CODICE A S-BARRE
Libertá di Parola quello che dici, ma difenderò fino alla 2/2016 —— Disapprovo morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)
N°
“Codice a s-barre” è un progetto finanziato dall’Ambito Urbano 6.5 e realizzato dall’associazione I Ragazzi della Panchina all’interno della Casa Circondariale di Pordenone. Il progetto, attivo da circa tre anni, vuole essere uno spazio di condivisione, dibattito ed elaborazione di testi su tematiche plurali, coinvolgendo trasversalmente individui ristretti, operatori e soggetti parte dell’associazione. Gli articoli realizzati in questa redazione interna confluiscono trimestralmente nella rubrica Codice a s-barre di Libertà Di Parola.
Il volontariato si racconta dal Castello di Cristina Colautti Le vicende della storia, così come il terzo atto della Tosca di Puccini, narrano come i sotterranei di Castel Sant’Angelo, uno dei simboli di Roma oltre che affermata meta turistica, siano stati per moltissimi anni sede di una delle prigioni più famose della Capitale. Forse meno noto, sicuramente meno decantato dalla lirica ed inaccessibile ai più, è il Castello di Pordenone che, situato anch’esso nel cuore della città, ospita tuttora il carcere cittadino. In questo luogo, da circa tre anni, trova sede anche la redazione interna del nostro giornale Libertà Di Parola, la cui anima è rappresentata dalle storie, ma soprattutto dai pensieri, di coloro che frequentano il laboratorio. Tali riflessioni, però, non si limitano a quelle che sono le problematiche che vive una persona reclusa, ma spaziano e coinvolgono nella loro analisi molti altri aspetti della quotidianità che tutti
possono trovarsi a vivere. In quest’ultimo periodo di attività, pertanto, dopo aver ampiamente discusso sul concetto di libertà responsabile esplicitato dall’ex magistrato Gherardo Colombo, intervistato da un paio di detenuti in permesso premio in occasione della manifestazione Pordenonelegge 2015, il gruppo ha incontrato in redazione Claudio, Massimiliano, Paola e Giacomo. Queste persone, incalzate dalle domande dei giornalisti del Castello, hanno raccontato la loro esperienza pluriennale all’interno di diversi ambiti del volontariato, mostrando concretamente come sia possibile spendersi per gli altri traendone al contempo grande soddisfazione. Negli incontri, le curiosità come pure le provocazioni e le battute non sono mancate e, come sempre, un clima disteso ed accogliente ha permesso a tutti i componenti del gruppo e agli intervistati di esprimersi
liberamente. Gli articoli che seguono testimoniano chiaramente le emozioni vissute da ambo le parti, ma soprattutto le riflessioni scaturite dai racconti, oltre che dalle personali idee ed esperienze, sulle quali la redazione ha avuto modo di dibattere. Ogni incontro ha sempre un valore inestimabile perché, oltre a permetterci di accorciare le distanze con l’Altro da sé, ci regala nuovi stimoli e spunti da cui ripartire. Queste testimonianze, in particolare, hanno avuto il potere di dimostrare il significato dell’adagio anonimo: “Il volontariato è l’ultimo esercizio di democrazia. Si va alle elezioni una volta all’anno, ma per quanto riguarda il volontariato, si vota ogni giorno in ordine al tipo di comunità in cui si vuole vivere”. Il messaggio che ne è scaturito è che in ognuno di noi possa accendersi il desiderio di costruire ogni giorno con le proprie mani la comunità che vorremmo.
La libertà che unisce il volontario al detenuto «Non è stato difficile parlare della mia storia a questi ragazzi: luoghi e persone dei miei racconti ci hanno reso complici» di Claudio Deiuri Ho conosciuto Cristina durante un corso di formazione sul soccorso a persone vittime di arresto cardiaco (rianimazione cardiopolmonare e uso del defibrillatore). In quell’occasione mi ha chiesto di raccontare ad un gruppo di detenuti del carcere di Pordenone la mia esperienza come volontario della Croce Rossa Italiana. A metà degli anni Novanta ho fatto parte, infatti, di un gruppo di volontari della Croce Rossa Italiana che svolgevano un’attività di supporto agli equipaggi del 118 nei turni di notte dei fine settimana. Ho pensato che la proposta ricevuta fosse un’occasione per me per trovare finalmente una
nuova definizione al concetto di volontariato, ormai condizionato dagli stereotipi e dai cliché: chi è impegnato nel volontariato rientra, nell’opinione comune della gente, nella categoria del cittadino modello, integrato, attivo nella propria comunità e sensibile nei confronti del prossimo. Ormai non c’è aspirante ad una qualsiasi carriera politica che non includa nel suo curriculum personale qualche esperienza di volontariato. Oggi sono il direttore tecnico della
Gymnasium di Pordenone e mi capita spesso di raccontare, ai ragazzi delle scuole superiori, la storia di una squadra di nuotatori con disabilità mentale che abbiamo chiamato Special Team. I ragazzi ascoltano,
Chiacchierare come fossi al bar con degli amici «In carcere dovevo parlare della mia esperienza nel soccorso alpino. Ne sono uscito con più spunti di riflessione di quanti ne abbia dati» di Massimiliano Cacitti Non mi lascia sorpreso, data la mia lunga esperienza nel soccorso, la telefonata ricevuta da un’amica che mi chiede di andare in carcere a Pordenone per parlare delle mie esperienze come volontario del CNSAS (Soccorso Alpino e Speleologico) e della FISPS (Soccorso Piste Dolomiti) per un’attività di scrittura che viene portata avanti all’interno dello stesso. Una brevissima spiegazione e dico sì, un sì sicuro, ma nello stesso tempo un po’ stranito; non tanto per il dover parlare delle mie esperienze, ma per il luogo in cui lo devo fare. Vivo in un paese dove il carcere è una realtà importante ma, a parte saperlo, mi accorgo che, credo come la gran parte delle persone che mi sta attorno, sono totalmente ignorante in merito a questo argomento. Il vocabolario della lingua italiana per “carcere” riporta: “edificio in cui vengono scontate le pene detentive”. Questa definizione dice tutto e niente e, a mio avviso, dopo essere entrato per la prima vol-
ta in vita mia in una Casa Circondariale, credo si tratti di una definizione molto riduttiva su cos’è veramente questo luogo. In questo edificio entri stranito in quanto ignorante di cosa e come sia; vieni accolto per procedure che lo rendono asettico, capisci subito che non puoi fare quello che vuoi, ma quello che devi fare e basta. Ti ritrovi in questa stanza dedicata alle attività, con persone che non hai mai visto, non hai idea di chi siano e del perché si trovino lì dentro, ma con le quali, dopo una stretta di mano, ti ritrovi a chiacchierare
partecipano, si mettono in gioco, si appassionano. Non è difficile parlare a loro del volontariato perché il volontariato stesso si basa sui principi che i ragazzi incarnano: la libertà, l’autodeterminazione. Mi sono però chiesto come avrei potuto parlarne a persone a cui questi principi sono negati. È stato un bel pomeriggio di storie, domande, chiacchiere, risate, sguardi e complicità. Sì, forse è questa la sensazione più distinta, sorprendente per me all’inizio e che, il trascorrere del tempo, ha trasformato in emozione. L’iniziale interesse verso la storia mi è sembrato quasi un gesto di cortesia. La luce negli occhi e nelle parole si è accesa con il passare dei minuti, quando nella storia hanno preso forma le persone, i luoghi, le emozioni, il perché di certe scelte e le conseguenze degli errori commessi. Questo ci ha resi complici e Cristina ha fatto una gran fatica a mantenere il “canovaccio” previsto per l’intervista. Forse è più facile partire volontario per soccorrere una popolazione colpita da un’alluvione che passare il pomeriggio ad insegnare a leggere al compagno di cella analfabeta. Forse, non so. Avevo questo dubbio ben prima di entrare in carcere, lo porto con me ora che ne sono uscito. È una bella sensazione. Qualcuno la chiamerebbe libertà. in modo tranquillo come fossi al bar a berti una birra. Nei momenti passati con loro ti accorgi di molte cose che ti portano inevitabilmente a fare delle riflessioni interiori. Una di queste mi è rimasta impressa in modo particolare. Ad un certo punto ho chiesto ad uno dei ragazzi com’era andata la settimana e mi ha davvero colpito la sua immediata risposta: “Bene, qui è sempre tutto uguale!”. Se una persona non è mai entrata in un carcere non si può rendere e non si renderà mai conto di quanto valore abbia quest’affermazione e cosa veramente voglia dire. Le persone che ho incontrato mi hanno trasmesso e mi hanno dato molto, hanno suscitato in me molti pensieri e spunti di riflessione. Mi hanno permesso di essere a mio agio e di dimenticarmi, per il tempo che abbiamo passato assieme, il luogo in cui ero! Spero di aver fatto lo stesso per loro, spero di avere lasciato qualcosa e che la mia presenza gli sia servita a distrarsi, almeno per qualche ora, dalla routine che vivono. Ringrazio tutti gli operatori dell’associazione I Ragazzi della Panchina e del carcere cittadino per l’esperienza che mi hanno permesso di fare. In conclusione vi lascio questa mia riflessione: l’ignoranza che le persone vivono o vogliono vivere fa sì che i pregiudizi nei confronti di determinate condizioni siano sempre molti, troppi ed alle volte i peggiori. Prima di parlare, ma ancora prima di pensare, bisogna vivere per capire!
Ho voluto essere un clown senza veli né misteri «Con i ragazzi sono stata bene, se non fosse per quelle quattro mura che ci separavano dal mondo» di Paola Vendramini Colgo l’interessante proposta di Valentina, una cara amica, che mi chiede: “Ti andrebbe di portare la tua esperienza di volontario claun di corsia nel carcere di Pordenone?”. Credo di aver riflettuto forse un paio di secondi, il tempo di respirare e non ho esitato a rispondere: “Si, certo!”. Conosco l’educatrice de I Ragazzi della Panchina che mi spiega un po’ di cosa si tratta questa mia comparsa e accetto ben felice. Baldanzosa, ma con il timore della prima volta, mi avvio, in quel venerdì pomeriggio, verso questa esperienza. Raggiungiamo il carcere di Pordenone, ovviamente luogo ignoto ai più ed anche a me. Entriamo dal quel cancello e tutto sembra ovattato, l’atmosfera del vecchio castello, che pare incantato, si confonde con le misure di sicurezza che difficilmente incontriamo nella vita, finalmente si entra e…slam, il portone di ferro si chiude! Siamo all’interno della struttura. Scale, corridoio, porta ed eccoci nella stanza dell’incontro. Sono tranquilla, l’argomento di cui devo parlare è una delle mie passioni da 6 anni, ci credo e vorrei tanto che il messaggio passasse anche a queste persone. Mi presento, cerco di ricordare i nomi dei ragazzi che mi accolgono con un sorriso, ma anche con qualche timore; l’argomento a loro è noto e mi sono ripromessa
3
di essere sincera, nessun velo e nessun mistero. Tra loro c’è chi mi guarda con aria sospetta, altri incuriositi e c’è anche chi sembra non essere molto interessato, ma è solo l’impressione iniziale. I ragazzi hanno preparato le domande, le hanno divise tra loro e, nonostante alcuni siano più timidi, iniziamo questa piacevole chiacchierata dai toni cordiali. Qualcuno ha cercato di provocare una mia reazione: essere un volontario ed utilizzare il proprio tempo per gli altri fa pensare che ci siano degli interessi sottesi, o forse, più semplicemente, che nonostante l’attività di volontariato del claun di corsia possa risultare divertente, ci possano essere ragioni di visibilità: questo lo intuisco dalle loro domande a ruota libera ed anche un po’ trabocchetto. Il tempo corre molto velocemente, ma tra noi c’è un clima festoso, con i ragazzi si sta bene, se non fosse che quattro muri ci separano dal resto del mondo, sembra di essere tranquillamente seduti a bere un caffè; il caffè però l’ho solo immaginato, perché in quella stanza c’è lo stretto necessario per accomodarci attorno ad un tavolo. Ho sentito la privazione…la privazione della libertà di un spazio stretto ed angusto, ma ho anche avvertito la necessità di portare a loro uno spiffero della quotidianità esterna.
Claudio, volontario appassionato «La sua vita è la testimonianza che fare ciò che piace e farlo anche per il bene degli altri è possibile e rende felici» di Andrea V. Quando si incontrano persone “speciali” non serve molto per capirlo, o almeno per me funziona così. Definire una persona come Claudio “il volontario del 118” è quasi dispregiativo e di sicuro non rende l’idea della passione, abbinata ad una grande professionalità e conoscenza nell’ambito del pronto soccorso anche in acqua, che lo anima. Indipendentemente dal suo lavoro e dal suo impegno all’interno della Croce Rossa, colpisce lo sguardo di quest’uomo intelligente, fermo, sicuro e soddisfatto. Una persona colta ed alternativa, un mix affascinante, soprattutto per chi ama andare oltre, fuori dai canoni comuni della società italiana. Claudio ha viaggiato molto, dalla Cina negli anni ’80 fino agli Stati Uniti, dove ha imparato i metodi di Soccorso in acqua. Padre di famiglia, Claudio appare soddisfatto delle scelte prese
La libertà della montagna nella testimonianza di Max «Sacrificio, volontà e il non poter dare nulla per scontato: questo è quanto viene richiesto al volontario del soccorso alpino» di Federico Penso che la montagna sia uno dei luoghi più belli che madre natura abbia creato. Rimango affascinato al pensiero di sentieri che svaniscono in mezzo alla fitta vegetazione, a ruscelli e torrenti d’acqua pura dove l’acqua si infrange sulle rocce. Il modo più bello di scoprire la montagna è partire dalla valle, percorrere quei sentieri delimitati dai pini, tracciati dal tempo, sentieri di roccia, dove devi andare in cordata per proseguire nel cammino. Pian piano si esce dalla vegetazione e si assapora quell’ambiente attraverso il calpestare l’erba fresca e soffice come un tappeto. Poi si arriva alla vetta e ci si accorge che tutta la fatica
fatta per arrivare non la si sente più. Ora senti la totale libertà, perché ti sei lasciato dietro tutta la fatica e ti godi il tuo premio: essere solo, in cima ad una vetta per gustare quello che i tuoi occhi vedono e la tua mente elabora. Per me, questa è la montagna, un luogo sacro, incontaminato, dove una volta arrivato ti senti davvero libero: di gridare, di distenderti sul prato e non pen-
4
nella sua vita, trasmette passione per ciò che fa, anche solo nell’esporre a grandi linee il proprio bagaglio di esperienze, non indifferente e tanto meno comune; è semplice nel lessico, ma quasi ipnotico per chi, come me, ha fame di conoscere da parte di persone interessanti brevi racconti di vita vissuta. Quest’uomo è la dimostrazione di come si può abbinare la passione con il lavoro ed il volontariato, il tutto traendone soddisfazione e felicità. E dico felicità perché non conosco un altro termine per esprimere la luce nei suoi occhi quando parlava dei suoi allievi, ragazzi con disabilità mentale. Claudio prima di salutarci ci ha lasciato un altro spunto su cui riflettere, o meglio, una sua riflessione personale: “Dedico tanto tempo al volontariato, ai miei ragazzi disabili, ma passano settimane senza che io vada a trovare i miei nonni”; non è mai facile trovare la giusta misura, il cosiddetto equilibrio tra lavoro, passione e sentimenti, e forse potremmo parlare di egoismo… non so, non spetta a me giudicare, d’altra parte anche Claudio è umano. Insomma, pendevo dalle sue labbra perché mi ha dato molti spunti su cui riflettere, tra i quali quello che fare ciò che piace, facendo anche del bene, è possibile e gratificante. Grazie Claudio. sare a niente, di sederti e goderti il magnifico paesaggio che la natura ti offre. In uno degli incontri del laboratorio Codice a s-barre, ci è stato presentato Max, un ragazzo che fa il volontariato nel soccorso alpino. Per un amante della montagna come me, l’incontro è stato molto costruttivo perché il nostro ospite, oltre ad essere una persona simpatica e alla mano, ci ha spiegato il suo operare in modo molto chiaro e semplice. Ci vuole tanto sacrificio e professionalità per fare questo tipo di attività, devi conoscere bene le montagne e non sottovalutarle mai. Tanto è vero che un giorno Max, caposquadra e con anni di esperienza nel soccorso, durante il recupero di una ragazza, è scivolato su delle foglie bagnate lesionandosi una spalla. Il salvataggio è riuscito, ma questo gli ha dimostrato che non bisogna mai dare nulla per scontato. Con lui, inoltre, ho avuto modo di esaurire delle curiosità del tipo che non è vero che se ti perdi devi seguire il Nord guardando il muschio sulle rocce, anzi devi stare fermo e aspettare l’arrivo dei soccorsi. Max, inoltre, ci ha mostrato attraverso un video un soccorso su un pendio roccioso, la preparazione e l’attrezzatura necessaria ed un altro recupero fatto in una forra, con una barella costruita in un modo tale permettere al ferito di respirare in caso di rovesciamento in acqua. Che altro dire?! I volontari del soccorso alpino sono ottime persone e le ammiro per il loro impegno e per i loro fondamentali interventi.
Tra le corsie di ospedale indossando il naso rosso «Formazione, sensibilità e la voglia di tornare bambini nelle parole di Paola» di Ubaldo Nella vita ci sono incontri che vale la pena fare anche per un breve momento. Uno di questi è stato quello con Monkey, una donna che rientra tra quegli italiani, positivi e pronti alle chiamate dense di significato e di impegno, che al normale tran tran quotidiano hanno scelto di affiancare l’attività di volontariato. In particolare, sono persone che si dedicano a coloro che sono meno fortunati e cercano di farli sorridere giocando, leggendo una fiaba, regalando un po’ di gioia, di calore, di affetto. In quest’ambito di grande umanità muove i suoi passi Monkey, al secolo Paola, architetto, che nel 2009, anno segnato dalla malattia del padre, decide di dedicare parte del proprio tempo alle attività di Onlus V.I.P. Claunando di Pordenone. Quest’associazione, che fa capo a V.I.P. (Viviamo In Positivo) Italia, riunisce circa 60 volontari della zona e realizza interventi soprattutto in alcuni reparti ospedalieri, oltre che nelle case di riposo. L’obiettivo è quello di rallegrare le giornate a gente sofferente attraverso la claunterapia. La parola claun, in questo caso, si scrive come si legge, in quanto si tratta di persone che mettono i panni del clown ma non sono professionisti della comicità. Ogni intervento è realizzato con la dovuta discrezione in quanto non vi è libero accesso alle stanze di degenza ed è possibile che non tutti possano o vogliano avere questi contatti. Oltre ad un corso di formazione, per svolgere quest’attività bisogna avere una grande dote: la capacità
5
di tornare bambini, con giochi, canzoni, scherzetti e monellerie. L’opera di Paola è principalmente indirizzata ai bambini, con la loro voglia di vivere e la speranza, non sempre ripagata, di guarire e agli anziani con un passato forse trascorso tra sacrifici, successi o insuccessi. Una curiosità: Paola è ospedalofobica ma, una volta trasformata in Monkey, non ha più paura di nulla; indossando un vestito da pagliaccio ed un naso rosso le risulta più facile entrare in luoghi dove sofferenza e dolore sono di casa e, davanti a persone meno fortunate, sdrammatizzare sulle crudeltà della vita. Paola ci ha detto, inoltre, che è importante vedere di ogni cosa il lato positivo al fine di trasmettere ai pazienti la voglia di vivere; la sua ricompensa sono il sorriso e la gratitudine di quanti, grazie a lei ed a questa Onlus, riescono a dimenticare per un po’ la propria situazione e a non perdere la speranza. Sicuramente l’adrenalina non è una caratteristica di tale attività, la quale riserva comunque forti emozioni, specie quando ci si affeziona ad alcuni pazienti e si rischia di essere meno lucidi nel proprio agire. Infine, Paola ci ha insegnato che chiunque, se motivato, può mettere a disposizione degli altri il proprio tempo, riuscendo non solo a far del bene, ma traendo un personale beneficio attraverso un percorso di crescita interiore. Questo genere di opera riempie il cuore di una serenità profonda, che non ha niente a che fare con la letizia superficiale di un momento.
La Casa Circondariale di Pordenone vista con gli occhi del volontario «Da diciassette anni presto la mia opera di assistenza in carcere con gli Alcolisti Anonimi. Lavoro con il detenuto, ma anche per il detenuto» di Piero
resto nessuno salva il mondo, ma tutti possono fare qualcosa per aiutare il prossimo. Il volontario in carcere presta la sua assistenza per coprire le carenze della struttura e per aiutare l’opera di rieducazione. Quali pensi siano le carenze oggi degli istituti di pena in Italia? Quale aiuto possono dare i volontari e in particolare cosa si potrebbe migliorare nella Casa Circondariale di Pordenone? Penso che una delle maggiori mancanze degli istituti di pena in Italia sia legato alle difficoltà di reinserimento dell’ex detenuto, perché mancano risorse e strutture per chi è solo, senza legami, dopo il fine pena. Riguardo al carcere di Pordenone, nonostante le carenze strutturali, rilevo un clima familiare. Esistono delle difficoltà, comuni però anche alle altre carceri italiane, e difficili da risolvere. Una riforma del sistema carcerario può ovviare a queste carenze e a tuo parere cosa si può fare? Penso di sì, però deve essere una riforma di grande respiro, quasi utopica ma possibile. Bisognerebbe pensare che la reclusione non sia l’unica soluzione per chi sbaglia. Come andrebbero responsabilizzate le persone in un luogo in cui il concetto di responsabilità è inteso come obbedienza? Una persona deve assumersi la sua responsabilità, soprattutto quando sbaglia. Un detenuto deve elaborare il suo sbaglio e solo accettando la punizione può intraprendere la via della consapevolezza.
Giacomo M. fa parte dell’associazione Alcolisti Anonimi e, dal 1999, è un operatore volontario, quindi da ben diciassette anni presta il suo servizio presso la Casa Circondariale di Pordenone. Cosa ti ha spinto ad entrare nel volontariato? Il tutto è iniziato in maniera quasi egoistica, perché diciannove anni fa ero un etilista e, poiché uscire da una dipendenza è possibile ma poi è difficoltoso mantenere l’astinenza, l’attività svolta in carcere è servita per mettere a disposizione degli altri la mia esperienza di alcolista e al contempo a restare sobrio. Dopo aver ottenuto l’articolo 17 dell’Ordinamento Penitenziario, che mi autorizza a fare il volontario in carcere, ancora oggi presto il mio servizio all’interno della struttura come conduttore del gruppo Alcolisti Anonimi (A.A.) che è stata la prima Associazione di Promozione Sociale a entrare in carcere a livello nazionale. La Casa Circondariale di Pordenone ha fatto da apripista essendo il primo istituto ad aver accolto nel 1989 quest’associazione.
È stato difficile entrare nel mondo del volontariato? A causa della mia dipendenza ho iniziato a frequentare il gruppo A.A. e poi, grazie alla richiesta di chi già operava, sono entrato a farne parte come persona attiva cominciando la mia opera come volontario. Inizialmente era per stare lontano da questa dipendenza, poi per aiutare coloro che, deboli come me, non riescono a venirne fuori da soli. Hai avuto soddisfazioni o difficoltà nell’aiutare il prossimo? La mia volontà di aiutare gli altri è stata agevolata dal mio essere molto empatico e fiducioso nel prossimo, e così mi sono sentito appagato per l’opera svolta in favore di chi si trova in stato di bisogno, specialmente nel dopo carcere. Soddisfazioni quindi ne ho avute tante e tuttora, benché abbia un po’ ridotto la mia attività, in molti mi contattano. Questo però non significa che non abbia avuto difficoltà, delusioni o, meglio ancora, che non sia stato ingannato; nonostante tutto non smetto di seguire l’istinto e il mio desiderio di aiutare gli altri. Del
6
La tua opera presso la Casa Circondariale può essere identificata come un lavoro con o per il detenuto? La mia opera di assistenza è con il detenuto ma anche per il detenuto, quindi principalmente riabilitativa e nel frattempo di sostegno. Ritieni che la tua attività sia l’azione giusta al fine di rieducare e riabilitare i detenuti? Il contributo che offro con la mia attività ha lo scopo di un cambiamento del detenuto nei confronti di se stesso e della vita, quindi riabilitativo. Ma nonostante io creda che questo non basti, è comunque un tentativo che alle volte porta buoni risultati. Cosa si dovrebbe fare per abbattere quel muro che crea due mondi separati e che divide i “buoni” dai “cattivi”? Secondo me, purtroppo, non è possibile abbattere quel muro perché il mondo del carcere non interessa all’esterno e questo è un male, perchè penso che ci siano parecchie risorse da investire e azioni da realizzare a favore della popolazione detenuta.
Volontari per una Trieste ripulita dai rifiuti Il gruppo è nato due anni fa sui social per riportare alcune aree all’originario decoro di Gianluca Fino a qualche mese fa facevo parte di un gruppo Facebook chiamato “Volontari per Trieste pulita”, che è attivo da ormai un paio di anni e ha lo scopo di sensibilizzare la cittadinanza sui problemi di pulizia in alcune zone della città di Trieste. Inizialmente il compito del gruppo era quello di ricevere foto e segnalazioni dai cittadini relativamente ai cumuli di immondizia presenti soprattutto nelle zone meno turistiche della città e ai graffiti che purtroppo tappezzano fontane, monu-
menti e i muri degli edifici del centro, oltre che i veicoli pubblici e privati, per poi far notare il problema anche al Comune nella speranza di un intervento da parte sua per risolverlo. Poi, vedendo l’immobilità delle istituzioni, alcuni di noi, circa una ventina di persone, hanno deciso di fare anche volontariato attivo. Durante la settimana decidevamo una zona da ripulire e quante persone servivano per quella azione. La domenica mattina ci si ritrovava sul luogo prestabilito arma-
A 40 anni dal terremoto, non dimentichiamoci dei volontari «Noi saremmo capaci di essere come loro: persone che si prodigano per il prossimo?» di Andrea B. Ho visto quello che è stato realizzato per ricordare, a distanza di quarant’anni, il tragico evento del terremoto in Friuli. Confesso che provo sentimenti contrastanti per questa celebrazione. Arrivo fin al punto di chiedermi se era necessario o, più che altro, giusto celebrare. Per una settimana tv e stampa locali hanno messo in prima pagina il ricordo del dramma di quei giorni ed il percorso di ricostruzione di queste terre, elogiando il ruolo dell’esercito e dello Stato, ma parlando ben poco del lavoro straordinario dei volontari, che si sono adoperati giorno e notte, sempre gratuitamente, forse solo per sentirsi dire “grazie”. Un lavoro, quello dei volontari, che a distanza di quarant’anni sembra essere stato dimenticato. Non sono, infatti, stati ricordati in modo adeguato e non è stato messo in luce come il volontariato tuttora abbia un ruolo fondamentale nella nostra società. Tra i volontari, per menzionarne alcuni, sono presenti coloro che
operano con la protezione civile, gli animatori in corsia (ospedale), il soccorso alpino e gli stessi volontari che vengono in carcere per darci anche solo un po’ di supporto morale e psicologico. Ora sta per calare nuovamente il silenzio sull’evento terremoto e, probabilmente, ci ritroveremo a celebrare questo momento fra dieci anni, come se fossimo dei reduci di una “grande guerra”, come se questa celebrazione ci appagasse di un qualcosa che ci
7
ti di sacchi neri, guanti, pale e tanta buona volontà. I volontari di questo gruppo sono persone con esperienze diverse e provenienti da molteplici realtà lavorative: ci sono operai, casalinghe, imprenditori, un fruttivendolo, un’assistente sociale ed un avvocato molto conosciuto in città, che è uno dei fondatori del gruppo. Tra le operazioni più impegnative che abbiamo realizzato, ci sono state le pulizie di un parco nell’immediata periferia della città, dove abbiamo raccolto di tutto, e la pulizia del bosco che circonda l’autoporto, dove abbiamo riempito cinque cassoni forniti dalla ditta che si occupa della raccolta dei rifiuti a Trieste. Questa attività, nonostante sia decisamente impegnativa dal punto di vista fisico, dà molta soddisfazione, in quanto si nota la differenza tra com’era il posto prima del nostro intervento e come appare dopo. Questo ripaga pienamente della fatica fatta, ma tenere pulito e presentabile ogni angolo della nostra città, come i parchi e i boschi, deve essere comunque un dovere civico di ogni cittadino.
manca. Spero che in quell’occasione siano ricordati anche i volontari. La mia domanda è però: “abbiamo bisogno di queste celebrazioni?” La ricostruzione del Friuli, a mio modesto avviso, è stata solamente un fatto “normale”, ma che per essere tale ha avuto la necessità, oltre che la fortuna, di incontrare nel suo cammino dei volontari caratterizzati in primo luogo da due valori: spirito di sacrificio ed onestà. Oggi, cari signori, un terremoto del nono grado della scala Mercalli, che Friuli, ma soprattutto, che persone troverebbe? Da quella normale ricostruzione cosa abbiamo imparato? E non parlo dei politici o delle istituzioni, parlo di noi, perché noi siamo politica, lavoro, sviluppo, in poche parole siamo quello che agiamo/realizziamo/viviamo. Oggi saremo capaci di essere semplicemente persone normali che si prodigano per il prossimo e per la propria terra? Con l’augurio di sbagliarmi, la mia risposta è no, o almeno non tutti. Credo che non siamo più quel tipo di persone, pronte a spendersi per gli altri, anche se viviamo in un momento storico dove sarebbe, per altri tipi di terremoti, necessario più che mai essere così. Per tutto questo, di quel lontano 6 maggio 1976 voglio ricordare ed inchinarmi davanti ai suoi morti ed ai volontari, che tanto hanno fatto. Il resto, quello che è successo, è soltanto quello che ogni giorno dovrebbe succedere: essere semplicemente pronti a essere “normali” volontari.
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada de I Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009 Direttore Responsabile Milena Bidinost Capo Redattore Cristina Colautti Redazione Claudio Deiuri, Massimiliano Cacitti, Paola Vendramini, Andrea V., Federico, Ubaldo, Piero, Gianluca, Andrea B., Andrea S., Chiara Zorzi, Marta Quarin.
I ricordi del “mio” carcere chiusi in cassaforte «Una volta fuori, grazie a I Ragazzi della Panchina mi sono tenuto lontano dalle ricadute. Oggi collaboro con la redazione» di Andrea S. Sono Andrea, ho 50 anni e ho iniziato a venire alla sede de I Ragazzi della Panchina perché avevo toccato il fondo di nuovo, ricadendo con le sostanze, e mi è stato suggerito dal mio medico di frequentare la sede, principalmente per sostentarmi fisicamente: per problemi personali non avevo la possibilità di mangiare a casa e con la ricaduta erano ricominciati i soliti problemi di un tossicodipendente quali le perquisizioni a casa, la solitudine, il deperimento fisico. Stando in sede ho iniziato a ragionare sulla mia situazione, sul futuro che avrei avuto se avessi continuato ad usare sostanze e ho pensato che questo luogo poteva essere un posto che mi levava dalla solita “sporcizia” legata al mondo della droga, così ho continuato a frequentarla quotidianamente. In sede riesco a sentirmi sereno, gli operatori hanno sempre una parola buona da trasmettere e andarci mi stimola a prendermi cura di me stesso, a tenermi in ordine, a non utilizzare sostanze e a relazionarmi con le persone; inoltre qui ho libertà di parola, posso confrontarmi con gli altri e piano piano sto imparando parecchie cose che si fanno fuori dall’associazione, tra cui il progetto Codice
a s-barre. Un giorno gli operatori mi hanno chiesto se mi andava di aiutarli a trascrivere gli articoli dei detenuti del carcere di Pordenone. Io ho accettato volentieri, perché mi sembrava il minimo che potevo fare per ricambiare quello che ho ricevuto in Associazione. Quando trascrivo i testi dei detenuti sono troppo impegnato a decifrare la loro scrittura, poi sono un dilettante con il computer e queste cose mi portano a concentrarmi molto sulla forma piuttosto che sul contenuto. Quando mi fermo a rileggere i loro testi però, vedo che parlano poco della loro carcerazione e questo è positivo e necessario perché chi sta in prigione ha bisogno di continuare a pensare alla vita fuori per non impazzire ed inoltre, a me aiuta a non pensare tanto a quel maledetto carcere che ho vissuto per 6 lunghi anni. A volte però quei testi mi hanno riportato alla mente tante emozioni… non posso fermarmi e raccontarvi cosa ho visto e ho vissuto, altrimenti farei scappare qualche lacrimuccia a qualcuno. Ve lo dico dal profondo del mio cuore… pensavo di non farcela, ma oggi sono qua contento di avercela fatta e ora posso chiudere i miei ricordi del carcere nella cassaforte della mia mente.
8
Editore Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Creazione grafica Maurizio Poletto Impaginazione Ada Moznich Stampa Grafoteca Group S.r.l. Via Amman 33 33084 Cordenons PN Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 1 e 7 dal sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/Main_ Page Foto a pagina 2, 3, 4, 5 e 6 a cura degli autori degli articoli. Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione con il Dipartimento delle Dipendenze di Pordenone Associazione I Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone Tel. 0434 082271 email: info@iragazzidellapanchina.it panka.pn@gmail.com www.iragazzidellapanchina.it Pagina FB: La Panka Pordenone Profilo FB: Panka Pordenone Youtube: Pankinari Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930 La sede de I Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00