure no-stop dal cabaret al campo. In’amicizia vera. Conosceva le regole, ma solo per infrangerle. Un giorno a Napoli salì in equilibrio sul pallone e fece il saluto militare, un’altra volta si soffiò il naso nella bandierina del corner, altre volte dribblava quattro o cinque avversari e poi passava indietro invece di tirare in porta. Si narra che in un Vicenza-Cremonese di fine stagione, con uno 0-0 così scontato che lo si poteva scrivere sui muri dello stadio, il pubblico fischiasse. Fu allora che Vendrame, per offrire un diversivo, dribblò i soliti tre o quattro avversari, poi fece marcia indietro puntando verso la sua porta (tanto, lo chiamavano "el mato"), dribblò anche il portiere, fece finta di tirare in porta, non tirò. Ma a quel punto il cuore di uno spettatore si era fermato del tutto per infarto.
BRANDO, UN PALLONE PER AMICO di Giovanni Leucci (11 anni) Ciao, sono Brando, uno dei palloni più vecchi comprati dalla Sacilese, la squadra di calcio di Sacile. Il mio compito è rimbalzare qua e là. Ho molti amici con cui mi diverto a rotolare per il campo. Non sto ad elencarveli tutti sennò facciamo notte. Bando alle ciance, presto sarò inutilizzabile perché un buco sta lentamente sgon-
fiandomi. Non si sa dove finiscano i palloni moribondi (io comunque lo so ma non ve lo dico), né tutti gli oggetti che servono all’allenamento. Una cosa sicuramente si sa, non finiscono sicuramente né su una spiaggia a bere limonata né in un centro estetico. Comunque nel tempo che mi resterà da vivere vi racconterò una storia che mi ha colpito nel profondo del cuoio (perché gli organi interni dei palloni stanno nel rivestimento) Un giorno, mentre rimbalzavo contro un muro, un bimbo mi prese in braccio ed incominciò a palleggiare. Era una sensazione bellissima… meglio delle carezze di mamma palla-medica. Quel bambino era un talento nato,
I numeri non dicono tutto. Pur segnando pochissimo, Vendrame colpiva la fantasia e dispensava allegria in un mondo troppo serio per i suoi gusti (la divisa sociale, l’allenamento, tutti a letto prima delle 23). Molti lo considerano un incompreso, io no. Ha fatto quello che ha voluto. E’ salito sulla giostra, non gli piaceva la musica, è sceso. Lui e il calcio professionistico non erano fatti per piacersi, andare d’accordo e vivere felici e contenti. Ribelle da ragazzo, peggiorato dopo gli anni in collegio, ribelle da calciatore e anche dopo. Mi mandò le bozze del primo libro di poesie (altri seguirono) chiedendo una prefazione. Che scrissi volentieri, consapevole che, in teoria, nessuno dei due aveva tutte le carte in regola, per dirla alla Piero Ciampi. Di quelle dedicate a Casarsa la prima suonava così: "Scusatemi/se sono nato/nel vostro paese". Spesso, Ezio chiama "cose" le sue poesie, come le fabbricasse un artigiano di parole, uno che scava nel linguaggio e nel sentimento come altri scavano il legno. C’è una differenza enorme tra il Vendrame calciatore e il Vendrame poeta, direi che stanno all’opposto. Il primo si concedeva svolazzi e lazzi, ghirigori, ruote di pavone ed escludeva l’essenziale, il gol (giova ripetere che per lui l’essenziale era il gioco). Il secondo toglie, taglia, amputa, sceglie la brevità, quasi la nudità delle parole. Del calcio non gli importa più nulla. Da allenatore delle giovanili del Venezia fu licenziato perché il suo regalo natalizio alla squadra consisteva in pacchetti di preservativi. Durò di più a San Vito, anche se beccandosi spesso coi genitori più invadenti: "Il mio sogno è allenare una squadra di orfani". L’ultima volta l’ho visto a Sanremo, per un Club Tenco. Era arrivato in treno ed era felice perché dalle sue poesie un cantautore toscano, Nicola Costanti, e un gruppo romano, i Tetes de Bois, avevano tratto canzoni. Non sfuggì all’ennesimo colpo di fulmine, sentendo cantare Jane Birkin, e alle tre di notte annunciò che sarebbe partito per Parigi. Non ho più saputo nulla e nulla escludo.
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO
—————————————— Pino Roveredo Premio Campiello 2005. Capriole in salita, Caracreatura, Attenti alle rose; nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. La sua prossima fatica si chiamerà “Vota Berlinguer”. Magari si potesse ancora.
—————————————— Guerrino Faggiani Rinasce nel maggio 2006 all’ospedale di Udine. Da lì in poi è blogger (www.iragazzidellapanchina. it/gueriblog), attore, ciclista. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche davanti al computer. “Cosa? Tagliare?!? Piuttosto non sta neanche metterlo.”
—————————————— Milena Bidinost Il direttore non si discute, si ama. perchè si è ripresa la vita (www.milenabidinost.blogspot.com) e oggi, come un trionfo, il direttore " vive, parla, ride, si arrabbia, commuove, annoia, risveglia…"
—————————————— Gino Dain Un medico un giorno gli ha detto: se continui cosi non duri più di sei mesi. Era il 1980. Da allora per scaramanzia non è cambiato di una virgola. È la dimostrazione vivente che la medicina non è una scienza esatta.
palleggiava come un giocatore esperto e aveva solo sette anni! Presto se ne andò, lasciandomi nel sacco dei palloni. I giorni seguenti tornò e ogni giorno che passava lui diventava più bravo. Si era affezionato a me, benché ci fossero palloni più belli. Anch’ io mi affezionai a lui. Un ridente mattino primaverile decisi di parlargli. Mai un oggetto inanimato, secondo gli umani, aveva parlato ad un uomo. Era il più grande dei divieti. Ma io ci volevo provare e niente mi avrebbe fermato. Forse solo un cespuglio di rovi mi avrebbe fermato! Così armato di coraggio, buona volontà e parecchia fifa mi accinsi a rivelare al mio amico questa grande veri-
—————————————— Marta Bottos e Tiziana De Piero Pur di disegnare in esclusiva con il nostro giornale hanno rinunciato a un faraonico contratto con la Disney. Dato l’ingaggio di LdP, per sopravvivere si dedicano alla creazione di fumetti per la diffusione del friulano nelle scuole.
—————————————— Lara Palù Quest’anno farà la maturità, poi sogna di fare la giornalista. Scrive bene, chiaro e senza fronzoli, e soprattutto scrive quello che pensa. Dunque ha sognato il mestiere sbagliato.
—————————————— Andrea Picco Su facebook si definisce integralista juventino. Già vive una vita in 4D: Daniela, Demetra, Drugo e …Del Piero. Se la Juve gli compra anche Diego raggiungerà dimensioni che noi umani nemmeno ci sogniamo.
—————————————— Rita Capettini Tacchi a spillo, autoreggenti, minigonna mozzafiato: se vedete una così sicuramente non è la Rita. Anche se la leggenda narra che una sera dell'inverno scorso, a Milano...
tà. E così mentre mi palleggiava gli dissi: ”Ehi”. Lui si guardò intorno ma non vide nessuno e tornò a palleggiare. ”Ehi, sono il tuo pallone!”. Lui mi guardò stupito ed esclamò: ”Se questo è un sogno allora vado a tirare una testata al palo!”. Iniziò a correre ma io lo fermai ed iniziò una fervida e focosa discussione sui perché della vita che si concluse con una lunga e solenne ronfata di entrambi, causa: affaticamento da troppo pensare...Quando ci svegliammo (parecchie ore dopo) se ne andò di corsa perché sarebbe dovuto essere a casa due ore prima. Il giorno dopo tornò al campo con un occhio nero e un labbro gonfio! Alla mia richiesta di spie-
—————————————— Elisa Cozzarini È riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. Insomma, Freelance Amstrong.
—————————————— Felice Zuardi “Far parte del vostro progetto mi fa sentire al settimo cielo, non ci sono parole per descrivere lo stato d'animo che ho provato quando ho realizzato che mi state chiedendo una cosa così importante, una sensazione che forse nessuna droga mi aveva dato fino ad ora.”
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Andrea Picco, Felice Zuardi, Franca Merlo, Claudio Pasin, Lara Palú, Mina Carfora, Gigi Dal Bon, Ada Moznich, Alessandro Zamai, Giovanna Orefice, Rita Capettini, Gino Dain, Elisa Cozzarini, Vittorio Agate, Marta Bottos, Tiziana De Piero Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto Stampa La Grafoteca Via Lino Zanussi 2 33170 Pordenone
—————————————— Gianni Mura È il giornalista sportivo. Suiveur del Tour de France dal 1967: tra le Alpi e i Pirenei, Pirenei tutta la vita. Se gli parlate di aggredire lo spazio vi risponderà che il calcio è un gioco, non un film di fantascienza. Chiamatelo come volete, dottore mai.
Le fotografie in questo numero, ove non specificato, sono di Roberto Gnesutta. Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo della Fondazazione CRUP attraverso il Comune di Pordenone Si ringrazia la famiglia Guidolin per l’ospitalità offerta alla redazione.
—————————————— Franca Merlo O Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia. ilcannocchiale.it
gazioni mi rispose che sua madre gli aveva tirato un man rovescio con al dito un rubino da ventiquattro carati dicendogli: ”causa: colossale ritardo!”. Dopo la rivelazione il tempo passò più veloce ed io che cominciavo ad invecchiare mi bucai. Quando fui totalmente sgonfio un addetto nominato dalla società mi portò in uno strano posto pieno di palloni moribondi. Mi posò, con la grazia di un tank tedesco della seconda guerra mondiale, su un nastro trasportatore che portava i palloni in un buco che pareva infinitamente profondo. Il buco era pieno di lava e tutti i palloni erano metà fusi e metà interi. Stavo per cadere nell’infernale abisso incan-
Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Tel. 0434 363217 email: info@iragazzidellapanchina.it www.iragazzidellapanchina.it La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00
descente quando due mani molto familiari mi afferrarono e mi trassero in salvo. Era il mio amico giunto a salvarmi. Mi riparò con dei gommini speciali e stemmo insieme per ancora del tempo. Un giorno lui venne chiamato al Pordenone per il suo talento e non ci vedemmo mai più... Mi lasciai lentamente morire e dopo non molto tempo la guarnizione sulla camera d’aria cedette e per la seconda volta mi trovai sul nastro trasportatore a cadere nell’infernale abisso incandescente, questa volta per sempre. “BRANDO!!” e mi alzai di scatto dal letto. Era solo un sogno...
se qualche volta Sbagli ricordati di chiedere scusa campagna per la sensibilizzazione e integrazione sociale dei ragazzi della panchina con il patrocinio del comune di pordenone