L'Irrequieto - Numero 33 - Giugno 2017

Page 1

33

rivista letteraria

Giugno 2017



L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris

© Giacomo Braccialarghe

Giugno 2017 www.irrequieto.eu redazione@irrequieto.eu

In copertina “Giochi in spiaggia” di Ilaria Cerutti


Direzione Alessandro Xenos, Donatello Cirone

Concezione grafica Antonella Restagno

Realizzazione grafica Donatello Cirone

Logo Giacomo Braccialarghe

Informazioni e collaborazione redazione@irrequieto.eu


numero

In questo di Ferdinando Morabito

Pace “Low Tide”

di Bartolomeo Pampaloni

Nuvole senza contorni

di Donatello Cirone

“Mermaid friends”

di Siariana Crastolla

di Eva Luna Mascolino

Fratelli d’Italia “Carly”

di Francesca Ligios

di Fabio Cardetta Il francese inesistente di Nicola Lonzi “Macchie 004”

di Giampaolo Giudice di Domenico Giovanni Della Rocca

di Giada Tommei di Camille Gandon

di Gaia Tomassini di Emiliano Cribari

Vincenzo Carriero

“Giochi in spiaggia”

Di ponti e sensi di colpa “Grow up”

A colloquio con Rossella

“Piccolo Sud #118”

La marchesa

di Evelyn Valenziano “Vitamorte”

“Flyin’ home”

I miei eroi

di Ferruccio Mazzanti di Iaria Cerutti

L’anno in cui sembrò piovere per sempre


Pace di Ferdinando Morabito Perché parlare? Posso pensare…purché prima…praticamente…pausa. Proviamo. Parlare provoca pericolosi precedenti. Perdi poesia, posizioni, prestigio. Pensare può portare promettenti premi, previsioni pacate, preziose personalissime perle pregiate, programmi puliti: pensieri puri. Premessa: pensiamo, però poi parliamo. Prima però, pensiamo. Profondi problemi pendono pericolosamente. Pistole puntate possono privare persone premurose, padri

“Low Tide” di Bartolomeo Pampaloni

6


perfetti, piccole pesti, pensionati. Possono portare perdizione. Pensare, poi parlare. Persino Platone prima pensava. Pure Proust pensa, poi parla. Può preservare popoli. Purtroppo parlare provoca pericoli. Parole prorompenti possono portare paura. Parole patetiche provocano pressioni pericolose. Popoli provati perdono presto pazienza. Poi… Parlare per provocare. Peccato. Parole preziose perse. Parlare per punzecchiare persone provate, per provocare processi perversi, per promuovere problemi perenni. Perché? Parlare precipitosamente…perché? Possiamo prima pensarci? Pensieri prolungati, piacere puro. Parole pregnanti…pallone, preti, poesie pallose, parafrasi problematiche, problematiche pubbliche, polizia, patetici proclami populistici, peccati, passioni peccaminose, puerili pettegolezzi, piagnistei, pareri pretenziosi …palle piene! Preferiamo parole piacevoli, piatti prelibati, pietanze pregiate, passioni pure, piccoli paradisi personali. Pensiamo. Perché pensando possiamo parlare perfettamente. Pensiero, padre prezioso per parole pragmatiche, profonde, pregevoli. Potere, pessimo principio pacifico. Porta pericoli perenni. Picchia, pretende, priva, punisce. Poveri periscono…porca puttana, possiamo prendere posizione? Pensiamo, perché pensare può portare PACE. Anelare animosamente altre azioni. Arrischiare atti audaci. Amare appassionatamente animi avvezzi all’autenticità. 7


Animi anarchici attentano all’avarizia aziendale. Abbiamo aspettato abbastanza, aggrappati ad alibi autodistruttivi. Adesso agiremo, annientando arbitrari abusi, asportando anime avvelenate. Avanti, andiamo. Abolire, aderire, accusare, armi adeguate, adeguatamente atomiche, astruse alchimie, attentati, anime asettiche, allinearsi…abbiamo accettato abbastanza. Aiuto! Abilità agnostica, anarchia. Abbiamo avuto aria avvelenata, abbondantemente. Apnea… Alba. Attori attempati abbaiano ancora adesso…Alleggerire. Altri attori abiteranno. Altre attrazioni arriveranno. Ammicchiamo amichevolmente. Aria. Autentica. Aspirare. Artisti abbattono agilmente arrampicatori anonimi. Alunni, ascoltate attentamente. Alfabetizzatevi. Adesso. All’appuntamento arriviamo agili, apprezzando aiuti antichi, ancestrali amori, amplessi animali, armoniosi arpeggi. Animi autentici. Altri arriveranno, arrischiando azioni ardite, aderendo ad associazioni affini…adesso abbiamo avviato atti autentici: accorreranno altri. Allora avevamo alibi. Arrabbiati, aderivamo ad attività assassine. Accoccolati ascoltavamo autentici attentati all’amore, all’amicizia, all’anima. Angoscia. Adesso attiviamoci. Ammazziamo angosce, altezzosi avvertimenti. Arricchiamoci ancora, ascoltiamoci. Apportiamo aiuto. Acqua all’Africa? Assente. Alibi: Abitiamo altre aree. Asia. Assassini autorizzati. Alibi: Altre abitudini. 8


Ancora? Aspettiamo ancora? America attacca Afghanistan. Ammazzare affiliati Alquaida: autorizzati. Allah assassinato, ammazzare adepti. Ancora. Ancora. Alibi: Azioni antiattentati. Agire. Andare, aspettare, ascoltare, aiutare. Abbiamo ancora alibi, abbattiamoli. Aspirare ad altro. Amare. Adesso. Avremo ancora animi autentici. Altre albe aspettano… Certe cose colpiscono. Chiese che crocifiggono costantemente Cristo condannano critiche costruttive. Città caotiche creano consumi, centri commerciali cullano consumatori ciechi. Chiunque chiede consigli, cercando conforto contro certezze che crollano. Caos. Commercio: chi ci crede ci casca, consuma. Clausole celate confondono chi compra, creazioni cervellotiche crivellano cervelli candidi. Certezze commerciali corrono come cellule cancerogene creando confuse civiltà consumistiche. Cediamo. Commenti caustici corrodono culture contrastanti, civiltà contrapposte. Comunanze create cinicamente chiedono certezze con celeri compravendite. Catacombe cerebrali contagiano con cerchi concentrici, capi carismatici catechizzano clienti curiosi, ceduti come campi coltivabili. 9


Confondere chi chiede chiarezza, castigare chi critica, colpevolizzare coloro che cautamente cercano concretezza, chiedendo certezze. Carenze cerebrali. Crucchi che cavalcando croci celtiche calpestavano civili circoncisi, col coraggio che caratterizza certi codardi, continuano col conquistare coloro che coltivano collera. Censire, controllare, catturare credenze controculturali che circolano come campanelli chiarificatori. Cinquantamila che comprano con conti correnti che comprendono cinquanta cifre, contro cinquecentomila cristi che chiedendo cibo, crepando come cani. Consumi copiosi che cinicamente creano carestie Chiavi che chiudono cervelli, cuori, coscienze: comodo, capire ci costa. Cementare credenze che causano cadaveri, controllando con cordiali cimici ciò che ci circonda. Comprare, contrattare, chiedere credito: concederci coscienziosamente che ciò che conta comporta costi. Creare coscienze consumistiche. Ci culliamo, crogiolandoci come cannibali, credendoci caritatevoli cantando canzoni clericali. Cristo chiedeva chiese canterine? Cristo chiedeva che ci cercassimo con calore, che ci coccolassimo come candide creature, che cibassimo collettivamente.Carità come contratti commerciali? Credo che ci confondiamo… Che ci costa calmarci, capire, comprendere con coscienza cosa combiniamo? Caspita, così ci consideriamo civili? Eterna esibizione. 10


Elezioni entusiasmanti emettono espliciti editti: estirpare espressioni estemporanee, evirare energie estranee Esempio: ecatombe ellenica, eliminato Ettore, eroe epico. Ere elettroniche esprimono etica eterosessuale, entusiasmano elmetti ed esplosioni, esibiscono etnocentrismo esasperato. Eclissando esperienze eterogenee, evitare eventuali esistenze eque. Encicliche entusiastiche esaltano eclissi encefalici ed emarginano eterodossie eretiche. Eterne empietà. Esperienze evidenziano epocali ecchimosi epidermiche. Efficaci effetti escludono esigenze educative. Epurare etnie erranti, escludere eguaglianze epocali. Esterofilia evanescente esclude evoluzioni empiriche, esaltando egemonie euroamericane. Extraterrestri evitano esplorazioni extraplanetarie, escludono escursioni, esclamando : “Ecco esseri eccentrici ed egocentrici”. Epiteti etichettano esponenti esterni. Eunuchi esistenziali elencano elementi erronei: ebrei, erba, Erasmo…epurare. Esacerbare esempi educativi, esagerando escrescenze evidenti. Estromettere elementi estranei ed euforici. Estrosi esempi eccitano, esercitando elettroshock estatici. Esegesi entusiastiche esplicano errori evoluzionistici, equiparando etnie estranee ed escrementi. Esclusive enunciazioni elegiache escludono effusioni erroneamente espresse. Emozionare emanando energie ex-novo, eludendo enti esplicitamente etici. Emblematiche empatie estirpano ere egemoni, esclamando eguaglianze esistenziali. 11


Ăˆ essenziale esprimersi, esporsi, esibendo entusiasmo, educazione ed energia. Ergo‌esistere eliminando etiche ed espressioni egemonizzanti, esaltando esigenze elevate. Equiparare esistenze eterogenee ed etnie estranee, estromettendo enfatizzazioni emarginanti. Equazioni elementari. Eseguiamole.

12


Nuvole senza contorni di Donatello Cirone Yambo era faccia in giù, le braccia oltre il collo, i palmi attaccati alla terra. Assorbito dalla sabbia e dal sale. Dall’altra parte della città, Ester, seduta al tavolo di un bistrot arredato male, stava in silenzio. Aveva lasciato che l’aria entrasse fra le sue mammelle, che si incanalasse lungo il suo seno. Il tizio che le stava seduto di fronte si agitava, ogni tanto scendeva con gli occhi sul suo corpo, sui suoi morbidissimi contorni. Era sempre stata orgogliosa delle sue forme, il resto del suo corpo le piaceva in base alle stagioni. La maggior parte della gente si allontanava dalla battigia per non incrociare il corpo di Yambo, che si era adagiato al suolo davanti all’ombrellone di Ginetto. Era lì in pieno giorno e sotto un sole caldo, sdraiato a terra, apparentemente senza respiro. I coraggiosi lo saltavano elegantemente mettendo in risalto tutta la loro grazia, l’armonia del movimento. Il tizio continuava a sparlare, a sputare frasi fatte, citava i suoi intellettuali di riferimento: “mi sono fatto da solo”, “se solo avessi voluto, mia madre mi avrebbe raccomandato ovunque. Io, però, non ho voluto…”, “prenderò il posto di mio padre in macelleria, vedrai…e dopo…”. Diceva frasi a caso, interconnesse fra loro come la vita di un fiore a quella di un bollitore elettrico con la resistenza bruciata. Ester era felice, parlava bene con quel tizio. Avevano già cenato insie13


me un paio di volte nei mesi precedenti. Ad Ester le bastavano quelle chiacchiere. Lui faceva finta di essere gentile. Nessuna poesia recitata a memoria, nessuna frase romantica, lei era felice così. Con la semplicità che le adornava i pensieri passò la notte a casa del tizio, che dopo aver assolto al suo compito evacuò la cena, sputò nel lavandino e si addormentò sul divano. Le urla dei bagnanti avevano lasciato posto alla notte e al silenzio, Yambo era ancora lì, bagnato dalla marea che si alzava, con la guancia destra che si impregnava sempre più degli odori del mare, che si raggrinziva come quella di un vecchio. Ester si rivestì e, con la semplicità che custodiva gelosamente in borsa, ritornò a casa. Chiuse la porta alle sue spalle, si lavò per togliere l’odore del tizio dal suo collo e dai suoi piedi delicati e si addormentò semplicemente. Per fortuna non c’era nessuno accanto a lei a sbavarle il cuscino e a russare. Spense la lampada. Yambo chiuse gli occhi mentre lo portavano in ospedale. Correvano i suoi ricordi mentre il suono dell’ambulanza si intrecciava indissolubilmente alla sua vita, al suo futuro. Nella confusione di quelle mani che cercavano di rianimarlo corse veloce indietro alla sua vita passata, alle colline arse dal sole della sua terra, corse indietro ai teneri baci di sua nonna materna, corse indietro alle notti passate con le sue due mogli, al calore di quei due corpi giovani, a come si sentiva protetto, al colore dell’ambra scura, alla carne profumata di eccitazione. Tornò a quelle quattro mani con le lunghe dita affusolate e fece finta che fossero proprio quelle mani che conoscevano il suo corpo e non quelle dell’ane14


stesista e dell’infermiere che tentavano di rianimarlo disperatamente. Fece finta che fossero palmi delicati che gli accarezzavano il petto vigoroso e non le piastre metalliche del defibrillatore. Fece finta di dormire mentre, in obitorio, lo chiusero in una cassa.

15


“Mermaid friends� di Siriana Crastolla

16


Fratelli d’Italia di Eva Luna Mascolino Genova, 17 marzo 1861 Caro Goffredo, Dio solo sa quanto mi sia costato tacere in tutti questi anni, rispettare la promessa di non inviarti piĂš nemmeno un biglietto e di non venirti a trovare fino a casa. Sei rimasto nei miei pensieri fin da quel settembre 1847, fin dalla maledetta sera in cui ci hanno costretto a separarci, ma nemmeno quando la tubercolosi mi ha strappato mia madre dalle braccia ho osato infrangere il nostro patto, certa che sarebbero presto sopraggiunte stagioni migliori, primavere in cui avremmo dimenticato il vostro patriottismo e celebrato il nostro amore. Oh, se solo tu sapessi quanto ho odiato i vostri ideali, il vostro cocciuto spirito di sacrificio, la vostra sciocca ambizione di unificare questa povera e disillusa Italia da quella notte in poi! Venivi a trovarmi in sogno, avevi il tempo di sciogliermi i capelli e poi fuggivi via, risucchiato da un vortice di colori, urla, spari... Mi hai lasciata sola, Goffredo Mameli, continuavo a ripetermi e a gridarti nel sonno. Hai preferito la patria a me e mi hai lasciata sola sola sola sola sola sola. Ad ogni inquieto risveglio, per ogni indomito sole che è sorto senza che i nostri corpi potessero riabbracciarsi, maledicevo te, Novaro e la vostra marcetta di qualche decennio fa. Con quale coraggio l’avete definita un inno?, mi 17


dicevo. Con quale inorgoglito ardore cantate d’esser pronti alla morte senza pensare alle vostre donne, chiuse in casa, ad aspettare che rientriate dopo ogni sciagurata insurrezione? Non ti ho mai scritto, Goffredo, e di questo mi rammarico – ma perché nemmeno tu, quando sei stato al sicuro, hai preso un calamaio e mi hai inviato qualche riga? Quando, nel 1849, ti sei unito a quel folle di Garibaldi, fui certa che la tua fine era vicina, che eri ormai precipitato nell’abisso di un’utopia testarda e senza nome, eppure seppi anche che nessuno avrebbe osato catturarti, torturarti, trucidarti, finché fossi stato al fianco di quel filoargentino. Allora, mi dissi, finalmente mi scriverà, verrà a trovarmi e a rinnovare i suoi giuramenti d’un tempo in mezzo ai campi di grano. Allora, mi dissi, smetterò di sognarlo e potrò disegnare le sue labbra a memoria mentre mi disseterò nei suoi occhi, affogando assieme a lui fino all’ultimo respiro della mia relegata esistenza. Tu, però, non hai mai più chiesto di me, mai più. Non ti sei mai domandato se mi avessero dato in moglie ad un monarchico, se per caso m’avessero portata dalla loro parte né, tanto meno, se fossi in salute e se mi ricordassi ancora di te. Oh, Goffredo, è stata forse colpa mia? Aspettavi forse che fossi io a riprendere o meno la nostra corrispondenza? Ma come avrei potuto disobbedirti, rischiando di mettere a repentaglio la tua vita stessa? Quando hai difeso la nostra immensa e coccolata Roma dai francesi in quello spaventoso tre giugno ero lì anche io, sai? Ho visto i tuoi compagni portarti via dalla ressa, le tue braccia lasciate andare verso terra, il tuo capo reclinato, la tua gamba sanguinante. Che terribile morsa è stata per il mio cuore, Goffredo! Mi chiedevo quale Repubblica avrebbe mai potuto restituirmi il mio uomo, 18


quale vittoria avrebbe potuto sostituire la meraviglia di saperti al mio fianco negli anni a venire. Non ho mai potuto confessarlo a nessuno e sono tornata a Genova in lacrime, in silenzio, desiderosa soltanto di non essere riconosciuta dai tuoi, per arrivare a casa il prima possibile. Ti ho scritto parole di rimorso e condanna, di guarigioni e di rinascite – l’accenno di una lettera che ho recentemente bruciato, pur pentendomene ora amaramente. Adesso, infatti, ho finalmente capito di essere stata un’ingrata e di non sapere come implorare il tuo perdono. Ti sei battuto per non so quanti vigliacchi, me compresa e sei rimasto in prima fila fino a quell’ultimo e diabolico sei luglio fino a quanto la cancrena, l’infezione e la morte, ti hanno sfigurato l’anima. Io avrei dovuto carezzare i tuoi graffi e la nostra lontananza, piuttosto che diventare contraria alle vostre ambizioni. Avrei dovuto esultare e benedire Garibaldi, quando nel ’49 ha proclamato la Repubblica, anziché strappare il tricolore da tutte le finestre dell’isolato. Perdonami, amore mio, se non ti ho scritto neanche dopo quel tuo addio silenzioso alla patria, perdonami se mai ho osato visitare la tua lapide, fra i sentieri del cimitero. Sento che le mie gambe non reggerebbero, che troppo angosciosa sarebbe la solitudine, troppo agghiacciante la consapevolezza che mai più mi disegnerai addosso una carezza, Goffredo. Mi chiederai, dunque, perché ti stia scrivendo proprio oggi, a distanza di anni, e perché abbia aspettato tanto per chiedere la tua clemenza. Ebbene, mi sento così smaniosa e sorpresa da non essere quasi più in me, e sono certa che non troverò le parole per descriverti con quanto entusiasmo, con quanta impudi19


ca fierezza, io sia corsa fuori da casa mia stamane, amore mio... Tutto il paese è in festa, perfino i bambini, perfino le vecchie signore che lavano in cortile – perfino io, così sola, riesco ad essere felice, a baciare quella bandiera dapprima tanto odiata, nel tentativo di ricordare il tuo nobile inno, il ritmo di una nazione che, proprio ieri, è stata proclamata Regno. Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa... Lo senti anche tu, nell’aria, Goffredo? Lo ripetono tutti, ci sono i tamburi che vibrano dentro il petto, nelle piazze e nelle botteghe che oggi non hanno venduto lo straccio di un sacchetto, ma che sono aperte in segno di esultanza. Siete stati tu e Novaro ad insegnarci come gioire, a consentirci di levare un unico grido di vittoria - dov’è la vittoria? Le porga la chioma, ché schiava di Roma Iddio la creò, lo senti anche tu, dall’altra parte della vita? Sono stonati ma cantano, hanno la vittoria sulla pelle e si sono dimenticati delle malattie, dell’infelicità, della povera vita quotidiana, addirittura dei morti di ieri e dei dibattiti di domani… Roma è tutta in subbuglio, Goffredo, e ringrazia il Cielo del vostro coraggio come se non esistesse nient’altro su questo pianeta degno di essere benedetto! Ti chiedo perdono in questo giorno, dunque, per non avere mai capito quale straordinario progetto tu stessi disegnando fra te e te. Ti chiedo perdono per non avere avuto fiducia nei vostri mezzi e nelle vostre parole di sprone, per aver aspettato così tanto prima di scriverti e per non essermi sforzata di leggerti negli occhi la certezza che, un giorno, noi tutti saremmo stati sul serio italiani. Soprattutto, poi, perdonami per non avere colto quanta passione ci fosse dentro di te quando sei stato ferito e per 20


non esserti stata vicina nelle tue ultime settimane di sospiri... Ho pregato con ogni muscolo del mio corpo perché tu ti salvassi, eppure solo stamani realizzo che proprio tu sei stato il primo a salvarti, fra tutti noialtri burattini in mano allo straniero: proprio tu hai mosso le acque perché si agitassero contro coloro che ci tenevano soggiogati, foss’anche solo con quella marcia, con questa musica, con tutto il delirio che ci pervade dalle Alpi a Quarto, dalla Sardegna alla Puglia, secondo per secondo, attraverso tutto lo Stivale. Sento ormai che il Signore è dalla nostra parte. Si è seduto alla nostra mensa per brindare come un nostro pari e per vegliare sul nostro popolo. Niente potrà strapparci il coraggio di essere un tutt’uno con il suolo natio, ormai, e sento che uomini saggi e giusti governeranno per sempre sulle nostre teste, sento che nessuno mai deluderà il nostro nome, finché anch’egli sarà italiano. Sento che saremo i più colti, i più valorosi, i più onesti; sento che parleranno di te nei libri di Storia, fra non molto, e che la cattiva sorte non incomberà più sul nostro futuro. Sento che presto torneremo a splendere e fiorire come ai tempi dell’antico impero di Augusto, Goffredo. Dicono che Roma sia già tornata solenne e fiera, con il suo Colosseo splendente sotto il sole, con milioni di giovani a correre per i suoi viali, mentre si dirada il presagio di un oltraggioso ritorno alla sottomissione austriaca, spagnola o francese. D’ora in avanti, te lo giuro, tornerò a parlarti e a scriverti. Ho inteso che non ti sei mai allontanato realmente da me e che l’idea di non contattarci più è stata indispensabile per la riuscita dei vostri intenti. Ho inteso che anche tu devi avere sentito la mia mancanza, che non mi hai mai dimenticata e che, anzi, mi avrai sognata anche 21


tu, in quelle fredde notti di tanti anni fa in durante le quali il tuo amore per gli individui era sovrastato dall’amore per la collettività. Sono stata una sciocca a prendere coscienza della tua immortale fedeltà nei confronti miei e della nostra terra solo in questo 17 marzo 1861, quando l’incerto avvenire si è trasformato in un presente radioso. Ho commesso tanti sbagli e adesso lo sai anche tu, Goffredo, ma sappi anche che d’ora in avanti sulla tua tomba porterò rose e parole benevole, intrecciate alle bandiere di questa nuova nazione finalmente unita. Da oggi in poi ti rallegrerai con noi per il dono che ci hai fatto, da oggi in poi renderò finalmente onore a colui che sopra ogni altro ho amato, a colui che oggi ama tutta Italia, a colui che per primo e ancora più del re ha onorato il Regno d’Italia con tutta la forza dei suoi più nobili sogni. Da oggi in poi tornerò ad essere. Tua per sempre, Geronima Ferretti

22


“Carly” di Francesca Ligios

23


Feuilleton Il francese inesistente

Parte seconda

di Fabio Cardetta Svetlan si sentiva così simile a Schubert, forse perché Schubert era morto di sifilide. Ma Svetlan non era ancora morto di sifilide e non si fregiava nemmeno di avercela la sifilide. Aveva comprato da tempo i biglietti per il grande concerto del tardo pomeriggio nella Cattedrale di San Martin e non aveva chiesto a nessuno di accompagnarlo. La musica classica era per lui un momento di preghiera ed estasi solitaria. E la Cattedrale era per lui il posto esatto per celebrare quel rito mistico. Non era la prima volta che assisteva a questi concerti. L’ultima volta, per il Requiem di Mozart, ne era uscito elevato e devastato. Ma Schubert era Schubert, il suo preferito, e non appena aveva saputo che avrebbero eseguito il componimento ‘La Morte e la Fanciulla’ si era proiettato in biglietteria per accaparrarsi i posti migliori. Ora sedeva, proprio al centro della chiesa, sotto la grande cupola gotica ornata di sculture mostruose e angeliche, con una gamba che sporgeva nella grande navata centrale tremando e l’altra come paralizzata, inchiodata alla panca. La moltitudine di gente era silenziosa e incantata dai componenti dell’orchestra, che con un roboante e stridente movimento di violini raccontavano il potente ultimo canto di Schubert, quella misteriosa melodia dedicata alle figure di Ade e Proserpina, un misto di note paradisiache e infernale rumore. Uscito che già erano le 21.00, Svetlan rimase un po’ a fumarsi una sigaretta seduto alle scalette d’un portone di fronte alla 24


Cattedrale. Beveva un boccale di birra e rimirava la solida struttura della chiesa, la cupola verde con la guglia appuntita, il giardinetto che circondava il cortile principale, le bifore arabescate. Poi si ricordò di avere appuntamento al Zelovny Bar, con Vladimir, verso le 22.00 e prima ancora con Tub, verso le 21.30. Gettò la cicca e si incamminò, godendosi l’aria di maggio d’una Bratislava bella come non mai. Arrivò nel bar, e decise di prendersi una shisha. Si fece portare il narguilè e cominciò a fumare quell’aroma al melone che da sempre lo deliziava. Poi si mise a scarabocchiare qualcosa sul diario. Proprio mentre girava il cubo con le pinze sul metallo bollente, arrivò Tub. “Ciao, capo... Che fai?” “Scrivo” – fece Svetlan, senza alzare gli occhi. “Stai scrivendo un libro?” “Io non scrivo libri. Sono una persona seria.” Tub lo guardò, accigliato: “E quindi che stai facendo, se posso saperlo?” Svetlan alzò lo sguardo, sbuffando. Poi riprendendo a scrivere, rispose: “Sto rispondendo alle domande di un giornalista che vuole scrivere un articolo su di me. Sto elencando tutti i casi che ho risolto, guarda!” Tub prese il foglio e cominciò a leggerlo. “Tu non ha mai risolto il caso Gibalov” Svetlan, socchiuse gli occhi, poi sorrise: “Se l’ho inventato, significa che è vero.” 25


Quando Svetlan ragionava così, Tub preferiva non dargli spago. Gli ridette il foglio e chiese informazioni sul lavoro da fare: “Quindi, che volevi dirmi?” “Dobbiamo aiutare l’amico di Simona, Vladimir.” “Un altro lavoro gratuito?” “No, pare che mi proporranno come capo di una task force, se risolviamo la faccenda. Sai, queste sezioni speciali che creano per far vedere che sono specializzati in qualcosa? Bene. Noi saremo una specie di task force che collaborerà in parallelo con il Terzo Distretto... Per casi speciali, quelli che non sanno risolvere loro… Tutti praticamente!” – e Svetlan sghignazzò compiaciuto. “E quindi che cambia?” “Niente. Noi continuiamo a fare quello che facciamo, solo che dovrebbero pagarci.” “Dovrebbero!” – fece Tub. “Lo faranno... Tu non devi preoccuparti.” Svetlan dette una profonda boccata alla shisha, buttando il fumo sul volto del braccio destro. Era evidentemente contrariato dal fatto che il suo sottoposto ultimamente si fosse preso tutta quella confidenza e gli stesse facendo così tante domande. Tub capì l’antifona e virò sul tema principale: “Che caso è?” “Hai presente l’omicidio del francese che non risolvono da più di sei mesi?” “Sì, quello capitato nel locale di Bito.” “Bravo, quello.” “E vogliono che ce la vediamo noi?” “Sì, tra venti minuti viene Vladimir a darmi tutto il materiale. Vediamo che dice. Ti richiamo appena ne so di più.” 26


Tub annuì, preoccupato. “Puoi andare” – gli fece Svetlan, senza guardarlo. L’omone girò i tacchi e se ne andò senza salutare. Da lontano Svetlan lo guardò di sottecchi. “Forse dovrei ridurgli lo stipendio” – si disse tra sé e sé. Il locale era ormai colmo di fumo. A parte Svetlan, nella stanza principale c’erano solo due ragazze di periferia, in evidente sovrappeso e adornate di tatuaggi grossolani, che blateravano rapidamente di lavoro e corna. Nell’altra stanza attigua, praticamente un corridoio parallelo allo spazio principale, c’era un giovane che fumava e guardava nel vuoto, evidentemente ubriaco. Il tutto dava di dacia della Siberia, dato che il locale era interamente rivestito in legno e ricoperto di strambi tappeti persiani. Svetlan si guardò per un attimo intorno, a contemplare l’atmosfera tristissima a cui ormai era abituato. Poi si ridette a buttar già le sue gesta, sia quelle vere che quelle inventate. Proprio nel momento in cui era riuscito ad inventarsene una di sana pianta, Vladimir fece il suo ingresso. Non era contento, il poliziotto. Si stava palesemente umiliando davanti all’odiato ex piedipiatti, il Genio dell’Intuito, il Saccente, quello che secondo tutti era mezzo colluso con la criminalità organizzata. Ma ormai Simona s’era messa in mezzo. L’aiuto di Svetlan in questo caso le appariva più che necessario. Anche Vladimir sapeva benissimo che i fallimenti della sua unità lo avrebbero presto messo in un cantuccio e Kornikov, il Capo della Polizia lo avrebbe sicuramente silurato, come stava facendo per Simona mesi addietro, mettendo al suo posto uno di quei ragazzini leccaculo di cui ormai il distretto era pieno. La probabilità era molto alta. 27


L’ispettore Velikovà era in salvo, anzi veniva ormai dato come astro nascente della polizia giudiziaria e prossima a diventare Dirigente. Vladimir invece era nei guai, sebbene volesse anche lui invertire la rotta, non ci sarebbe mai riuscito continuando con i soliti metodi. Non era più tempo dell’orgoglio. Doveva servirsi di Svetlan. L’investigatore lo invitò ad accomodarsi e si promise mentalmente di non infierire sul vinto, ma di essere gentile e disponibile così come aveva promesso a Simona. Cercò di farlo, mantenendo una certa serietà. Per questo esordì rapido e concreto, affinché la conversazione durasse il meno possibile e lui potesse, solo alla fine, liberarsi con una grassa risata dell’ilarità repressa, una volta che Vladimir fosse uscito dal locale. “Che elementi abbiamo?” – esordì Svetlan in tono professionale. “Un casino...” “Comincia con i fatti essenziali” “Il soggetto si chiama Jules Klein, francese, 28 anni. Lavorava per la Tecniform, settore vendite, da almeno 4 mesi.” “Come è stato ammazzato?” “Era uscito giovedì sera, da solo, era al Pub Groucho, c’era una serata techno e la pista era piena di gente che ballava. Era andato a pisciare. L’hanno ritrovato morto in bagno, sparato in testa da un solo proiettile, scamiciato, calibro 38, special.” “Un bel cannone… La scientifica che ha trovato?” “Un paio di cose importanti: l’assassino gli ha sparato da un paio di metri, all’altezza dell’altro pisciatoio. Nessuna impronta o meglio, duemila impronte, tutta la gente che era andata al cesso quella sera. A terra era tutto bagnato di acqua e piscio, come succede nei locali del genere. C’era un’orma strana però, numero 45. 28


Crediamo che sia quella del killer.” “Immagino che ce ne fossero altre mille di orme in quel cesso” – fece Svetlan con una smorfia. “Sì, ma questa era diversa. Alcuni piccoli schizzi di sangue si sono fermati in corrispondenza dell’impronta, e questo significa che...” “... che quella scarpa era lì quando hanno sparato.” “Già!” I due si guardarono silenziosi per un po’. Vladimir dalla tasca del giubbotto estrasse una busta di plastica con il proiettile e un’altra busta con delle foto. Erano le foto del cadavere e della scena del delitto. “E riguardo allo sparo, balistica, altro?” “Sì... Ci hanno detto che il tizio ha sparato da quella distanza, probabilmente a braccio teso. C’era la traccia dello sparo sul muro a una quarantina di centimetri davanti al pisciatoio... Se i calcoli sono giusti, dovrebbe essere un tizio d’altezza tra 1 metro e 55 e 1 metro e 75… Così ci hanno detto.” Svetlan sfoggiò un sorriso sarcastico. “Caspita, avete dei maghi alla scientifica… Pure l’altezza!... Diciamo che questa informazione la prendiamo con beneficio d’inventario.” “Nel senso?” “Nel senso che i balistici sono come gli astrofisici. Alle conferenze gli buttano addosso le noccioline.” Vladimir sorrise forzatamente: “Questa è ovviamente una tua opinione personale.” “Ovviamente.” Svetlan scorreva tra le mani le foto del morto, che lo raffigurava29


no accasciato, seduto a terra, appoggiato al muro e con la testa pendente da un lato. Una grande macchia di sangue in alto sul muro, all’altezza della testa quando era ancora in piedi. “Trovata l’arma?” “No” “Questo tizio aveva amici, parenti?...” “Colleghi, ma non amici. Ho lasciato il rapporto con tutte le informazioni sul francese al tuo collaboratore, quello enorme, l’ho incrociato poco fa.” “Si chiama Podolski, ma tutti lo chiamano Tub.” “D’accordo” “Comunque stavo pensando: la balistica ci dice che forse è un tappo, ma la scarpa è un 45. Cos’è un nano sproporzionato o un fenomeno da baraccone?” Svetlan s’accorse che non stava rispettando i patti. Si placò, quasi imbarazzato. “Lo so, non quadra” – riprese Vladimir, ribollendo. “Eh, appunto, non quadra” Svetlan ridette tutto il materiale al poliziotto, trattenendosi giusto un paio di foto: “Queste le prendo in prestito, te le riporto domani.” “Va bene” “Salutami Simona” “Non mancherò”

Il poliziotto se ne uscì a grandi falcate come previsto. Svetlan a quel punto tracollò sui divanetti, sghignazzando soddisfatto e buttando giù grandi sorsi di birra, disse a se stesso di esse30


re stato magistrale. La faccenda sottopostagli da Vladimir, invece, non lo faceva ridere per niente. Anzi. Così terminò la shisha e se ne andò a dormire. Doveva riflettere sugli elementi dati. Quella notte però non fu delle più quiete. Svetlan sognò la pistola descrittagli da Vladimir: la 38 special. Si ricordava che quel calibro gli era già capitato sottomano in qualche altro caso di cui non riusciva a ricordarsi appieno. Erano di certo casi che gli avevano procurato un certo fastidio, una buona dose di inquietudine. Perché quella 38 special era un’arma particolare, non si va in giro a sparare con un revolver del genere, soprattutto a Bratislava. In quei due-tre casi in cui gli era capitata quest’arma, c’era sempre stato qualcosa di perverso, che dava di vintage, di un gusto retrò, di qualcosa fuori moda e al contempo appartenente a un’epoca oscura, lontana, ma attualissima. Dove gli era capitata sottomano quella 38? E ­se la immaginò, la 38, la vide di fronte a sé chiara, scintillante, nel buio. C’era solo lui che la osservava, la pistola, e quella pian piano si dilatò, si fece sempre più grande, enorme, gigante. Svetlan invece si sentiva sempre più piccolo, si vedeva rimpicciolire, mentre quella rivoltella roteava di fronte a lui. E Svetlan si sentì sempre più attratto da quell’aggeggio, da quei meandri meccanici, da quel buco nero, quel vortice che irresistibilmente lo risucchiava. Il suo sguardo finì per essere ingurgitato dalla pistola, e si ritrovò a vagare nella canna come un piccolo uomo smarrito; si scoprì sceso nel castello e cercò di risalire con fatica verso la tacca, s’aggrappò al cane e sentì un raschio, come se qualcuno avesse inserito qualco31


sa, improvvisamente, nel grande e monumentale meccanismo di morte. E ritrovatosi di nuovo nel tunnel, voltandosi, vide davanti a sé quell’enorme proiettile scamiciato inserito nella canna, occupare l’intero spazio in altezza e in larghezza. Fu lì che Svetlan si sentì oppresso, cercò di allontanarsi, di scappare verso la luce. Ma non fece in tempo a muovere un passo… che l’innesco scattò. Un boato rimbombò nell’aria e il vuoto si riempì di fiamme e fetore, sommergendolo d’una vampa letale. Svetlan si svegliò. Sputando sangue, in asfissia. S’accorse di essere terrorizzato come un bambino. Un terrore che aveva quasi dimenticato.

32


“Macchie_004” di Nicola Lonzi

33


L’anno in cui sembrò piovere per sempre di Giampaolo Giudice Lo passammo come fossimo stati degli sconosciuti; l’anno in cui sembrò piovere per sempre. Lo passammo cercando giornalmente di evitare il contatto, quasi fossimo un pericolo reciproco. E questo ha pure senso nel suo paradossale accadere: tenere a distanza qualcuno o qualcosa che potrebbe infilarsi nel cuore senza nessuna fatica, o che magari è già dentro e tu stai disperatamente cercando di strapparlo via da lì per rimarginare.

“Flyin’ home” di Domenico Giovanni Della Rocca

34


L’anno in cui parve piovere per sempre fu un periodo denso, così come erano dense le nuvole sopra la testa dei passanti; grigio denso di acqua in atto di diventare goccia. Che poi, anche questa storia dell’acqua che crea se stessa sarebbe da scoprirne il miracolo, ma facciamo un’altra volta, un giorno di sole, magari. L’anno in cui sembrò piovere per sempre fu dunque un periodo denso, animato da minuti affilati come rasoi, attraverso cui occorre muoversi con attenzione massima; tanta da lasciare sfiniti la sera come dopo una maratona. Sì, ecco. I giorni affilati dell’anno in cui parve piovere per sempre sembravano srotolarsi lentamente lungo la strada come il percorso di una maratona, una corsa ad ostacoli foderata di pensieri taglienti di cui evitare il filo. L’anno in cui parve piovere per sempre era iniziato con gocce sottili, piccoli aghi d’acqua che si infilavano ovunque col passare dei giorni. Si infilavano in ogni anfratto, riempivano ogni crepa, bagnando tutto ciò con cui entravano in contatto. Come quando si rimane così a lungo sotto la pioggia da non avere più nulla di asciutto, vi è mai capitato? Restare così a lungo sotto l’acqua tanto da avere l’impressione di avere persino i ricordi allagati? Perché questo accadde, l’anno in cui sembrò piovere per sempre, proprio questo. Ed il problema, quando si allagano i ricordi, il problema è che questi cominciano a galleggiare, a mano a mano che il livello si alza. Galleggiano, si rimestano, e si scontrano, e vengono portati in giro dalla corrente ad ogni passo.

35


L’aspetto peggiore dell’avere i ricordi allagati non è l’acqua in se, né il disordine, né l’umidità o gli inevitabili urti fra memorie differenti. L’anno in cui parve piovere per sempre scoprii che l’aspetto peggiore dell’avere i ricordi allagati sta nel fatto che tutta quell’acqua e quello sciabordare porta a galla di tutto: relitti di barche di carta di quando eri bambino, foto stropicciate di vacanze, vecchi filmati dai colori accesi e parole e sospiri che salgono a pelo d’acqua fra bolle e schiuma; e cominciano a girare senza ordine e non puoi schivarli se non con estrema e vana fatica. Questo è forse il pericolo maggiore: l’impossibilità oggettiva di evitare l’urto contro un ricordo sommerso che torna a galla improvvisamente e vaga e si scontra facendo naufragare gli altri pensieri a cui magari ti aggrappi per non restare in balia della corrente. L’anno in cui sembrò piovere per sempre fu anche l’anno dei ricordi galleggianti; iceberg a largo delle coste dei pensieri naufragati. Fu come guardare una spiaggia riconquistata dall’inverno, quando il mare restituisce alla riva quello di cui gli uomini hanno cercato di liberarsi gettandolo sul fondo, convinti di essersene disfatti una volta per tutte. L’anno in cui parve piovere per sempre fu tutto questo. Ma, ovviamente – da fuori – si ricorderà solo che si trattò di un inverno eccezionalmente umido.

36


I miei eroi di Ferruccio Mazzanti Abbiamo atteso questo giorno abbiamo pianto insieme come un deserto sotto la pioggia quando il sole non c’è più e quando riesco ad essere giovane ballo su terrazze la musica che mi manca così tanto e queste persone intorno che ballano con me sono i miei eroi provenienti da un paese lontano 37


che mi illuminano come ghiacciate pannate di fumo e mi sento scintillare come la luna e mi sento fiorire in un sole nero e ricordo quando ero giovane e gli odori erano così pieni e mi manca da così tanto tempo tutto questo.

“Giochi in spiaggia” di Ilaria Cerutti

38


Di ponti e sensi di colpa di Giada Tommei “Come quella volta alla torre delle ore, quando mi dicesti che non avevi mai amato e io ti risposi che chi si ferma a guardare un violoncellista abusivo, noncurante del gelato che si scioglie nel polso, nasce già innamorato. ” Io sono innamorata solo del senso di colpa “Il senso di colpa è innato e non guarisci. Hai presente le urla strazianti delle madri durante il parto? Come si fa a non nascere colpevoli, quando si ha la consapevolezza di esser causa di un enorme sofferenza? Pur gioiosa che sia, la nascita ti inietta nel corpo come un dovere specifico: riscattare la madre dal dolore subito nel metterti al mondo. E allora , spesso, quella stessa pena provata dalla madre durante il parto diventa il motivo ricorrente della vita del figlio. Come l’allungamento di una radice di dolore: ti rendi conto cosa significa aver vissuto nove mesi uniti da un cordone?” Mi rendo conto di non essere più un cordone “Ovvio che non lo sei, provocatrice che non sei altro. Dico solo che c’è un legame profondo che nemmeno tutto il rancore del mondo può uccidere. E’ come se il cordone ti rimanesse per sempre impigliato in un piede, o in un braccio, o alla gola”

39


Partoriscono cumuli di ansia, non bambini! “Non essere ironica, è una cosa seria: se aspetti di liberarti del senso di colpa per cominciare a vivere, non vivrai mai!”. E allora perderai occasioni. Non parlo di chissà cosa, ma anche solo di momenti di bellezza che andranno perduti. Devi solo imparare a cullarlo, conviverci, parlarci, farci la pace. Non è così difficile: tu gli spieghi dolcemente quello che vuoi e ciò che sei, e lui piano piano diventa quieto come un cucciolo appena preso al canile. Finisce che lo comandi tu, il senso di colpa, capito? D’altronde , anche lui, nasce piccolo esattamente come noi: solo che lui non ha nessuno che gli insegni cosa è giusto o cosa è sbagliato. Spetta a noi farlo, altrimenti diventerà un ribelle soggiogato dal giudizio degli altri e sarà per sempre infelice. E noi con loro”. E perché, allora, alcuni ce l’hanno meno e altri di più? “Dipende dall’ambiente di crescita, da una naturale predisposizione alla melanconia, dalle cellule del tuo cervello e mille uno fattori: che ti importa? E’ come chiedersi perché una che mangia la tua stessa quantità di cioccolato non ingrassa mentre tu prendi 2 kili: è il mistero del corpo, il mistero dell’unione dei nostri componenti, del nostro io. Quello che a te deve importare, è familiarizzare col tuo senso di colpa, capito? Solo in questo modo riuscirai a goderti le cose ed essere felice. Come questo ponte, vedi? Così bello a quest’ora di notte. L’aria è fresca e pare esserci una sorta di forza superiore che ci protegge da eventuali aggressori: eppure tu non ci sei. Sei qui ma sei altrove. Hai paura di goderti il momento perché sai di dover poi spiegare agli altri quello che fai: come se tu dovessi giustificare che ti piace guardare i ponti durante la notte invece 40


che pensare buttar fuori la spazzatura o cullare un bimbo o grattarsi un piede o bere una tisana o semplicemente dormire. Ma dai! Le cose vengono naturali se le fai con naturalezza, e naturalmente gli altri riconoscono cosa va bene per te”. Parli bene tu che sei forte, ma io... “Tu sei forte come le mattonelle di questa vecchia strada. Guarda quanti graffi hanno e guarda come sono integre: sorreggono una città intera! Sei così forte che se ora, qui, adesso, io ti dicessi ti amo, correresti indietro a tutta velocità”. Stai vaneggiando! Se corro indietro, non son certo forte! “Perché tu pensi che correre indietro voglia dire scappare: e se semplicemente tu stessi prendendo la rincorsa per saltare meglio?”. Salto da sotto questo ponte, se non cambio mentalità

.. e ridendo lievemente, si incamminarono.

41


“Grow up” di Camille Gandon

42


A colloquio con Rossella di Gaia Tomassini “Buongiorno, mi trovo impossibilitata a rispondere al telefono in questo momento, ma lasciate un messaggio dopo il segnale acustico e vi richiamerò appena possibile. Arrivederci, Rossella”. 31/5/1999 Biiip; “Ciao mamma! Nel pomeriggio parti col Club per la Fiera del Libro vero? Senti se riesci prendimi l’ultimo libro di quell’autore finlandese, ora non mi ricordo quale… vabbè insomma, lo riconoscerai! Baci e divertiti, ti voglio bene!”. Ore 10.12 Biiip; “Mamma dove sei? Dovresti essere a casa a preparare la valigia e invece come al solito sei in giro per il paese! Vedi di non dimenticarti niente e – mi raccomando- chiama quando arrivi. Sai che poi sennò sto in pensiero. Ti voglio bene, ciao ciao”. Ore 10.41 Biiip; “Ti prego mamma quando arrivi chiama Alessandra che sennò poi telefona a me preoccupata. Fallo per gli altri tuoi figli e per evitare che i tuoi nipoti vivano in una casa di gente stressata. Detto questo, ricordati del finlandese e divertiti”. Ore 11.32 1/6/1999 Biiip; “Rossella, sono Marco! So che sei partita per Ferrara e che torni domani, ma il tre sei prenotata in mattinata per un 43


caffè da Romolo con il tuo vecchio compagno di classe! Un bacio, divertiti!”. Ore 12.05 Biiip; “Buonasera signora Romito, sono Francesca, la moglie di Riccardo. So che è via ma è un messaggio urgente, appena può per favore mi chiami. Grazie mille e scusi per il disturbo”. Ore 19.50 Biiip; “Ciao mamma sono Riccardo. Scommetto che Francesca ti ha lasciato un messaggio inquietante dicendo che la devi richiamare e che è urgente; non ti preoccupare, era solo per invitarti a cena da noi il tre. Facciamo una cena in famiglia così Ilaria saluta tutti prima di trasferirsi a Milano; vengono anche Alessandra e quella pazza di Giuliana con le loro famiglie. Nulla di angosciante, ma conosci Francesca, la metti in soggezione anche dopo trent’anni che siamo sposati. Ci vediamo il tre a cena, ciao ciao!”. Ore 20.12 2/6/1999 Biiip; “Rossella sono Giulia! Abbiamo prenotato la cena per la fine del corso di informatica: ci troviamo il quattro alle 19.30 in quella pizzeria all’angolo in piazza, ora non mi ricordo il nome. Appena senti il messaggio chiama!”. Ore 9.17 Biiip; “Nonna sono Giacomo! Sei tornata?”. Ore 15.37 Biiip; “Mamma dove sei? Dovresti essere già arrivata a casa! Appena arrivi chiama!”. Ore 21.32 Biiip; “Mamma se sei in casa TI PREGO chiama Alessandra che sennò tra due minuti sfonda la porta di casa tua o in alternativa non mi fa dormire tenendomi al telefono tutta la notte per l’ansia”. Ore 21.43 Biiip; “Probabilmente il mio messaggio è stato preceduto da quello di Giuliana, ma ti prego mamma, appena arrivi chiama Alessandra. Convincila peraltro a bersi una camomilla prima di esplode44


re”. Ore 21.52 3/6/1999 Biiip; “Ciao nonna, sono Ilaria! È andata bene la Fiera del Libro? Fai un favorone alla tua nipote preferita che sta per partire? Per la cena di stasera puoi preparare quel dolce alle meringhe che mi piace tanto? Grazie, a dopo!”. Ore 10.11 Biiip; “Ciao mamma, mi fai un favore? Oggi sono occupatissima con il lavoro, riesci ad andare a prendere i gemelli a scuola, a farli pranzare e a portarli in piscina alle 16.15? A Samanthina bella ci penso io! Grazie mille!”. Ore 11.23 Biiip; “Buongiorno Rossella, sono Stefano del Club del Libro. Ho perso la mia polo rossa, per caso l’ha vista? Se ce l’ha lei la prego di richiamarmi. Arrivederci”. Ore 11.38 Biiip; “Sono Marco e ho in ostaggio tuo nipote Giacomo. Devi farmi trovare 15 euro a casa della nonna Lucia o non rivedrai più tuo nipote!”. Ore 16.06 Biiip; “Nonna sono Giacomo! Non ti spaventare, io e il mio amico Marco ti abbiamo fatto uno scherzo! Io sto benissimo!!”. Ore 16.08 4/6/1999 Biiip; “Ciao mamma, grazie ancora per il dolce di ieri, sai che Ilaria ha apprezzato. Parte domani alle 10 dalla stazione, se vuoi passare a salutarla”. Ore 9.24 Biiip; “Mamma!! Sofia è tornata dall’Olanda con un tatuaggio!! Ma dove ho sbagliato con lei?! Le ho detto che quando vuole può andare ad abitare da quella scoppiata di sua zia Giuliana, così ho un problema in meno. Sono disperata!!”. Ore 11.30 Biiip; “Mamma! Alessandra ti ha detto del tatuaggio di Sof? Incredibile!!”. Ore 12.07 45


Biiip; “Ciao nonna come stai? Sono Sofia! Penso tu sappia già del mio tatuaggio a forma di Olanda, è bellissimo! È stato il viaggio più bello della mia vita, dovevo immortalarlo! Ora la mamma è furiosa, ha detto che quando voglio posso andare dalla zia Giuliana; io però con una bambina di un anno non ci sto, posso venire a vivere con te?”. Ore 17.43 Biiip; “Ciao nonna sono Rodrigo! Domani io e Lucas abbiamo la gara di nuoto, vieni a vederci vero?”. Ore 19.22 Biiip; “Mamma domani c’è la gara di fine corso dei gemelli e a loro farebbe piacere ci fossi anche tu a vederli. Puoi vero? Appena senti il messaggio chiama!”. Ore 19.56 Biiip; “Mamma sono in ospedale che Giacomo è caduto e si è rotto il braccio, ora gli mettono il gesso e poi andiamo a casa… Ovviamente domani non può andare all’asilo, te lo posso portare per le 8.15?”. Ore 20.16 5/6/1999 Biiip; “Mamma esco di casa ora, arrivo”. Ore 8.03 Biiip; “Mamma oggi passo a prenderti alle 15.30 per andare in piscina, fatti trovare pronta!”. Ore 10.13 Biiip; “Nonna allora sto facendo la valigia, vengo a vivere da te ok?”. Ore 11.37 Biiip; “Mamma non provare ad accogliere tua nipote in casa, Sofia fino ai 18 anni vive con la sua mamma e va a weekend alterni da suo papà! Giacomino come sta?”. Ore 11.48 Biiip; “Buongiorno signora sono Francesca, la moglie di Riccardo, scusi il disturbo. Volevo ringraziarla per aver trovato il tempo per venire oggi con Giacomino a salutare Ilaria, sono sicura che le ha fatto piacere. Grazie mille ancora, arrivederci”. Ore 12.03 Biiip; “Mamma esco ora dall’ufficio, arrivo e vi carico su! So che sei 46


già fuori di casa che mi aspetti e che sono io quella in ritardo come al solito, ma arrivo!”. Ore 15.27 Biiip; “Mamma sono Riccardo, dopo cena passo a portarti la teglia della torta alle meringhe, aspettami sveglia!”. Ore 16.53 6/6/1999 Biiip; “Ciao nonna sono Giacomo, come stai? Oggi la mamma è un po’ triste e strana, e anche Sofia ha pianto. Lei non lo mostra, ma sono passato vicino a camera sua e l’ho sentita che piangeva. Ho chiesto alla mamma cosa è successo e lei mi ha detto che ieri sera ti sei addormentata e hai iniziato un sogno bellissimo che non finirà più. A me non sembra una cosa tanto brutta. Ho chiesto alla mamma se ti potevo chiamare, che magari ti svegli sentendo gli squilli, ma lei ha detto che non risponderai neanche se ti lascio un messaggio. Però ci provo lo stesso, perché ogni volta che lascio un messaggio in segreteria poi mi richiami appena puoi. Io aspetto la tua telefonata, ok? Ti voglio bene”. Ore 12.37 .

47


“Piccolo Sud” non è una storia, ma un archivio di ricordi fotografati in ritardo. Un omaggio alla genialità, prima ancora che alla bellezza, dell’Italia meridionale: un viaggio fra ciò che è rimasto del Sud e ciò che andato e che sta andando perso. “Piccolo Sud #118” di Emiliano Cribari

48


La marchesa di Vincenzo Carriero Era una serata come questa, uggiosa, fredda. Il cielo grigio d’argento brontolava parole senza senso. L’asfalto lucido di pioggia fine, fitta, illuminato di rosso, di giallo, di bianco, dai fari delle auto in coda. Era l’ora di punta, un macello. Qualcuno smadonnava suonando il clacson, altri ingannavano l’attesa su WhatsApp, altri ancora parlavano del tempo, che banalità! La marchesa, invece, era ancora lì, imperturbabile, dietro il grosso vetro del suo ufficio megagalattico, all’ultimo piano di un grattacielo fatto di specchi, sulla Avenue, in pieno centro. E osservava tutta quella gente andare avanti. Dove? Se lo chiedeva da sempre senza darsi una risposta soddisfacente. Quel giorno osservava le gocce di pioggia trasparente disegnare cuori, fiori, serpenti, segmenti lunghissimi sul vetro dove il suo respiro lasciava il segno. La condensa, migliaia di particelle di vapore acqueo più caldo del mondo esterno. – Che bello – pensava mentre ci disegnava un cerchio, con le dita nodose, deformate, come fossero rami di ulivo rinsecchiti, scheletriche appendici sopravvissute allo scorrere inesorabile del tempo. Già, il tempo. Aveva lasciato il segno. Sul viso, sul corpo raggrinzito, nei suoi occhi spenti. Aveva assopito appetiti altrimenti incontenibili. Era sempre stato difficile soddisfarli. In certi ambienti, una persona in vista come lei, una donna importante. Talmente tanto da spostare capitali così ingenti da far fallire una banca. O scatenare guerre. Magari finanziando 49


estremisti. Le guerre di religione, poi, erano le sue preferite, le più cruente. E più ci pensava, più il suo appetito diventava insostenibile. Da un po’ di giorni era così, come una presenza ingombrante, un compagno di viaggio oscuro, assillante. – Meno male che hanno inventato internet – pensò, soddisfare certe pulsioni non era mai stato così semplice, bastava andare su un sito di appuntamenti. Una telefonata, poche parole, niente fronzoli. La marchesa era impaziente. Guardava l’orologio continuamente, come un’adolescente in attesa che il suo ragazzo l’andasse a prendere. Le prime cotte, immagini sbiadite, di osso di seppia, su vecchie fotografie dai bordi consunti. La donna le aveva distrutte. Tutte, da tempo immemorabile. Ne aveva viste tante. Tante storie, tanta gente. Amicizie, amori, affetti, tutti volati via, come se niente fosse, sublimati in un istante. Lei, solo lei, per sempre. Col suo appetito crescente, l’unica costante nella sua vita eterna. Le otto meno un quarto, puntuale. Come l’altro. L’interfono si mise a squillare con quel cicalino invadente. Una voce femminile, efficiente, annunciava la presenza del fustacchione scelto su internet. Stallonipersempre.com, solo per vecchie bacucche. Take away, finalmente. -Si mangia- Il tipo muscoloso non aveva capito niente. Regolare. Cosa poteva aspettarsi da una vecchia intabarrata in un tubino sexy? -La solita serata di merda– pensò, -mai che mi capitasse carne fre50


sca– Allora cominciò a inscenare la patetica commedia. -Come ti chiami… bla, bla, bla. -Come sei sexy… bacio sul collo, mano sulla chiappa cadente. Bla, bla, bla. -Mi stai facendo impazzire… la sua mano cominciò a stringere una zizza. Era moscia, come una zampogna asfittica. -Baciami– disse la donna, ansimando- Baciami come se fosse l’ultima cosa che farai a questo mondo- lo disse ancora, come se non volesse altro. Ci fu un incrocio di labbra, di lingue, di denti. Poi, all’improvviso, qualcosa cominciò a succhiare forte. Sempre più forte, sempre più potente. Il fustacchione sentì le viscere salirgli su, con un movimento verticale che dalle chiappe spingeva imponente, come un conato di vomito incontrastabile. Provò a divincolarsi, con tutte le forze che aveva in corpo. E più si opponeva, più la marchesa succhiava forte. Labbra contro labbra, come una mostruosa ventosa. Il tipo muscoloso non aveva speranze. Intrappolato in un abbraccio mortale, senza via di scampo. Era spacciato, come una mosca in una ragnatela di un ragno. In poco tempo divenne un inutile involucro di pelle informe. La marchesa si sentiva in forma smagliante, e più ingoiava, più diventava attraente. – Che schianto – disse ammirando la sua figura allo specchio. Poi, si asciugò l’ultimo rivolo di sangue che le colava dalla labbra. Si aggiustò i capelli e fece un sorriso scintillante quando ammirò la 51


rotondità delle sue tette. A un certo punto, l’interfono si rimise a squillare. Come prima, forte e invadente. – Signora marchesa, è tutto pronto, fra pochi secondi inizia la videoconferenza –

52


“Vitamorte� di Evelyn Valenziano


33

L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris 54


55


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.