L'irrequieto - Numero 22 - Giugno 2016

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris Giugno 2016 www.irrequieto.eu redazione@irrequieto.eu © Giacomo Braccialarghe


DIREZIONE Alessandro Xenos, Donatello Cirone

REDAZIONE Donatello Cirone, Alessandro Xenos

CONCEZIONE E REALIZZAZIONE GRAFICA Luigi Balice

DISEGNI E LOGO Giacomo Braccialarghe

WEBMASTER Donatello Cirone

INFORMAZIONI E COLLABORAZIONI info@irrequieto.eu / redazione@irrequieto.eu

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In questo numero Attimi di Lina Liebe Tanti casti baci di Donatello Cirone Beyond reason di Roberto Pireddu Il passaggio in auto (11a parte) di Alessandro Xenos Il pugile in palestra di Nino Crociani LE MUET di Gianmarco Blasi Aracne di Andrea Bondini Tabula rasa di Mara Abbafati ma/re #17 di Roberto Pireddu Madre tu che m’inchiodi di Giuseppe Semeraro Joyeux anniversaire di Nicola Lonzi Le ultime crispe di marzo di Riccardo Socci


Attimi

© Lina Liebe

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Tanti casti baci Donatello Cirone

I primi giorni di maggio erano arrivati insolitamente freddi e piovosi, la stazione era avvolta dall’umidità e dal silenzio, interrotto solamente dal latrare infreddolito di qualche cristo sopravvissuto all’inverno. Al binario 7 Yion dormiva raggomitolato sotto un paio di cartoni. Non tutti riuscivano a scansarlo, c’era chi, ricordando i tempi passati nella squadra di atletica lo saltava e librandosi nell’aria urlava: “Libertà”. Al binario 5 Anna piangeva la figlia morta due giorni prima di freddo, a singhiozzi e a bassa voce ripeteva: “Non si muore di maggio. Non si muore di notte. Non si muore al binario 5.” Fuori dalla stazione in Via Retto, alla fermata del 33, Rosa e Vincenzino urlavano, si davano baci a schiocco, si leccavano come se si dovessero lavare il viso a vicenda, lei gli infilava le mani sotto la camicia, lui si avvinghiava al suo corpo, la strattonava, la stringeva:

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– Vieni qua, vieni qua! – Sono già qua! – Vieni qua. Vieni qua! – Sono già qua! – Eddai vieni qua, vieni qua! – Oh sono già qua! – Ah sì, scusami non me ne ero accorto! In quei cinque minuti di attesa, la maggior parte delle persone alla fermata si allontanava. Linda e Melinda, le sorelle Piano, vomitavano ogni volta, lo facevano delicatamente, dentro una bustina nera che poi adagiavano nel cassonetto. Antonia invece li guardava carica di desiderio. – Vieni qua bella mia! – Sono qua bello mio! – Ti faccio vedere io! – Ma cosa mi fai vedere? – Ti faccio vedere io bella mia! – Oh, embe’ che mi fai vedere? – Non lo so!

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Salivano sul bus tenendosi la mano, incrociando le lingue, urlando, dandosi pacche sulla spalla come rugbisti eccitati. Si sedevano sempre allo stesso posto, uno di fronte all’altra e durante i cinque minuti di tragitto dalla fermata Fosso della Santa a Via Incoronata Pia Maddalena restavano in silenzio, si guardavano fissi negli occhi, non si distraevano per nessuno motivo. Cinque intensi e lunghi minuti. Alla loro fermata scendevano, si salutavano con un bacio casto e amichevole sulla guancia e si separavano: – Buona giornata Vincè! – Buona giornata Rosettì! – Ci vediamo domani? – Non lo so, secondo te ci vediamo domani? – Boh, non lo so.

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Beyond reason

Š Roberto Pireddu

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Il passaggio in auto parte undicesima

Alessandro Xenos

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Feuilleton

L’orologio segnava le 20 e 10 quando ricevette il messaggio di conferma. « È lui ». In quell’istante una piccola insignificante nuvola coprì la lenta discesa del sole distraendo Estelle dai suoi pensieri e come un neo che magnifica la bellezza di un viso, la spinse a contemplare la limpidezza del cielo. Un’immagine ordinaria e pertanto infinitamente mutabile che solamente un dettaglio permette di rivalutare attraverso un nuovo sguardo. Ecco la direzione verso la quale dirigere le sue ricerche. Doveva capire cosa era cambiato nella sua relazione con Sebastian. L’abitudine aveva accecato il suo senso dell’osservazione e nessuna metodica costruzione investigativa le avrebbe permesso di rimediarvi. Iniziò a ripensare alle settimane precedenti, quando d’un colpo una mano toccò la sua spalla.


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– Adrien! Accidenti a te, mi hai spaventato! – Sapevo che ti avrei trovato qui, il tuo posto per riflettere. (risatina) Solo una matta come te può venire in un parco pieno zeppo di gente per trovare la concentrazione. Ho dovuto scansare almeno due palloni, un frisbee e qualche cane per raggiungerti. Puoi guardarmi sotto le scarpe e dirmi se ho pestato qualcosa? – No, non c’è niente. – Allora c’è qualcuno che puzza, ti sei lavata stamattina? – Senti, Adrien, cosa vuoi? Perché mi sei venuto a cercare? – Scherzo, non ti arrabbiare. Sei troppo nervosa, dovresti farti una risata ogni tanto! Ti ho già raccontato la barzelletta su Adamo ed Eva? – Non mi sembra il momento di scherzare, la situazione è molto seria. – Va bene, ho capito, vieni con me allora, ho scoperto dove abita Jérôme. I due si incamminarono verso il Corso Gambetta e da lì imboccarono la salita dell’Avenue de Lodève. Qualche attimo dopo una Yamaha R6 entrò in contromano in rue de la Merci e fatta una ventina di metri si fermò davanti alla casa dove abitavano Sebastian, Momo e i loro coinquilini. Il pilota smontò di sella e senza togliersi il casco si avviò verso il portone. Dalla cucina Rebecca, l’affascinante coinquilina veneta di cui Momo era segretamente

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innamorato, vide entrare un trentenne rinsecchito con i pantaloni strappati, una camicia a quadri troppo larga per le sue spalle a forma di gruccia e uno zaino da motociclista. – Sebastian, che piacere vederti! – Ciao Rebecca, che buon odore! Pizza stasera? (scimmiottando l’accento italiano) – Sì, señor, ma non sapevo che saresti tornato, spero che basti per tutti. – Non ti preoccupare, tanto non credo di fermarmi molto. – Riparti subito? Dai, potresti passare una serata con noi ogni tanto. – Hai ragione, scusa, ma ho molto da fare ultimamente. Hai visto Momo? – Sì, è su in balcone con gli altri, vai pure, io vi raggiungo tra un po’. – Va bene, grazie.

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Salì le scale e come prima cosa entrò nella sua camera. Da qualche tempo aveva deciso di chiuderla a chiave per evitare che qualche curioso si mettesse a frugare tra le sue cose. Si era giustificato dicendo che non voleva che gli ospiti vedessero le piantine di cannabis che coltivava nello sgabuzzino, ma Momo aveva capito che stava nascondendo qualcos’altro. Aprì l’armadio e ripose una decina di fasci di banconote in un sacchetto della spazzatura, poi si sdraiò sul letto e chiuse gli


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occhi. Quando qualcuno bussando alla porta lo svegliò, gli sembrò di aver dormito una notte intera, eppure erano passati solamente dieci minuti. Ancora mezzo intontito andò ad aprire. – Guarda che è pronto. – Oh, ciao Momo, sì, arrivo tra un minuto. – Beh? – Beh cosa? – A che punto è l’affare? – Tutto a posto, il becchino è in viaggio, dovrebbe arrivare prima di mezzanotte, perché ti preoccupi? – Mi preoccupo perché non hai idea del casino in cui ti sei messo, quelli ti squartano se qualcosa va storto. Ti rendi conto del rischio che corri? Lo sai che Estelle sta interrogando tutto il quartiere per sapere dove sei, non vorrai che le facciano del male? – Estelle, cosa? Quella è matta, la devo fermare prima che faccia cazzate. – Se lei è matta tu sei il re dei matti, devi imparare a riflettere amico mio. La tua fame insaziabile di nemmeno sai cosa ti porta a compiere delle azioni stupide, a prendere strade buie e desolate da cui la tua simpatia non ti permetterà di uscire. – Non mi fare la morale Momo. – Non vuoi parlare di morale? Va bene, parliamo della tua collera

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allora. Dammi una spiegazione a questa reazione smisurata di rigetto della società da parte di un giovane istruito e di buona famiglia che decide di abbandonare gli studi per dedicarsi a una vita da gangster. I soldi? Non credo. Penso piuttosto che tu stia fuggendo la tranquillità per disprezzo degli altri, di coloro che conducono un vita « normale », banale e senza rischi, e che tu non abbia la minima idea di come gestirtela. Non è per anticonformismo, perché, guardati, tu stesso ti lasci portare dal vento, non hai idea di dove stai andando, e io non sarò sempre qui a salvarti il culo. – Certo, io non so e non posso capire, solo tu che sei nato a Marsiglia in mezzo alla merda puoi saperlo. (spintonandolo per uscire) Momo lo colpì con un sinistro sulla guancia, lo afferrò per il codino e schiacciò la sua testa contro la porta. – Vai a prendere un po’ d’aria e a cercare la tua ragazza, poi torna quando sarai più lucido.

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Feuilleton

CONTINUA NEL PROSSIMO NUMERO


LE MUET Gianmarco Blasi

Potenza, secondo dopoguerra. Un lucano soprannominato il biondo, da poco sposato, ha bisogno di portare il pane a casa. Emigra. Lascia la sua terra, con sua moglie, va a lavorare a casa del vecchio nemico: la Francia. Tra le cose che in valigia non ci stanno: l’olio d’oliva, la pasta di casa e, soprattutto, la nobile arte. Il pugilato. Sì, il nostro biondo è un pugile, un ottimo pugile, uno dei primi potentini ad inforcare i guantoni. Deve dire basta, sul più bello, c’è la famiglia da campare. Deve dire basta, ad un passo dal sogno, dal professionismo. Tutti quegli incontri, i pugni presi, i compagni. Deve salutare, il suo maestro, la sua Potenza, il suo

Il pugile in palestra © Nino Crociani

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E non era possibile…”.

amico, grande campione Rocco Mazzola. C’è la Francia. Burro per cucinare, aringhe, baguette. Una soffitta spartana, dove vivere. Il ferro da martellare. I soldi, la moglie e chi lo sa, un figlio. Ma un pugile è un pugile, lo è per natura primordiale. Il biondo va in cerca di una palestra dove tirare di boxe. La trova a Lilla.

Ed invece, una domenica di settembre del 1957 l’occasione arriva. La piccola squadra è invitata ad un festa per un mercato del sidro, una bibita alcolica la cui materia prima è la mela, dalla quale si ricavano anche alcuni distillati. Il più famoso è il Calvados. Si tratta di una produzione che caratterizza proprio le campagne del Nord della Francia. Il Borgo dove si svolge una sorta di “olimpiade rurale” è Danain ed è vicinissimo ai confini con il Belgio. Il peso medio, Thomas, non può partire. Fa il fornaio e nessuno può sostituirlo. Il Maestro ci pensa su poi si rivolge al biondo. Evita di parlare, diremo che hai subito un’operazione alle corde vocali e non puoi parlare, rischi di restare muto. Nella squadra la complicità è totale.

“Non è per presunzione. Non ce n’era uno alla mia altezza pugilistica. Tutti bravi ragazzi, anche se nelle prime settimane mi guardavano in cagnesco. Quasi mi rifiutavano. Poi divenni pian piano una specie di assistente di Monsieur Philippe, il loro maestro. Davo consigli, incrociavo i guantoni in allenamento. Ricordo che la loro boxe era più statica. Poca tecnica, forse per scarsa tradizione. Alla fine ero diventato un istruttore. Ma volevo combattimenti veri.

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contro pugili venuti da Gand in Belgio. Quando inizia il mio incontro commetto un errore gravissimo. Ho la guardia bassa, mi sento invincibile. Il mio avversario un mancino più pesante di me, mi coglie in fallo e mi tira un gancio largo che mi colpisce fra occhio e faccia. Cado a terra. Vengo contato… mi alzo. Un rivolo di sangue sotto l’arcata. Mi tamponano. Il mio maestro mi fa cenno con la mano ‘smettiamola qui!’. Manco a dirlo. Mi alzo dall’angolo, tiro un calcio allo sgabello di paglia e mi metto in guardia alta. Comincio a danzare. Il pubblico mi incitava: ‘Allez le muet, frappe-le!’ – ‘Forza muto. Picchialo!’ Così, piano, piano, iniziai la mia boxe… mi isolai, sentivo un eco. La voce di Silvio Nocera quasi sussurrarmi : “Gira e usa il sinistro, prendi la misura, dai che è sulle

L’incontro è il secondo della giornata. Il biondo inizia con il suo solito balletto di spalle e bacino. Guardia bassa, ad irridere l’avversario. Errore fatale. Il belga è lento ma potente. Un colpo mancino del fiammingo arriva a bersaglio, una bordata. Il biondo cade, l’arbitro conta. Ma la fame, in Francia come nelle risse di via Pretoria, è la stessa. Il colpo subito procura un taglio al biondo. Il Maestro gli grida di smettere. Manco a dirlo. Il biondo guarda Philippe ma vede Nocera, il suo maestro di Potenza. E’ come se sentisse suo fratello Mazzola rimproverarlo come mille volte accadeva: “Franco la guardia, non fare lo sbruffone!” “Non c’era un vero e proprio ring. Le corde erano tenute alla meno peggio da quattro pali di legno piantati nel terreno, al centro della fiera. Combattiamo

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gambe ! Forza biondo…’’ Inizia la terza ripresa. Il biondo colpisce ripetutamente di sinistro, poi si fa sotto. Eccolo il suo gancio destro al mento e poi, in rapida successione, un sinistro largo ed un diretto destro. Denti stretti, sguardo cattivo. Il biondo è tornato. L’avversario è a terra. Si alzerà solo dopo essere stato contato. E’ k.o. La piazza di Danain, una bolgia : «Muet, t’est fort, les muets sont les meilleurs» – «Muto sei forte, i muti sono i migliori». “Non sapevo se ridere o piangere. Rifiutai qualsiasi altro combattimento. Se mi volevano ero Franco Blasi, un italiano, un pugile. Non volli neanche i soldi che erano stati raccolti fra la gente. L’usanza era premiare i pugili vincenti con una colletta. Li lasciai al ragazzo belga che avevo sconfitto, ma che aveva onorato, con un grande combattimento, il nostro confronto.”

Franco Blasi

Ispirato ad una storia vera, tratto dal libro di Gianmarco Blasi: “Il biondo, un pugno alla guerra l’altro per ricominciare”. Per informazioni scrivere a Info@sudaltro.com

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Aracne © Andrea Bondini

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Mara Abbafati

– Papà, non me lo voglio portare il secchiello, gridò Leo dalla cima della rampa di scale. – Ma ti piaceva tanto. – Quando ero piccolo. – Hai sette anni, sei ancora piccolo. La cantina puzzava di muffa e di topi morti, avrebbe preferito non doverci entrare ma le cose del mare in casa non ci stavano. Leo faceva sempre i compiti sul tavolo della cucina perché nella sua cameretta non c’era spazio nemmeno per la scrivania. Il padre tornò su con una borsa di plastica rossa, dentro c’erano un paio di asciugamani, un tubetto di crema solare incrostato di sabbia, un paio di sandaletti di gomma blu e un giornale di enigmistica. – Non l’hai preso il secchiello? – No. Ci hai ripensato? – Macché. 21

Tabula rasa

Suo padre scese le scale per andare in cantina, era buio, armeggiò sulla serratura per infilare la chiave e quando finalmente riuscì ad aprire la porta fu colpito in faccia da un tanfo asfissiante. Tossì e sputò a terra un rigurgito acido che gli era risalito dalla bocca dello stomaco vuoto. Quando toccò l’interruttore la luce emise un lampo. Si era fulminata.


Entrarono in casa, Leo si fermò nell’ingresso e si provò i sandali, ma il piede gli era cresciuto e non riusciva nemmeno a infilarseli. – Quando mi porti dai nonni? – Domani mattina. – Non ci voglio andare. – E con chi ti lascio adesso che la scuola è finita? – Ci so stare a casa da solo. – Sei piccolo. Squillò il telefono, Leo prese i sandaletti blu, andò in cucina e li buttò nel secchio sotto il lavello. Poi aprì il frigorifero, prese un succo all’albicocca, accese la televisione e si mise a guardare un cartone. La telefonata prese una brutta piega, suo padre urlava e lui dovette alzare il volume per riuscire a seguire quello che stava succedendo nell’episodio di Yattaman. Poi si sentì sbattere la cornetta «Leo, devo uscire. Guarda i cartoni, io torno subito». Yattaman finì e poi finirono anche Carletto e Mazinga, ma suo padre non tornava. Leo spense la tv e se ne andò in cameretta a dormire, con l’abat-jour accesa. Si svegliò in piena notte con il fiatone, un incubo lo aveva scaraventato in fondo al letto, corse in camera di suo padre ma lui non c’era e non era nemmeno in cucina, né in bagno. Sentì un po’ di paura battergli nel petto, da dentro, faceva un rumore sordo e bruciava gli occhi. Aspettò ancora un po’ finché l’alba non comparve alla finestra e allora si decise a chiamare i nonni. Il padre di Leo sembrava scomparso nel nulla, non c’era nessuna traccia

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né di lui né della sua macchina, lo dissero anche qualche giorno dopo a Chi l’ha visto? e continuarono a dirlo per diverse settimane, finché il fatto non venne completamente dimenticato da quelli del programma e anche da tutti gli altri. Leo, invece, se lo ricordò per parecchio tempo. Se lo ricordò il giorno in cui dovette prendere tutte le sue cose dalla cameretta e portarle dai nonni, quando dovette cambiare scuola, quando non seppe a chi raccontare di come si sentiva infuocare le guance quando passava Marina della terza B nel corridoio della scuola media. Poi un giorno Leo venne investito dal 38 barrato mentre attraversava via dei Mille per andare a comprare il latte scremato che gli aveva chiesto sua nonna, restò incosciente per quasi dieci giorni e al risveglio non ricordava più nemmeno il suo nome. «Leo, Leo!» lo chiamavano i nonni, ma Leo non si girava, per i primi mesi andò sempre in questo modo, poi si abituò a quel nome e iniziò a voltarsi. Alcuni si illusero che gli fosse tornata la memoria, ma non era così, era solo l’abitudine. L’abitudine illudeva gli altri. Ma Leo sapeva benissimo, quando si guardava allo specchio, di non essere nessuno.

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ma/re #17

Š Roberto Pireddu

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madre tu che m’inchiodi a quest’asse gelido e nel mio cuore cerchi una strana resa, l’indulgenza del bene, non immolarmi alle prediche alle coperte del corpo lasciami il panorama del dolore il belvedere del rischio lo conosci bene, mi tengo stretti i brividi tra gli occhi e l’anima tra me e te gli anni non sono mai abbastanza, recito con te tutti i tuoi infarti con te sto dietro a una finestra più triste di noi a imbalsamare giorni parlando di qualche cura di qualche ricetta delle rose da potare e di qualche infanzia ormai defunta per sempre

Giuseppe Semeraro

Madre tu che m’inchiodi 25


Joyeux anniversaire Š Nicola Lonzi - serigrafia 2016 - Per gentile concessione di Marta Rossi.

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Le ultime cispe di marzo te le sfilo con cura dagli occhi, come virgole di troppo.

Riccardo Socci

Le ultime crispe di maggio

Dai fossi i lombrichi in silenzio riprendono l’ascesa, sotto cespugli rattrappiti e un pigolio di elettrodotti. Ci pesa al collo questo tartagliare di linfa, sentire le arterie gonfiarsi a rilento. Fosse per me, ti sveglierei una volta soltanto, con le persiane ancora chiuse. Ti direi buongiorno e non sapresti mai quanto sonno ci vuole per far nascere un fiore.

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris


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