gennaio 2018
numero 40
rivista letteraria
il potere
visto dalle donne
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Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze-Paris @2010-2018 Sede: 2 sentier du tourniquet, 93100, MONTREUIL w w w. i r r e q u i e t o . e u
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Discorso di ricevimento all’Académie française di Marguerite Yourcenar
L’elezione nel 1980 di Marguerite Yourcenar all’Académie française consacrò l’idea dell’uguaglianza dei sessi in un’istituzione fino ad allora composta esclusivamente da uomini. La fine della «tribù dei 40 maschi» sovvenne grazie all’intervento decisivo dell’intellettuale Jean d’Ormesson che pur non conoscendo personalmente la scrittrice, se non per averla incrociata in qualche occasione, sostenne vigorosamente la sua candidatura reputando la sua opera come «ciò che c’è di meglio, di più degno e di più duraturo» nella letteratura francese dell’epoca. Perché, dice d’Ormesson, « Essere una donna non basta ancora per sedersi sotto la Cupola, ma non è più una ragione per impedire a qualcuno di sedercisi. » Riportiamo qui di seguito un estratto del discorso di Marguerite Yourcenar pronunciato il 22 gennaio 1981 in occasione del suo ricevimento nella Compagnia degli « immortali »: Signori,
In secondo luogo, ho troppo rispet-
Come è opportuno, comincio ringra-
to per la tradizione, laddove è ancora
ziandovi di avermi accolta tra voi, è
viva, potente e, se posso permetter-
un onore senza precedenti. Non insi-
mi, suscettibile, per non capire coloro
sto - loro sanno già tutto questo - sulla
che resistono alle innovazioni verso le
gratitudine que devo agli amici che,
quali li spinge ciò che viene chiamato
nella vostra Compagnia, hanno insi-
‘spirito del tempo’, che spesso non è
stito per eleggermi senza che, come
altro, lo concedo, che la moda del tem-
l’usanza mi avrebbe obbligato a fare,
po. Sint ut sunt : siano come sono, è
ne avessi fatto richiesta, ma limitan-
una formula che si giustifica attraver-
domi a dire che non avrei scoraggiato
so l’inquietudine che si prova sempre
i loro sforzi. Essi sanno già quanto sia
quando si cambia anche una sola pie-
sensibile ai lodevoli doni dell’amici-
tra a un bel edificio in piedi da secoli.
zia, ma in quest’occasione lo sono più
Mi avete accolto, dicevo. Questo me in-
che mai, perché questi amici, la mag-
certo e galleggiante, questa entità di cui
gior parte di loro, sono quelli dei miei
ho contestato io stessa l’esistenza e che
libri e non mi avevano mai, o allora
sento delimitata a qualche opera che ho
brevemente, incontrata di persona.
potuto scrivere, eccolo, così com’è, cir-
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condato, accompagnato da una truppa
le donne dell’Ancien Régime, regine dei
invisibile di donne che avrebbero dovu-
saloni e, prima, dei vicoli, non aveva-
to, forse, ricevere prima questo onore,
no pensato a oltrepassare la vostra so-
al punto che avrei voglia di mettermi da
glia, e forse credevano che facendolo si
parte per lasciar passare le loro ombre.
sarebbero private della loro sovranità
Tuttavia, non dimentichiamoci che è
femminile. Ispiravano gli scrittori, tal-
solo da poco più o poco meno di un seco-
volta li guidavano e, spesso, riuscivano
lo che la questione della presenza delle
a fare entrare uno dei vostri protetti
donne in questa assemblea ha potuto
nella Compagnia, una pratica che, mi
essere sollevata. In altri termini, è ver-
si assicura, è durata fino a oggi; esse
so la metà del XIX secolo che la lettera-
non ci tenevano a essere candidate.
tura è diventata allo stesso tempo una
Non possiamo quindi affermare che in
vocazione e una professione per qual-
questa società francese così impregnata
che donna in Francia, e questo cambia-
di influenze femminili l’Accademia sia
mento era ancora troppo recente forse
stata particolarmente misogina; essa si
per attirare l’attenzione di una Compa-
è semplicemente conformata alle usan-
gnia come la vostra. Madame de Staël
ze che piazzavano volentieri la donna
sarebbe stata senza dubbio ineleggibi-
su un piedistallo, ma non permette-
le per la sua ascendenza svizzera e il
vano ancora di porgerle ufficialmente
suo matrimonio svedese: si acconten-
una poltrona. Perciò non ho motivo di
tava di essere una delle migliori menti
inorgoglirmi di quest’onore, certo gran-
del secolo. George Sand avrebbe fatto
de, ma quasi fortuito e da parte mia
scandalo per l’agitazione della sua vita
quasi involontario; una ragione di più
e la generosità delle sue emozioni che
per ringraziare coloro che mi han-
fanno di lei una donna così mirabil-
no aiutato a superare un limite (…).
mente donna; la persona, ancora di più della scrittrice, anticipava i tempi. Colette pensava che una donna non debba avvicinarsi a degli uomini per sollecitare il loro voto, e non posso che essere d’accordo, non avendolo fatto nemmeno io. Ma andiamo più in là nel tempo: 5
Il potere del potere di Eva Luna Mascolino
L’EDITORIALE
Sembrerà un paradosso, eppure concedere spazio e voce al potere in questo momento storico è fuori moda. Pericoloso com’è, infatti, viene sempre sfiorato superficialmente e mai analizzato al microscopio. Le volte in cui qualcuno se ne serve per dire la propria senza filtri sono rare e, nel momento in cui è una donna a farlo, si configurano addirittura come un’eccezione. Il che, naturalmente, ha due conseguenze principali. La prima: il potere è stato ormai relegato a una bestia indomabile, tenuta in gabbia e sedata quotidianamente, nella speranza che chi le passa accanto si limiti a pagare un biglietto per guardarla da lontano e per poi dirle addio. La seconda: chi si rifiuta di accettare lo status quo e si serve dei propri strumenti per esercitare un qualsiasi tipo di potere si ritrova presto o tardi sotto i riflettori. Ne sono un esempio il caso Weinstein e il movimento #MeToo, che per due ragioni speculari hanno dimostrato quanto il potere possa cambiare qualcuno in orco e qualcun altro in militante. Il potere del potere è sconfinato, in altre parole. Fa paura e fa gola, miete vittime e incorona carnefici, in una ruota dal diametro sempre maggiore e dall’entità sempre meno trascurabile. Ecco perché, in occasione dell’uscita del suo quarantesimo numero, la rivisa letteraria L’Irrequieto ha deciso di assecondare la seconda conseguenza di tale grande macchina sociale e ha consegnato lo scettro – o meglio, la penna – interamente al sesso femminile, chiedendo a tutte le interessate di inviare una storia, un articolo o qualche verso per la redazione del mensile.
Nessun limite di età, di provenienza, di istruzione o di religione. Solo una scadenza da rispettare e una parola-chiave condivisa, per niente casuale: potere. Declinato nelle sue più assurde manifestazioni, in senso lato e in senso letterale, da una prospettiva attuale o da una che abbracci la natura umana priva di connotazioni spazio-temporali. Terrifico o salvifico, magnificente o insulso, vergognoso o lodevole, individuale o collettivo, laico o religioso, italiano o straniero, confessato o nascosto. Il risultato è stato sorprendente e, proprio per questo, ha confermato le aspettative di chi ha voluto credere nell’iniziativa. Numerose sono state le adesioni e ancora più caleidoscopiche le prese di posizione, che hanno consentito la pubblicazione di una rosa di contributi a dir poco eterogenea. Non sono mancati accenni a testimonianze concrete, specie nel caso di Franca Viola, e una visione storica del potere è stata in più casi al centro degli episodi narrati, che fossero ambientati a Costantinopoli o al confine con la Jugoslavia, che riguardassero il 25 aprile o la mancata parità di genere sul posto di lavoro. Ancora di più ha sorpreso, forse, l’attenzione consacrata alle diverse manifestazioni del potere sensoriale: ora quello del profumo, ora quello del fuoco; ora quello della musica, ora quello dell’appetito. Ora con liriche incisive e brevi, ora con uno stile narrativo articolato in più micro-capitoli. 6
E, se da un lato si è notata la volontà di evidenziare il potere della magia, della superstizione, del mistero e della macchinazione dall’altro lato hanno fatto da contraltare episodi dedicati al potere della parola, dell’azione, della poesia e della seduzione, in uno strabiliante dualismo equilibrato fra quello che il potere promettere di essere e quello che minaccia di diventare. Per quanto composita, dunque, l’uscita di gennaio 2018 è la testimonianza parlante del fatto che le donne desiderino dire qualcosa, che sappiano esattamente come e quando farlo, e che il potere affidato alle loro mani – soprattutto quando c’è di mezzo l’arte – sia di sana e robusta costituzione. Difficile darlo per scontato, considerando i recentissimi fatti accaduti in Iran o le interviste che in case molto più vicine alle nostre ascoltiamo con speranze sempre più fragili, nel confrontarci con molestie e violenze di ogni sorta. Detto ciò, chi collabora con L’Irrequieto sa e non dimentica che il ruolo di una rivista culturale non è certo quello di proporre presunte analisi del reale, quanto piuttosto quello di suggerire interpretazioni e nuove visioni del problema mediante la sublimazione, la “metaforizzazione” e la trasformazione. Attraverso lo speciale in uscita oggi non si propone, quindi, di offrire risposte e soluzioni rivelatrici a questioni da dibattere ancora a lungo. Più semplicemente, ha voluto seminare in maniera pragmatica un seme e ne ha raccolti con entusiasmo i frutti, limitandosi ad osservare come ha germogliato l’idea del potere nella bocca di chi troppo spesso viene messo a tacere, ignorato o addirittura punito per la sola ragione di possedere uno spirito critico e creativo. Non è un caso che Marguerite Yourcenar nel 1980, durante il suo discorso di ricevimento alla Académie française, abbia sottolineato: “è verso la metà del XIX secolo che la letteratura è diventata allo stesso tempo una vocazione e una professione per qualche donna in Francia, e questo cambiamento era ancora troppo recente forse per attirare l’attenzione di una Compagnia come la vostra”. Molto poco diversa è stata ed è la situazione in territorio italiano, nel quale l’autorevolezza intellettuale – oltre che politica, economica, militare e diplomatica – rischia di essere ancora mero appannaggio maschile, se l’autorità continua a essere temuta, sfruttata o monopolizzata da uno o da entrambi i sessi. È da parte di donne disposte a dire la propria come stavolta, dunque, che ci si possono aspettare le domande più interessanti, le riflessioni più accese, le ipotesi più commosse, le proposte più ragionate e le rielaborazioni più vibranti. È da parte di donne che hanno utilizzato carta e inchiostro per dare forma alla propria opinione che ci si può aspettare un apporto sempre meno simbolico e sempre più completo in ogni ambito della contemporaneità. Ed è da parte delle donne che si sono unite a noi che vi auguriamo buona lettura e buon anno nuovo – se possibile, nuovo anche nella ridistribuzione e nella concezione del potere in ogni sua forma.
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“Noi moriamo. Questo può essere il significato della vita. Ma noi creiamo un linguaggio. Questo può essere la misura delle nostre vite.”
Toni Morrison
Prolusione al Premio Nobel per la Letteratura, 7 dicembre 1993
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pag.10 Sonia Aggio Le Cadute
pag.56 Maria Fabia Simone Franca Viola
pag.18 Martina Marasco Fiori su Dublino
pag.58 Ileana Moriconi Happy Hour
pag.20 Claudia Muscolino Il piccolo genio
pag.62 Suhir Knani pag.64 Mimì Burzo Senza Titolo
pag.24 Giorgia Bianchin Il tutto, il niente
pag.66 Rosita Bellometti La bugia del topo
pag.26 Floriana Porta Il potere della poesia
pag.70 Nataša Cvijanovic’ Le scuse sono finite
pag.28 Eva Luna Mascolino Il potere-piacere della parola
pag.72 Ilaria Gentile Alzati meraviglia pag.74 Eleonora Santamaria Pugni allo stomaco
pag.34 Barbara Monorchio Brogli dell’universo
pag.78 Angela Ceraso L’achimia dell’olezzo
pag.44 Emanuela Cocco L’invito
pag.80 Elisa Vincenzi
pag.50 Fiorella Malchiodi Albedi Un morto per la vigilia
direzione Donatello Cirone Alessandro Xenos concezione e realizzazione grafica Antonella Restagno in copertina “La solitudine della donna globale -2011” -acrilico su tela
pag.52 Federica Castelli Amorfe pag.54 Enrica Gatti
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collezione “Storie di donne, 2011-2018”
di Antonella Restagno
www.irrequieto.eu
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Le Cadute di Sonia Aggio 1100 ca. - 1453 L’acqua ha il colore dell’oro e asciugandosi lascia una patina di sale. Benedetta risale la spiaggia, sudata sotto la cotta di maglia, e muove le dita attorno all’elsa della spada. I soldati la raggiungono di corsa. — Prendete la città, ma cercate di evitare lo scontro — dice loro. Gli uomini annuiscono e scompaiono sulle colline. Lei resta sulla riva, nervosa e annoiata; snuda la spada e colpisce le piante di mirto e rosmarino. Qualcuno scende il sentiero di corsa. Benedetta si volta: i soldati stanno tornando, sporchi di sangue e terra. Lei vorrebbe gridare, ma la vista dell’uomo che li segue la raggela. Il sole del tramonto incendia la sua corazza dorata e la sua barba fulva. Benedetta batte la punta della spada sul terreno e gli va incontro. — Gregorio. — Benedetta. Si fronteggiano. — I tuoi uomini hanno sterminato la mia guarnigione. Benedetta si volta verso il suo capitano. Lui si toglie l’elmo e si passa la mano sui capelli appiat-titi. — Hanno opposto resistenza. Noi ci siamo semplicemente difesi. Gregorio tamburella le dita sul fianco. — Cosa vuoi da me? — Venezia intende espandersi nell’Egeo. Questo è il primo passo. — Queste isole appartengono a me! — la voce dell’uomo si fa convulsa. Benedetta raddrizza le spalle. Osserva gli occhi verdi di Gregorio e fa un passo verso di lui. Ora sente il suo odore, sale e cuoio, e vede le piccole rughe sul suo viso. — Questa appartiene a me, ora. Se non ti sta bene — fa un passo indietro e allarga le braccia — combatti. I soldati si irrigidiscono. Qualcuno mette mano alla spada, il capitano indossa frettolosamente l’elmo. Benedetta resta a braccia larghe, sorridente, anche se è pallida e ha il fiato corto. Gregorio la guarda, stringe l’elsa della spada. Tutto resta sospeso per un attimo, poi l’uomo sospira, scuote 10
la testa e si gira. — Dove vai?! — grida Benedetta. Lui si avvia lungo il sentiero. Lo insegue sulla collina, furiosa, con la spada sguainata. — Gregorio! Bisanzio, fermati! Lui si blocca. Un colpo di vento smuove il suo mantello rosso. — Non piace questa conquista? — A Venezia piace. Ma io non sono soltanto Benedetta — replica Benedetta. Vorrebbe prender-lo per i capelli e torcergli la testa e dirgli nell’orecchio io non sono più un tuo dominio, non sono tua suddita, capito? Dovrai riconoscere il mio valore e amarmi come qualcosa che brami e non puoi avere. Venezia è libera. — Non ho intenzione di combattere con te — dice Gregorio. Improvvisamente lei nota i suoi capelli bianchi, la postura contratta e, quando lui riprende a camminare, la lieve zoppia. Lascia rica-dere il braccio lungo il fianco. Ordina ai soldati di accompagnarla in città. Lì resta in silenzio, osserva i greci distesi nel cortile, il loro sangue che scorre fra i sassi. Distesa nel ventre della galea, con il mare che ruggisce contro il legno, Benedetta pensa ai suoi primi anni. Torcello è poco più che un sogno — una chiesa fredda, una barca tirata a riva —, ma ri-corda Gregorio. Le leggeva brani dell’Ecclesiaste, le metteva la mano inanellata sulla testa, le inse-gnava tattiche militari disponendo nomismata e follis su una coperta rossa. Eppure lei sapeva di non essere nulla: lo sguardo di Gregorio passava indifferente su di lei. In questo modo è cresciuta. È cominciata la sua seconda vita: una mattina si è svegliata diversa, con capelli di bronzo e occhi verdi e castani. Li ha guardati e li ha chiusi. Per un po’ ha fatto finta di nulla, poi ha dovuto ammettere che erano gli occhi di Gregorio. Ora è febbricitante, piena di desideri e fantasie. Si sposta da un’isola all’altra, traccia nuove rot-te, si lascia alle spalle qualche cadavere bizantino. A volte, alzando lo sguardo, riesce a vedere la corazza dorata di Gregorio, ma lui la evita e batte in ritirata.
il potere della storia
Benedetta fa un voto: si fa legare i capelli, prende la spada ed entra nella basilica. Si inchina da-vanti all’altare, sguaina la spada e taglia. Per un attimo soppesa la treccia tra le mani — i suoi capelli sono folti e luminosi —, poi la dona a san Marco. Te li dono invoca per arrivare a Bisanzio. Nel 1204 Benedetta salpa per l’Oriente con l’esercito crociato. Sta sul ponte della galea e si chiede se questa sia la sua terza vita: guarda nell’acqua e vede una faccia aspra, capelli corti. Sente il peso del denaro nelle tasche. Una domanda continua a martellarle in testa — Voglio davvero fare questa cosa? — ma quando Costantinopoli emerge dall’orizzonte, Benedetta deve chinare la testa e cedere il passo a Venezia. Una tenda smossa, un gioiello cattura il bagliore degli incendi. Il profilo di Gregorio emerge dal buio. — Sei felice? — chiede. Benedetta è seduta con la testa fra le mani. — Venezia è soddisfatta — replica — io no, anzi mi dispia… Gregorio ride piano. Lei si alza, stringendo i pugni. — Non mi credi? — Continui a giustificarti, ma su di te sento sangue, sudore, fumo… hai l’odore della battaglia. Potrei perdonarti se tu fossi solo Benedetta… ma sei anche Venezia. Benedetta raggiunge la porta; la tenda continua a ondeggiare, disegna fantasmi. Esce. La strada è rischiarata da una luce rossastra. In lontananza si sentono urla e boati. Gregorio è in fondo alla sa-lita, si sta allontanando. Benedetta lo insegue; ha il viso in fiamme, un urlo che si agita al centro del petto. Vuole trafig-gerlo contro un muro. Il suo sangue le macchierà il viso e lui dovrà guardarla. Entrano nel Palazzo, lei guarda a destra e a sinistra, attonita: in un angolo c’è un soldato che ca-va le pietre da un crocifisso, in una stanzetta c’è una bambina distesa in una pozza di sangue. Quan-do arriva all’ultima porta, la sua rabbia si è spenta. Bussa piano.
— Gregorio, io volevo solo che tu ti fermassi. Venezia ti ha dilaniato, non sono stata io. Io non volevo… Spalanca la porta. C’è sangue sul pavimento, sui tappeti. Benedetta controlla ogni angolo, sposta le tende e gli a-razzi, ma Gregorio non c’è. Un dubbio atroce le fa tremare le gambe: con la faccia intorpidita, si af-faccia alla finestra e guarda il mare. Prende la spada e colpisce il parapetto di pietra, batte tre rin-tocchi che fanno sussultare le guardie nel cortile. La ragazza si lascia scivolare a terra; osserva la lama scheggiata, poi lancia via la spada. Mentre lei inseguiva un fantasma, Gregorio è fuggito in Anatolia. Il cuore di Bisanzio le è sfug-gito ancora. Gregorio sta legando il cavallo a una trave. Benedetta cammina con piedi leggeri, felice, le mani giunte sul petto. — Sei tornato — dice a voce bassa. Sono passati quasi sessant’anni. Gregorio si volta e la abbraccia. Benedetta resta immobile, le mani a mezz’aria. Dopo qualche secondo, osa rispondere alla sua stretta. Il suo sorriso si spegne. Comincia a muovere le mani sulla schiena di Gregorio, sempre più affannata, sgualcendo la stoffa con le unghie. Afferra il mantello e glielo strappa di dosso, lasciandogli un segno rosso sulla gola, poi fa a pezzi la sua camicia. Benedetta si porta la mano davanti alla bocca. Guarda il corpo di Gregorio, segnato di cicatrici, ustioni e lividi viola e blu. Sfiora una cresta di pelle che gli attraversa la clavicola e le lacrime le scivolano sulle guance. Lui alza la mano e le sfiora la testa. — I tuoi capelli sono belli — mormora, poi scivola verso il basso. Benedetta si ritrova inginoc-chiata in mezzo alla polvere. Quanto sei magro… Perdonami, per l’amor del cielo, perdonami. Vorrebbe gridare, invece piange in silenzio, digrignando i denti. Per la prima volta, parla con Gregorio. Lui le racconta la storia di Narsi. È la fine del settimo secolo. Le armate arabe at11
traversano il deserto: i cavalli sbavano e sudano sotto le corazze, i cavalieri portano tuniche variopinte, archi e spade ricurve. Gli zoccoli battono sul terreno, gli uomini si alzano sulle selle e gridano il nome del loro nuovo Dio. Gregorio lo sente ed è insonne, ghiacciato. Una notte, Narsi bussa alla sua porta. Implora il suo aiuto. Lui deve rifiutare. Mentre loro discutono, gli arabi cavalcano sotto il cielo senza stelle. Gli eserciti bizantini non intervengono. Poco dopo, mentre torna alla nave, Narsi ha un malore. Gregorio lo prende tra le braccia. Ctesifonte cade. Narsi muore. Gregorio chiude gli occhi e si appoggia allo schienale della sedia; ha il viso grigio e tirato. — L’Ecclesiaste — dice Benedetta. Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito. Per quanto implori e pianga, i senatori non intendono ascoltarla. Benedetta si getta ai piedi del Doge, gli stringe le caviglie. Dalle finestre spalancate entrano il puzzo delle alghe e il canto di un barcaiolo. Due uomini la prendono per le braccia e la costringono ad alzarsi. Benedetta scalcia, il viso rosso e lucido, e getta indietro la testa. — Siete crudeli! Perché non mi lasciate andare? Lasciate che vada! — grida. La saliva le va di traverso e la fa tossire. — Lasciate che vada! — strilla, mentre la trascinano verso la porta. Il Doge si alza in piedi. — Ora basta! — grida. — Va’ ad avvisare il greco, e calmati. Benedetta inciampa e cade in ginocchio. La porta viene sbarrata. Mentre scende le scale si sente morta. Non vede l’ora di abbandonare questa seconda vita: scen-de sulla piazza e spera che il vento la spazzi via, la riduca in cenere e la disperda. Invece mette i piedi sui mattoni rossi e non accade nulla. Continua a camminare, il sangue cola dalle ginocchia sbuc12
ciate sui polpacci, il suo cuore è un sasso freddo. Gregorio ha implorato, si è riunito alla Chiesa di Roma, si è riappacificato con l’Occidente. Lei ha pensato: Umiliarsi in questo modo è terribile. Deve funzionare. Invece è stato inutile. Lo sguardo freddo del Doge la fa piangere ancora. Sale sulla nave. Gregorio indossa la corazza dorata, tiene la spada sulle ginocchia. Benedetta si inginocchia da-vanti a lui. Sarebbe più facile se lui capisse il suo silenzio e le tagliasse la testa, ma sanno entrambi che non succederà. Le mani dell’uomo sono come ragni. La barba è ancora bella e folta, ma la sua faccia è livida. Non riesce ad alzare la spada, non può combattere. — Resta con me — dice Benedetta. L’angoscia le storpia la voce. — Non sarai solo. Gregorio alza lo sguardo. I suoi occhi sono vetro verde. — Non posso… ma ti ringrazio. Tu non sei cattiva — dice e le infila la mano tra i capelli. Benedetta si lascia attrarre contro il suo petto, a occhi sbarrati, lui avvicina la testa alla sua e le dà un bacio sulla tempia. — Ora vado — dice. Lei si alza, si trascina sulla passerella e torna sulla riva. Si volta e scopre che Gregorio ha rag-giunto il parapetto; sta guardando il leone sulla colonna e i cavalli sulla basilica e le ombre mostruose che dipingono. — Gregorio! — esclama Benedetta. — Non sei stato cattivo con Narsi. Lui sorride debolmente. La nave molla gli ormeggi e si sposta al centro del canale. Gregorio resta sul ponte, vestito di oro e porpora, e Benedetta pensa a quanto lo ha inseguito fra gli ulivi e le vigne. Sa che non lo vedrà mai più. Venezia si ribella e le dilania il petto, mentre lei dà tutto il suo denaro a un capitano genovese per essere portata a Costantinopoli. Il Mediterraneo è una distesa azzurra e allegra, poi la nave passa nel mare di Marmara: Benedetta vede colonne di fumo nero alzarsi dalla città e vomita oltre il parapetto.
il potere della storia
La nave è costretta ad attraccare a Galata. La ragazza scende e si siede sul molo, stordita. Geno-vesi e veneziani salpano carichi di opere d’arte e profughi. Lei li guarda, loro nascondono le facce scure e livide, i bambini si appendono alle gambe delle madri e guardano nel vuoto. Ore dopo Benedetta si sente chiamare. Si volta e vede un ragazzino; ha la testa fasciata, un braccio insanguinato. Le porge un involto di stoffa, poi scappa. Lei prende il pacco, lo appoggia a terra e lo apre. Ci sono una spada e un follis annerito. Bene-detta ha le mani rosse. La spada di Gregorio, il mantello di Gregorio. Il sangue di Gregorio. Lei afferra una pietra e si colpisce alla testa. Un comandante veneziano la vede e la blocca, la costringe a salire sulla sua nave e la lega in un angolo. Lei continua a piangere nell’incavo del go-mito, con la testa che pulsa e i capelli impiastricciati di sangue. Sogna di tirarsi via il cervello — suppone che sia nero e verde e giallo, iridescente come le interiora di un pesce. Vorrebbe morire, ma la sua natura glielo impedisce. Così Benedetta esce dalla sua pelle come un serpente ed entra nella sua terza vita. 1571 – 1796 È sempre, sempre piena di rabbia. Non riesce quasi a dormire: resta distesa sul letto ma i suoi occhi restano spalancati, guarda i giochi di luce sul soffitto e stringe il follis di Gregorio nel pugno fino a imprimerne i segni nella carne. Si muove per la città indossando gli schinieri sotto le gonne. La gente la sente arrivare e si ferma, si volta. Il Doge la manda a chiamare più volte, lei straccia le convocazioni e caccia i messi dal suo palazzo. A volte sveglia i servitori nel cuore della notte, fa accendere le torce e scende in cortile per eser-citarsi. Stringe una fascia attorno al seno, indossa un paio di braghe, chiede alla cameriera di intrec-ciarle i capelli. Poi prende la spada di Gre-
gorio — è pesante, scomoda, modellata per un uomo alto e robusto — e si esercita. Infilza le ombre del giardino, prova una serie di figure, ripete gli affondi contro un nemico incorporeo. La spada e la treccia fendono l’aria sibilando. Quando si ritrova senza fiato, si fa portare uno specchio. Si guarda: la treccia bronzea e dura come una corda, la pelle di alabastro, le narici dilatate, gli occhi di corniola, con quella loro sfumatura rossastra. Ha perso il verde di Gregorio: è diventata una donna di pietra. Con un grido, scaglia la spada contro il suo riflesso e lo fa a pezzi. Il Serenissimo Principe indica l’elmo. — Perché non vuoi indossarlo? Sei un’idiota? — grida e lo colpisce con il braccio. L’elmo cade dal piedistallo e rotola sul pavimento. Benedetta si affaccia alla finestra. Le piace la rigidità dell’armatura, i gomiti e le ginocchia pizzicati dal metallo. La voce del Doge la insegue, melliflua. — Stai ancora punendo Venezia per ciò che è accaduto a Bisanzio, vero? Bisanzio. La parola la prende alla gola, ma Benedetta si sforza di scuotere la testa. — Assolutamente no. Sto solo assecondando la mia natura — dice, ma la sua voce trema. Si ferma e torna a guardare fuori. — Sono arrabbiata. Sono così arrabbiata… deve esserci una guerra all’orizzonte, altrimenti non saprei spiegare queste sensazioni. Voglio che i miei nemici vedano questi capelli, penseranno che sono lingue di fuoco! Alla notizia della caduta di Cipro, Benedetta ride e piange insieme. Sente la rabbia di aver perso un possedimento, la vergogna di aver fallito, il dolore di aver perso Bragadin, scuoiato e appeso alle mura; una parte di lei, però, ride per l’assurdità del destino che le porta rovina e redenzione attra-verso uomini con i capelli rossi. Lo stendardo con il leone di san Marco garrisce insieme ai suoi capelli e al suo mantello rosso. Benedetta osserva a braccia conserte le galeazze che si fanno largo nello schieramento ottomano, valuta i colpi veneziani e poi scoppia a ridere. 13
Gli stessi ottomani che hanno espugnato una città con le loro bombarde ora soffrono e muoiono come mosche. La flotta cristiana avanza con forza, spezzando le onde con le chiglie. I capelli di Benedetta vo-lano in alto e si attorcigliano come una fiamma. Lei sguaina la spada — la spada di Gregorio, con l’aquila e le pietre — e corre a prua. Ormai può vedere le facce dei marinai turchi, li sente gridare: — Yangın! Yangın! Fuoco! fuoco! Benedetta si apre nel più dolce dei sorrisi. Ti avevo detto, Serenissimo Principe, che questi capelli avrebbero spaventato il nemico. Mette il piede sul parapetto e salta — i suoi capelli si aprono nell’aria e sono rossi, rossi, rossi come il sangue e il bronzo e il fuoco — e piomba sul ponte della nave nemica. Sorride ai soldati che le corrono incontro e grida — e la sua voce è il ruggito del leone e il boato della tempesta. Una freccia le apre la pelle della tempia, ma lei continua ad avanzare. Il legno è viscido di sangue e acqua di mare. Vuole raggiungere il castello: c’è un uomo che desidera vedere ardentemente. La sua mano destra trema d’eccitazione, la punta della spada vibra come il bastone di un rabdomante. Benedetta ride dentro di sé. — Trova l’acqua, bastoncino! Trova il fetido turco, mia dolce spa-da! Il suo braccio va a destra e a sinistra, avanti e indietro, i muscoli si gonfiano contro le piastre dell’armatura. Istanbul le dà le spalle. — Eccoti — dice Benedetta. Lui si volta: indossa la maschera d’argento dei giannizzeri. Lei cerca il suo sguardo, poi rimane di sasso. Ha gli occhi verdi. Stringe convulsa-mente l’elsa della spada. L’uomo ride di lei; Benedetta batte le palpebre. Non vuole togliere quella maschera, non vuole sapere. Vede che la battaglia volge a suo favore, e ciò le basta. In silenzio porta la spada al petto, fa un cenno di saluto. Istanbul si inchina. Benedetta torna alla propria nave. Lei viene per riunire Tenochtitlan e Bisanzio, Sibari e Ctesifonte. Ancora ebbra di vittoria, siede 14
sul suo scranno con aria sognante. Tintoretto le presenta un suo quadro: l’ha ritratta come una guer-riera, ma le ha messo una corona di ferro sul capo. Le ha dato il volto di un dio pagano, di un giudi-ce implacabile. Benedetta ride, e appoggia la testa sulla mano. L’acqua del Canale ha il colore dell’oro. L’odore del pesce si mescola a quello della polvere da sparo, la carne arrostita alle rose. Benedetta siede nella sua camera da letto, assapora il Carnevale che entra dalle finestre aperte. Sta scegliendo i gioielli; scarta ametiste, zaffiri e granati, tiene le perle di fiume, i topazi, l’oro, le corniole. Vuole splendere come una cometa. La sua cameriera aspetta di vestirla. Benedetta la guarda e le sorride. Ripensa alla cameriera che le intrecciava i capelli perché potesse allenarsi con la spada. Questa ragazza, invece, glieli ha arricciati con un ferro caldo. Le chiede: — Dorotea, che abito mi consigli di indossare? Lei va al guardaroba, mette alcuni abiti su un braccio e li appoggia sul letto. Benedetta li scruta: ocra, rosa carnicino, giallo calendula, albicocca. Un ventaglio di colori caldi e piacevoli. È così bello essere felici. Sceglie l’abito color calendula, indossa una collana d’oro e topazi. Esce dal palazzo. Cammina per le calli, costeggia i rii: gli uomini si tolgono il cappello, le donne si inchinano. Benedetta balla con una dama vestita d’azzurro e sente i sospiri di piacere dei presenti. Si lascia of-frire un dolcetto, ride dello zucchero caduto sul broccato. Un ricciolo cede, diventa più lungo e fini-sce per sfiorarle la clavicola. Gli uomini ne sono attratti; lei se ne accorge e comincia a muovere la testa, in modo che i capelli le spolverino la pelle bianca. Il vino le si raggruma sul mento, qualcuno la guarda come se volesse metterci la bocca. Quando rientra, il palazzo è deserto. — C’è nessuno? — grida e si passa le mani sulle guance. Sale nella propria stanza e si siede al tavolino da trucco. Per prima cosa si toglie i gioielli, e con-trolla gli arrossamenti del collo e dei lobi.
il potere della storia
Poi stacca le forcine, i riccioli cadono sul collo e perdono forma. Si toglie le scarpette e allunga i piedi. Decide di spogliarsi da sola, di non chiamare Dorotea. Si fa trovare così, mezza nuda e mezza ubriaca. Sta sorridendo, quando nello specchio appare il viso triste di Gregorio. — Sono passati trecentocinquant’anni… trecentocinquant’anni, e tu non ti sei mai mostrato — sussurra. Lui le mette una mano sulla spalla, avvicina la bocca al suo orecchio. — Guarda nello specchio — le dice — che cosa vedi? Lei guarda vede soldati vestiti di blu, cannoni. Un francese. Navi che partono dalla Riva. — Gregorio… — singhiozza, contorcendo il viso come una bambina. Gli prende la mano. — Non lasciarmi… non voglio essere sola. Lui le bacia la tempia. Lì c’è la cicatrice di Lepanto, lì è stata baciata nel maggio del 1453. — Non andartene — ripete Benedetta, piangendo. Lui si stacca. — Arrivano i francesi! — sibi-la. Percorre la casa distruggendo gli arredi con una grande spada arrugginita. Si strappa i capelli, si artiglia il viso e le braccia lasciandosi segni rossi, va qui e là senza una meta, gettando a terra i bic-chieri. Tira giù le tende, geme come un animale ferito, sbatte le porte, spegne le candele. Torna nella sua stanza, chiude la porta a chiave, si toglie i vestiti a brandelli. Lascia cadere la spada di Gregorio, ma continua a stringere il follis, lo intride di sudore. Si arrampica sul letto. Arrivano i francesi! grida. Arrivano i francesi! 2018 Si sveglia con uno schiocco nel cervello. Le strida dei gabbiani, il calore. Le onde di bronzo, la testa pesante. I capelli sotto i piedi. Le ginocchia che sbattono. Uno specchio mangiato dalla salse-dine. Una lama arrugginita. Tagliare, liberare la testa. Tagliare tutto, tagliare corto. Scende le scale di corsa, sbattendo contro il corrimano, vede rose e girandole sui muri. Apre la
porta, la luce l’acceca, inciampa su un gradino e striscia sulle ginocchia fino al rio. Si aggrappa con le dita alla sponda e allunga la testa sull’acqua. Pian piano, i riflessi sbiadiscono, e Benedetta può scoprire il suo nuovo aspetto: faccia magra, testa mal rasata, occhi color acquamarina, mani coperte di tagli e gocce di sangue. La donna comin-cia a ridere e piangere insieme. Sono viva sono viva sono viva! — Oh! Benedetta si guarda attorno. Una fila di barche legate lungo il rio, il portale annerito di una chie-sa, una famiglia con due bambini biondissimi. È stata la moglie a sussultare. La guarda con la mano sulla bocca, gli occhi sbarrati. Lei si alza in piedi come nulla fosse e torna in casa. Benedetta gira il palazzo, che l’ha aspettata per più di duecento anni: il lampadario del salone, le figure degli affreschi, anche la gondola marcita nel rio. Si scusa, raccogliendo le cose stracciate, rot-te, buttate nella sua ultima notte di follia, prende i soldi dal tavolo e se ne va. Ora, seduta sui gradini della chiesa di san Rocco, Benedetta guarda i turisti che vanno avanti e indietro. Nessuno bada a lei, nonostante abbia la testa fasciata, le mani indurite dai cerotti. Soltanto un uomo le si piazza davanti e le punta la macchina fotografica in faccia. Benedetta tira indietro il collo, ma l’altro scuote la mano. — No no! Don’t move, don’t! L’uomo scatta e se ne va, lei si prende la testa fra le mani. Cos’è questa storia? Questi uomini e queste donne che passano sui ponti con i trolley pieni, que-ste bancarelle di maschere luccicanti e sonagli, questi ristoranti pretenziosi e costosi e puzzolenti? Riprende a vagabondare, si ferma in un campiello piccolo e vuoto, in cui aleggia un odore misto di sapone, alghe e piscio di gatto, e scivola a terra. Resta in ginocchio sul selciato, le mani sugli oc-chi. Non sente una goccia di gioia. Mi 15
sono svegliata solo per vedermi morire! Lancia un urlo, un paio di piccioni prendono il volo sui tetti. Si ricorda solo le cose che non ci sono più: scivola nelle calli più strette, va in fondo ai rami e si lascia bagnare i piedi dall’acqua verde. Cammina smarrita su rii interrati. Prova a entrare in giardini murati — un glicine inselvatichito si arrampica sul cancello —, prova ad aprire porte chiuse. In calle dell’Avogaria trova la casa della famiglia di Dorotea, finestre serrate e facciata stinta, bussa e chiama piano. Non voglio morire, pensa disperatamente. Un uomo alto e magro le chiede se sta bene. Benedetta lo guarda negli occhi neri e ritrova le torce, l’oro, la calendula, il vino e lo zucchero sull’abito. Ritrova se stessa, la sua gloria, la sua bel-lezza. Un fiotto di calore la riempie fino alla punta delle dita: per secoli gli uomini l’hanno inseguita, hanno cercato di prenderla, ma lei è sempre sfuggita e loro si sono persi in un labirinto, disperati. Lei li ha guardati da dietro un muro rosato, ha riso di loro. Ora, guardando la schiena magra di Antonio, sente un nodo al centro dello stomaco, un sasso caldo. Quanto ho ballato, quella notte? A un certo punto avrei voluto baciare un Provveditore, ma lui ha girato la testa e mi sono dovuta accontentare della guancia. Com’era liscia! Ora che ci penso, neanche Gregorio mi ha baciato sulle labbra. Cos’ha la mia bocca? si tocca il viso, confusa C’è qualcosa di brutto? Fa paura? Nessuno mi ha mai preso, nessuno mi ha mai baciato. Sono vergine, santo Cielo, eppure ho fatto lavorare puttane, ho tenuto gli occhi ben aperti sui peccati dei miei uomini. Cos’ho da perdere ormai? E quanto tempo mi resta? A un certo punto, quando il letto è già caldo e sfatto, Antonio prova a sfuggirle, puntando le gi-nocchia nel materasso. Lei gli avvolge le braccia attorno alla vita — sente le costole e i muscoli che vibrano contro di lei — e lo fa stendere ancora; gli blocca i polsi sopra la testa e comincia a baciargli la schiena, il rilievo di ogni vertebra. Lui 16
respira a fatica, si inarca. Benedetta si ferma. — Ti faccio male? — No… Dopo, Benedetta va in bagno e si lava la faccia e tra le gambe. Quando torna, Antonio si è ad-dormentato disteso su un fianco, nudo e sporco. Lei gli butta addosso una coperta rossa e blu e va a sedersi sul davanzale: una barca a motore passa sotto la finestra e spacca il riflesso della luna. Legge una serie di articoli. Venezia libera! Venezia ai veneziani! Una città viva! Alcuni portano in calce la firma di Antonio. Non sono l’unico a voler vedere la mia città pulita, vivibile, bella come è sempre stata scrive. Benedetta si guarda le mani, si tocca la testa ferita. Cerca di impedirselo, eppure comincia a sperare. Antonio si gira e si lamenta. Lei corre da lui. — Ti ho fatto male? — gli chiede, accarezzandogli i capelli. Lui la guarda dal basso del cuscino, intontito, poi scuote la testa. — No, sei stata buona. Tu non sei cattiva. Benedetta si gratta la tempia, passa l’unghia sulla cicatrice. — Adesso ho capito… — continua Antonio — ho capito… — Cosa? — Ho capito… tu sei quella Benedetta… La sua mano si ferma. — Quale Benedetta? Lui continua a lottare contro il sonno. — Tu sei lei — dice in un soffio. — Sei Venezia. Benedetta corre. Ha rovesciato i banchi degli ambulanti, si è gettata contro i cappelli, le tazze, i ventagli di plastica. Ha odiato i venditori e i turisti, tutti, e ora è inseguita dalle grida e dai rumori degli uomini inferociti. In un altro tempo li avrebbe affrontati e li avrebbe abbattuti, oggi non riesce neppure a riprendere fiato, deve obbligarsi a correre. Mette il piede su un gradino bagnato, scivola, sbatte il ginocchio. Zoppicando, senza fiato, si nasconde dietro un angolo. Mi picchieranno. Mi ammazzeranno di botte. Poi qualcuno grida. Le cipolle bianche e viola rotolano sul selciato, cadono in acqua, le bucce si gonfiano e si rom-po-
il potere della storia no. Benedetta guarda in giù, paralizzata. Le mele sono macchiate di rosso. Il fruttivendolo ha una voce convulsa, sta parlando con la Polizia, con il Pronto Soccorso. Benedetta raccoglie Antonio fra le braccia, con delicatezza — conosce i dolori provocati dalle fratture. Lui ha le labbra spaccate, un occhio nero, una goccia di sangue appesa al naso. Sulla cami-cia c’è una macchia di sangue che continua a crescere. Cerca la ferita, la trova — è slabbrata, una bocca spalancata — e la copre con la mano. Il sangue di Antonio pulsa contro le sue dita. — Sono qui con te, va bene? — mormora, baciandolo sulla fronte. — Sono qui, non sei solo. Resta con me. Non sarai solo. Non sarai sola. È un tramonto sfolgorante, fluorescente. Benedetta si incammina lungo i binari, guarda il sole che cala sulla laguna, il profilo caliginoso delle montagne. È cominciato con il pestaggio. Aggredito dal branco. Violenza assassina. Rissa finisce in sangue. Tutto d’un tratto, la misura è stata colma. Hanno scoraggiato i turisti fino a scacciarli. I negozi di souvenir hanno chiuso, sono tornati i barbieri, le librerie, i fruttivendoli, i giocattoli, i calzolai. Lei si è sentita più leggera, le è caduto un peso dalle spalle. I suoi capelli sono cresciuti a chiazze. Le dicono che è bella così, che qualcosa in lei fa piangere e fa pensare alle cose perdute. Lei si sente di nuovo un’isola, una nave che va alla deriva. Tiene in mano il follis di Gregorio, lo guarda e pensa al passato. Pensa alle città cadute nei secoli — Ctesifonte, Bisanzio —, agli uomini e alle donne che ha visto passare, sente il petto pieno di stelle e api. Il sole è affondato all’orizzonte. Benedetta volta le spalle alla ferrovia, esce dalla stazione. Sul Canal Grande, una barca a remi incrocia un piccolo motoscafo. Una coppia si bacia alla fermata del vaporetto. Antonio le sorride, seduto su una panchina, nonostante i punti di sutura. La sua faccia è nera, gialla e rossa, ma Benedetta lo guarda e sente ancora quel sasso caldo. Gli va
in-contro. È viva, è felice.
BIOGRAFIA
Sonia Aggio è nata nel 1995 e vive a Frassinelle Polesine (RO). Studia “Storia dal medioevo all’età contemporanea” all’università Ca’ Foscari e sogna di diventare scrittrice. Ama i romanzi storici, i paesaggi fluviali, l’aviazione nella Prima Guerra Mondiale e la storia dell’Impero Romano d’Oriente.
Le Cadute di Federica Consogno 17
Fiori su Dublino di Martina Marasco Ma tu ricordi? Ricordi le ortensie viola e azzurre dipingere costellazioni in un cielo di siepe? Ricordi la tua mano sicura spezzarne un grappolo e attraversare il parco in compagnia del tuo destriero – o era forse un cagnolino –, pronto com’eri a consegnare quel dono alla tua amata, seduta sul prato in fiore? Era maggio, volavano zanzare. L’amata ero io. Ricordi quando mi mangiavi il naso e per minuti che sembravano giorni ruzzolavo in cerca di un odore che non riconducesse immediatamente a te? Non lo trovavo mai, il tuo profumo saziava la mia aria, la mia pelle, le lenzuola, i peluche sparsi sul letto. Quanti baci valgono una restituzione di naso? Almeno centottanta, dicevi. E dimmi, anima bella, ricordi il rumore di quel mare a cui non siamo andati – la tua voce che diceva “che noia il costume”, “che noia la sabbia”, “che noia che sei” – o le terme soltanto pensate, i parchi, gli stadi, le corse dei cavalli, i concerti, i tornei di poker, le letture nei caffè? Io non ricordo. E scommetto neanche tu. Ma ricordo il sapore del tè berbero, dei biscotti con le gocce di cioccolato, delle pillole anticoncezionali che servivano a così poco, del pesto di zucchine che non era veramente di zucchine, era un pesto di basilico con le fettine di zucchina dentro, mi avevi mentito per anni, e io per anni ti avevo creduto. Io ti credevo sempre. Ricordi la delusione nei miei occhi quando mi dicesti che saresti andato via? Perché io i tuoi me li ricordo. A anche se volessi dimenticarli, non potrei, ce li ho stampati nel portafoglio accanto alla patente. I tuoi occhi, quelli in giro per casa, li ho dovuti togliere. Oggi, come ieri, come l’altro ieri e l’altro ieri ancora, in una casa vecchia almeno cinquant’anni, con un uomo dallo sguardo dolce che mi pulisce le guance con le dita e con le labbra, guardo gli occhi dei miei figli, li sento correre, urlare, insozzarsi i vestiti di terra e la bocca di parole, e mi chiedo come possano somigliare tanto a un padre che è stato con loro così poco. Non sei stato corretto, amore. Sono trascorsi due anni, cinque mesi e otto giorni dall’ultima volta in cui hai chiamato per sentire come stavano i tuoi bambini e due anni, sei mesi e ventun giorni dall’ultima volta in cui sei venuto a casa per controllare di persona. Promettevi tempi migliori in cui saresti tornato. Promettevi giorni. Ho sfogato la mia rabbia nei tuoi confronti disegnando trifogli e lanciando contro il muro della cucina piatti, tazze, calamite da frigo, souvenir di Carrolls che ti ostinavi a comprare, vasi che non avrebbero mai accolto fiori, scarpe numero 47. Disfare, lanciare, rompere, la miseria di potermela prendere solo con le tue cose. All’inizio era difficile, poi lo è stato sempre meno. Ho buttato via il tuo spazzolino arancione, era diventato nero. Ho tenuto la felpa col cappuccio e i cordini bianchi, non si sa mai. Quando eravamo giovani e innamorati trascorrevamo le serate di pioggia nella tua macchina a chiacchierare, cantare, fare l’amore. Ci siamo sposati perché è così che si fa, quando si sta insieme da un po’, e sono stata una moglie a tratti perfetta. Che t’ho fatto mancare io, amore? Ma poi tu mi hai detto della partenza, di quanto sarebbe stata più facile la nostra vita se avessi accettato quel posto a Dublino, lo stipendio è buono, dicevi, e poi un anno cosa sarà mai? Non è niente, un anno, tesoro. In un anno i tuoi bambini non cresceranno più di tanto, puoi stare tranquillo, garantisco io. Ma l’anno è diventato due, poi tre, poi quattro, l’appendiabiti all’ingresso era carico sempre e solo della 18
il potere dell’assenza
mia roba e la mensola della cucina continuava a essere inclinata. Avevi detto che l’avresti aggiustata. Ma, dopotutto, avevi detto tante cose. Di giorno mi convincevo di odiarti. Mi mordevo le labbra e mi ripetevo che la tua assenza sarebbe stata la mia benedizione. Poi arrivava la notte e pregavo in silenzio che i miei scongiuri non venissero ascoltati; una patetica Penelope che non tesse nessuna tela. Ero tanto, tanto arrabbiata. Forse lo sono anche ora, mentre scarabocchio ai lati del foglio questi benedetti trifogli, verdi su sfondo bianco, un bel ricordo di un’Irlanda che mi ha portato via il futuro. Per un po’ ho combattuto, a volte ti stringevo a me per intere settimane e vincevo qualche battaglia. La guerra, però, è durata poco: come era ovvio, ha vinto lei. Domani è il 25 aprile. Qui il tuo compleanno coincide con la Liberazione. Com’è stato festeggiarlo come tutti gli altri? Domani è il 25 aprile. I biglietti sono pronti, il mio posto è il 23A, e non so mai se sarà corridoio o finestrino. Avevo giurato che non sarei più venuta a trovarti, ma giuro che questa sarà l’ultima lettera che ti scrivo e alla quale non risponderai. Mi piacerebbe pensare che non lo fai perché non puoi, ma so che non è vero. Domani è il 25 aprile. Metterò nuovi fiori sulla tua tomba.
BIOGRAFIA
Martina Marasco ha ventisette anni e viene da Varese. Dopo aver abbandonato una triennale in Lettere appena prima della laurea, si è iscritta al biennio della Scuola Holden perché una volta ogni tanto, nella vita, bisogna pur fare ciò che si vuole e non solo ciò che si deve. Ha fondato un blog di racconti brevi illustrati, Narrandom, e scrive per ilLibraio.it. Legge – anche – per capire le persone e scrive – anche – per farsi capire dagli altri.
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Il piccolo genio di Claudia Muscolino
All’età di undici anni frequentavo la quinta liceo e i miei compagni di classe mi prendevano in giro perché ero un bambino catapultato in un mondo di semi – adulti. Un fottuto enfant prodige! Conoscevo, oltre all’italiano ben cinque lingue: inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese. Me la cavavo bene con il giapponese e parlavo e scrivevo fluentemente in greco antico e latino. Conoscevo i calcoli differenziali, avevo dimestichezza con i frattali, in meno di un’ora leggevo e memorizzavo un testo di cinquecento pagine: insomma, un Dottor Reed in miniatura, senza averne la grazia androgina e la soavità. Infatti ero alto circa un metro e quarantacinque centimetri, pesavo cinquantacinque chili, indossavo occhiali spessi per la miopia. A due anni ero stato operato per labiopalatoschisi e ne portavo i segni. Facile bersaglio per tutti. Un bel giorno, però, successe qualcosa di insolito. Sara era la ragazza più bella della classe con capelli castani ricci, occhi a mandorla e due lunghissime gambe venne a cercarmi. Tutti i maschi le sbavavano dietro. Io ero troppo piccolo per sentire le loro pulsioni, ma quando pensavo a lei che si spogliava per andare a letto o per fare una doccia, sentivo come se mille formiche camminassero svelte dentro le mie mutande. Lei aveva questo potere su di me. Per farla breve, si avvicinò a me durante l’ora di educazione fisica: mi avevano steccato un 20
dito perché avevo preso male il pallone durante la lezione di pallavolo. Ero costretto a rimanere tutto il tempo seduto su una panca accanto al professore, a sopportare il rumore del suo fischietto. Sarà aprì per un quarto la porta e mi fece cenno di avvicinarmi. Tutti se ne accorsero e cominciarono a ridacchiare. L’insegnante di educazione fisica fischiò forte e urlò a tutti di continuare a giocare, poi mi diede il permesso di uscire. Così mi alzai a testa bassa e raggiunsi la mia compagna di classe alta trenta centimetri più di me. Lei mi sorrise e mi chiese se volevo prendere qualcosa alla macchinetta che era lì, nel corridoio. Le risposi di sì e lei mi disse di scegliere quello che volevo, così presi una tavoletta di cioccolata e lei un caffè. Mentre masticavo la mia cioccolata, lei si sedette accanto a me, mentre tutti quelli che passavano ci guardavano con occhiate di scherno e si davano di gomito. Io non sapevo bene cosa fare: avrei voluto grattare via le formiche che correvano ma non stava bene farlo davanti a una ragazza. Così mi imposi di pensare a qualcosa di triste e davanti a me si parò l’immagine dello sguardo che aveva il mio cane quando papà l’aveva portato dal veterinario per l’ultima volta. Le formiche sparirono di colpo.
il potere della seduzione
«Sai, tu sei molto molto bravo in tutte le materie. . .» cominciò Sara carezzandomi distrattamente il braccio destro. «Ti ringrazio» risposi con la bocca piena di cioccolata. «Ecco, potresti mettere la tua bravura al mio servizio e magari anche aiutare altri.» «Aiutare te e gli altri? Come? Ripetizioni?» «Ahahah! Ma no sciocchino!» rise passando una mano tra i miei capelli. «E allora come?» «Non preoccuparti, ci guadagnerai anche tu, ma sarà molto meno faticoso delle ripetizioni!» continuava a sorridermi «sei il cocco di tutti i professori. Sanno che sei un genio e che non hai bisogno di niente per cui non ti sospetteranno mai e guadagnerai bene!» «Guadagnerò cosa?» Lei scoppiò a ridere ancora più forte e lanciò all’indietro la sua bella testa; i bottoni della sua camicetta si tesero pericolosamente e cominciai a sudare. «Ti pagheremo per tutte le verifiche che ci passerai già fatte. Io mi impegno solennemente a darti anche qualcos’altro oltre ai soldi. Ci siamo capiti, vero?» mi fece l’occhiolino. Mi asciugai la fronte con la manica della camicia cercando di ignorare le formiche che avevano ricominciato a correre. «Sei un ragazzo speciale! Ti ammiro tanto» aggiunse Sara accarezzandomi lentamente la guancia: in quel momento mi sentivo completamente irretito. Ero vittima del suo incantesimo. «Cerca di scoprire il testo del nuovo test di algebra e se ci darai le soluzioni, ognuno di noi ti darà mille lire» fece scivolare una mano sulla mia coscia «e poi vedrò cosa darti in più. . .» mi sussurrò all’orecchio. Poi si alzò e se ne andò mentre io cominciavo a sentirmi perduto dietro ai suoi fianchi stretti nei jeans chiari. Mi asciugai le mani sudate sui pantaloni. Per lei avrei fatto tutto anche gratis, ma per gli altri no. Dopo tutte le umiliazioni che mi avevano
inflitto – pensai - restava il fatto che avevano bisogno del mio aiuto e questo mi faceva sentire potente: mi immaginavo di vederli strisciare ai miei piedi e supplicarmi di aiutarli a scampare dalla bocciatura e dagli esami di settembre. Io li guardavo dall’alto in basso, seduto su un trono con accanto Sara in bikini, che mi sventolava con un enorme ventaglio. Perso nella mia fantasticheria andai a sbattere contro la Professoressa Venturelli, l’insegnate di matematica. «Mi scusi tanto Professoressa!» borbottai arrossendo. «Sempre la testa tra le nuvole, eh? Ricordati che bisogna sempre guardare dove si mettono i piedi, altrimenti si rischia di cadere. Pensavi a qualche calcolo differenziale?» Decisi di cogliere la palla al balzo. «No, no. Pensavo soltanto al prossimo compito di matematica. Sono un po’ preoccupato.» «Tu? Dovrebbero essere i tuoi compagni a preoccuparsi.» «Ma lei ci ha spiegato tanti argomenti nuovi ultimamente. Io non so se riuscirò a studiare tutto in tempo!» «Sciocchezze. Tu riuscirai a far tutto senza problemi, ma se davvero sei così preoccupato, per stavolta, farò un’eccezione e vedrò di aiutarti. Deve rimanere tra noi, però!» Questa sì che era una dimostrazione di potere e fiducia: un po’ mi dispiaceva ingannarla. Solo un pochino, perché Sara aveva un ascendente molto più grande di quello della Professoressa. Seguii la Venturelli nella sua stanza. Rimasi davanti alla scrivania mentre lei tirava fuori una chiave dalla borsa e apriva un cassetto. «Sei un bravo figliolo, un alunno modello, anzi di più: un vero piccolo genio! E sei anche educato, leale e rispettoso. Ti meriti un aiuto» così dicendo mi porse un foglio con gli esercizi per il compito. Mi bastarono trenta secondi netti per memorizzarli. «Grazie, grazie infinite Professoressa.» dissi mentre le restituivo il prezioso foglio di carta. Lei mi fece un largo sorriso rugoso: somigliava 21
alla tartaruga che zia Clara teneva in giardino. Salutai rispettosamente e uscii. Nel pomeriggio dedicai un quarto d’ora alla soluzione degli esercizi e il giorno seguente, trascritti in bella copia, li portai a Sara. Avrei dovuto chiedere i soldi prima di consegnarli, ma ero troppo giovane e ingenuo; inoltre lei mi portò dentro lo stanzino dove stavano le scope e i detersivi. Nel buio prese le mie mani per appoggiarle sul golfino che indossava e potei toccare i suoi seni. Ebbi la prima vera erezione della mia adolescenza. Lei era già scivolata via, svelta come un gatto. Naturalmente il compito andò bene a tutti, con grande stupore della Venturelli. Mi diede una lunga occhiata interrogativa mentre passava tra i banchi a consegnare i risultati, e io feci finta di guardare fuori dalla finestra per non incrociare il suo sguardo. Passò una settimana e dei soldi promessi neanche l’ombra. Forse non avevo tutto il potere che pensavo. Un pomeriggio presi il coraggio a quattro mani e aspettai Sara all’uscita delle lezioni. Lei non mi vide nemmeno: era appiccicata a Giampaolo, il più bello della scuola. Si avviarono verso lo scooter e io li seguii con passo incerto. Quando mi resi conto che se non avessi tirato fuori la voce lei se ne sarebbe andata, urlai il suo nome. Lei si guardò attorno: finalmente mi vide. «Oh! Guarda chi c’è! Il nostro piccolo genio. Ciao tesoro vado di fretta». Era salita a bordo e si stava infilando il casco. Mi avvicinai ancora di più. Loro due ridacchiavano e io tremavo come una foglia per la tensione e la rabbia: per lei ero stato solo un ragazzino da fregare. «Si può sapere cosa vuoi? Io ho da fare. Vai dalla tua mammina, vai», aveva smesso di ridere e mi guardava con uno sguardo arrogante che non le avevo mai visto prima. «Che fai mostriciattolo?» disse lui. Si sentiva potente, superiore a me solo perché era bello 22
e aveva accanto la ragazza più sexy di tutte. Lo ignorai e mi rivolsi direttamente a Sara. «Voglio i miei soldi, quelli che mi avevi promesso se avessi passato a tutti il compito di matematica!» Impallidirono entrambi. «Shhhh! Sei matto? Abbassa la voce!» aveva parlato Giampaolo. «I soldi? Io non ti avevo promesso niente!» rispose lei «ti avevo assicurato che ti avrei dato un regalo speciale e te l’ho dato, giusto? Ora siamo pari.» «Sei una bugiarda! Mi avevi detto che avrebbero messo tutti mille lire a testa!» avevo urlato e qualche studente si era girato verso di noi. Giampaolo accese il motore e partì sgommando, e io rimasi lì a guardarli sparire oltre il cancello del liceo. Mi sistemai gli occhiali sul naso: dopotutto ero solo un bambino e mi avevano fatto fare una brutta cosa. Per colpa loro avevo tradito la fiducia della Professoressa Venturelli e dei pochi compagni che si impegnavano seriamente. Se volevo vendicarmi non mi restava altra scelta se non quella di appellarmi a chi aveva un potere più grande del mio; qualcuno che avrebbe creduto alla mia buona fede, all’innocenza del piccolo genio. Rientrai dentro la scuola e andai dritto verso l’ufficio del Preside.
il potere della seduzione
BIOGRAFIA
Claudia Muscolino è nata a Firenze, laureata in Scienze Politiche, funzionario della Pubblica Amministrazione. Ha sempre coltivato una profonda passione per la poesia e la letteratura. Nel 2012 ha pubblicato la prima raccolta di poesie Il Drago e le nuvole. In seguito agli spunti offerti da un corso di scrittura creativa, ha cominciato a dedicarmi alla narrativa e il suo primo racconto è stato pubblicato nella raccolta Tagli 33 scritture, curata da Marco Vichi. L’opera di narrativa A casa per Natale e racconti per tutto l’anno è stata tra i vincitori del premio letterario Città di Murex 2016 nella categoria inediti. Ha partecipato con poesie e racconti a varie antologie. La sua pubblicazione più recente è la silloge Carichi dispersi, Edizioni del Poggio, 2017.
di Ilaria Cerutti
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Il tutto, il niente di Giorgia Bianchin Sono agitata, capita sempre più spesso quando, seduta davanti a uno specchio illuminato da neon abbaglianti, si riflettono bene i solchi che il mio viso porta con sé. Gli occhiali enormi, che poggiano sul naso, non nascondono la paura che ogni cellula della mia pelle si porta dentro. Comincio a muovere la bocca in maniera esagerata per allentare la tensione alla mandibola, come faccio sempre prima di salire sul palco, canticchio “one, two, three, drink” e bevo un sorso di whiskey. Infilo le scarpe nere, mi fisso, neanche non sapessi cosa sto vedendo. Gli occhi immobili a scartavetrare poco alla volta l’immagine riflessa, finché smetto di esistere, opaca e volgare sulla lastra color argento. Scendo dal tacco dodici e le dita dei piedi sembrano tornare a vivere. Un minuto. Starnutisco e serro le palpebre così forte, che il mascara, ancora bagnato, lascia la sua ombra. “One, two, three, drink” e butto giù ancora. Ci siamo. Esco, e so che non tornerò più quella di prima. Ho dimenticato le scarpe, buttate lì in disordine come fossero le martiri di una battaglia. A piedi nudi attraverso un corridoio d’erba umido e caldo, faccio un respiro profondo e mi chiedo se l’amore è questo: profu-mo di datteri e fine estate. Che strana sensazione, è come se fossi stata sotto la pioggia per giorni. Stanca e rassegnata. Il con-trabbasso comincia a far vibrare le sue corde con quel suono profondo e rassicurante. Subito dopo la tromba, acerba e scontrosa. Mi avvicino al microfono, è come se lo accarezzassi, è lui che sorreggere la mia paura, che mitiga la mia rabbia concentrata. Sedie addobbate a festa su cui poggiano menti curiose piene di aspettative e i miei movimenti ner-vosi che lentamente si sciolgono. Sono soggiogata, controllata e dominata dal colore della mia mu-sica. Sono pronta, sganciata da ciò che mi sta intorno, innestata di nuove possibilità. La mia attenzione è sconvolta da una luce abbagliante che esplode da una delle finestre davanti a me. La musica continua la sua corsa mentre io scendo i tre gradini e rincorro una sorta di miracolo. Trascino i piedi sull’erba tra gli sguardi increduli delle persone che da me desiderano altro. Imba-razzati, seguono l’allontanarmi dal ruolo che ricopro. Salgo delle scale di marmo gelido, ora sento il freddo risalirmi le gambe, in questa sera di fine settembre. Sono apatica, quasi come fossi rallentata e sovraccaricata di sentimenti indecifrabili. Le scale terminano su quattro porte chiuse. Sto cercando qualcosa, ma non capisco nulla. Cammino avanti e indietro, nella mia testa una giungla di parole, sono serrata in un bunker di confusione. Non so cosa fare, eppure sento di dover trovare qualcuno, qualcuno che mentre mi gocciolerà l’anima saprà sorreggere il mio malumore. Timida e discreta apro la prima porta. Dentro seduti una sull’altro, su un divano vittoriano, ci sono due adolescenti che sembrano mangiarsi a vicenda. Le pareti sono rosso scarlatto, loro due indossa-no abiti neri, lei stretta in un vestito, lui in dei jeans strappati. Hanno sulle orecchie delle appariscenti cuffie azzurre, isolati dal mondo. Distolgono la loro attenzione dal bacio travolgente in cui stavano vivendo e rivolgono la loro attenzione a me. Percepisco nel loro sguardo una sorta di pena nei miei confronti. Lei si solleva le cuffie e mi dice: «Le abitudini possono essere belle, brutte, disordinate, rumorose, gentili, strane, ossessive, ricorrenti, saltuarie. Ci sono abitudini che ti rendono umano, abitudini che ti crescono dentro. Abitudini che si amano, abitudini che ti ammazzano». Risolleva le cuffie sulla testa e torna a baciare il suo ragazzo. Mi allontano dalla scena come se fossi trascinata indietro da una forza istintiva. Sono timorosa nell’aprire la seconda porta, scricchiola la serratura mentre intorno è calato un silenzio destabilizzante. Due eleganti anziani ballano un valzer che io non sento, la stanza color oro ha solo un orologio e-norme dietro le loro teste che ondeggiano sorridenti. Sono raffinati nei loro abiti da sera bianco avo-rio, lei avvolta in un vaporoso vestito, come fosse una sposa. S’inseguono le loro gambe sicure e ancora agili. All’improvviso bloccano la loro danza, come si fossero accorti solo ora della mia pre-senza, si fissano e 24
il potere della
musica
lei si rivolge a me con un sorriso compassionevole sulle labbra: «Ci sono i battiti del cuore, delle mani, delle ciglia, dei piedi. Battiti ritmati, veloci, lunghi e lenti. Battiti fuori tempo, battiti onesti, violenti, falsi, agitati, rilassati, all’unisono, distinti. Battiti vigliacchi, d’amore, utili o inutili. Battiti dolci, frenetici ansiosi o calmi. Tutto inizia e tutto finisce con un battito, l’importante è sceglierne l’intensità». Si riprendono l’abbraccio che avevano spezzato, come se io non esistessi più e continuano la loro danza. Il cuore adesso ha deciso di scoppiarmi nel petto. Nella terza porta mi ci butto dentro, senza pensarci, curiosa e sconvolta, mentre faccio ordine nelle loro parole, pronta a urlare in faccia al prossimo. Una stanza completamente color rosa pastello e una bambina con degli occhiali grandi quanto i miei. Indossa un vestito turchese e tiene in mano un palloncino giallo. Comincia a ridere quasi fino a piegarsi su se stessa. Ride mentre mi dice: «Non tutti gli abbracci vanno a buon fine, alcuni nascono storti e durano per sempre». Chiudo la porta e la lascio mentre saltella su una gamba sola, canticchiando una canzone per bam-bini. Questa volta corro verso l’ultima porta a destra. Ci sbatto contro, come se sapessi già che non si sarebbe aperta. Rimbalzo dopo averla colpita violentemente con la spalla. Faccio due passi indietro e muta si apre da sola. Il mio respiro è così veloce che mi sento mancare. Urto con il piede la porta che mi separa da un qualcosa che sento necessario. Le pareti sono grigio piombo, un uomo di spalle guarda fuori dalla finestra un tramonto su un mare che non conosco. Si volta sorridendomi, si avvicina e io indietreggio spaventata, ma i suoi occhi si chiudono a fessura in un sorriso rassicurante. Mi prende le mani se le porta alla bocca e le bacia. Sussurra: «Chissà quanto rumore hai dentro. Io mi fermo. E se poi ti fermi anche tu, possiamo ricominciare insieme la stessa canzone». La tromba finisce il suo stridulo assolo e io sono in piedi sul palco, inchiodata al pavimento, in-ghiottita da un subbuglio di commozione. Applaudono con un vigore ingiustificato. Guardo su e nessuna luce abbaglia le mie pupille, nessun uomo riflesso sul vetro. È tutto buio poco sopra la mia testa. Le bacchette della batteria battono quattro quarti per dare il via al secondo pezzo, do voce al mio corpo chiedendomi dove andrò adesso.
BIOGRAFIA
Giorgia Bianchin nasce a Treviso nel 1984. È nata sotto la neve quando la primavera avrebbe dovuto insistere di più. Scrive frasi in angoli di quaderni aspettando da sempre l’estate. Ascolta musica tormentata per ricordarsi che ci sono cose più importanti della felicità. È profondamente fuori sincro. Scrivere è il suo gesto d’amore.
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Il potere della poesia di Floriana Porta
conservo quello che non sono mai stata capace di essere e di raccontare quello che solo il potere della poesia sa alimentare dentro di me sovvertendo e stravolgendo l’ordine stesso del mondo e delle parole parole destinate a farfugliare adagio e che si fanno via via più limpide parole che prendono il proprio respiro da ciò che non possediamo parole che prendono parola e che non sono mai accadute parole che vivono in me e che mi assalgono e mi padroneggiano parole che sotto l’impeto del vento sembrano non avanzare parole il cui potere trascolora sbiadendosi in ogni mia pagina
BIOGRAFIA
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Floriana Porta è nata a Torino nel 1975. È poetessa, fotografa, pittrice e collabora con diversi siti e blog letterari. Ha pubblicato sette libri di poesie e haiku. I temi principali della sua poetica sono: il tempo, le forze cosmiche e la ricerca dell’essenzialità. Si occupa anche di paleontologia e design. Sito web www.florianaporta.it
Coscienza onesta - Harper Lee (febbraio 2016) collezione “Storie di donne, 2011-2018�
di Antonella Restagno
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Il potere-piacere della parola di Eva Luna Mascolino Si chiamava Roland e, da quando gli era capitato sbadatamente di non avere più voglia di mettere su delle storie, aveva cambiato stile di vita. Aveva perso il piacere di raccontare, come si possono perdere le chiavi di casa o i biglietti da visita. La gente non se ne accorgeva, chiaramente: aveva attaccato ai chiodi giusti i sorrisi di circostanza e i quadri colorati da esporre in soggiorno. Camminava di più, perfino, e aveva uno stile di vita sano (pochi spuntini fuori pasto, otto ore di sonno ogni notte, abbonamento dei mezzi in regola, affitto pagato in maniera puntualissima). Era rimasta una persona attenta e scrupolosa, per quanto svuotata. A pensarci bene, non aveva nemmeno idea di come si fosse ritrovato in una situazione tanto penosa, con delle idee che saltavano qua e là in ogni parte della sua testa, e zero ispirazione per metterle nero su bianco. In passato aveva sempre scritto come un forsennato, Roland, e questo lo aveva spesso costretto a ritmi meno salutari, a cibi spazzatura raccattati dal minimarket sotto casa all’ultimo momento, a lunghe assenze dai parchi della città, senza che naturalmente gli fosse mai pesato. Non scriveva per costrizione interiore o perché lo sollevasse la sensazione di concludere un racconto, quando ogni tassello era al posto giusto e i personaggi potevano tornarsene dietro le 28
quinte a ubriacarsi o a cambiare nome senza che nessun lettore facesse loro le pulci, no. Scriveva perché gli apparivano delle immagini affascinanti al punto da spingerlo a conservarle da qualche parte, in qualche modo, con un qualche espediente mostruoso e semplice che, di volta in volta, consisteva nel prendere una penna in mano e trasformare le immagini in parole. Gli riusciva bene perché intanto accatastava libri sui libri, dentro il cervello e nelle mensole che aveva in casa. Poi, vuoi o non vuoi, lo spazio a disposizione era finito, le librerie strapiene e sull’orlo del cedimento. E insieme allo spazio era finito anche il tempo. Il tempo per stare un’ora a guardarsi i peli delle gambe e a risucchiare da quell’esperienza il destino di un marinaio, il tempo per fare due chiacchiere col panettiere e sentire dalle sue labbra episodi da fare invidia a quelli a cui si ispiravano Dostoevskij o Proust. Il tempo per pensare: ho ancora tempo per scrivere. Si era a un tratto convinto di perdere tempo, Roland. Doveva avere delle ferite nascoste sotto la pelle, o una falla nel sistema che lo costringeva sempre a tagliare corto, altrimenti non si sarebbe spiegata questa sua crescente mania di sbrigarsi. Si metteva all’opera solo se era convinto di riuscire a concludere l’intero manoscritto in un giorno, massimo in due. Aspettava di non avere impegni, e con que-
sto espediente rimandava per mesi. Alla fine magari trovava pure la giusta combinazione per dedicarsi alle sue immagini, ma a quel punto il loro entusiasmo era sbiadito e la mano di Roland era troppo pigra per risvegliarlo: si limitava allo stretto indispensabile, era meno fantasiosa, meno precisa. Meno mano. Roland se n’era accorto, dopo un po’. Continuavano a leggere le sue opere e a dirgli: sai, non è più come prima. Proprio come avrebbe detto una fidanzata di vecchia data. Sai, Roland, si è persa quella scintilla lì. Ma quale scintilla? Non lo so, quella lì. Hai capito cosa voglio dire. Va ammesso che non era semplice spiegarlo, perché non era semplice capirlo. Cosa si era rotto nel meccanismo perfetto che consentiva alle fotografie mentali di Roland di venire fuori tanto nitide e commoventi? Le frasi erano sempre lì, le idee non mancava di certo e non gli si potevano rimproverare errori di forma. Eppure, una spiacevole frenesia si incastrava fra le righe come un serpente ingombrante. Per la gente era un parassita senza nome, magari precipitato lì per caso da un’altra storia, o nato da un uovo che avrebbe dovuto contenere una bella sorpresa. Difficile da spiegare. Per Roland, invece, era tutto chiaro. Inconfessabile di fronte a sé stesso, però limpido al centro della coscienza: aveva perso il piacere di raccontare. Le im-
magini erano rimaste, come fanno i fantasmi che infestano le case pure quando dentro non ci abita più nessuno. Se venivano ignorate, tanto peggio. Dal canto loro, conoscevano il proprio valore e avrebbero continuato a sbandierarlo fieramente ad ogni costo. Ad essersene andato era il puro gusto dell’attesa. Non c’era più pazienza nei suoi gesti di narratore, non c’erano più coccole per i movimenti dei suoi protagonisti o per le loro riflessioni. Non c’era la curiosità di spiarne l’esistenza né l’allegria di condividerla con altri. L’atto dello scrivere si limitava al passare da un capo all’altro della vicenda, se possibile in fretta e con poche parole. Le descrizioni lo stancavano, gli aggettivi lo facevano sbadigliare, la ricerca dell’avverbio giusto o di una caratterizzazione in più lo facevano sentire pedante. E perciò rinunciava a tutto, sfoltiva e limava, accorciava e allungava il passo, come se dovesse per forza arrivare a un traguardo che qualcuno lo aveva minacciato di non potere raggiungere. Non riusciva più a divertirsi, insomma. Gli premeva dire tutto, dirlo subito, dirlo bene, non dirlo e basta. A suo dire era solo colpa della mancanza di tempo per scrivere e di spazio per leggere, ma d’altronde non lo diceva che a sé stesso, perché nessuno sapeva la verità – e sappiamo bene che prendere in giro sé stessi è l’attività preferita di chi non ha intenzione di risolvere un problema. Il guaio era che la scintilla andata perduta aveva comportato non pochi cambiamenti, nella routine di Roland. Cantava sempre meno, per esempio, perché farlo sotto la doccia o fermo al semaforo rosso gli sembrava a un tratto infantile, e farlo in altri contesti non gli capitava spesso. Mangiava per dovere, senza concentrarsi granché sull’effetto di un piatto di lenticchie al posto di un sorbetto al limone, e in generale prestava meno attenzione alle stupidaggini che lo circondavano. Si meravigliava di meno, si distraeva di più. Aveva preso a viaggiare e l’arte di visitare due città in quattro giorno, insieme a quella di frequentare assiduamente i cinema, lo viziava sempre di più agli epiloghi rapidi e indolori. Sembrava che il suo obiettivo si fosse spostato dal processo al risultato, dalle cause agli effetti, e quindi dall’analisi alla sintesi, dalla narrazione alla ricapitolazione. In parecchie casi aveva provato a venire via da quel tunnel e, per essere sicuro di riuscirci, si era costruito un rito forsennatamente esatto. Prima ripescava i nomi dei suoi scrittori preferiti, si procurava le loro ultime uscite e le seminava per casa in maniera apparentemente casuale: sopra il frigorifero, sotto il letto, accanto alla televisione o di fronte allo specchio. Li lasciava lì a germogliare finché un interesse selvag29
gio non lo divorava dall’interno. Solo allora ne sceglieva uno, il primo che gli capitava sotto mano, e lo portava a letto con sé, sotto le coperte, come il più frenetico degli amanti. Lo assediava da tutte le parti, spesso in penombra, e non gli lasciava via d’uscita finché i suoi occhi non avevano ballato da destra a sinistra e dall’alto al basso dentro ogni pagina, che fossero ottanta o novecento tre. Era allora che le sue immagini tornavano a brillare di luce propria, per quanto affaticate e fluttuanti nella polvere. Roland riusciva a parlarci, a farsene confidare i più sordidi dettagli, e con la stessa frenesia che lo aveva obbligato a leggere costringeva ora la penna a correre su pagine disordinate, senza darle il tempo di completare la gambetta delle a o di controllare la punteggiatura. Scriveva come in trance – anzi, forse era in trance letteralmente, con la differenza che le sue sedute spiritiche non si facevano intorno a un tavolo e con un medium in carne e ossa, bensì sopra un e con un mucchio di cellulosa e inchiostro a fare da tramite fra lui e i suoi personali fantasmi personali. Così cominciava nel migliore dei modi, Roland, isterico e sul punto di ammattire com’era stato nei tempi d’oro della sua produzione prosastica. Proseguiva per un’ora o due, dimenticandosi quasi di respirare, e poi riemergeva dalla sua apnea inte30
riore strabuzzando gli occhi. Si riabituava ai colori della stanza e agli odori che salivano dalla strada passando attraverso il vetro storto delle finestre, e gli bastava indugiare nel mondo reale per un attimo di troppo per perdere irrimediabilmente il filo. Ogni stramaledetta volta. Una volta strappato fuori dal suo temporaneo incantamento, non c’erano antidoti per ristabilire la giusta connessione extrasensoriale con l’aldilà. Per questo faceva ormai collezione di incipit e si raccomandava di raccoglierli in una raccolta anomala per di pubblicarli presto o tardi, anche se un tipo più furbo di lui gli aveva da qualche anno rubato in parte l’idea. Io farò di meglio, comunque, prometteva Roland, e intanto non si perdonava di avere solo prologhi e mai epiloghi da correggere, solo destini futuri da riempire e mai capitoli precedenti da svuotare. – Lei farà di meglio di sicuro – gli ho detto allora, senza riuscire più a trattenermi. – Sta già andando benissimo con me, non vede? – Con lei? – Eh, con me. È qui a raccontarmi la sua esperienza da più di un quarto d’ora e ancor non mi stanco, né lei si ferma. – Mi fermerò appena arriverà l’autobus, però. – Non ci credo mica, sa? – Non ci crede? – Posso salire su con lei, tanto oggi mia moglie lavora fino a
tardi e a casa non avrei molto da fare. – E a che mi serve continuare a raccontare? Per la verità ho già finito. – Come sarebbe che ha già finito? – Eh, perché è tutto qui. Ho una menomazione allucinante e sono così stupido da averla confessata per la prima volta a un estraneo. Che altro vuole che ci sia da dire? Mi lamentavo e basta, ormai non so fare altro che questo. – Non è vero, poco fa mi si è avvicinato per dirmi di guardare quella casa rossa là in fondo. Per dirmi che secondo lei c’era una gran storia che andava a braccetto con quella casa. Non si ricorda? – Già, mi ricordo. – Le ho chiesto come facesse a saperlo e lei mi ha spiegato il resto. La faccenda delle immagini e così via. – Sì. – Ecco, adesso torniamo a quella casa rossa. Che storia ci aveva visto dentro? – Mah, per la verità una un po’ sciatta. La storia di una giovane impiegata che non ha mai visto il mare – perché sa, da qui il mare è lontano centinaia di chilometri, mica tutti arrivano fin laggiù. Mica tutti sanno che ne vale la pena, per incontrare il mare – e che scopre di doverci andare a passare un’intera stagione, se non crepare di esaurimento nervoso nel momento in cui scopre che la madre picchia
il potere della parola
da anni la nipotina che lei le affida. – Santo cielo… – Cosa? – Niente, mi scusi. Alla faccia della storia sciatta. E poi? – E poi basta, non saprei proprio come andare avanti. – Guardi un po’, il suo autobus è il 29? – Sì, sì, vado! Arrivederci, sa. Grazie per la… – Non così in fretta, caro signore. Le ho già detto che salgo su con lei. Si appoggi qui, coraggio. – Anf, grazie giovanotto. – Si figuri. Le timbro il biglietto, lei intanto pensi alla storia della casa rossa. – In che senso? – Ora voglio sapere come va a finire, si faccia venire qualche idea. – Ma io non mi faccio venire… – Ha ragione, intendevo dire: si faccia venire in mente qualche immagine. – Non funziona mica a comando, sa. – Non funziona nemmeno che lei lascia tutto a metà, quando qualcuno è già coinvolto e aspetta di sapere il resto. – Il resto se vuole glielo posso riassumere così: l’impiegata si dimette una volta che incontra il mare, sua madre non rivede mai più la nipote e… – Sta scherzando? Che me ne faccio di un telegramma simile? “L’impiegata si dimette, stop. La nonna non rivede la nipote, stop”. Se volessi questo genere di finali ascolterei i telegiornali,
non comprerei libri. – Non si tratta mica di un libro, infatti. – Non è detto che non possa diventarlo. – Non può diventarlo perché ho perso la scintilla, giovanotto. Mi sono rassegnato all’evidenza. – E dica, l’ha persa anche quando parla? – Prego? – Cioè, siamo stati insieme alla fermata e lei mi ha letteralmente rapito per tutto il tempo. – Le stavo solo riferendo delle cose realmente successe. – Credo non ci sia una grande differenza fra le cose realmente successe e le cose che vede nelle sue immagini, in linea di principio. – Può darsi. – Forse le risulta difficile scrivere, ecco, mentre quando parla riesce ad andare fino in fondo. – Può darsi. L’illuminazione era arrivata immediatamente, come l’ultima pedina di un gioco vinto già da parecchie mosse silenziose e ben studiate. Così, avevo ripreso: – Perché non me la detta? – Che cosa? – La storia della casa rossa. Perché non me la detta? Roland si era mosso sul sedile. A vederlo sembrava essere pizzicato da una zanzara insistente. – Qui? Su due piedi? – No, non per forza. Ci incontriamo un giorno di questi, in un posto che le piace, e me la racconta con calma a voce alta. E
io intanto la registro, la ricopio e poi gliela consegno. – Me la consegni già scritta, quindi. – Sì, come se l’avesse buttata giù lei. La ricontrollo per quello che posso, poi il grosso lo lascio a lei. – Certo, si capisce. Roland all’improvviso mi stava guardando in una maniera nuova. – Cosa c’è? – mi è venuto spontaneo domandargli. – Non vorrà mica fregarmi, con questa invenzione del dettato. – Ma che fregarla! No, guardi, mi interessa semplicemente sapere che fine fa l’impiegata della casa rossa. Se non ci sono altri metodi per fargliela inventare, improvvisiamo. Proviamo a vedere se con la scusa la scintilla torna a galla, una volta che lei detta e qualcun altro scrive al suo posto. Roland si stava ancora grattando il mento con una mano quando gli ho allungato il mio biglietto da visita. – Tenga, qui sono segnati il mio nome e il mio numero di telefono. Può chiamarmi quando ha voglia di concludere la sua storia. – Fred Chauser – ha scandito lui. – Chauser. Come lo scrittore. – Sarà un segno – ho replicato ammiccando. – Allora le telefono e ci incontriamo, dice. – Sì, quando vuole. – E se al telefono non risponde? 31
– Sotto c’è il mio indirizzo. Vede? Di solito rispondo, ma se ha urgenza di dirmi qualcosa può venirmi a trovare. – Non abitiamo neppure così lontani, mi pare. – No, infatti. A piedi saranno dodici minuti, credo se la sentirebbe. – Può giurarci che me la sento! – ha ululato lui, di rimando. Subito dopo si è fatto più dritto e più vigile e mi ha annunciato, a voce più bassa: – Devo scendere alla prossima. – D’accordo, faccia pure. Le serve una mano? – No, no – e in effetti si era già alzato e aveva schiacciato il dito contro il pulsante rosso con su scritto STOP. – Lei prosegue? – Sì, scendo fra due fermate e poi faccio una passeggiata fino a casa. – Va bene. Stia bene, giovanotto, mi raccomando. – E lei si faccia vivo, mi raccomando! – Come no – ha ribattuto Roland, mentre già si aprivano le porte dell’autobus e lui si metteva in coda per scendere. – Le telefono domani, o al massimo sabato. Ho già pensato a un titolo per quel racconto della casa rossa. – Davvero? – mi sono meravigliato io. – E quale? Lui ha sorriso, ha raggiunto il marciapiede e ha aspettato che l’autista ripartisse prima di aprire bocca. Io, però, l’ho sentito ugualmente gridarmi dietro, con quel suo tono rauco e divertito: La rivincita!
BIOGRAFIA
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Eva Luna Mascolino è nata nel 1995 a Catania, dove si è laureata in Lingue curando la prima traduzione mondiale di “Cap Africa”, una raccolta poetica del tunisino Moncef Ghachem. Dal 2016 si è invece trasferita a Trieste per studiare russo, francese e rumeno alla Scuola per Traduttori e Interpreti. Affascinata delle parole fin da sempre, nel 2010 ha vinto il Premio di Poesia Kivanis in un concorso locale e ha iniziato a collaborare con il quotidiano online “Voci di Città” nel 2011, di cui è stata caporedattrice e vicedirettrice. Nel 2015 ha poi vinto il Premio Campiello Giovani con il racconto “Je suis Charlie” e recensisce adesso narrativa per il blog “Il Rifugio dell’Ircocervo”, oltre a gestire la pagina facebook “Eva Luna racconta” e a essere in trattativa per una prima pubblicazione editoriale. Chiacchierona e assetata di risposte, ama viaggiare per l’Europa con fotocamera alla mano, guardare serie tv e strimpellare il pianoforte.
il potere della parola
Il potere-piacere della parola di Federica Consogno
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Brogli dell’universo di Barbara Monorchio
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-Sto per morire-, dissi, o almeno così mi sembrò. In realtà o non parlai affatto oppure mi dovetti esprimere in un sussurro perché l’infermiera si chinò su di me e mi chiese di ripetere. -Sto per morire- dissi di nuovo e stavolta ce la feci. Vidi un sorriso accondiscendente apparire sul suo bel viso giovane. Mi sistemò meglio le coperte e, mentre controllava i miei valori sul monitor accanto al letto, mi contraddisse: -No che non morirai. I tuoi parametri sono perfetti. Sei solo debole dopo l’incidente è normale e…-. A quel punto la interruppi. La osservavo da tre mesi, cioè da quando mi ero svegliata dal coma. Alzai una mano per attirare la sua attenzione. Le chiesi di sedere accanto a me sulla poltroncina blu. Spesso mi teneva come ultima paziente e una volta terminato il lavoro, se non aveva altri impegni, si fermava a parlare un po’ con me prima di andare a casa. Mi disse che sarebbe tornata di lì a poco e in capo a qualche minuto si ripresentò senza divisa e si sedette con l’aria paziente e un po’ rassegnata di chi si dispone ad ascoltare un ammalato che non ha parlato con nessuno per tutto il giorno. -Grazie-, riuscii a gracchiare. Mi schiarii la voce -Grazie che mi ascolti. Devo scrivere una lettera a mio figlio, ma sono ancora troppo debole, potresti farlo tu per me?-. Ero serissima e la vidi ricambiare il mio sguardo serio con uno vagamente preoccupato. –So già che non crederai a una parola di quello che dirò ma non ha importanza-. Presi fiato, cosciente che probabilmente quella sarebbe stata la mia ultima conversazione. Mi chiesi se a-vrebbe fatto male morire ma, in fondo, era cosa di poco conto visto che non avevo scelta. Lei prese carta e penna e sedette al tavolino accanto al letto, aspettando che iniziassi a parlare. -Figlio mio, prima di morire voglio farti un dono ma, affinché tu non abbia a trovarti impreparato, devo rac-contarti una storia-. La penna cominciò a frusciare sul foglio e io iniziai a raccontare.
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La prima volta che vidi morire un uomo fu anche la prima volta che vidi un uomo con i capelli così lunghi. Gli arrivavano in fondo alla schiena ed erano neri come la notte, tanti, lisci e lucidi. Una massa nera e stu-penda, perfetta anche se arruffata e sporca di terra. Una singola fogliolina era impigliata in quella massa disordinata appena sopra la tempia. L’uomo giaceva riverso nell’erba sotto un salice piangente. Le fonde dei rami lo sfioravano. Mi ero allontanata dal resto del gruppo dei miei compagni in gita perché avevo sentito una voce cantilenare qualcosa in una lingua straniera e quel canto era dolcissimo. Sentivo ancora schiamazzare i miei amici poco distanti da me, al di là dei cespugli. Sulle prime mi parve che stesse dormendo e lì per lì pensai avesse parlato nel sonno, ma quando sentì dei passi si destò e mi guardò. I suoi occhi erano appena più chiari dei capelli, con una vaga sfumatura calda color nocciola nella parte più esterna dell’iride, dove il sole li illuminava. Non disse nulla e per dei lunghi istanti non si mosse nemmeno ma io capii (o intuii?) che era prossimo alla morte. Avevo nove anni allora e non mi intendevo un granché di medicina, tuttavia mi chiesi come mai un uomo in apparente stato di buona salute stesse morendo. Stranamente non mi chiesi come facessi a esserne così sicura. A sconvolgermi in quel momento era soprattutto lo spreco della gioventù. Nella mia mente di bambina solo le persone vecchie morivano. Chiunque non avesse i capelli bianchi ne era esentato e tante grazie. Se ne stava quindi disteso nell’erba a pancia sotto, immobile. Indossava un maglione blu piuttosto leggero per la stagione in cui eravamo e dei semplici jeans. Un rigonfiamento della tasca posteriore lasciava indovinare la presenza di un portafogli e aveva un moschettone con qualche chiave agganciato al passante dei pantaloni. Era scalzo, ma più tardi la polizia avrebbe rinvenuto un paio di normalissime scarpe da ginnastica poco più in là. Poi si mosse, finalmente e il sole, che filtrava attraverso gli alberi, accese i suoi capelli perfetti di riflessi lu-centi. Con uno sforzo si issò su un gomito e si lasciò cadere sulla schiena con un gemito. Sbatté 35
leggermente la testa sul terreno, ma se se ne accorse non ne diede segno. In tre passi fui da lui e mi inginocchiai con quel movimento fluido che tanto spesso avevo visto fare a mia madre ogniqualvolta mi capitava di cadere. Esitai tuttavia a toccarlo. Il suo viso era di una bellezza disar-mante anche se in punto di morte. Chiuse gli occhi e temetti che non li avrebbe più riaperti, ma lo fece. Mi chiese di abbassarmi con un sussurro che fece meno rumore del fruscio prodotto dal mio vestito quando mi chinai su di lui. Resistendo all’impulso di toccare quei capelli così perfetti, gli appoggiai l’orecchio alle labbra. -Ti faccio un dono piccola bambina. Il dono di cambiare i dettagli della tua vita e di quelli a te vicini-. La sua voce altalenava tra il mormorio più basso e il nulla assoluto. Per un attimo sentii le sue labbra muoversi e solleticarmi, ma nessun suono. Stavo per rialzarmi quando disse: -Brogli dell’universo. Taglia la ciocca di capelli per cambiare qualcosa. Più ne tagli più grande sarà il cambiamento. Usa questo dono con parsimonia-. Allora ovviamente non conoscevo il significato della parola “parsimonia” e, sebbene più tardi la cercai sul dizionario sul momento mi distrassi, cercando di darle un significato. Quando riportai l’attenzione su di lui sentii solo il fondo della frase: -In fondo c’è la morte-. Detto questo, con quello che parve un enorme sforzo di volontà, mi posò pesantemente una mano sui capelli. Non sulla testa come talvolta faceva il nonno per vezzeggiarmi, ma proprio sulla mia massa di capelli rossi. Dire che sentii sensazioni inusuali o calore o la macchina dell’universo mettersi in moto sarebbe falso. Non sentii proprio niente finché un leggero tonfo mi annunciò che la sua mano era ricaduta sull’erba. Mi sollevai quel tanto che bastava per guardarlo. I suoi capelli erano ancora perfetti, con la singola fogliolina ancora incastrata sopra la tempia. I suoi occhi erano aperti verso di me, ma lui, chiunque fosse stato, se ne era andato. Mi alzai e andai a chiamare un adulto. Più tardi la poliziotta gentile, con corti, ma lucidissimi capelli castano chiaro, spiegò alla mamma e a me che con molta probabilità quel ragazzo era un tossico in preda alle allucinazioni. Fui riportata a casa e quella sera e il giorno dopo la mamma mi viziò a non finire. Quando infine tornai a scuola i miei compagni di classe erano avidi di pettegolezzi e insistevano perché raccontassi loro del “morto e delle sue ultime parole”, ma raccontarlo a loro era sbagliato, dunque non dissi più una parola al riguardo. Non accennai più all’argomento e, alla fine, lo dimenticai. 36
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Me ne ricordai per un motivo estremamente futile qualche anno dopo. Avevo dodici anni. I miei capelli erano molto cresciuti ed erano più lunghi, lucidi e fluenti che mai. Stranamente avevo preso l’abitudine di arrotolare tra le dita una singola ciocca; sempre e solo quella. Non avrei saputo dire come facevo a sapere che si trattava sempre della stessa. Lo sapevo e basta. Ad ogni modo in quel periodo io e la mia compagna di banco, nonché migliore amica, avevamo molto da argomentare circa il nuovo arrivo in classe: un ragazzino con gli occhi verdi e i capelli di una bella sfumatura di biondo cenere. Capitò così che un giovedì, durante la lezione di geografia, così prese nei nostri discorsi, non ci accorgemmo minimamente dei ripetuti richiami dell’insegnante che alla fine, spazientito, ci informò che di lì a qualche minuto ci avrebbe interrogato su quanto aveva appena spiegato. Era la fine dell’anno e il voto avrebbe inciso parecchio su quello finale. Ai tempi quella era una delle nostre poche grandi preoccupazioni. La mia amica fu chiamata per prima e, tra le risatine dei compagni, si avviò mesta verso la cattedra. Rimasi al mio posto, tormentandomi la solita ciocca di capelli, osservando la sua schiena dirigersi verso l’inevitabile con il cuore appesantito dal senso di colpa. Cosa avrebbe detto la mamma? Faceva tanti sacrifici per non farmi mancare nulla e quando mi offrivo di badare ai bambini dei vicini di casa per racimolare qualche soldo lei mi ripeteva di non preoccuparmi, di stare tranquilla e pensare alla scuola. Mi guardai in giro, cercando una soluzione. Il fondo della ciocca si muoveva sempre più velocemente, tor-mentato dalle mie dita nervose e, ad un tratto, ebbi l’illuminazione. Ricordai quello che mi aveva detto l’uomo nel parco. Ovviamente la mamma mi aveva spiegato sia che cos’era un tossico sia che cos’erano le allucinazioni. Sapevo che nulla di quello che aveva detto era reale e sapevo che stavo per fare una cosa stupida, ma quando si hanno dodici anni e si è disperati per un’interrogazione a sorpresa qualunque ancora di salvezza è bene accetta. Allungai una mano tremante verso il mio astuccio lilla cucito all’uncinetto e ne estrassi il mio paio di forbici cercando di dare nell’occhio il meno possibile. Tagliai il fondo della ciocca. Ne tagliai davvero 37
poco e in grembo mi caddero solo pochi peli rossi che spazzolai via con il dorso della mano. Avvertii immediatamente una sensazione scorrermi appena sotto la pelle; una sensazione che più tardi avrei imparato ad associare al taglio dei capelli. Non ho un termine per definirla ma è come se, per qualche istante, mi fosse possibile entrare in contatto con la divinità capricciosa che si occupa dell’andamento delle vite umane. Era come se tutti i miei sensi fossero potenziati e potessi avvertire, e quasi ascoltarne il rumore, degli ingranaggi che regolano lo scorrere degli avvenimenti, scattare, cambiare leggermente di posto e assestarsi nuovamente, modificando il corso degli eventi. Durò poco, forse qualche secondo e la sensazione svanì così come era arrivata. Non ebbi tempo di interrogarmi sulla natura di quell’esperienza perché la mia compagna stava riprendendo il suo posto e l’insegnante stava chiamando me. Preoccupata, e in parte delusa (qualche cosa mi ero sinceramente aspettata che succedesse) mi avviai verso la cattedra. Vi arrivai una manciata di secondi più tardi ma, proprio quando la prima domanda stava per essermi posta, qualcuno bussò alla porta, reclamando la presenza del mio aguzzino in presidenza per una questione urgente. Il nostro docente ci intimò di comportarci bene in sua assenza minacciandoci con note di demerito e pessimi voti se avessimo disubbidito. Uscì dall’aula e rientrò insieme alla campanella che decretava la fine della sua ora con noi. Salva, con il senso di onnipotenza sconsiderata che solo i dodicenni possono provare, tornai al mio posto. Non feci mai parola con nessuno di quella che nella mia testa presi a definire con dolcezza “la strana coincidenza”, ma ormai il seme della curiosità e dell’onnipotenza era stato gettato. Se si fosse rivelato vero che tagliarmi i capelli poteva darmi il potere di cambiare il corso degli avvenimenti avrei potuto considerarmi padrona del mio destino. Avrei potuto, per assurdo, fare le cose più pericolose, tagliarmi i capelli e avere salva la vita. Sarei stata una strega. Una strega buona ovviamente (ricordo alla perfezione che lo precisai a me stessa a mezza voce), come quella del libro che ci avevano fatto leggere a scuola. Ero elettrizzata e non vedevo l’ora di rifarlo. Dovettero passare altre tre settimane però prima che qualcosa di degno della mia attenzione accadesse. La macchina della mamma, una vecchia monovolume bordeaux e molto vecchia, una mattina, dopo aver sbuffato e tossito, decise di non mettersi in moto. Da dietro la finestra osservai la mamma appoggiare sconsolata la testa al volante un paio di minuti prima di scendere dall’auto con uno scatto 38
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nervoso. Non avevamo i soldi per ripararla e lo sapevamo tutte e due, così come sapevamo che l’auto le serviva per andare a lavorare. Tirò un calcio al paraurti e tornò in casa piangendo. Non persi neanche tempo a consolarla perché potevo fare di meglio. Andai in cucina, presi le forbici dal primo cassetto e tagliai via un centimetro di ciocca. Immediatamente tornò quella meravigliosa sensazione di ingranaggi che cambiano posto e anche questa volta il risultato fu pressoché immediato. Il campanello suonò non appena la sensazione fu svanita. Ricordo che la mamma si asciugò il viso con un gesto veloce, controllò di avere un aspetto accettabile guardando il suo riflesso nello specchio tondo sopra la scarpiera, si ravviò i capelli e, infine, aprì. Un sorriso radioso la salutò, condensando l’aria gelida di fuori in piccoli sbuffi. Il ragazzo che da poco si era trasferito nell’appartamento vicino al nostro e di cui non sapevamo neanche il nome si scusò con mia ma-dre per la sfacciataggine, ma aveva assistito alla scena e si chiedeva se, per il buon vicinato, poteva essere d’aiuto, visto che riparare auto era il suo lavoro. La mamma, con una diplomazia che avrei ammirato per molti anni, spiegò che per noi non era proprio il momento più adatto per spese impreviste. Lui scosse la testa sempre sorridendo e disse che poteva farlo in cambio di una cena, dato che non aveva ancora una cucina funzionante ed erano giorni che mangiava al fast food. Vidi la mamma spostare il peso da un piede all’altro, mettersi una ciocca dei miei stessi capelli rossi dietro all’orecchio con un fare civettuolo che non le aveva mai visto usare e infine annuire sorridendo. Il ragazzo, che aveva i capelli castani più ricci che avessi mai visto, impiegò tutto il pomeriggio per sistemare l’auto e, come eravamo d’accordo si fermò a cena. Si rivelò una persona davvero simpatica. Tornò a cena da noi qualche sera più tardi e poi ci invitò a casa sua. Nel giro di qualche mese lui e la mamma presero a frequentarsi, alimentando il mio già ben nutrito senso di onnipotenza.
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Sentire gli ingranaggi dell’universo muoversi al mio comando mi rese sicura di me, spavalda e dipendente da essi. Ovunque andassi presi l’abitudine di portare con me un piccolo paio di forbici e ben preso mi prese l’insana abitudine, la mania, di controllare di averle sempre a portata di mano. Nello stesso 39
periodo diventai anche estremamente gelosa dei miei capelli e ossessiva nella loro cura. Fu intorno ai quattordici anni che fui costretta ad ammettere una verità che mi andavo negando da mesi ormai. La ciocca una volta tagliata, non ricresceva. Parsimonia. La parola mi rimbombò in testa per tutto il pomeriggio con la potenza di un uragano. Parsimonia. Mai usata in quegli anni. Con la paura nel cuore feci una prova. Tagliai un’altra ciocca alla stessa altezza di quella magica e li lasciai crescere per un lungo periodo. Con orrore fui costretta ad osservare la differenza di lunghezza tra le due ciocche tagliate. Quella “magica” era ferma esattamente alla stessa lunghezza mentre l’altra, seppur più corta del resto dei capelli, era cresciuta. Sedetti sul letto e presi la decisione che cambiò la mia vita negli anni a venire.
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Decisi che un dono così non andava sprecato e smisi all’istante di usarlo per futili motivi. Mi applicai perciò nello studio e, quando terminai l’università, cercai un lavoro e lo ottenni senza ricorrere alla ciocca. Come avevo deciso quasi dieci anni prima cominciai a lavorare in una struttura che si occupava di bambini a cui la vita non aveva regalato un’esistenza facile. Mi alternavo senza sosta tra bambini orfani, vittime di violenze e, come volontaria, con i piccoli malati negli ospedali. Lì usare il mio dono non era solo sensato e dignitoso, ma era anche doveroso. Mi resi comunque conto di dover selezionare i bambini che avevano più bisogno. Per quanto lunga e per quanto poco per volta la tagliassi, la mia ciocca non era infinita. Cercai di aiutare i bambini che, secondo il mio giudizio (sicuramente talvolta sbagliato) avevano meno probabilità di ottenere un’esistenza felice. O-gniqualvolta vedevo un piccolo particolarmente in difficoltà facevo in modo di legare la mia vita alla sua, diventando sua amica, e quando sentivo che il momento era giusto tagliavo la mia ciocca e miglioravo la sua vita. Andai avanti con questo sistema osservando la mia ciocca farsi sempre più corta. Senza il minimo penti-mento, andai avanti per la mia strada. 40
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Fu in quegli anni che incontrai l’uomo che più avanti sarebbe diventato il compagno della mia vita. Era vo-lontario come me in ospedale. Ci piaceva far star bene i bambini meno fortunati. Cominciammo a frequentarci e alla fine andammo a vivere insieme. Non gli parlai mai della ciocca. Ne restava davvero poco ormai, solo qualche centimetro e sapevo che se l’avessi tagliata tutta la mia vita sarebbe finita. In fondo c’è la morte, aveva detto il ragazzo nel parco. Continuai a lavorare con i bambini, tagliandomi i capelli sempre più di rado. Non potevo morire adesso che avevo una vita dentro di me.
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I successivi sei anni li trascorsi da persona comune. Con una comune vita e un comune lavoro. Mi mancava esercitare il mio potere, ma ne avevo abusato negli anni precedenti e ora ne dovevo pagare le conseguenze. Gli eventi precipitarono all’improvviso in un piovoso giovedì di ottobre. Stavamo portando nostro figlio a scuola quando il motociclista davanti a noi perse aderenza aprendo il gas sul rettilineo di asfalto bagnato e cadde proprio davanti a noi. Mio marito per evitarlo sterzò bruscamente e la nostra auto si ribaltò nel campo. Il motociclista fu tra i primi ad arrivare a soccorrerci, poi altri automobilisti accorsero a portarci i primi aiuti in attesa dell’ambulanza. Una volta in pronto soccorso mi tranquillizzarono subito dicendomi che il mio bambino aveva riportato solo qualche piccola contusione, come me. Quanto a mio marito, invece, lui era stato portato d’urgenza in sala operatoria e, mi assicurarono, avrebbero fatto tutto il possibile per salvarlo. Non l’avrei lasciato morire. Attesi che mi medicassero i miei tagli superficiali e, quando mi lasciarono sola nella stanzetta, in osservazione, mi alzai a sedere e presi le forbici che c’erano sul tavolino. Afferrai quello che restava della mia ciocca tra due dita, avvicinai le forbici e ascoltai ancora una volta gli ingranaggi dell’universo mettersi in moto e salvare la vita all’uomo che amavo. Persi i sensi subito dopo e mi svegliai dopo tre mesi. 41
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Alzai gli occhi sull’infermiera che stava finendo si scrivere. Poi, dietro mie istruzioni, mise la lettera in una busta e la lasciò sul comodino. Se ne andò all’orario di visita mentre mio marito e mio figlio entravano nella camera. Salutai prima mio marito e gli chiesi di consegnare la lettera al bambino quando avesse compiuto dodici anni dopodiché guardai il mio bambino. Lui sorrise e si arrampicò sul letto come sempre faceva, sdraiandosi accanto a me. -Non tagliare mai i capelli- gli sussurrai. Poi gli appoggiai pesantemente una mano sui capelli. Non sulla testa come talvolta faceva il nonno per vezzeggiarmi, ma proprio sulla sua massa di capelli rossi. L’ultima cosa che sentii furono gli ingranaggi dell’universo scattare e assestarsi cambiando il corso degli eventi.
BIOGRAFIA
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Barbara Monorchio è nata a Milano nella prima parte degli anni ‘80, ma arriva da innumerevoli molti altri dove e quando. Molto sensibile, appassionata di esoterismo e spiritualità, si diletta a scrivere usando solo Bic nere.
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Studies about myself #1 di Germana Stella
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L’invito di Emanuela Cocco L’invito gli era stato recapitato di prima mattina. L’oggetto di carta, alloggiato in una busta foderata con sopra il suo nome aveva un gusto particolare, una consistenza di cellulosa pregiata, lavorata a mano, stampata in avorio, dai caratteri incisi in nero e il bordo dorato, sapeva di rivalsa. L’impalpabile appartiene a molti, a tutti, se vogliamo, ma quell’invito era un oggetto che era stato creato; esisteva, poteva toccarlo e ora ne era entrato in possesso. Il motivo in rilievo, una porta dischiusa, era una chiamata all’esperienza e sembrava sentenziare: tu ne fai parte. Era una cosa rara avere l’occasione di incontrare uno di loro. Fino a qualche giorno fa lo aveva creduto impossibile. Molte cose congiuravano perché non accadesse e quando capitava, le rare volte in cui accadeva, l’incontro non era precisamente amichevole: loro erano gli unici a parlare e non discutevano, ma impartivano ordini. Ma ora era diverso. Questo che aveva tra le mani era un invito, niente altro che un invito. Si trattava ora di varcare quella porta. Dove conduceva? Non ne aveva idea. Partecipare, si diceva, partecipare comunque all’evento accerchiato dal segreto. Sarà irripetibile, aveva detto la donna, una di loro, che lo aveva invitato. Le era grato e mentre indossava l’abito scelto per la grande serata, scrutando il suo riflesso nello specchio, elaborava un se stesso avverabile, qualcuno che non conosceva, qualcuno degno di lei e di quell’invito, quell’oggetto concreto, sfrangiato, fustellato, che ora stringeva tra le mani. La prima delusione. L’utilitaria che avevano mandato a prelevarlo non era certo il coc-chio fiabesco che si era immaginato, non era abbastanza lunga, abbastanza bianca, a-vrebbe potuto essere la sua macchina. L’uomo accostato alla vettura lasciò cadere in terra una sigaretta vedendolo arrivare, anche i suoi vestiti erano deludenti, erano gli stessi che anche lui avrebbe potuto indossare in un giorno qualsiasi. Per questo salì a bordo imbarazzato dall’abito che aveva scelto per la serata. I suoi stivaletti stringati urtarono contro un pacchetto di sigarette vuoto, si sistemò come 44
meglio poteva, ma le ginocchia premevano sullo schienale del sedile anteriore. La radio all’interno era sintonizzata su una nota stazione, mandava un pezzo di cui l’uomo conosceva le parole. L’autista alla guida domandò all’uomo se fosse d’accordo a lasciarla accesa. L’uomo rispose di sì e nel farlo venne raggiunto da una sensazione di scampato pericolo che lo umiliò. Partirono. La strada era deserta perché era l’ora di cena, ma la vettura procedeva a passo d’uomo, indugiava tra i vicoli, a volte si fermava. È una specie di giro turistico nel mio quartiere, pensò l’uomo seduto dietro, ancora deluso e in preda a una sorta di amaro stupore. L’entrata di un cinema dismesso dove un uomo infagottato si sistemava per la notte. Un piccolo bar, la cui verandina improvvisata con un telo di plastica veniva mossa malamente dal vento. Il muro di cinta di una scuola elementare cosparso di cocci di bottiglia. Un uomo in attesa alla fermata dei pullman. Poco distante dalla banchina una bionda con le cosce nude stava vomitando. Davanti ai palazzoni delle case popolari l’uomo domandò secco perché si fossero fermati, ma subito dopo vide uscire dal portone una ragazza. Indossava un abito lungo, elegante e remoto, come importato dal passato. I capelli erano raccolti sulla nuca, acconciati in un brillante corvino ammasso globulare. La ragazza si guardò intorno indecisa sul da farsi, poi avanzò verso la vettura senza dare prova di aver notato i due in attesa. I suoi passi erano inesatti e squilibrati. L’autista uscì ad accoglierla. L’uomo si spostò per farla accomodare al suo fianco. Raccolse lo stupore dai suoi occhi e lo restituì. Si studiarono a vicenda. L’uomo riconobbe negli abiti ricercati, nel viso truccato con cura, perfino nelle piccole gemme che affiorano dai capelli della ragazza la sua stessa paura di sfigurare. Con le scarpe nuove si camminava male, l’uomo e la ragazza incespicavano nei loro ele-ganti travestimenti. Avanzavano a fatica lungo la strada sterrata che attraversava il par-co, dove erano stati scaricati dal loro deludente cocchiere. Silvia, durante il viaggio i due avevano trovato il modo
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di presentarsi, sollevò lo strascico con una mano mentre con l’altra si ancorò al braccio dell’uomo. Perché ci hanno invitato? gli domandò. Questione di appetiti, rifletté lui. Perché apprezzano l’aroma del tuo corpetto di seta e le proprietà nutritive della mia marsina, le rispose. Incedevano mascherati e sghembi attraverso gli alberi, continuarono a camminare finché non scorsero uno spiazzo dove era stato montato un bianco tendone da circo, simile a un enorme latteo anellide disteso sull’erba, che emergeva dall’oscurità. Superarono incerti un paio di baracche di lamiera e alcuni piccoli chioschi dalla porta sbarrata, brandelli di festoni ingialliti pendevano dai pali di legno di un vecchio scivolo mezzo arrugginito conferendo al paesaggio l’aspetto di una lunare sagra paesana. Una giostrina coperta per metà da un telo di plastica, l’erba irregolare, i rami protesi nel buio denso del cielo, appena venato dalla luce di un lampione al limitare della strada, completavano la riproduzione di uno scenario che qualcuno poco avvezzo a quei luoghi avrebbe potuto definire spettrale. Ma i due sapevano di essere vicino alle loro case, a dieci minuti dalle loro case, non così distanti da una fermata del 49, non si erano poi così allontanati dal loro quartiere e sapevano che no, lì di spettri non ce n’erano. Sapevano che nascosto tra gli arbusti sempre verdi forse si celava l’ubriaco che in quei luoghi aveva stuprato una giovane donna e che appiattito contro la corteccia rosso-bruna degli alberi era possibile che tendesse il suo agguato il violento che un giorno come un altro aveva massacrato a colpi di bottiglia un passante, sapevano che probabilmente nella bianchezza lanosa dell’erica fluttuava inerme un corpo dal cranio fracassato. Sapevano anche che una volta dentro, al loro ingresso a quella strana festa, nessuno si sarebbe lasciato ingannare dal loro travestimento, ma lì fuori questo era ancora possibile. Lì fuori qualcuno avrebbe potuto desiderare quella ricchezza posticcia, avrebbe potuto afferrare le stelle tra i capelli della ragazza, forzare il panciotto dell’uomo, così affret-tarono il passo. Il tendone, crea-
tura opalescente dal dorso alto e diritto, riluceva adagiato nel buio tra le sagome dei pini, la pelle translucida e tesa era saldata alla terra da paletti di legno, come se lo avessero appena catturato. Giunti all’ingresso Silvia si discostò da Milo e lui non si stupì del suo gesto. Una volta all’interno non fraternizzeremo tra noi, si disse, non scambieremo parole, non ci guarderemo nemmeno. La nostra reciproca debolezza sarà un richiamo potente, ma non cederemo. Sul punto di entrare già ci detestiamo. Siamo troppo simili per piacerci. Potremmo appoggiarci l’uno a l’altra, ma in fin dei conti siamo in viaggio premio, in vacanza e tutto quello che vogliamo davvero è fermarci a guardare il paesaggio, parlare una nuova lingua, pensò. Ma adesso, ancora per poco, aleggiava tra loro un’istintiva alleanza e l’uomo aveva la sua risposta da dare alla domanda della ragazza. Perché siamo stati invitati? aveva chiesto lei. Il nostro viaggio, l’insensato giro turistico nelle vie che abitiamo, il viaggio durato appena pochi minuti è la risposta, rispose l’uomo. Un viaggio così breve per noi, ma non per loro, per i nostri ospiti. Per loro deve essere stata una lunga traversata, un drammatico itinerario in luoghi deprivati e stranieri, un viaggio costellato da soste azzardate in zone aliene. Un viaggio che deve avergli regalato la percezione del nostro sapore, la specifica sensazione della nostra diversità. L’uomo restò concentrato nel suo freddo pensiero il tempo di presumere l’eccitazione di chi li aveva invitati davanti allo squallido spettacolo del bar dalla verandina di tela incerata e un tono acido lambì di colpo i bordi della sua consapevolezza. Rise senza nessuna allegria. Vogliono assaggiarci, rispose alla ragazza, siamo cibo esotico. Erano sei in tutto, vistosi e facilmente riconoscibili. Ora si trovavano all’interno del pri-mo padiglione, uno spazio rettangolare non troppo ampio in cui era stato sistemato un appendiabiti in acciaio al quale erano appese delle grucce di ferro. L’uomo e la ragazza, con il resto dell’esiguo gruppetto, se ne stavano in fila davanti al misero guardaroba. Ognuno di loro era impaziente di di45
sfarsi del mantello, di un copri spalle di seta, di una stola: capi d’abbigliamento pretenziosi che li distinguevano senza scampo dagli altri, da tutti loro. L’uomo lanciava sui suoi compagni d’avventura uno sguardo duro e sprezzante. Desiderava distaccarsi da tutti loro, confondersi con gli altri, mimetizzarsi. Uomo tarchiato in blu, bionda filiforme, mora succinta, bionda in carne, e Silvia, si diceva, vi riconosco, siete la mia gente, state alla larga. Ognuno di loro si era preparato con cura per questo appuntamento al buio, e ora erano lì, così penosamente esposti, indecisi sul da farsi, ansiosi di dispensare il loro nettare, lo sguardo febbrile lanciato nella ressa alla ricerca dei loro ospiti, pronti per essere impollinati. La nostra inopportuna eleganza, realizzò l’uomo, è uno stigma. A nulla, infatti, valeva restare separati. Gli altezzosi soprabiti di ognuno di loro rabbrividivano sulle stampelle mentre gli altri, informali, a loro agio in ampi maglioni in pile, pantaloni comodi e scarpe sportive, portavano ancora indosso giacche impermeabili verde scuro e sembravano essersi dati appuntamento per ripulire il parco. Loro ci ignorano, pensò l’uomo. Sembravano conoscersi tutti. Carezze sulle guance, piccole pressioni sulle braccia, qualche bacio in punta di dita nel bel mezzo di una conversazione ininterrotta e divertita. Sotto la cupola in PVC l’aria fredda manteneva una sua purezza pervasa di terra umida, erba appena tagliata, foglie macerate dalla pioggia, che si condensava in minuscole nubi sfilacciate davanti alle loro labbra. Gli altri, grati e allo stesso tempo atterriti per l’invito, si stringevano, quasi contro il loro volere gli uni agli altri, erano sei in tutti e tenevano la bocca chiusa. A tutti loro venne consegnato un opuscolo. L’uomo lo rigirò tra le mani senza sapere che farne. Era scritto in una lingua che non conosceva. Tarchiato confezionò un minuscolo ventaglio di carta di cui fece omaggio a Mora succinta. Bionda filiforme finse di leggere. Silvia lo piegò fino a farlo diventare un minuscolo quadratino di car46
ta che poi, furtivamente, lasciò cadere in terra. L’uomo continuò a studiarne il contenuto. Provò ad affidarsi alle immagini ma, a parte il motivo della porta dischiusa, che campeggiava dalla prima facciata, non ce ne erano altre. Indugiò allora su alcune frasi in neretto a caratteri grandi che, indecifrabili, occupavano gran parte dello spazio a disposizione, ma non ne ricavò nulla di utile, così piegò il foglio e lo mise via. Si guardò intorno alla ricerca della donna che lo aveva invitato. La inseguì con lo sguardo nella calca di persone che stava oltrepassando l’alta tenda bianca che conduceva a un nuovo padiglione. La intravide di spalle, impegnata in una discussione con uno del suo gruppo. La raggiuse. Si sentiva inerme nella sua camicia di lino bianco rifinita a mano e capiva come le circostanze che lo avevano portato a ricevere quell’invito fossero mutate. Si avvicinò alla donna quasi senza osare rivolgerle la parola. Pensò alla breve conversazione, simile a una guerra, che aveva accompagnato il loro primo incontro, alla seduzione perfetta di quel loro battibecco brillante, alla reciproca euforia davanti alla certezza di aver trovato, una volta tanto, un degno avversario, alla scontata e insincera galanteria che aveva esibito allo scopo di divertirla. Ora era a disagio, un congegno fuori uso, in blocco. La donne accolse la vista dei suoi pantaloni classici senza risvolto con un applauso affettuoso. Scambiarono poche parole. L’uomo era impacciato. Le domandò dell’evento a cui stavano per assistere. Mentre parlava l’uomo ascoltava se stesso con imbarazzo crescente, ogni sua parola sembrava suonare come una supplica. Le confessò di essere deluso, le parlò della sua aspettativa di architetture immaginifiche in ferro fluido, di installazioni oleografiche che affollavano la sua fantasia di futuro, che lei bollò come preistorica, perché il visuale, disse la donna, è rimasto indietro e il futuro è risospinto verso il passato. L’uno annuì perché la temeva. Lei lo sovrastava con la sua presenza, lo scrutava come un predatore, sembrava affascinata da ognuno degli infimi dettagli de-latori della sua inadeguatezza: l’on-
il potere del mistero
deggiamento della voce, il sussulto nervoso delle ma-ni, che l’uomo cercava di mascherare intrecciandole dietro le spalle, l’irrequietezza degli occhi che prima cercavano i suoi per poi fuggire altrove. Tra i riccioli chiari e scomposti che contornavano il volto della donna era rimasto impigliato un minuscolo ramo di foglioline tenere e verdi. Sotto le sue unghie affiorava una traccia di terra scura. L’uomo si vide di lì a poco chino a estirpare radici, scavare solchi. Era questa l’impresa a cui stavano per essere chiamati? Erano lì per rinverdire il parco? La donna si rifiutò di rivelare i dettagli dell’evento, l’evento accerchiato dal segreto, ma lo rassicurò del fatto che ne sarebbe uscito trasformato. Questo era tutto quello che l’uomo desiderava. Cambiare, trasformare se stesso in altro, diventare, se era possibile, uno di loro, ma non lo disse alla donna. Lasciò che si allontanasse. La vide scomparire dietro la tenda. Tra me e lei, pensò, c’è una distanza incolmabile, ci sono di mezzo il mio vestito sbagliato e il sospetto di essere qui perché lei, perché tutti loro, possano nutrirsi della mia umiliazione. Nel camice politenato che gli avevano fatto indossare l’uomo si sentiva al sicuro. Tar-chiato lo aveva aiutato a indossarlo e poi aveva stretto forte i lacci dietro al collo e alla vita. L’uomo fece lo stesso con lui. Si specchiarono l’uno nell’altro con soddisfazione. Nel passaggio a questo travestimento da terapia intensiva entrambi avevano acquisito sicurezza. Sembravano tutti sul punto di entrare in sala operatoria. Per il momento le distinzioni tra loro si erano annullate. L’uomo cominciò a rilassarsi. Fece il suo ingresso insieme agli altri nel terzo padiglione, simile a una grossa scatola bianca rivestita in polistirolo espanso. Ora che il problema dei vestiti era stato risolto era tornata in lui la speranza di riuscire. A ognuno di loro era stata fornita una mascherina in gomma sintetica. Gli era stato raccomandato di tirarla su al momento di entrare, ma era ancora presto e tutti la portavano appesa al collo. A volto scoperto, l’uomo poteva ancora riconoscere gli altri cinque del suo gruppo, mimetizzati tra
loro. Tarchiato, completamente entrato nel personaggio, fingeva di auscultare il polso degli altri ospiti, era divertente e raccoglieva le sue facili risate. Mora succinta era la sua infermiera. Bionda filiforme sembrava mietere vittime e forse per lei questa serata si sarebbe risolta in un buon affare. L’uomo la guardò con condiscendenza, le augurò di riuscire nel suo intento e la stessa cosa augurò a se stesso. Dentro la temperatura era aumentata, il sentore d’erba e terra si era fatto greve e dolciastro, appena fastidioso, ma sopportabile. Attendevano, attendevano l’evento insieme. Silvia si teneva lontana dall’uomo. Non sembrava si stesse divertendo. L’uomo la vide avanzare lungo il tappeto decontaminante. Calzava con grazia i copri scarpe in propilene. La cuffia chirurgica azzurra in cui aveva nascosto i capelli le conferiva un aspetto austero, ma in fin dei conti le donava. L’uomo pensò che avrebbe potuto raggiungerla, afferrare la sua mano guantata in lattice sterile e tenerla in una stretta rassicurante, ma sapeva che non lo avrebbe fatto. Prima che venissero consegnate le nuove divise aveva visto Silvia attraversare la sala con il suo accompagnatore. Tenendola per mano, lui l’aveva esibita agli amici. Davanti a loro ne aveva lodato il vestito e aveva preso a elencare una a una le stelle che incoronavano il suo capo, le stelle che Silvia aveva tra i capelli, le stelle pretenziose torreggianti dal fermaglio d’argento che trattenevano la sua chioma scura e ondulata, che lui aveva liberato con un gesto improvviso, senza chiederle il permesso, gettando in terra il fermaglio. Il misero pubblico le si era stretto attorno, ac-cerchiandola nelle spire del suo divertito disprezzo come un enorme serpente dalle fauci spalancate. L’uomo aveva assistito alla scena senza fare nulla, li aveva lasciati fare, ma, senza una ragione precisa, aveva raccolto il fermaglio, ora brillava nelle sue mani, come un minuto pugnale ingioiellato. L’uomo ne saggiò la punta acuminata con le dita. Aumentò la pressione tanto quanto bastava a provare dolore. Silvia lo preoccupava. Quando a tutti loro erano stati dati gli antibiotici lei si era rifiutata di pren47
derli. Le avevano spiegato che era assolutamente necessario farlo, ma lei non aveva voluto sentire ragioni. Nel tentativo di allontanare il vassoio con le pillole lo aveva fatto cadere in terra. Non c’erano state conseguenze ma era stato spiacevole. Silvia era apparsa turbata, sul punto di piangere. Quando aveva tentato di spiegare le sue ragioni la voce era venuta fuori come strangolata dall’imbarazzo. Tutti erano stati comunque amorevoli con lei. L’avevano colmata di attenzioni finché non erano riusciti a calmarla. L’uomo, invece, era furioso. L’incidente rischiava di compromettere anche la sua posizione. Silvia sembrava non capire che così metteva in imbarazzo tutti loro. «Perché ci hanno invitati?», gli aveva domandato Silvia ancora una volta. «Lo sai », le aveva risposto l’uomo con durezza «Altrimenti non avresti indossato quel vestito.» Silvia aveva indicato Tarchiato. «E lui, allora?» «Lui si sta divertendo», aveva risposto l’uomo. «Guarda, ora li sta sfidando, li sfida a chi riesce a trattenere il respiro più a lungo. Deve averlo imparato facendo il pendolare, deve averlo imparato salendo sugli autobus che portano fuori città al tramonto, deve aver imparato lì a trattenere il respiro il più a lungo possibile. Sarà lui a vincere, vedrai. Tarchiato può farcela ne sono sicuro. Loro non sanno con chi hanno a che fare perché da loro tipi come Tarchiato non se ne trovano.» Fuori di qui uno come lui potrebbe piacermi sul serio, pensò l’uomo, ma si rendeva conto che per Silvia era incomprensibile che l’avessero invitato. Così come gli altri. Continuava a domandargli degli altri. Perché li hanno invitati? Chiedeva. L’uomo pensava di averlo compreso. Sono così pieni di stupore e di gratitudine, pensava, che è un piacere starli a guardare. Deve essere così anche per loro. Ma Silvia non era grata di questo invito, Silvia aveva paura e l’uomo temeva che cominciasse a piangere sul serio. «Abbiamo l’invito», disse lui seccamente, ma se ne pentì subito dopo averlo fatto, perché il pianto arrivò sul serio. «Allora perché non dicono niente, perché non ci spiegano niente?» 48
«Perché è tutto scritto nel foglio. Non è colpa loro se non sappiamo leggere il nuovo co-dice. Non è colpa loro se siamo quello che siamo. Ma abbiamo ricevuto un invito. È il nostro inizio», disse l’uomo. Silvia rimase in silenzio, come se la questione fosse stata chiusa una volta per tutte. Ci volle un gran lavoro di diplomazia e compassione da parte di tutti perché Silvia pren-desse gli antibiotici, come tutti. Mancava davvero poco, si erano spinti fino all’ultimo settore prima della sala grande. Esalazioni irrobustite, aria umida e densa; sembrava di essere penetrati in una grotta di sale, le pareti gocciavano, la temperatura era salita e si respira a fatica. Silvia sembrava tranquilla, ma quando dalla sala interna comunicarono che tutto era pronto per iniziare, l’uomo notò in lei un lieve cedimento. Presto però si fece risoluta. Con gli occhi fissi in quelli dell’uomo, accennò un sorriso come per assicurargli che tutto andava bene. L’uomo si sentiva a disagio. Quel sorriso gli gettava addosso l’intera responsabilità di quello che sarebbe accaduto. Vennero impartire le ultime istruzioni: sarebbero entrati scaglionati, un gruppo alla volta, in fila indiana, stava a loro decidere chi sarebbe entrato per primo. Sotto l’invocazione dello sguardo di Silva l’uomo si sentì vile. Temette una nuova crisi della ragazza. Non entrerà per prima, pensò, prenderò il suo posto. L’uomo si preparò a entrare, ma Tarchiato lo precedette, impaziente, eccitato alla prospettiva di aprire le danze. Si posizionò diligentemente sul tappeto decontaminante davanti alla tenda oltre la quale si apriva la sala grande. Sarebbe stato lui il primo. Il sollievo che l’uomo poté leggere negli occhi di Silvia gli diede la misura del suo terrore e lo ferì. Non poteva assicurarle nulla, non sapeva neanche lui cosa volesse dire dire andare fino in fondo. Poteva solo prometterle di scoprirlo prima che arrivasse il suo turno, solo questo. Tarchiato stava per entrare. Indossava già la mascherina e i suoi occhi sembravano farsi beffa del mistero dietro la tenda. Quando il suo gruppo tornerà indietro aggirerò
il potere del mistero
il divieto di segretezza, pensò l’uomo, troverò il modo di farlo parlare. Silvia saprà cosa aspettarsi, si disse, glielo devo, perché l’ho spinta a restare. Ma adesso già tutti si avvicinavano alla tenda, scortando il primo gruppo in fila per en-trare, con Tarchiato in testa, gonfio di orgoglio, la mascherina calata sul viso. La tenda venne sollevata e un sentore di fiori guasti, di terra esausta, di erba marcita, invase la sala. I cinque che erano rimasti indietro, investiti dall’emanazione putrida, istintivamente voltarono il capo alla ricerca di aria pulita. Gli altri, intenti ad assorbire l’orgoglio e lo stupore di Tarchiato, la sua sorpresa mista alla paura e alla fierezza, non mossero un passo. Solo quando lo videro scomparire dietro la tenda si dispersero, liberando il passaggio. Quando Silvia svenne, perché l’odore ormai le era come entrato dentro, quando Silvia cadde a terra, prima ancora di sapere quello che ora sapeva, l’uomo vide tutti loro, bar-dati nella tenuta medica, con indosso il camice, le cuffie, e le mani guantate, avvicinarsi a lei. Lambivano il suo corpo come tante creature lattiginose, una massa di lombrichi che si agitavano nella cassetta del compostaggio attratti dal cibo, addensati alla cieca lungo la superficie esposta delle sue emozioni. L’uomo non si era mai nutrito della paura di un essere umano, non aveva mai avuto di questi appetiti, non era mai stato un predatore, ma sa-
peva riconoscerli e capì a cosa stava assistendo. Quando Silvia riaprì gli occhi pensò che l’avrebbe raggiunta e portata via, in salvo. Ma quello che avvenne fu così veloce e inspiegabile da non lasciargli il tempo di reagire. Lei non oppose la minima resistenza. Come fosse loro complice, Silvia eseguì l’ordine impartito, nel più completo silenzio. Una volta indossata la maschera sollevò la tenda e balzò dentro senza la minima incertezza. L’uomo la guardò saltare giù, fratturato senza scampo dal suo silenzio. Rimase a guardare senza fare nulla perché allora non sapeva ancora quello che avrebbe scoperto di lì a poco. Ma ora loro erano tornati, quelli del primo gruppo. L’uomo aspettò che sollevassero la maschera per esserne sicuro, controllò ogni viso e attese finché non ebbe la certezza di quello che aveva temuto. Ora sapeva. Tarchiato non era con loro. Loro erano tornati indietro senza di lui. Silvia lo aveva capito, pensò l’uomo, non si era mai trattato di un invito perché non avevano mai avuto il potere di rifiutare. Il potere era sempre rimasto nelle mani degli altri. L’invito era un ordine. L’uomo si guardò le spalle. Cercò con lo sguardo gli altri compagni. Erano rimasti in cinque. L’invito era un ordine, ma lui aveva raccolto le stelle tra i capelli di Silvia, le teneva strette in pugno. L’invito era un ordine e lui si preparava a disobbedire.
BIOGRAFIA
Emanuela Cocco, drammaturga, ha scritto monologhi, atti unici e drammi in cinque atti. I ciechi (Nerosu-bianco edizioni, 2013, Le madri atroci (Feltrinelli editore, 2012), Nuovi consigli alla piccola Peyton (2011), Con Arido amore, Piero Gobetti (2011), Lulu, Ruud e le altre (Nerosubianco edizioni, 2010), Quando hanno steso il vecchio (Edizioni Corsare, 2009), Nel giardino (Borgia Editore, 2006). Con la compagnia Franz Biber-kOff Teatro ha messo in scena i suoi spettacoli, scritto e realizzato audiodrammi e Reading-spettacoli sulla nar-rativa e la poesia del Novecento italiano. Ha lavorato come operatore in unità di strada in progetti dell’educativa minori e famiglia del privato sociale, riguardanti il disagio giovanile e le donne vittime di violenza domestica. Cura come docente, laboratori di drammaturgia teatrale e di animazione alla lettura in progetti finalizzati alla prevenzione, la riduzione e il contenimento del disagio nei minori e nei nuclei familiari a rischio. Nel 2015 ha dato vita a DR. SCRIPT, un progetto itinerante di animazione alla lettura e biblioterapia narrativa. Spaccia farmaci letterari sul blog: drscriptblog.com 49
Un morto per la vigilia di Fiorella Malchiodi Albedi
- Stanotte andiamo a vedere il morto. - Angela guardò Elsa allarmata. - Che morto? - Il mostro, quello del secondo piano. É morto all’alba, non lo sapevi? Domani ci saranno i funerali, e stanotte tu ed io andiamo a fargli visita. Sarà davvero una vigilia di Natale speciale! Angela aggrottò la fronte. Il mostro cui alludeva Elsa era un vecchio con una testa sproporzionata, una strana fronte eccessivamente bombata e degli occhi sporgenti, che aveva sempre abitato nel loro palazzo. Dalla bruttezza alla cattiveria il passo è breve e le dicerie sull’uomo avevano preso a circolare nel quartiere. Per gli adolescenti era diventato un gioco speciale, quello di radunare intorno a loro i più piccoli e inventare storie sulla sua crudeltà, con i mocciosi che ascoltavano con gli occhi spalancati, sempre più spaventati, ma incapaci di sottrarsi al fascino della paura. Elsa in questo mostrava un’abilità particolare. Angela non aveva mai capito che gusto ci provasse. Ora che il vecchio era morto, pensò, la sua amica stava certamente architettando una delle sue imprese azzardate, in cui cercava sempre di coinvolgerla, nonostante i suoi inutili tentativi di sottrarsi. La guardò. Elsa nel frattempo aveva trovato la giusta angolazione per specchiarsi nel vetro della finestra e aveva preso ad aggiustarsi i capelli, come sempre faceva in quelle circostanze. Finiva sem50
pre così, lei che guardava Elsa ed Elsa che guardava sé stessa, irresistibilmente attratta dalla sua immagine riflessa. - E come facciamo a entrare in casa? Elsa per una volta distolse gli occhi dallo specchio e guardò l’amica, stupita. Si era aspettata le solite rimostranze, con Angela che la pregava di desistere dall’impresa, lei che insisteva spavalda, finché l’amica cedeva, sotto la minaccia della rottura dell’amicizia. Era così che l’aveva trascinata in avventure che avevano il solo scopo di infrangere qualche regola, come i piccoli furti nelle botteghe o le esplorazioni nella fabbrica abbandonata, alla periferia del quartiere, dove era vietato entrare. Ora invece Angela sembrava stranamente tranquilla. Forse non credeva che lei volesse davvero entrare nella casa del morto, e in effetti era così. Il suo intento era solo spaventare l’amica, e piegarla come sempre alla sua volontà. Poi alla fine, quando finalmente Angela avesse acconsentito, avrebbe rinunciato lei stessa all’avventura, non ci teneva proprio a vedere un morto, e soprattutto quel morto! Ma doveva tenere il punto e continuare a mostrarsi impavida. - Mia madre andava a innaffiargli i fiori e so dove tiene le chiavi. Aspettiamo che tutti dormano e poi saliamo. - Sei sicura che in casa non ci sia nessun altro? Ancora una domanda e nessuna rimostranza! Da dove usciva
quel coraggio che Angela non aveva mai avuto? Di nuovo si disse che era una posa e che non doveva dargliela vinta, e con disinvoltura rispose: - Sicurissima. Mia madre ha detto che era poco cristiano che nessuno lo vegliasse, e proprio alla vigilia di Natale, ma certo lei non vorrà passare una notte in bianco. Così alle dieci, dopo il cenone, i miei andranno a dargli un ultimo saluto e poi lo lasceranno solo. Noi ci vedremo alle due, sul pianerottolo. Metti la sveglia. E porta una torcia. - D’accordo. Ora devo andare ad aiutare mia madre in cucina. Ci vediamo alle due. Angela si alzò e si allontanò, senza accorgersi dello sguardo perplesso dell’amica che la seguiva. Alle due, Elsa uscì silenziosamente dal suo appartamento, sicura di non trovare l’amica, ma mentre posava il piede sul pianerottolo del secondo piano, un fascio di luce la colpì in pieno viso e le strappò un urlo soffocato. - Ehi, fai silenzio! - disse Angela, abbassando la torcia. Elsa si chiese come diavolo le era venuto in mente di ficcarsi in quella situazione. - Apri tu? - chiese Angela, indicando il mazzo di chiavi che l’amica aveva in mano. “Che cretina, pensò Elsa, avrei potuto dirle che non le avevo trovate”. Ebbe all’improvviso la certezza che le cose stessero andando avanti per conto loro, come incanalandosi in una dire-
il potere della superstizione
zione che era al di fuori della sua volontà, una sensazione insolita per lei, che amava avere tutto sotto il suo controllo. Vedendo l’amica incerta, Angela le prese le chiavi dalle mani e si diresse tranquilla verso la casa del morto. Fece girare la chiave nella toppa e aprì silenziosamente la porta. - Muoviti! - disse all’amica che era rimasta ai piedi delle scale. Elsa, che non si capacitava per quell’improvviso rovesciamento dei ruoli, la seguì riluttante. Nell’ingresso, Angela sostò a esplorare con il fascio di luce le pareti e le porte che vi si aprivano. Poi spense la torcia. Elsa non riuscì a trattenersi e si strinse all’amica. - Ma che fai? Perché hai spento? Ma subito capì il motivo. Nel buio, si intravedeva uno strano bagliore verdastro provenire da una delle stanze. Elsa rabbrividì. - Forse c’è qualcuno, andiamo via. Ma Angela riaccese la torcia e si incamminò verso la luce e l’amica dovette seguirla per non rimanere da sola al buio. La luminosità proveniva dalle lucette di un albero di Natale addobbato, che erano rimaste accese. In mezzo alla stanza c’era un letto e sul letto, disteso, il morto. La debole luce dava un colorito verdastro al viso del vecchio e ne accentuava le irregolarità. Elsa lo trovò ancora più spaventoso che da vivo e non poté fare a meno di avvicinarsi di nuovo all’amica.
Poi cominciò a tirarle il braccio. - Dai, andiamo via. Ma Angela rispose. - Giacché siamo qui, potremmo recitare una preghiera per il mostro. Elsa guardò l’amica, non capacitandosi del suo sangue freddo. - Sediamoci un attimo - disse Angela. Elsa, che ormai si sentiva priva di ogni volontà, si diresse verso uno sgabello. - No, non lì, - disse Angela - quello sgabello è instabile. L’amica la guardò allibita. - E tu come lo sai? Le lucette disegnavano strane ombre anche sulla faccia di Angela. Per un attimo a Elsa sembrò di vedere un’espressione di scherno, sul viso dell’amica, e quasi non la riconobbe. - Non è la prima volta che vengo qui. Elsa guardò l’amica incredula, e stava per chiedere spiegazioni, quando si girò di scatto verso il morto. - Oddio, si è mosso! Angela guardò l’amica spazientita. - Ma che ti viene in mente? - Ti dico che si è mosso. Guarda la gamba! Angela puntò il fascio di luce e notò anche lei leggeri movimenti vicino alla gamba del morto. Sorrise. Elsa a quel punto non resistette più. - Basta, io me ne vado. - E si precipitò verso la porta d’ingresso. Angela sentì i suoi passi affretta-
ti sulle scale, una porta che si apriva e si richiudeva in fretta, e sorrise di nuovo. Poi illuminò con la torcia la gamba del morto. - Dai, Gertrude, vieni fuori. Il movimento continuò sotto il lenzuolo finché dal bordo, vicino alla testiera del letto, spuntò un musetto appuntito, con occhi vivaci e lunghi baffi. Angela avvicinò la mano, e il topolino docilmente ci si arrampicò sopra. - Sei venuto anche tu a salutarlo. Non ti preoccupare, ora penserò io a te. Rivolse un ultimo sguardo al volto del vecchio e a quegli occhi sporgenti che solo lei era riuscita a vedere buoni e gentili. Poi si avviò verso la porta.
BIOGRAFIA
Fiorella Malchiodi Albedi lavora come medico in un ente pubblico di ricerca. Da qualche anno scrive racconti e memoires. Ha pubblicato dei racconti su L’Irrequieto, Il paradiso degli orchi e Verde. 51
Amorfe di Federica Castelli Amorfe è la mia paura. Un terrore verso quell’ombra dietro lo stipite della porta. Rimango in silenzio. Forse, non mi ha sentita? 1.. 2.. 3.. Attimi che passano e scorrono L e n t i. Come posso descrivere un sentimento senza perimetri? Che si sgretola appena inizio a dargli un nome? È una minaccia quell’essere, quell’uomo. Torreggia sui miei castrati urli. Non ho che i secondi da contare. Il Terribile mi ha trovata; mi sta facendo male. È il silenzio che m’impone. 1.. 2.. 3.. Cos’è questa sensazione di penosa vergogna? Cos’è questo desiderio di scappare e resistere a questa ennesima irruenza al mio corpo? Cos’è questo desiderio di pace, di una pace definitiva? Non so descrivere ciò che è amorfe. Il senso d’impotenza m’annebbia i sensi. 1.. 2.. 3.. Forse, anche per oggi l’umiliazione è finita?
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il potere delle ombre
BIOGRAFIA
Federica Giulia Castelli è nata a Milano il 20 giugno 1998. Frequenta il primo anno di Scienze dei beni culturali all’Università statale di Milano. La sua vita di scrittrice inizia da piccolissima, con un semplice quadernone a righe su cui scrive 73 storie tutte diverse. Dal 2014 gestisce con una delle sue migliori amiche due pagine di scrittura su Facebook, #Morgana e #Alleniamoimuscolidelcuore, sulle quali pubblica quotidianamente i suoi scritti.
In volo - Wu Minxia (dicembre 2017) collezione “Storie di donne, 2011-2018”
di Antonella Restagno
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di Enrica Gatti
fuoco ti attira il suo tepore scalda credi sia forza la passione brucia nelle mani lo stringi alza, spinge lontano quando per lui rinunci e gridi! dov’è la tua anima andata! grovigli i rimorsi allora? che se ne fanno allora è solitudine per anime perse sono sorrisi ingrati perdite indifferenti e sadici sguardi.
BIOGRAFIA
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Enrica Gatti, nata a Sassuolo nel 1985, ha studiato un paio di anni al Dams di Bologna e all’Accademia di Musica di Modena per poi scoprire la propria strada professionale nella Psicologia, che studia tuttora all’Università di Modena e Reggio Emilia. Lavora nell’ambito del Welfare. Madre e donna, introversa, con l’abitudine di scrivere fin da ragazzina.
il potere del fuoco
War is on our plates di Bea Davies
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Franca Viola di Maria Fabia Simone Coraggio. Stamattina ho pensato che se potessi disegnarlo avrebbe il volto di Franca Viola. I suoi lineamenti delicati ritratti in una foto in bianco e nero e la profondità di quegli occhi la cui intensità non riesce a celare il dolore di ciò che sono stati costretti a guardare. Il male, la brutalità, l’orrore. Eppure quegli stessi occhi non si sono mai abbassati, hanno continuato a guardare fisso davanti a loro per non cedere all’abisso in cui le ferite dell’anima ti possono trascinare, impedendoti di risalire. E i giorni in balìa di un mostro e dei suoi istinti primordiali non sono ferite, sono squarci sul corpo e nel cuore. Lo stesso cuore che Franca non ha mai smesso di ascoltare, nonostante graffiasse dentro di lei. Nonostante si stringesse in una morsa che solo lei riusciva a sentire. Nonostante si fosse bloccato, congelato, rimasto sospeso a quegli attimi in cui aveva smesso di essere una persona per diventare un mero oggetto, una scatola vuota. Ma lei ha resistito e quello stesso cuore che faceva male, lo ha seguito, lungo la strada della giustizia, una strada tortuosa e solitaria, lontana dalle convenzioni e convinzioni di allora, da una mentalità arcaica e misogina che si preoccupava più di lavar via l’offesa della verginità oltraggiata - e che ciò fosse accaduto con la violenza poco importava - che di offrire alla vittima una protezione, uno scudo da colui che si era reso colpevole di un crimine così spietato. Franca non ha ceduto, senza esitazione si è consegnata alle conseguenze della sua decisione di rompere il silenzio e andare contro un sistema. Non ha avuto bisogno di pensarci, la scelta per lei era una sola, anche se questo significava scavare quotidianamente dentro se stessa, o meglio, dentro i pezzi di se stessa perché uno stupro ti disintegra: prima eri una donna intera, dopo invece ti trasformi in frammenti da raccogliere e rimettere insieme per tentare di tornare a essere non un corpo, ma una persona viva. È così che immagino si sia sentita Franca Viola 56
dopo la sua prigionia e le violenze subite. In quei giorni tra il 1965 e il 1966 non si è lasciata sopraffare dalla paura, malgrado un contesto dominato da regole maschiliste e patriarcali. Anzi, si è appropriata di un diritto, il diritto di difendere se stessa, la sua dignità e la sua libertà di scelta. E non ha atteso che qualcuno, dall’alto, le riconoscesse quel diritto perché la giustizia non poteva essere tale se si fondava su un articolo del codice penale che faceva del matrimonio uno strumento per estinguere il reato di violenza carnale. In Franca infatti era germogliata la consapevolezza che quel sistema, che tutti accettavano, aveva qualcosa che non andava. I suoi ingranaggi, deve aver pensato, erano stati montati appositamente storti da qualcuno che aveva deciso di esercitare un potere che aveva il sapore della negazione della donna come soggetto titolare di diritti. Così lei, con la sua scelta di dire no alle nozze riparatrici, ha rotto i pezzi che tenevano insieme quel sistema - la paura, il senso di vergogna, l’ipocrisia, la rassegnazione, l’ignoranza - li ha stretti forte e li ha sbriciolati tra le sue mani. E come sabbia, li ha seminati lungo le strade del suo piccolo paese di provincia, a testa alta, senza mai voltarsi indietro. Con coraggio.
il potere del coraggio
BIOGRAFIA
Maria Fabia Simone è nata nel 1983 a San Giovanni Rotondo (FG), si è laureata in Relazioni Internazionali presso l’Università di Bologna e in Studi Europei presso Sciences Po Strasbourg. In Francia, presso l’Università di Tolosa, ha inoltre conseguito un Master in Relazioni Internazionali e Politiche di Sicurezza. Dal 2005 al 2010 ha vissuto all’estero (Francia, Belgio, Irlanda, Grecia, Stati Uniti) per compiere i suoi studi e svolgere tirocini presso le istituzioni europee e le organizzazioni non governative. Nel 2006 ha lavorato come assistente parlamentare al Parlamento Europeo e, dal 2010, dopo essere rientrata in Italia, ha rivestito ruoli professionali in diversi settori, quali l’immigrazione, la progettazione europea e la comunicazione. Dal 2016 al 2017 ha seguito a Roma il corso di scrittura creativa “Nonameslab” partecipando alla stesura collettiva di un romanzo. Attualmente vive a Roma.
Studies about myself #3 di Germana Stella 57
Happy Hour di Ileana Moriconi Sono seduto sulla terrazza di questo bar puntuale come al solito. Mi hanno assegnato un piccolo tavolino proprio al centro, anche se avrei preferito essere più appartato. Fa molto caldo oggi e il riparo degli ombrelloni di tela bianca non basta. L’aria è ferma, nulla smorza i raggi del sole che arrivano dritti sulla mia camicia. Sposto un po’ la sedia e mi rifugio completamente all’ombra, traendo un po’ di sollievo. Guardo l’orologio. Con Serena abbiamo appuntamento alle 13.00, ma è già in ritardo. Non mi stupisce. Cinque minuti sono il minimo per lei, le piace farsi attendere. Abbiamo deciso di vederci qui, nel nostro bar di sempre, perché è vicino a entrambi i nostri uffici. Una volta lo sceglievamo per il panorama mozzafiato e il senso di intimità e accoglienza che ci trasmetteva. Pino, il cameriere, viene a chiedermi se voglio intanto ordinare ma gli rispondo di no. Voglio aspettare Serena e nell’attesa apro il giornale. Scorro qualche titolo, ma non riesco a concentrarmi. Non vedo Serena da quasi due mesi, da quando mi ha detto che a casa di Maria si trova bene e che non devo preoccuparmi per lei. Di quell’occasione non ricordo nemmeno una parola, riuscivo solo a pensare che si fosse già tolta la fede. Io la porto ancora oggi. Vederla fare le valigie è stata la cosa più facile. Semplice, pratica, lineare, ha preso ciò che le serviva e se n’è andata, chiudendo delicatamente la porta alle sue spalle. Il difficile è arrivato dopo. Avrei preferito che quella porta la sbattesse sonoramente. Le sarei potuto correre dietro, urlarle che l’amavo, che mi dispiaceva, che era stata solo un’insulsa, stupida e nemmeno troppo piacevole scopata. Le avrei potuto strappare la valigia dalle mani, dirle che avrei licenziato Alice quel giorno stesso, a patto che lei tornasse, perché per vederla varcare di nuovo la soglia del nostro appartamento perfetto avrei fatto qualsiasi cosa. E invece no. Ero rimasto lì, in piedi, con la mia camicia inamidata senza 58
una piega, a fissare il bel divano bianco in pelle che Serena aveva così fortemente voluto. Quello in valigia non le era entrato. Dopo qualche minuto mi ero affacciato alla finestra per vederla uscire dal portone e tutto quello che ero riuscito a pensare era che non sapevo di chi fosse la macchina su cui stava salendo. Mi mettevo pure a fare il geloso, proprio io. Io che con Alice non solo mi ci ero fatto la scopata di cui sopra, ma che mi ci facevo interi weekend di finto lavoro e allegre serate di immaginarie riunioni coi clienti esteri, da mesi. E sì che erano piacevoli, quei giri di letto: Alice aveva a malapena trent’anni e tanta voglia di scoprire nuovi mondi. Non come Serena, la cui gioia più grande provata negli ultimi anni al momento di infilarsi a letto era sentire il calore dello scaldasonno De Longhi. E, ovviamente, staccargli la spina. Quel giorno, mentre sceglieva con cura cosa portarsi via, non mi ha detto nemmeno una volta che sono uno stronzo. Cosa che penso di meritare, invece, visto che sto anche cercando di convincermi che l’aver cercato Alice sia dipeso solo ed esclusivamente da lei. Nel periodo che ha lavorato con me l’ho sempre spogliata con gli occhi, ma essere passato a farlo con le mani, non è stata certo solo colpa di Serena. Potevo fermarmi, potevo fermarla. Ma era la scelta più difficile. Sono già le 13.30 e Serena non si fa vedere. Controllo il telefono, magari ha provato a chiamarmi per avvertirmi del ritardo e non l’ho sentito. Il display è pulito, né chiamate, né messaggi. Strano. Me l’ha chiesto lei di vederci oggi, alzando bandiera bianca di fronte alle mie grandi pressioni degli ultimi giorni. Voglio che lei torni e glielo sto dicendo senza mezzi termini. Dopo le prime settimane di stordimento, misto al sollievo di non dover più fare il giocoliere per tenere in piedi il mio castello di carte false, l’ho cercata e le ho chiesto di tornare a casa in tutti i modi. Mazzi di rose, scatole di cioccolatini, e-mail romantiche di chiara ispirazione goo-
il potere dell’adulterio
gleiana, sit-in sotto casa dei suoi, appostamenti fuori dal suo studio. Nulla di tutto questo ha funzionato. Serena non mi voleva vedere, e me l’ha sempre detto chiaramente, con calma e rispetto. Senza mai alzare la voce, nemmeno una volta. Casa però l’ha cambiata, adesso. Sta da Maria, sua sorella, che è tornata di nuovo single dopo aver mollato malamente l’ennesimo malcapitato. Aveva bisogno di dividere le spese e Serena era perfetta come coinquilina. Un tuffo indietro all’adolescenza. “Mi hai cancellato con un colpo di spugna” le ho detto quella volta che dopo mezz’ora di attesa sotto casa di Maria è finalmente uscita per andare in studio. Lei si è fermata, mi ha guardato e nei lunghi attimi di silenzio ho letto scorrere sul suo viso “A te è bastato un colpo di reni. Almeno io l’ho fatto con un po’ più di classe”. Mi sono girato e me ne sono andato senza aggiungere altro. Sono le due e dovrei essere già di ritorno in ufficio. Provo a chiamarla, ma il cellulare squilla a vuoto. In lontananza sento il rumore della sua suoneria e mi volto. Sta uscendo in terrazza, avvolta nel completo borgogna che le ha sempre donato. Con andatura lenta e misurata viene verso di me, scosta la sedia dal tavolo, si siede. Esita solo un attimo e si toglie gli occhiali da sole, infilandoseli nella camicetta blu. Perfettamente truccata, come sempre, capelli raccolti secondo le ultime tendenze, nulla di nuovo. Ma io perché ho cercato Alice, mi chiedo. Il cameriere si avvicina per prendere le ordinazioni e Serena non gli risparmia un sorriso. A me non ha ancora nemmeno rivolto la parola, ma a Salvatore lo sgarbo di non salutarlo, chiedergli come stanno moglie, figlia e nipote, non lo farebbe mai. Ordina anche per me, tanto sa cosa voglio, chiedo il solito Spritz da anni. Appena Salvatore se ne va, appoggio i gomiti sul tavolino e mi sporgo verso di lei. Non spero certo in un bacio, ma questa distanza voglio accorciarla.
Serena si sistema sulla sedia scivolando in avanti, incrocia le braccia al petto e appoggia le spalle allo schienale, reclinando un po’ indietro la testa. “Ti ascolto” mi dice. Mi spiazza l’assenza di convenevoli, faccio vagare lo sguardo per la terrazza in cerca di appigli, ma non ne trovo. Sembra che camerieri e avventori siano tutti dalla sua parte e trattengano il respiro in attesa che io parli. Li accontento. “Torna a casa, non ha più senso restare separati… È stato l’errore di una notte…” inizio io. “Di lei non t’importa, mi ami, Alice non ha significato nulla, è stato solo uno sbaglio, la crisi di mezza età, avevi paura, io ero diventata fredda, non possiamo rovinare tutto, non si butta via un matrimonio di quindici anni per una che in confronto a me è una ragazzina… È questo che stavi per dirmi, no? Sembri un disco rotto. Dici sempre le stesse cose da settimane, non ce la fai proprio a essere originale eh? Ma guarda che io, ad Alice, le farei una statua. Ci ha liberati, Roberto, tu non te ne rendi conto. Esci, vivi, scopa, parti, torna, fai quello che ti pare, a me non me ne frega più nulla.” Ho la gola secca, questa non me l’aspettavo. È il discorso più lungo che le sento fare da quel maledetto giorno. Ho immaginato molte volte l’istante in cui anche la sua diga si sarebbe aperta, ma non credevo che l’acqua prendesse questa direzione. Per fortuna, a farmi guadagnare tempo arriva Salvatore a portarci i bicchieri. A me lo Spritz a lei un calice di bianco, semplice e raffinato. Ci porta anche qualche stuzzichino, ma né io né lei consideriamo l’idea di mangiare. “Io non voglio uscire, vivere, scopare, partire, tornare. Cioè lo voglio, ma non senza di te, Serena” ritento, prendendole la mano che a malapena riesco a sfiorare. La ritrae immediatamente. “Sì che lo vuoi Roberto, è quello che hai fatto negli ultimi dieci anni. Non dico che sia stato 59
un errore sposarci, il primo periodo lo salvo, ma poi… Dai, vai e sii felice, goditi il presente, lascia andare tutto il resto. È meglio per tutti, Roberto, dammi retta.” Ci crede davvero. Lei ne è convinta e lo capisco da come mi guarda. Ha gli occhi limpidi, senza la fronte aggrottata che le forma quelle piccole rughe d’espressione quando mette rancore in ciò che dice. La sua fronte è perfettamente liscia. Serena chiama Salvatore, gli chiede il conto, e io non riesco ad aggiungere altro. Nemmeno quando prende la borsa e la poggia sulle gambe, nemmeno quando tira fuori il portafoglio e paga anche per me. Nemmeno quando si alza, mi guarda, mi sorride e se ne va. Continuo a girare con la cannuccia l’aperitivo nel tentativo di sciogliere il ghiaccio e farlo durare più a lungo. Dopo qualche secondo, con la complicità dell’afa, ottengo quello che voglio. Porto la cannuccia alle labbra e tiro su il liquido pallido. Mi viene una smorfia, è solo la versione annacquata di quello che mi aspettavo.
BIOGRAFIA
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Ileana Moriconi scrive racconti per se stessa da quando ne ha memoria, ma solo nel 2011 decide di misurarsi con l’esterno. Frequenta il laboratorio di scrittura della Scuola Omero di Roma e poi quello della Biblioteca Cornelia, condotto dal Prof. Sergio Kraisky, dal quale nel 2015 vengono prodotte due raccolte autopubblicate: Fantasmagorie, in cui pubblica il racconto dal titolo “Fantasmi di famiglia” e Strade straniere, in cui partecipa con il racconto “Treni” scritto a quattro mani. Da questa esperienza di gruppo e condivisione, nasce l’associazione CorneliaScript, di cui fa parte ancora oggi. Nel 2016 fonda il blog di scrittura creativa “Spazinclusi” insieme ad altri due autori, in cui pubblica un racconto al mese. Di questi, Fame è apparso nella raccolta “La fine di un amore” (Montegrappa Edizioni) e Fumo di Londra è stato pubblicato nel portale di racconti Reader for Blind.
il potere dell’adulterio
di Germana Stella
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di Suhir Knani
“Aver creduto per un secondo di essere importante. Aver sperato. Aver quasi fallito. Essere caduta, così in fondo da non percepire più dove stava il tunnel per risalire. Sentire le cose scivolare dalle mani. Farle scivolare. Lasciare andare tutto, pure ciò che di buono c’è. Temere di non fare il giusto. Fare il giusto. Sentirsi dire che quel giusto non era abbastanza. Fare di più. Fallire. E fallire. Ripercorrere ogni cosa fino alla disperazione. Stancarsi. Non credere più.
Uno scorcio di felicità. Una speranza. Fermarsi a sorridere. Sorridere. Fare grandi pensieri. E pensare, pensare e sorridere e sentirsi scemi. Un intoppo. Un problema. Di nuovo. Sentirsi gìù, che più giù c’è solo da perdersi. Non parlare. Tornare a non credere.
Vivere. Lasciar andare ogni cosa, soprattutto quello che non va. Non pensare. Provarci. Sorridere. Insistere. Di più. Avere il potere di ricominciare. Ogni giorno. Ricominciare, di nuovo, tranquillamente.”
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il potere di ricominciare
BIOGRAFIA
Suhir Knani, nata a Ragusa il 1996, studia lingue all’Università Kore di Enna. Ha tanti sogni e tanto tempo da riempire. Non ama nulla che non sappia d’amore e ha una passione per tutto ciò che ha un’anima. Legge tanto, quasi quanto respiri e spera un giorno di far qualcosa di buono.
di Ilaria Cerutti 63
Senza titolo di Mimì Burzo
L
essi di un fiore che desiderò di piantare un uomo e lo ripose in un vaso. Gli si staccarono dopo un po’ le orec-
chie e cominciò a sfiorire. Presa nelle mani dell’estasi, accade che colga un’idea e la pianti in un vaso, portandomi dove il linguaggio si risolve in se stesso lasciandomi muta nella dimensione del sogno, in cui nulla vive ma esiste e persiste nel suo non esistere. Con il sogno e nel sogno, nella falsificazione e l’infinitamente più piccolo, incontro il mobilio, gli abiti, la fattezza di un’odore o di una solidità. Essere sasso o porta. L’apertura o la chiave. La moltiplicazione. E l’amore sarà la polvere in cui si riduce la morte del fiore.
BIOGRAFIA
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Mimì Burzo è nata a Matera e cresciuta a Roma. Usa poco e “male” il verso. La sua scrittura è piuttosto prosa poetica: un grosso esperimento di demolizione delle identità a vantaggio dell’essere un nulla.
il potere della semina
Novembre 2017 di Antonella Restagno
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La bugia del topo di Rosita Bellometti
Sul sedile posteriore viaggiavano nel baule una
due strani topi ,
nutria in gabbia sopportava nervosamente i sobbalzi dell’auto e
Le madri dei due topi discutevano di quanto fossero venute bene le pancine pelose cucite sulle tutine nere, di quanto fossero carine le orecchie di cartoncino sopra il cappuccio, da cui calavano, sulle fronti dei figli, ciuffi castani di lei e biondi di lui. I due ragazzini di sette e otto anni osservavano dubbiosi la bestiola, mai vista fino a poco prima. Essendo stati abituati a condividere situazioni insolite durante le feste di Carnevale di quegli euforici anni Ottanta in provincia, non trovavano così strano l’essere due topi con il giubbotto, diretti a un concorso che avrebbe premiato la miglior coppia “Bimbo e animale”, e nemmeno l’essere, al netto dei numeri, in tre, contando l’animale ufficiale. Piuttosto era quest’ultimo che destava in loro un’infantile preoccupazione, perché non sapevano come avrebbe reagito la bestia quando l’avrebbero trasportata sul palco, dentro la sua gabbia, davanti agli altri concorrenti. I due dentoni comunicavano simpatia, per una certa sfacciata libertà dagli apparecchi correttivi, comune fastidio dei due ragazzini. Quando la madre che chiameremo, per tutelarne l’anonimato, e in virtù del suo ruolo di capofila nel seguente misfatto, “Alpha” aveva visto la pesante gabbia per la nutria nel suo solitario sopralluogo, aveva per un attimo desistito dal far concorrere la figlia, gracilina e sottopeso. Assaporata la sigaretta della riflessione, la cui brace gettava bagliori sinistri sulle pietre degli anelli d’oro, si era detta che una mente brillante sa vedere nell’ostacolo la sfida. In breve la soluzione si era accesa come un neon: un secondo 66
le voci umane .
partecipante. Il che avrebbe forzato un poco le regole sottointese nel testo “Bimbo e animale”, ma, infuocando di nuovo la brace con un altro tiro, aveva deciso di arruolare di peso il remissivo amichetto della figlia, ottenendo così la complicità della madre di lui, dotata di abilità sartoriale, comprovata nelle suddette feste carnevalesche. Esteticamente, valutava fumando, la coda da pantegana di fogna era un punto a sfavore, però il musetto risultava quasi tenero, non fosse stato per i due minacciosi dentoni. L’estetica passava in secondo piano, si disse, non solo la figlia sarebbe salita sul palco, ma il potere dell’inconsueto avrebbe impressionato la giuria del concorso, trionfando sulla pletora dei figlioli altrui, sui loro banali cagnetti, gattini, coniglietti. Il decennio, a metà del suo arco, ammantava di kitsch la serenità apparente del boom economico, copriva di lamé le ombre dell’incertezza, invitava a tentare la fortuna nei coloratissimi quiz a premi. Un’euforia sospesa fra le stragi e Chernobyl soffiava nell’aria già inquinata della Pianura Padana. Sui figli troppo timidi, come erano i due topi, era azionata quel giorno la leva materna ad emergere dalla massa, adottando eventuali strategie creative, senza però aver stabilito quanto creative. La Pianura, inflazionata di vacche, gremita di polli e suini, non aveva ancora conosciuto la nutria, introdotta dall’Australia. Un animale oggi familiarissimo ai frontali delle auto, agli argini bucati dalle tane, ai cacciatori ormai incentivati a sparare per ridurre la piaga della proliferazione
il potere della macchinazione
incontrastata da antagonisti naturali. Tali cacciatori, talvolta lieti di sparare a bestie immigrate, esibiscono le teste mozzate per ricevere l’incentivo previsto per l’eradicazione, un po’ come gli stradiotti, certi soldati slavi al servizio della Repubblica di Venezia, presentavano le teste dei nemici, solo che non avevano il freezer dove tenerle. Tutto era differente al tempo in cui il veicolo dallo strano equipaggio solcava l’umida pianura, quando, grazie alla moda delle pellicce, il roditore baffuto era un’opportunità economica, prima che la moda di impellicciarsi pagando fior di quattrini, come prevedibile, finisse, prima che prevalessero i capi sintetici, tornassero i cappotti, prima che molte pelliccerie chiudessero i battenti. Quando accadde, pochi anni dopo, i solerti allevatori padani, fregandosene dell’ambiente, liberarono i loro capi diventati un fardello nelle campagne, dove questi socializzarono fin troppo. La pelliccia, all’epoca dell’episodio in questione, era un capo che la madre Alpha apprezzava, ad esempio, infatti ne aveva sei. Era stato parlando con la pellicciaia che aveva potuto rimediare un esemplare in prestito da un tizio in tuta blu e stivali di gomma. “Castorino”, veniva chiamato così. Gli incisivi sporgenti servivano per staccare a morsi i pezzi di legno, imparavano i bimbi-topo, mentre si guardavano allarmati, le orecchie finte vagamente afflosciate. L’iniziale simpatia per la bestiola era evaporata. Il ragazzino, pur avendo a cuore le dita, utili per premere il grilletto delle pistole di plastica con cui giocavano spesso, non avrebbe mai ammesso di sentirsi impaurito dall’idea di sporgerle nella gabbia per afferrarla. «Se ci cade la gabbia a terra e la nutria si arrabbia? Mica rompe le sbarre?» squittiva il topo femmina. «Non facciamo tragedie, la gabbia tiene! Siate naturali, sorridete, fate ciao con la mano libera!» assicurava la madre che chiameremo Beta, per equa discrezione. Il ragazzino rideva imbarazzato, vergognandosi di aver “fatto tragedie” anche se la domanda
non l’aveva rivolta lui, ma era fatto così. Ogni volta che apriva bocca la sua mamma, stava a sentire zitto e obbediente, subiva potenti sgridate senza mai fiatare, anche se non aveva sbagliato intenzionalmente. «Io non devo parlare, vero?» domandò articolando male le parole, come sempre. «Ti chiederanno solo il nome» gli rispose sua mamma. «Mamy, se mi chiedono se è nostra, cosa dico?» domandò, agitata, l’incaricata del discorso. «Che è nostra, sì, e che vogliamo allevarle! Ne abbiamo altre, non so, nove... Ricordati di spiegare che è un castoro australiano, una novità, e che ci si fanno le pellicce.» ammaestrava l’Alpha mater. L’occhietto nero del castorino riluceva di anglofone promesse di vendetta. La bambina si sporgeva verso il vano baule con il magone in gola, l’amico era quasi svanito dentro la tutina, scioccato dall’immagine della pelle strappata dal corpicino. «Gli altri bambini cosa penseranno? Cioè... penseranno che le uccidiamo?» insisteva il topo femmina. «Niente, anche se lo pensano, che t’importa? Li vedi oggi e poi più. Non essere sempre timida: sai, nella vita bisogna pur distinguersi!» «Mamy, allora devo dire una bugia davanti a tutti? » «Non è proprio una bugia... è più una sospensione della verità. Ne prendiamo un po’ in prestito e quando restituiamo la nutria, la mettiamo a posto. Uno può sempre cambiare idea, no? Dice di voler fare una cosa, poi pensa che non conviene, e non la fa più.» La madre Beta in quel momento ebbe un fugace dubbio circa l’opportunità, come esperienza educativa, di far competere i figli barando; però ormai il piano era avviato, era troppo tardi. I due figli, che nelle mamme identificavano l’istituto coercitivo del “non si fa”, con relative sberle se trasgredivano, intravedevano per la prima volta il confine stranamente molle della Verità. 67
A loro era imposto di non dire che il cane aveva scrollato il quaderno sbavandolo, se la Verità era che non avevano avuto voglia di fare i compiti; di ammettere che la febbre era una scusa inventata per non andare a scuola; di non dire che avevano perso qualcosa, se un bullo gliel’aveva sottratta a forza. Non avrebbero immaginato, da soli, che la Verità erogasse del microcredito, ossia che immedesimandoti bene in un’intenzione falsa e recitandola, la bugia sarebbe stata cancellata dal fatto che poi non avresti messo in atto il piano, come trasalendo davanti all’ovvia sconvenienza del piano stesso. Scusate, mi sono accorto che mi sbagliavo. «Perché dobbiamo dire così? » indagava la piccola, confusa. «Per vincere, insomma!» replicava la Machiavelli dallo smalto rosso che timonava il fuoristrada, brandendo il volante con la determinazione implacabile del capitano Achab. Nel giorno della battaglia, dunque, le regole non valevano più pur di strappare una vittoria, e la Verità era un elastico che circoscriveva variamente il proprio comodo. Insegnamenti talmente densi di implicazioni che non vennero elaborati, allora, dai piccoli che in quel momento erano concentrati su altri stimoli, ad esempio a gestire l’emozione loro imposta di andare in mezzo ad estranei, nel palazzetto dello sport in città. Sperimentarono qualcosa di più urgente della confusione deontologica una volta arrivati al parcheggio, dove le automobili scaricavano come previsto bestiole innocue e carine. L’ansia fece sussultare il petto in ecopelliccia dei due topi, quando si resero conto che il concorso non era affatto in maschera. Soltanto loro due avevano l’aspetto di ingombranti peluches, tutti gli altri indossavano jeans e gonnelline, maglioni e tutta la batteria della normalità. Catturati dagli sguardi degli sconosciuti, come dalla molla della trappola, i topolini cominciarono a ricevere le prime risatine di scherno che ancora quelli non 68
avevano visto il loro animale. La sensazione gelida di aver preso una fregatura era inferiore solo alla vergogna di sentirsi peggio che nudi. Spaventati, furono sollecitati dalle mamme, che minimizzavano gesticolando, elargivano incoraggiamenti monosillabici, come se la situazione fosse perfettamente ordinaria. L’Alpha, studiando i competitors, pregustava l’effetto dell’originalità della sua scuderia; l’altra, pur cogliendo il malessere del figlio, sceglieva di non assecondarlo, dissimulava nonchalance. Mentre scaricavano mestamente il terzo roditore, che zampettava innervosito, furono gli sguardi taglienti dei bambini, il sorriso compassionevole delle mamme, lo scherno sussurrato all’orecchio del vicino, con la mano a coprire ma in modo che si notasse, e ancora le battute sciocche alle spalle quando furono seduti sugli spalti del palazzetto, che alimentarono nella bambina, già arrabbiata con la mamma, un crescente desiderio di strillare la bugia al microfono, di farglielo sentire, al mondo, che loro erano diversi dalla perfezione degli altri con i loro sorrisi regolari, che lei, ad esempio, non aveva codini, fiocchetti e fossette. Aveva voglia di fregarli tutti. L’amichetto remissivo, trattenute le lacrime, vedendo che l’amica, pur corrucciata, si risolveva infine ad afferrare la gabbia e seguire il piano, si incamminò a orecchie basse, balbettò il suo nome quando gli fu porto il microfono, e osservò con occhi sgranati la sua compagna di giochi, che con voce squillante, le orecchie dritte e fiere, i ciuffi scomposti sulla fronte, l’apparecchio luccicante sui denti, ingannava davvero il pubblico dichiarando di voler riempire il cortile di pantegane come quella, disse perfino che si scuoiavano e si ottenevano belle pellicce. Lo fece sorridendo, guardando un punto al di sopra delle teste umane, scandendo le parole anche per l’amico che se le mangiava sempre. Il presentatore sorrise forzatamente, atteggiando la bocca a un rettangolo regolare; la giuria si congelò, disarmata; nel pubblico gli infanti risero e i genitori si scambiarono smorfie
il potere della macchinazione
d’intesa nel disgusto, ridacchiando. Nonostante ciò, i topini furono accolti dalle madri con allegria e soddisfazione, perché non si erano inchiodati sul palco dall’emozione e avevano fatto ciò che ci si aspettava. Seguì la prevedibile sequela di cagnetti, e l’attesa delle premiazioni, molto lunga perché accompagnata da un disagio ancora palpabile. Il primo premio andò ad una patinata ragazzina con barboncino toelettato, il secondo a un tizio fuori tempo massimo su sedia a rotelle con gattone persiano, il terzo, in barba a ogni logica, fu assegnato al Trio Toponi. Consisteva, incredibilmente, in un buono per un criceto al negozio di animali. Dovettero tornare sul palco, increduli, sorridere ancora con gli apparecchi, salutare ancora con la manina, squittire dei grazie al presentatore. Nel ritorno, scelsero per il criceto uno dei nomi immaginati, ma non spesi per il castorino, sapendo che non si sarebbero dovuti affezionare. Comunque gli tributarono un addio carico di fratellanza e gratitudine. Provati dalle emozioni, incassata la lezione sull’arte della strategia, un vero seminario pratico su “raggiro di famigliole e giurie”, i topi tornavano umani, la Matrigna guidava, e Cenerentola in versione sarta le si era colpevolmente alleata, pur domandandosi, in cuor suo, se la cosa non le fosse un tantino sfuggita di mano. La piccola avrebbe poi riflettuto, nel futuro apocalittico delle nutrie morte sull’asfalto, come tanti post-it con scritto “bugiarda”, sul modo in cui la madre l’aveva portata in un palazzetto a raccontare frottole a un sacco di gente, vincendo perfino un premio. Si ignora se l’amico abbia affrontato tali dilemmi: non ne parlarono mai, forse vergognandosi. Ci fu in effetti un momento di analisi, nei giorni seguenti al misfatto, in cui condivisero la perplessità circa il costume da topi quando avrebbero dovuto somigliare, semmai, a dei castori. La sigaretta del successo brillava quella sera, in veranda, quando ormai la figlia dormiva tran-
quilla con un gatto in braccio. Ne avevano cinque. E due cani. Ma il podio si conquistava con un colpo di genio, o niente! Fu allora che elaborò compiutamente l’idea del costume di gruppo alla futura festa di Carnevale: i Visitors, alieni rettilati del telefilm che impazzava allora, riciclando così i topi, cioè il loro cibo. Ci aveva pensato fin dall’inizio. Soffiò in alto un cerchio di fumo perfetto, che le sorvolò la messa in piega.
BIOGRAFIA
Rosita Bellometti vive a Firenze, ha studiato archeologia medievale e si è occupata di beni culturali prima con l’Università, in seguito in una casa d’aste. Ha curato un laboratorio sperimentale all’Università di Pisa che univa rievocazione e storytelling, ha scritto per quattro anni la drammaturgia per teatro di piazza rinascimentale per la rievocazione “Palio di Isola Dovarese”, con progettazione di scenografie e di attrezzerie, ha fornito varie consulenze in questo ambito. Ama le montagne, il cinema, il teatro, la letteratura, l’antropologia, le vere amicizie vissute di persona. 69
Le scuse sono finite di Nataša Cvijanovic’
Le scuse sono finite dopo il ‘68, quando giovani ragazze hanno alzato le mani simboleggiando la vagina, quando hanno spezzato gli schemi del bigottismo e del patriarcato imperanti, quando si sono fatte picchiare e umiliare per le future generazioni e i loro diritti: usare i contraccettivi, abortire, divorziare, vivere liberamente. Le scuse sono finite nel diciottesimo secolo, quando le suffragette si sono riunite a prescindere dal rango sociale, quando hanno messo a repentaglio le loro stesse famiglie e la vita per lottare, quando hanno trionfato ottenendo il diritto di voto per le donne. Le scuse sono finite durante ogni conflitto e ogni guerra, quando le donne si sono ingegnate per proteggere la propria casa e la propria famiglia, quando si sono dimostrate capaci di lottare e sacrificarsi in ogni modo. Le scuse sono finite ogni volta che è uscito un libro di Natalia Ginzburg, Virginia Woolf, Zadie Smith, Toni Morrison, Chimamanda Ngozi Adichie, quando il logos femminile ha mostrato tutto il suo potenziale, quando è emersa la donna rivoluzionaria, riflessiva, autoironica, denunciatrice e guerriera. Le scuse sono finite nel IV secolo, quando la filosofa e matematica Ipazia di Alessandria ha indossato il pallium, quando ha insegnato a studenti abbienti e al popolo, quando i fanatici cristiani l’hanno resa la prima martire femminista e pagana della storia. Se pensavi che la storia del potere della donna fosse recente, ti sbagliavi. Non ci sono più scuse dietro alle quali nasconderti per evitare di lottare contro le ingiustizie e la violenza, contro i misogini e i nemici della meritocrazia. Fin dalla notte dei tempi sono esistite donne consapevoli del proprio potere e sono diventate i fari delle generazioni successive. Informati, studia, comprendi il passato per costruire il tuo presente e il tuo futuro, ma prima di tutto conosci te stessa, scopri il tuo talento e ottieni il sommo potere: diventare la migliore versione di te stessa, affinché anche la tua vita diventi un esempio per chi ti succederà. Le scuse sono finite. 70
il potere della lotta
BIOGRAFIA
Nataša Cvijanovic’ è nata a Grado 38 anni fa da genitori jugoslavi. Attualmente vive a Gorizia con suo marito e suo figlio. Ha pubblicato due romanzi La dama e l’aquila (2012), Tempora d’autunno – una guerra di Streghe e Benandanti (2015) e un ricettario con il quale ha vinto il primo premio del concorso letterario « Donne tra ricordi e futuro » della Città di Pratovecchio (AR), “Il ricettario di Baba Ljuba – la cucina rurale jugoslava” (2014), tutti editi da Segno Editore. Gestisce la pagina Facebook I Benandanti e le Streghe del Friuli. Con il nom de plume Nat Van De Bloem nel luglio del 2017 ha aperto il blog www.arteculturae.com, con lo scopo di avvicinare i lettori a tutto ciò che di culturale, creativo e talentuoso esiste in Italia, con una particolare attenzione alla sua regione, il Friuli Venezia-Giulia.
di Ilaria Cerutti 71
Alzati meraviglia di Ilaria Gentile
Alzati meraviglia, a te ch’ascolti dico, poche cose debbo dire: tu creatura figlia, d’esto mondo amico, gli orecchi devi aprire. Vorrei farti capire, che pur se ‘l duolo è grande, nulla ci può atterrare, sta a noi decisi agire, superando le alte fronde e la volontà affilare. Cominciati ad armare, d’amore, e di coraggio, la forza tua fuori tira, per ogni dì affrontare ciò ch’è male di passaggio, e placa la tua ira. Il male altro male attira, ricordalo, quando avrai paura, e sarai triste e desolato, tu, in serenità respira! Rischiara la vista oscura, per non restar legato. Poiché d’un solo lato, non esistono monete, decidiamo noi cosa vedere, se lasciar il cuor addolorato, oppur d’azioni concrete reagire e farci valere: abbiamo noi questo P O T E R E .
BIOGRAFIA
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Ilaria Gentile è nata nel 1997 in Friuli. Frequenta il secondo anno del corso di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università degli studi di Udine. Amante della poesia, scrive da quando è bambina. Nel 2017 vince il concorso indetto dal Club Unesco di Udine sul tema della Pace con l’opera poetica “A Dio ho chiesto aiuto”.
il potere dell’azione
Rita Levi-Montalcini (gennaio 2018) collezione “Storie di donne, 2011-2018”
di Antonella Restagno 73
Pugni sullo stomaco di Eleonora Santamaria
Spesso siamo noi ad infliggerci un tormento. A volte per noia, a volte per indole, godiamo nel soffrire, impuniti.
Ammetto di essere stata tra le più abili a costruirmi un tormento: era lui; e-rano lui e il suo sguardo che mi svuotava, lui e i suoi occhi pieni del nero più profondo, incomprensibili. Gli stessi occhi che mi costarono l’anima quella sera. Mi scrutavano dalla terra che calpestavo, dalle pozzanghere, dagli scivoli oleosi del parco. Di nuovo, il dolore lancinante allo stomaco; stavolta, mi fece piegare in due. Tramortita, portai stretti i pugni alla bocca dello stomaco. Da quel momento in poi, sentii di non essere più padrona del mio corpo che cominciava a correre. Senza alcuna logica, senza alcun preavviso, si lanciava più lontano di quanto riuscissi a vedere. L’aria gelida sferzava colpi al mio ventre scoperto, la pioggia puniva il mio viso. Più avanzavo, più mi rendevo conto che era la pancia a condurre la corsa. La ferita invisibile che portava con sé s’arrampicava verso la gola, all’unisono con ogni passo. La strada era più lunga di come la ricordassi, e troppi alberi si rincorrevano, e questa luna spenta che ne sapeva. Sentii addosso un vecchio barbone, non credo mi stesse giudicando, ma de-sideravo comunque di vederlo sanguinare. I pugni sullo stomaco non riuscirono a trattenere questa ambizione e il dolore. Quello ormai non serpeggiava più, si faceva annunciare da mille 74
trombe stonate, tronfio e superbo com’era. Arrancavo. Faceva freddo, il freddo a cui non ti abitui. Giunta sotto casa sua, urlai. Lui s’affacciò alla finestra, si mostrò sorpreso perché ero davanti a lui e perché ero davanti a lui accartocciata. Dallo stupore, strizzò gli occhi, sbuffò e si accese un sigaro. Dovevo far qualcosa, non potevo essere un aneddoto da amaro con gli amici, non poteva non spalancare la bocca o urlare, non poteva non sorridermi. Ecco la nausea, il sapore di alcool e di stomaco vuoto. Non lo stavo scalfendo, neanche così, neanche mentre rantolavo. Colpa mia. Lo temevo. Mi fischiavano le orecchie dal dolore che era arrivato a sbattermi in testa. Nulla, lui non provava nulla. Salii le scale di casa sua che si distruggeva dietro di me, sembrava costruita di tessere di dominio di legno scadente. Ero lì, sull’uscio della porta marcia come lui e la casa. Da bravo ospite, appoggiò le sue labbra sulla mia guancia. Mi lasciò in faccia la puzza di dipendenza, di neve e di narcisi. Si era abbassato per salutarmi e non mancò di farmelo notare, ergendosi dopo in tutta la sua altezza. Si schiarì la voce, prese a pronunciare delicate parole d’amore, ma erano in replica; mi mas-
il potere dell’appetito
saggiò le spalle con una sola mano, mi strinse a sé allungando il collo e guardando altrove. Sono sicura che ci fosse stato uno specchio dietro di me; se lo avessi scoperto, glielo avrei frantumato su quella testolina curata. Stava sorridendo ora, sì, ma per godere dello spettacolo dei suoi denti, come un malato di sesso che si masturba. Faceva autoerotismo davanti a me che mi chinavo per gli spasmi infilati dentro l’ombelico e su per l’esofago. Si discostava dall’umano, da sempre, lo so, non voleva averci nulla a che fare. E sì, si rifugiava nell’immoralità perché questo mondo non gli apparteneva, si velava di noncuranza, si sentiva come il bellissimo asteroide che poteva spazzare via l’uomo, se solo avesse voluto. Chi lo avrebbe punito? Chi lo punirà se violerà le norme mortali? Io, io lo punirò, io. Ero lì e non volevo fermarmi; non potevo permetterlo: sapevo che non mi apparteneva. Fino a quel momento. La gola era stretta da tutta la sofferenza che la pancia le aveva mandato. Non mi accontentavo delle labbra, ricercavo il profumo delle sue viscere, la candela nascosta che faceva ombra in lui. Più frugavo al suo interno, più le catene chiodate mi stringevano il ventre. La ragione mi ordinava di porre fine alla malsana ricerca, ma i suoi comandi facevano da eco in una stanza piena di vandali che graffitavano i muri. La vista era annebbiata a tal punto da non vedere più cosa creavo col suo corpo. Che cercavo? Ero decisa a placare l’agonia che mi stava uccidendo e a saziare il vuoto. Ci provò a usare le sue espressioni intimidatorie, a immobilizzarmi, si dimenò quanto bastava. Erano suppliche quelle? Davvero di pessima qualità, che delusione. Infine, si stupì, sul serio questa volta; finalmente. Ero felice, troppo per fermarmi.
“Stai fermo, passa presto” furono gli ultimi sussurri che sentì. Dopo, si dimenò sotto le mie dita ancora un po’, svogliatamente. Le sue orecchie venivano via con una facilità disarmante, gli presi il naso, come si scherza con i figli, scartai i capelli che non mi attiravano più. L’uscio della sua porta si era reso il più grande banchetto mai conosciuto. Mi feci tenerezza, dovevo sembrare una bambina che si ingozza di ciliegie in quel momento. Pezzo a pezzo, mi calmavo, acquisivo contegno e dignità, maturavo, a differenza sua che rimpiccioliva dentro e fuori. “Stai diventando patetico, potresti smettere?” glielo scrissi sul tronco con i liquidi che rivestivano le mie mani; forse capì perché ciò che restava di lui smise di rantolare. Finii tutto ciò che era a vista. Riuscii a toccargli il cuore, finalmente, poi i reni e il pancreas. Li misi in fila e selezionai le parti migliori. Avevano tutti lo stesso sapore di ferro e sacralità. I polmoni erano gonfi ed affumicati, dal sapore deciso. Mi leccai le dita dal piacere. Mi stavo nutrendo simbolicamente di eleganza e perdizione; ma magari no, era proprio lui che stavo mangiando. Mi forzai nel non essere frettolosa, ma l’euforia mi rincorreva; ci misi soltanto mezz’ora a finirlo, non stava bene lasciare qualcosa di solido, che avrebbero pensato i vicini? Mi sollevai sugli avvenimenti di quella sera; era svanita la nausea e tutta la sofferenza del mondo. Mi trovavo nel mezzo; più nello specifico, nel mezzo della sagoma angelica di sangue. Ero ancora la bambina che creava con il proprio corpo disteso sulla neve, ma saggia e piena, e piansi di felicità, dell’intima connessione instaurata con la casa, con la strada e con tutta l’umanità. Non c’era più motivo per correre né per fare altro degli anni futuri, rimasi a gambe incrociate nel luogo in cui si era consumata la rive75
lazione. Non mi mossi; si sentirono varie voci, erano fuori di me, dentro c’era solo quiete; poi venni portata via da visi sconosciuti, ma non mi guastarono l’umore né mi fecero dimenticare l’incanto. Erano tutti inorriditi da come saltellassi leggera mentre li seguivo, lo vedevo, ma che ne sapevano loro. “È pazza” bisbigliavano, li sentivo, mentre del ferro stringeva i miei polsi. Mi chiamarono in molti altri modi e gli concessi qualsiasi parola. In realtà, avevo compreso tutto, nessuna sbarra potrà mai più negarmi l’epifania di quella sera. Mi avevano sottratto la libertà, ignari del fatto che la stessi barattando io in cambio di sazietà e consapevolezza. Io avevo capito: non era amore, era fame.
BIOGRAFIA
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Eleonora Santamaria è nata a Salerno il 21 Maggio 1993 da madre americana e padre molto salernitano. Fin da piccola, consuma biro. Si laurea a Pescara in filosofia con una tesi su An-tigone. Si trasferisce a Roma dopo la laurea per iscriversi all’Accademia di ricerca teatrale Acting. Nel 2017 pubblica il suo primo Un manichino elegante che vince la medaglia d’argento del premio letterario Amarganta. Collabora, sempre a Roma, come sceneggiatrice con il Teatro dell’Orologio.
il potere dell’appetito
Dreaming (2015) tecnica mista con tessuti collezione “Storie di donne, 2011-2018”
di Antonella Restagno
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L’alchimia dell’olezzo di Angela Ceraso
Nell’essenza di un di un
giorno qualunque si lasciava cullare dalla brezza
amante passeggero, incontrato per caso in una notte d’estate illuminata dal chiarore di una luna pallida e da stelle
stilettate, fitte, brillanti.
Aveva solo vent’anni, ma in essi una vita vissuta appieno, carica di ricordi e intrighi, in un’anima che solo
tempestata da sentimenti
chi ama a pagamento sa soffocare.
La mente piena di speranza, fiducia, attesa per un bene forse ricambiato da
chi paga per averlo.
I due amanti legati senza remore, stretti con sguardo fisso assaporavano le labbra dal sapore
inconfondibile.
Tra baci, morsi roventi e grida di piacere solo un sospiro dettato da una fragranza esclusiva: il
profumo di quella donna che vendeva il suo corpo, ma non
il suo spirito e la sua mente!
Le piaceva distinguersi dalle altre squillo per quell’odore che miscelato alla sua pelle come un’alchimia ne cambiava l’olezzo rendendola, unica, irripetibile, vellutata.
Ancora nuda, con cuore avvolto ed anima leggiadra lasciò il compenso dicendo: “ti
aspetto per amarti non da schiava del sesso, ma da donna innamorata e
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libera”.
il potere del profumo
BIOGRAFIA
Angela Ceraso è nata a Napoli nel 1978. Ăˆ autrice, ghostwriter e giornalista. Ha pubblicato Call Center con Andre Oppure Editore (2005), Tutto per un bacio con Innede Edition (2014), Amore a ritmo di SMS con Armando Curcio Editore (2016), Un giorno con Mongolfiera Editrice (2017). Scrive per le testate XXI Secolo, Reportweb, Selfservice e Confessioni Donna.
di Ilaria Cerutti
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di Elisa Vincenzi
Ciao, sono Elisa Vincenzi. Partecipo volentieri a questa vostra iniziativa! Mi piace molto scrivere e vi invio un post che riguarda una mia recente scelta. Sono stata tacitamente costretta a dimettermi dopo 17 anni perché ho tre figli e un orario part time inconciliabile con la loro gestione. Questa la mia idea di potere : del genere maschile, del datore di lavoro ottuso e inflessibile ; dell’azienda perfettamente in linea con la condotta maschilista generalizzata che non vede le difficoltà, non sente le richieste, non viene incontro alle esigenze di una madre, una donna che pur con esperienza, laurea e dedizione, viene comunque invitata alle dimissioni volontarie. Infine, potere mio, di scegliere, di autodeterminarmi, di crescere i miei figli e non rinunciare alla loro vita perché è la mia. Spero che possa essere di aiuto ad altre mamme nella mia condizione. Oggi si sventolano pari opportunità, libero accesso, ma sono soltanto parole svolazzanti. Grazie davvero per l’opportunità. Non credevo che l’avrei mai vissuto, invece oggi è arrivato: quel giorno in cui cercano di farti pentire, di sminuirti, di condannarti, di giudicarti perché sei una madre. Mi vien da pensare alle conquiste del secolo scorso, la parità dei diritti, la maternità, la possibilità di scegliere l’aborto o di dare la vita comunque, anche anonime, le tutele sindacali. La scelta di realizzarsi, di autodeterminarsi.
il loro fisico e nutrire il loro spirito. Non ho mai pensato che non avrei potuto. Ho chiesto ripetutamente che mi venisse cambiato l’orario al lavoro in modo da poterli prendere a scuola, ascoltare i racconti confusi della giornata, controllare i compiti, andare a nuoto, preparare cena, farli addormentare, insomma semplice routine che rassicura me e soprattutto fa bene a loro.
Io ho scelto di avere tre figli, ho il dovere di mantenerli, di insegnare loro a pensare, a comportarsi, a diventare adulti. Ho scelto di accompagnarli giorno per giorno: i primi passi all’asilo, la corsa alle elementari, i compiti sulla scrivania, la pizza addentata e abbandonata sul tavolo davanti alla TV. La lotta per i cartoni e mangiare i broccoletti, indossare il pigiamino, lavarsi i denti, leggere la favoletta e godere di quel meraviglioso sorriso che arriva ai bambini prima di addormentarsi.
Invece oggi ho scoperto che non posso essere donna lavoratrice e madre: il corso negato, l’orario negato, la comprensione negata, la flessibilità come utopia, le proposte sfumate, il rispetto per se stessi masticato e sputato fuori dalla bocca piena di paroloni sulle scelte aziendali. Lavoro - ancora per poco - in una multinazionale dove facciamo i corsi per la 626 e la compliance mentre gettiamo nel bidone di Cartesio i torsoli di mela mescolati ai toner usati; dove tutti usiamo il badge anche tre volte per attraversare un metro di spazio, come se fossimo alla NASA, ma se finisci alle 18 e venti-cinque e te ne vuoi andare a casa, devi aspettare le 18 e trenta, altrimenti puoi dire addio allo straor-dinario. Che, attenzione!
Ho scelto di frequentare un corso di inglese per ricordarmi ciò che mi piace, che sono viva oltre a pentole e pannolini, per darmi l’occasione di accedere a una nuova opportunità. Ho scelto anche di lavorare perché ho un mutuo da estinguere, finanziamenti da restituire, una macchina, figli da tirar grandi, alimentare 80
Ecco, oggi ho scelto di restare madre.
il potere del maschilismo
Studies about myself #7 di Germana Stella
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L e s
A r t i s t e s
Bea Davies è nata nel 1990 in Italia. Finito il liceo si trasferisce a New York, dove lavora al La MaMa Experimental Theatre e studia alla School of Visual Arts. Dopo un breve passaggio in Colombia torna in Italia per far nascere Samuel e inizia a disegnare il webcomic Samurai’s visual journal, in cui racconta in maniera divertente e distaccata la sua vita di madre e il mondo visto dagli occhi del figlio. Attualmente vive a Berlino dove lavora come fumettista e illustratrice e studia comunicazione visiva al Kunsthochshule Weißensee.
Bistro, alias Federica Consogno, nasce a Torino il 3 luglio 1992. Allieva dell’artista naturalistica Cristina Girard, nel dicembre 2015 consegue la laurea in Scienze Naturali; gli studi intrapresi influenzano notevolmente i soggetti dei suoi lavori. Dal 2016 aderisce a diverse mostre ed eventi artistici nella città di Torino. Attualmente è membro del collettivo artistico “Diversi e Poeti” e coordinatrice artistica presso LM productions. Partecipa con illustrazioni e/o scritti su zine cartacee e digitali quali 22 Pensieri di Chance edizioni, Lahar Magazine e Guida 42. Collabora in veste di illustratrice con il sito letterario Narrandom e la casa editrice Libereria.
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Ilaria Cerutti fotografa per passione dal 2013. Non si ritiene un fotografo, né un’artista. È una persona che ama la fotografia e che ci si dedica nel modo più istintivo, libero e incondizionato possibile. La parola fotografia per lei va solo e sempre a braccetto con la parola libertà. http://www.ilariac. photography
Antonella Restagno, 1988, Sud, Calabria. Nasce col mare ai suoi piedi. Parte ed approda in quel di Firenze, dove tutt’ora vive. Ama l’arte e reinterpreta la realtà con diversi strumenti e tecniche; si rivela come Lina Liebe. In continua ricerca dell’istintività, in cotinua lotta con il suo yin. In questo numero presenta la collezione “Storie di donne, 2011-2018”. https://www.instagram.com/lina_liebe_/
Germana Stella, fotografa se stessa da circa 10 anni. Su L’Irrequieto ha pubblicato una serie di scatti tratti dal progetto “Studies about myself ” http://www.jesuisbordeaux.com https://www.instagram.com/je_suis_bordeaux/
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