L'irrequieto - Numero 65 – Aprile/Luglio 2021

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L'Irrequieto

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Rivista Letteraria Aprile­Luglio 2021



L'Irrequieto

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Rivista Letteraria

Aprile­Luglio 2021

www.irrequieto.eu info@irrequieto.eu @l_irrequieto_magazine


DIREZIONE Donatello Cirone

REDAZIONE Alessandro Fanfarillo Anna Mascia Verrillo Carlo Maria Negri Elisa Ciofini Giampaolo Giudice Lionel Kponyo

CONCEZIONE E REALIZZAZIONE GRAFICA Antonella Restagno Graziella Azzolina

ILLUSTRAZIONI Chiara Romagnoli Graziella Azzolina Vera Taccani (copertina di questo numero)


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INDICE

L'Irrequieto

Editoriale Alessandro Fanfarillo

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All'inferno non c'è campo Massimiliano Albicini

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Non sono una signora Violette de Levallière illustrato da Graziella Azzolina

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La madre francese Laura Nicchiarelli

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La responsabilità civile dei funzionari pubblici nelle lettere di revisione degli autoveicoli infilate nella cassetta della posta dalle officine (senza francobollo) Giampiero Pomelli

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Il Maître Stefano Scanu

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Leggimi Giulio Iovine

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Identità urbane Nicole Spallina

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Promesso Piergiorgio Andreani

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Capriccio di mare Antonio Panico

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Vite Grazia Palmisano, illustrato da Chiara Romagnoli

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Il figlio sbagliato Daniele Israelachvili

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Lettera Alessandra Cella

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Di nuovo Adele Stefania Maruelli

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Inferno Trip Isabella Ballarini illustrato da Vera Taccani

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EDITORIALE

L'Irrequieto

Alessandro Fanfarillo er natura un irrequieto vive di cambiamenti: il suo habitat non è la quiete, ma al contrario si nutre di quotidiani sconvolgimenti e cambiamenti di fronte. Per questo motivo la redazione dell’Irrequieto non si tira mai indietro e anzi, quando si tratta di affrontare nuove sfide, va a caccia direttamente nelle tane dei lupi. Negli ultimi mesi nella nostra rivista sono cambiate diverse cose: da poco più di un anno a leggere e selezionare gli scritti c’è una redazione solida, concorde sulla linea editoriale e coesa come gruppo; sono nate rubriche degne di menzione, come Irrequietudini d’autore, nella quale Anna Mascia Verrillo intervista i più interessanti autori del panorama contemporaneo; la periodicità della rivista è cambiata, passando dalla pubblicazione mensile a quella trimestrale, con il proposito di dare alla luce numeri sempre più ragionati e curati; infine, l’Irrequieto ha dato vita a un podcast che lascia la parola direttamente agli autori pubblicati sulle nostre pagine, oltre che alla stessa redazione sempre desiderosa di stabilire un contatto con i propri lettori. 7


Ovviamente, questo non può bastarci: che Irrequieti saremmo se non fossimo perennemente alla ricerca di migliorarci? È per questo motivo che nel numero di aprile/luglio vogliamo introdurre due novità. In primis, la rivista sarà ancora consultabile online, ma potrete anche scaricarla e leggerla offline in qualunque momento, o stamparla in casa e averla nero su bianco: un piccolo passo verso la nostra amata carta. In secondo luogo, abbiamo deciso di recuperare una caratteristica che ci appartiene ma che finora era rimasta quiescente. Provate a sfogliare le pagine dei primi numeri dell’Irrequieto, troverete racconti, parole, proprio come nell’ultimo numero, ma le lettere si illuminano quando sono affiancate da un’illustrazione! Le nostre pagine brilleranno nuovamente del potere primordiale delle immagini grazie alle nostre illustratrici Graziella Azzolina, Chiara Romagnoli e Vera Taccani. Tre stili diversi, tre tratti unici e un solo scopo: ridonare all’Irrequieto la forza dirompente dell’immagine. Con il numero 65 speriamo di aprire un lungo percorso in cui parole e illustrazioni, penne e matite, riescano a dialogare tra di loro, sempre inseguendo la creatività in ogni sua espressione. In tutto questo, l’unica certezza è che L’Irrequieto continuerà a cambiare rimanendo sempre il vostro fidato compagno di lettura

Autoritratti delle illustratrici. Dall'alto: Graziella Azzolina, Chiara Romagnoli, Vera Taccani

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ALL'INFERNO NON C'È CAMPO

Massimiliano Albicini L'ometto corpulento uscì a precipizio dal locale elegante nel quale si era attardato per pranzo, facendo ballonzolare il doppio mento sotto la faccia rubizza. Era una bella giornata serena di fine primavera, e il cielo visibile a tratti negli scorci tra gli alti palazzi pareva dipinto, tanto pulito e intenso era il suo tono di azzurro. Osservare un simile spettacolo era raro, dato l'inquinamento e la foschia che di solito avvolgevano gli edifici con le loro dita spettrali, e gli abitanti della grande città si intrattenevano volentieri a guardarlo, compiaciute dalla visione di un colore così vivace, in contrasto col consueto grigiore. Ma l'ometto non era incline ad apprezzare lo spettacolo offerto dalla natura. L'ometto stava imprecando, e la rabbia lo riempiva di sfumature ben più vivaci di quelle offerte da un banale cielo blu. Accidenti ai camerieri, ai cuochi, a tutti quelli che si erano occupati di preparargli il pasto luculliano che aveva appena consumato. Ci avevano messo una vita. Ora era in ritardo per un appuntamento importante, e lui non era mai in ritardo agli appuntamenti, fossero importanti o meno. Sgambettò alacremente lungo il marciapiede, le cosce tracagnotte che facevano sfregare il tessuto del suo completo costoso, e mentre si affannava faceva ampi gesti di richiamo in 9


direzione dei pochi taxi sonnacchiosi transitanti lungo il piccolo viale periferico. Nessuno ebbe la compiacenza di fermarsi, a dispetto della fretta ben visibile sulla sua faccia rubiconda, e a dispetto del fatto che chi necessitava di un trasporto con tanta urgenza fosse uno dei più ricchi manager in carriera della città. Ho detto della città? Della regione, ormai! Dopo una serie di infruttuosi tentativi a braccia alzate, che ebbero l'unico risultato di fargli appiccicare la camicia di seta alle ascelle sudaticce, si arrese all'evidenza che non sarebbe mai giunto in tempo alla riunione, programmata da una settimana. Non avrebbe dovuto scegliere un ristorante così distante dall'ufficio, maledizione a tutti i santi. Sbuffando, si incamminò lungo il selciato in direzione del viale principale, dove sperava di incappare in qualche tassista più compiacente. Sfilò il telefonino dalla tasca della giacca, sempre sacramentando, e si diede a pestare con le dita sullo schermo, con nervosismo crescente, finché riuscì a far comparire il numero del suo ufficio. Sul marciapiede, pochi metri avanti a lui, erano ben visibili uno svariato numero di cartelli di divieto di transito pedonale, inviti a spostarsi sul lato opposto della strada, obblighi di indossare gli appositi dispositivi di protezione. Alcuni operai erano impegnati in un trasloco. Pesanti mobili dovevano uscire da un appartamento al secondo piano, e quelli più grandi dovevano essere fatti passare dalla balconata, per poi venire calati con il paranco del loro camioncino. Avevano transennato accuratamente l'area della banchina tra il loro mezzo e l'ampio ingresso al palazzo, ma non avevano lasciato nessuno di guardia, confidando sul fatto che i pedoni dotati d'istinto di conservazione avrebbero ubbidito alle indicazioni. Impegnato com'era con lo schermo del suo cellulare, l'ometto non se ne curò: doveva arrivare il prima possibile alla strada principale, quella era la via più rapida, lui l'avrebbe seguita. E guai a chi avesse avuto la malaugurata idea di ostacolarlo. Borbottando spazientito, scostò con malagrazia una transenna per consentire il passaggio al suo ampio posteriore, e come niente fosse tirò dritto sul marciapiede

Il caso volle che quel mondo fosse il

centesimo

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deserto. In novantanove mondi su cento, la sua pervicace ostinazione non avrebbe avuto conseguenza più grave di qualche rimbrotto, che al massimo sarebbe potuto sfociare in un piccolo litigio. Il caso volle che quel mondo fosse il centesimo. Proprio mentre l'ometto entrava nella zona transennata, gli operai stavano spingendo fuori dal balcone una pesante credenza di legno massiccio. Era stata costruita quando ancora non si risparmiava sul materiale, stazzava sui duecento chili abbondanti, e c'erano voluti in quattro con l'aiuto di un paio di martinetti per sollevarla e imbragarla. Era stata una fatica improba, e quando gli operai erano infine riusciti a fissarla al paranco avevano tirato un profondo sospiro di sollievo. In qualche maniera l'avevano poi spostata all'esterno della finestra, a forza di strattoni e bestemmie, e adesso la credenza dondolava a una decina di metri d'altezza, saldamente agganciata al filo d'acciaio. In realtà, non era agganciata in modo così saldo. Per pura e semplice combinazione, il pesante nodo che assicurava l'imbragatura al gancio del paranco scelse infatti proprio quel momento per decidere di sciogliersi. Fu un istante. Duecento chili di legno massello accelerarono verso il basso in tempo reale, trascinandosi dietro un viluppo di cavi e cordami, diretti a schiantarsi sul grigio pavimento sottostante. Purtroppo per l'ometto, e anche per gli addetti al trasloco, che furono considerati responsabili dell'accaduto, la credenza aveva un appuntamento con lui. Il grande manager non si rese conto di nulla. Era riuscito a prendere la comunicazione con l'ufficio, e stava abbaiando frasi sconnesse alla sua segretaria, cercando di farle capire che sarebbe arrivato il prima possibile. Purtroppo, non sarebbe più arrivato da nessuna parte. Le urla di avviso che provenivano dall'alto neanche sfiorarono la sua coscienza, impegnato com'era a imprecare nel microfono. Il pesante mobile lo colse proprio sulla testa, schiacciandolo e spalmandolo sul marciapiede come salsa di pomodoro su una granulosa bruschetta di cemento. Non ebbe neanche il tempo di accorgersi di essere morto. E lui e il suo smartphone, pestati e rimestati dalla violenza dell'impatto, si avviarono sull'oscura via dell'aldilà. La prima cosa che pensò l'ometto, appena scomparsa la subitanea sensazione di compressione, fu che la primavera si

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fosse trasformata in estate di colpo. Ma non un'estate normale, bensì canicolare, afosa, polverosa e secca come un deserto. Si diede un'occhiata intorno, e trasecolò. La città era scomparsa. Era circondato da un tormentato deserto di sabbia rossa, che si spingeva fin dove poteva arrivare il suo sguardo, ma non fu solo la vastità del luogo che lo colpì. Ai suoi occhi si presentò infatti una visione dantesca: un numero esorbitante di urlanti anime torturate. Gorgoglianti pozzi infuocati, ribollenti di lava, si aprivano nel terreno. Ospitavano caterve di entità, costantemente riarse da fiamme inestinguibili che non le consumavano. Catene e uncini emergevano dal suolo farinoso, lacerando e squartando le profondità più sensibili di quei miserevoli esseri. Attorno alle fosse ardenti, altre anime erano mezzo sepolte nella rena. Di alcune sbucavano la testa e le braccia, di altre le gambe, che scalciavano inutilmente l'aria rovente, mentre aghi delle dimensioni di ferri da calza dilaniavano i loro corpi. Immani esseri cornuti e deformi, con ghigni ringhianti dipinti sui musi, si accanivano a casaccio sui malcapitati con nere lance e fruste infuocate, godendo delle grida e delle implorazioni che venivano loro rivolte. L'Inferno. Non poteva essere altro. L'ometto si guardò, e vide che era nudo, come lo erano tutti gli esseri in quel luogo di sofferenza. Nessuno aveva addosso nulla, a parte la propria pelle. Non era del tutto vero. Aveva ancora il cellulare nella mano. Se lo portò al volto, per osservarlo meglio nel riverbero rosseggiante delle fiamme, e scrutò lo schermo acceso con un'espressione corrucciata. Il telefono non aveva segnale, e questo lo fece alquanto innervosire. La reazione poco emotiva dell'ometto non deve stupire. Era cresciuto in una famiglia non religiosa, e le spaventose iconografie degli inferi non avevano mai scavato solchi di terrore nel suo subconscio. Da parte sua, non aveva mai avuto la minima propensione all'introspezione o alla ricerca dell'ineffabile, essendo un convinto materialista. Aveva quindi dell'idea di Inferno una concezione meramente accademica, e non arrivava neppure a ricollegarla con la realtà della propria morte.

L'inferno.

Non poteva essere altro

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Così, l'ometto corpulento non provava paura. Era solo molto seccato per l'imprevisto che si era venuto a creare. Perché un contrattempo di quel tipo rischiava di fargli perdere la sua riunione. Peggio ancora, se il telefonino non aveva segnale, non poteva neanche avvisare in ufficio. Quello era un grosso, grosso problema, ma contava di poterlo risolvere in breve tempo. Per il momento nessuno dei ributtanti demoni torturatori aveva ancora fatto caso a lui, e non c'era da stupirsene, visto il numero incalcolabile di anime delle quali dovevano occuparsi. Gli sarebbe convenuto rimanere defilato il più possibile, ma non era nella sua natura. Così, l'ometto si avvicinò con passo sicuro al diavolo nero più vicino, che gli dava le spalle, piantò per bene i piedi nella sabbia calda allargando le gambe per darsi un'aria di importanza, e gli diede tre decise manate a metà schiena. La mostruosa creatura sussultò, colta di sorpresa, e si girò verso di lui. Si fronteggiarono. L'orrida entità, che lo sopravanzava in altezza di un buon metro, se ne stava in piedi, sbavando, con una frusta irta di frammenti di vetro ancora stretta nell'artiglio. Se i demoni avessero posseduto qualche forma di senso dell'umorismo, la vista del rotondo omuncolo nudo, l'ampia pancia sporgente in atto di sfida e la faccia mortalmente seria, avrebbe potuto strappare un mezzo sorriso alla creatura. Ma gli abitanti degli inferi non sono inclini alle amenità, per cui l'essere demoniaco si limitò a fissarlo con i suoi occhi rossi, ringhiando e agitando la sferza. Per nulla intimorito, l'ometto gli sventolò il telefono sotto il naso. «Ti sembra il caso che i cellulari qui non abbiano segnale?», esordì, in tono di sfida. Colto di sorpresa dall'atteggiamento sicuro dell'altro, il demone esitò. «Non dici niente?», proseguì l'altro, ancora più arrabbiato. «Devo avvisare in ufficio che farò ritardo per una riunione importante, e come faccio se in questo posto del cazzo non posso telefonare? Me lo spieghi?» Il mostruoso essere si guardò attorno, smarrito. In eoni di lavoro era la prima volta che un'anima gli si rivolgeva con tanta aggressività, e la cosa lo confondeva. «Non stare lì a cincischiare», insistette il grande manager, 13


sempre più arrogante, puntandogli addosso un paffuto dito accusatore. «Sono pieno di conoscenze, io. Se non ti muovi a portarmi a un telefono il prima possibile, ti faccio passare i più brutti cinque minuti della tua esistenza!» Tanto disse, tanto fece, e tanto minacciò, con la storia che conosceva persone molto in alto, che la creatura demoniaca si risolse a contattare il suo diretto superiore, per capire cosa fare. Non si poteva mai sapere, magari nel caso in questione c'erano peculiarità che andavano oltre le sue competenze. Chiese quindi aiuto al suo responsabile, mentre l'ometto continuava a zampettare avanti e indietro sulla sabbia alcalina, lanciando improperi in tutte le direzioni. E il suo superiore venne, manifestandosi in un turbine di polvere. Era terribile nell'aspetto, simile a un uomo ma con due teste supplementari, una in forma di toro e una in forma di ariete. Stringeva una lunga lancia tra le mani possenti. Si trattava di Asmodeo, demone dell'ira. L'ometto non si fece intimorire dalla foggia del nuovo venuto. Reiterò le sue accalorate proteste, dichiarando che se si fosse reso necessario sarebbe andato a parlare con chiunque, fino alle alte sfere. E guai a chi avesse osato mettergli i bastoni tra le ruote. Asmodeo, a dispetto del suo titolo, ascoltò con pazienza le rimostranze. Lo guidò con una mano lontano dal diavolo nero, che se ne stava fermo a guardarli, ancora parecchio confuso. Fece lunghi cenni di assenso, mentre lo scortava lungo i sentierini che percorrevano la piatta distesa infernale. Si disse certo che la sua mozione fosse degna di essere presa in considerazione. Era necessario risolvere il problema della copertura telefonica quanto prima, perchè era giusto e logico che gli inferi si modernizzassero, in sintonia con i cambiamenti della società e della tecnologia. A un certo punto gli diede persino una confortante pacca sulla spalla, cosa che ringalluzzì l'ometto ancora di più. Ormai si sentiva sicuro che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Arrivarono a una delle pozze di lava più grandi, scavata in profondità nel suolo ferroso. In essa le grida erano ancora più

Era

necessario risolvere il

problema della

copertura

telefonica

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strazianti rispetto al resto dell'Inferno, e le anime che vi si accalcavano se possibile più torturate rispetto alle altre, in un tripudio di lame, spilli, uncini, schegge di vetro, morse, catene, pinze. L'ometto si fermò sul bordo dell'ampia pozzanghera infuocata, e vi guardò dentro. Non fece neppure in tempo a chiedere cosa ci facessero lì, perché Asmodeo gli assestò un potente calcio tra le scapole e lo fece precipitare nel magma, gesticolante e urlante. Il contatto con il fuoco inestinguibile della tortura bruciò la sua pelle all'istante, il telefono che stringeva ancora come un totem venne consumato, e un gran numero di chiodi e spine di cristallo emersero dalla lava a straziargli le carni. Asmodeo si girò, e tornò a occuparsi delle sue incombenze. E sotto di lui, nella voragine infernale delle torture eterne, l'anima dell'ometto strillò come quella di chiunque altro

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NON SONO UNA SIGNORA

Violette de Levallière illustrato da Graziella Azzolina e il corpo è stanco le vene scappano, battono in ritirata. Fuggono, si ritraggono dentro di noi per cercare posti in cui non essere tormentate. Le mie fanno così. In sala oper toria i medici ascoltano rock. L’arcangelo Gabriele arriva da me all’improvviso. Niente ali. Solo un’espressione incolore. «Signora, vene sottili sulle braccia: mi dia la mano. Tanto ne dovrà fare ogni due anni di questi esami.» Cazzo non voglio. Lo guardo e gli metto la mano tra le sue. «Faccia pure.» L’ago perfora, sto sorridendo all’arcangelo Gabriele con le lacrime che mi rigano la faccia. «Si stenda sul lettino ora le mettiamo la maschera sul viso per bloccarla, cerchi di respirare normalmente. Ci vediamo tra un’ora. Se ci sono problemi schiacci il pulsante che le metto tra le dita. Non tossisca, sennò dobbiamo ripetere tutto daccapo.» Mentre mi infilano nel tubo bianco per la risonanza magnetica ho freddo, qualcuno, da fuori, mi mette una coperta sulla gambe prima che il marchingegno mi ingoi del tutto. Sparita. Sola in questo corpo imperfetto. Chiudo le palpebre, il rumore che mi perfora il timpano è un martello pneumatico, 17


nonostante i tappi nelle orecchie. Occhi metallici scannerizzano ogni millimetro del mio cervello. Si aprono le danze. TA-DA-TA-DA-TA-DA Respiro e guarda cosa salta fuori, una canzone che nemmeno mi piaceva. 1982. ... NON SONO UNA SIGNORA MA UNA CON TUTTE STELLE NELLA VITA.. La Bertè. Loredana e le stelle, chissà se brillano là fuori, stasera. Una ha il volto di chi non conoscerò mai. Immagino di lanciarmi nel firmamento e bruciare in un secondo come questo liquido fresco che mi sparano in vena a tutta velocità, dagli alluci al cervello, passa attraverso spazi inviolati ed apre nuove porte, corridoi, stanze gigantesche, prati che finiscono con falesie a picco sul mare, dirupi e scogli. Boati di onde. Sono sospesa sull’orlo dell’abisso, abitata da cose misteriose. Nemmeno sapevo di avere tutte queste meraviglie in me. Sono viva. Non mi frega niente di quel che ho in testa, voglio continuare a starci dentro questo corpo che mi fotte ogni giorno e che curo nonostante tutto. Gli voglio bene anche se mi tradisce come il peggiore dei bastardi. Che poi un giorno, ho avuto un colloquio diretto con Dio. A me è apparso vestito da neurochirurgo. Con aria professionale di chi sa di essere in cima alla piramide umana, anzi, un pelino sopra, mi ha spiegato che non capiscono che cavolo sia. Azzarda ipotesi. Quel giorno poi, era pure imbarazzato. Se sei Dio e salvi chi sta per morire, quando ti capita per le mani un caso come il mio, sono cazzi amari. Soprattutto quando Dio si rende conto che non ho paura. Gli sono simpatica, a Dio. Così quella volta s’è sfilato i guanti di lattice sporchi di resti di qualcosa che non mi va di definire, dopo venti ore di sala operatoria, m’ha presa sottobraccio e mi ha raccontato come stava la faccenda. Ho un “cisti di Rathke”. Roba rara, di prima qualità, attaccata alla mia ipofisi. Ereditata geneticamente da 18


chissà quale parente. O serpente? Adesso sì che mi sento una gran figa: un po' come avere una collana di perle preziose addosso, di quelle che tutti invidiano pensando “quella lì è una donna speciale”. Dio mi ha osservata come una cavia da laboratorio, mi ha detto «Lei sì che è un caso interessante per la mia équipe: potrei metterla in lista d’attesa e poi operarla senza aprirle il cranio con la fresa. Entriamo dentro con un braccio meccanico e l’ago telecomandato attraverso il setto nasale, assorbiamo il liquido della cisti o... di quel che troviamo. Non potremmo asportare via tutto ma.. le salverei la vista» poi, mettendomi una mano sulla spalla per rassicurarmi, ha dichiarato «E comunque, non è come in altre parti del corpo: è del suo cervello che stiamo parlando. Può anche conviverci, per ora, giorno per giorno. Proviamo a non svegliare il can che dorme.» Decisi che sì, era davvero una buona idea non svegliare nessuno. Che poi, se è del mio cervello che ci si preoccupa, la memoria già si sta facendo il terzo giro di birra e non si ricorda la metà delle cose. Quanto ai neuroni inesplosi, continueranno a parlare in francese almeno tra di loro, ne sono certa. Dio si era lasciato sfuggire «Di figli nemmeno con un miracolo, comunque il problema principale non sono gli ormoni ma la vista. Se guardo le sue lastre, per me, lei è cieca.» Mi fido di te, Dio? Per ora ti guardo dritto negli occhi e sei tu, Dio, che li abbassi per primo. Un bel casino se anche Dio sbagliasse. In effetti, tre mesi più tardi, ho scoperto che non ci ha preso per niente. Sono rimasta incinta in un nano secondo, dopo il coito interrotto di Aldo. Rigogliosa e fertile come il giardino dell’Eden. Mio marito quando l’ha saputo gli è preso un colpo. «Non stapperemo lo champagne.» Questo gli è sfuggito, ed io, per la prima volta, ho misurato la profondità del mio odio verso un uomo. Ho deciso. Vomitavo l’anima. Una settimana per la scelta giusta, al terzo mese. La pancia si vedeva un poco, la nascondevo sotto maglioni larghi a coprire la disperazione di

Se guardo le sue lastre, per me,

lei è cieca

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entrambi. Mia e del bambino. Muoio io o muori tu? Moriremo insieme? Non avrai una mamma ma un papà sì. Sei un maschio. Ti ho sognato nei minimi dettagli. Bellissimo e ridente, riccio come me, rosso come Aldo. Non saprò mai se arriverò al nono mese. Tutto è rischioso. L’istinto materno è una puttanata inventata dagli uomini per relegare le donne nel ruolo di madri e decretarne la fine sessuale. Il mio istinto di sopravvivenza è forte. Vallo a spiegare ad Aldo che nel frattempo culla l’idea del figlio, lo desidera e mi teme. «Teniamolo.» NO, sono io che ho avuto l’ultima parola: NO. Vorrei lasciarmi andare con Aldo ma lui si accascia a terra quando glielo dico. Sono forte per tutti e due, reagisco. Per prima. Ricomincio a vivere, per prima. Sono un giunco sottile: se il mondo impazzisce, mi piego ma non mi spezzo. L’arcangelo Gabriele interrompe il flusso dei pensieri e mi parla attraverso un microfono nascosto. «Signora c’è qualcosa che non va? Continui a respirare lentamente, ancora dieci minuti e poi la tiriamo fuori.» Fate pure, spiate tutto quel che ho dentro, massacratemi a fondo. Resisteranno queste emozioni, sulla carta, aldilà di me. Per sempre e oltre. ... E’ UN VOLO A PLANARE PER ESSERE INCHIODATI QUI CROCIFISSI AL MURO MA COME RICORDARLO ORA NON SONO UNA SIGNORA MA UNA CON TUTTE STELLE NELLA VITA UNA PER CUI LA GUERRA NON È MAI FINITA...

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LA MADRE FRANCESE

Laura Nicchiarelli eri ho avuto bisogno di farmi un regalo. All’una e dieci sono uscita dall’ufficio e ho deciso di barattare la pausa pranzo per un giro alla Rinascente. Il cielo non consentiva illusioni: l’alone del sole era fioco, nascosto da una spessa cataratta di nuvole perlacee. Ho raggiunto via del Tritone in poche falcate, distratta dal pensiero dell’inchiesta che mi era atterrata sulla scrivania poche ore prima e frastornata dal suono dei clacson che si moltiplicava a ogni incrocio. Nella mezz’ora seguente ho subito l’efficacia logistica del centro commerciale. Io volevo una gonna. Ero convinta di desiderare una gonna. Ma arrivata al penultimo piano ero già passata attraverso una rete di esperienze sensoriali che hanno presto inquinato quel semplice bisogno. Sono uscita dal reparto bellezza con le mani intrise di unguenti e i polsi che sprigionavano effluvi preziosi (Soleil Blanc, Tom Ford). Salita al piano uomo ho afferrato un golf di Ralph Lauren taglia L, ne avevo ristretto uno in lavatrice e ancora non l’avevo detto a Paolo. L’itinerario non lasciava nulla al caso, ho dovuto attraversare anche il reparto lusso e pelletteria, a palla di fucile, si intende. Lì ho accarezzato alcune ecopellicce e mi è sembrato che il loro manto emettesse un suono simile alle fusa di un gatto nonostante la composizione sintetica. 23


Finalmente la scala mobile mi ha depositata al piano del prêt à porter femminile. Allora ho capito che acquistare una gonna sarebbe stato un atto di masochismo ingiustificato, visto lo strato di morbidezza accumulato di recente. Non ero lì per castigarmi. Di cosa avevo bisogno quindi? Fingevo di ponderare la scelta, ma le narici lentigginose già fremevano per l’odore di cuoio o camoscio che le scarpe firmate hanno nel mio immaginario. Sono riscesa al piano delle calzature come un diabetico si appropinqua al bancone di una pasticceria. Ecco, era lì che dovevo trovarmi. Ho abbandonato ogni riserva, e con lucida determinazione ho subito chiesto il mio numero di uno stivaletto a punta e stretto alla caviglia di Sergio Rossi. Il prezzo era scandaloso come le fantasie di cui li vedevo protagonisti. La commessa si stava avvicinando con quei capolavori di design tra le mani, quando mi ha visto al piede destro, prontamente liberato dalla sneaker, uno di quei calzettoni di lana caldi e un po’ ruvidi che avrebbe fatto attrito con il materiale aderente e ancora rigido. «Ah, aspetti che le porto un calzante!» Ho ringraziato, mi girava la testa. Ciò mi succede a volte quando un oggetto, un odore o un suono mi catapultano indietro sulla linea temporale. La ragazza si è sbrigata in pochi minuti e mi ha appoggiato ai piedi la scatola chiusa con sopra il calzante. Era un oggetto nero, lucido, dal manico allungato: mi è venuta voglia di metterlo in borsa ma naturalmente ho rinunciato. Anche se desidero spesso cose non mie non sono una ladra. Può essere che ciò sia vero oggi solo grazie alla reazione che mia madre ebbe l’unica volta in cui trasformai un impulso cleptomane in azione. Era mio padre a utilizzare il calzante. Il suo lavoro richiedeva abiti formali, faccio fatica a ricordarlo senza completo scuro. Anche la cravatta era la regola, insieme a scarpe stringate di pelle rigida che faticavano ad arrendersi al suo piede grosso e nodoso. Al mattino era sempre di fretta - ci impiegava più di un’ora per raggiungere il centro - e con un braccio già nel soprabito attraversava la casa fino all’ingresso dove c’era l’armadio delle scarpe. Mia madre era in cucina e sparecchiava la colazione ascoltando il giornale radio. Sarebbe uscita più tardi accompagnando me e mio fratello a scuola. Io ero in 24


camera, ancora impastata di sonno. Mi infilavo la divisa e sentivo: «Sabine dov’è il calzante?» Lei, accompagnata da un tramestio di stoviglie: «Lo avrai rimesso nell’armadio con le scarpe» Lui, senza malizia nella voce ma con una certa impazienza: «Qui non c’è… L’ho usato ieri.» Intanto si accaniva sui bordi di cuoio, pigiandovi dentro il tendine smilzo che da solo non voleva entrare. «Vedrai, deve essere lì» diceva mamma senza mai spazientirsi. Ma il calzante non si trovava. Alla fine papà riusciva a entrare nelle scarpe, trattenendo le bestemmie di cui non era capace e accontentandosi di imprecazioni sommesse. Altri giorni il calzante era dove ci si aspettava che fosse, ma non era mica mai lo stesso. Ne passarono di tartarugati, alcuni di legno e altri di plastica. Ne ricordo uno rosso e lungo che papà riportò dal negozio Church’s. Sparì anche quello. Questi oggetti andavano e venivano, ma non era chiaro né quando venissero sottratti né dove andassero a morire. Mia nonna diceva «La casa nasconde ma non perde», eppure. Ma i ranghi della gestione familiare erano serrati, c’era ben altro da amministrare: prima il trasferimento di mamma in un altro ospedale faceva l’ostetrica - poi la miopia di mio fratello Luca che peggiorò di botto, e il mio odioso esame di maturità. Non c’era tempo per gli oggetti smarriti. I miei genitori litigavano di rado. Quando succedeva l’atmosfera vibrava dei bisbigli astiosi di mio padre. Si rintanava nello studio per evitare lo scontro frontale. Mamma invece si attardava nelle stanze parlando da sola, inveiva in francese e intanto si avvicinava alla porta chiusa. Apriva giusto uno spiraglio e fissava papà, come un serpentello munito di un veleno potente ma di scarsa volontà che gioca con la preda. Ma per i calzanti non litigarono mai. Maman aveva un tono speciale anche per dichiarare quando usciva con le amiche. «Io esco» diceva, ma lo diceva con tale boria, con una risata

Mia nonna diceva

«La casa

nasconde ma non perde»

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di beffa nascosta da qualche parte nei tratti da dipinto fiammingo. “Io esco”, e se ne andava raggiante come chi è appena scampato a un grosso pericolo, mento in su, tacchi alti e appena un’ombra di trucco. La porta si chiudeva, e io la immaginavo risorgere a una vita eccitante di liquori e segreti bisbigliati in francese. In quelle occasioni papà rimaneva con noi, eravamo tre pesci in un acquario. Il mio piede è sgusciato nella scarpa senza resistenze e il calzante è rimasto sulla poltroncina in pelle dove mi ero seduta. Ho chiesto alla commessa di portarmi il numero più piccolo. I miei vivono ancora insieme, si sono trasferiti da poco in un appartamento a via Panisperna. È un ultimo piano mansardato, piccolo ma luminoso. Hanno realizzato il sogno di vivere nel centro storico, accantonato tanto tempo fa per crescere noi bambini. Ora non hanno lo studio dove nascondersi, e siedono vicini in poltrona o al tavolo da pranzo a osservare la rispettiva vecchiaia, inondati dal sole che entra dal lucernario. È molto comodo per me, dall’ufficio sono lì in quindici minuti a piedi. A volte mi invitano a pranzo ma non sempre accetto, la cucina ipercalorica di mamma è un attentato al mio metabolismo dormiente. In verità sono pietanze che si addicono solo a mio padre, il burro sembra sciogliersi nelle sue vene di amianto per poi tramutarsi in energia intellettuale. Da lui ho ereditato solo la professione e un tipo di alcolismo prestigiatore: non si è mai sobri né ubriachi, ma si barcolla sul limite della decenza sociale. Comunque, finché il medico dice che sta bene lui si dichiara intoccabile. Mamma lascia correre, fedele alla sua nazionalità che non conta il vino tra gli alcolici. Siamo stati io e mio fratello a fare il trasloco per loro e anche Paolo si è fatto due viaggi avanti e indietro col furgoncino. Ancora non stavamo nemmeno insieme, è stato gentile. Dicono che si diventa grandi quando per la prima volta ci si confronta con le debolezze dei genitori. Io quella sera sono cresciuta di botto. Avevamo caricato gli ultimi scatoloni, imballato i quadri e arrotolato i due tappeti del salotto. I mobili erano già stati portati via sul furgoncino. Mio fratello suggerì che scendessi in cantina, casomai ci fossimo dimenticati qualcosa. Lì, oltre alla polvere, rimanevano solo una bicicletta a cui mancava una ruota e il lettino di quando Luca era piccolo, col materasso tutto a chiazze di pipì. Sotto c’era una scatola di 26


cartone pesta di umidità. L’ho aperta con due dita perché mi faceva schifo: dentro c’era un ragno e i calzanti di papà. Ne ho riconosciuto uno di legno chiaro nel mucchio e quello di plastica rossa. Non capivo. Risentivo il tono di ostentata indifferenza di maman in cucina, e mio padre che intanto si schiacciava le dita tra il tallone e la scarpa. Perché aveva sempre negato? Ho infilato la scatola in una busta, sono salita in macchina con Luca poggiandola sui sedili posteriori. Arrivati al mio indirizzo ho salutato e ho preso la busta con me, mio fratello non ha fatto domande. Ero furiosa. Davvero era stata così infantile? Ripetere questa beffa all’infinito la rendeva felice? Di cosa si vendicava con un dispetto insensato? E se non per vendetta, perché nascondere un pacco di oggetti plasticosi in cantina? Mi era sembrato un inganno enorme e meschino, la mia percezione era ingigantita dall’irrazionalità del fatto, privo di movente. Ma il rancore è sbollito quasi subito, non era ragionevole da parte mia. Se mia madre aveva un lato sbandato non stava a me smascherarla. Ho pensato a lungo all’infinita tenerezza nel tirarci su, alla grazia con cui sopportava le fatiche domestiche dopo un turno di dieci ore, e non me la sono sentita di affrontarla su una questione così insignificante. Poi, a sangue freddo, mi sono accorta di avere finalmente gli strumenti per interpretare a pieno l’episodio del mio unico furto. Più di venticinque anni fa, nella scuola di periferia dove frequentavo la quarta elementare, i bambini tornarono in aula dopo la ricreazione. Non fecero in tempo a sedersi ai banchi che scoppiò una tragedia: qualcuno aveva sottratto il Tama Gochi di Isotta dal suo astuccio. Per chi non avesse vissuto gli anni Novanta né come figlio né come genitore, il Tama Gochi era una di quelle aberrazioni protodigitali nate durante il mesozoico della tecnologia. Era un gingillo poco più grande del quadrante di un orologio e impersonava un animale domestico. Comandato da un software più che basico e azionato da pochi pulsanti, interagiva tramite un display striminzito con immagini e messaggi pixelati. Alternava

Mi era

sembrato un inganno

enorme e meschino

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bisogni tipici di un cane o di un gatto, pretendendo di essere nutrito o coccolato; bisognava stargli dietro o sarebbe crepato di morte virtuale. L’inutilità del Tama Gochi era perfetta: rivestito in plastica trasparente con gli ingranaggi a vista, alienava il bambino creando dipendenza e non insegnava nulla. Volevo disperatamente possederne uno. Dopo un severo interrogatorio da parte della maestra di italiano, che cercava di estorcere una confessione spontanea al colpevole, e una volta placati gli spasmi di pianto di Isotta, la quale incolpava Marco pur non disponendo di prove plausibili (Marco era in effetti un bambino pestifero), tutta la classe se ne tornò a casa con una nota sul diario che intimava i genitori a investigare sull’innocenza della prole. Io ero insospettabile: timida ma non emarginata, un fagotto tutto guance e lentiggini col colletto macchiato del sugo rappreso della pizza che mi portavo a merenda. Solo una volta avevo nominato il Tama Gochi tra i regali che avrei voluto per Natale. E mio padre: «È spazzatura» Docile, capii che non era un diniego negoziabile. Persino mia madre, abile conoscitrice del mio piccolo animo, ci mise un paio di giorni a scovare il giocattolo: le sue ricerche furtive terminarono quando, tastando delle calze rosa nel cassetto della biancheria, si accorse di un bitorzolo sospetto. Io ero dietro di lei, minuscola contro la carta da parati a fiori. Ricordo il modo plateale in cui si bloccò - una pausa del tutto superflua che sottolineava la solennità del momento - prima di estrarre il corpo del delitto dal calzino e di girarsi verso di me col palmo aperto. Che classe, maman. Che pathos. «Maman…» Feci in tempo a balbettare, perché il disprezzo che le saettava nello sguardo mi aveva atterrita ben prima della manata che ne seguì. Una sberla a cinque dita piazzata sullo zigomo. Crollai col sedere a terra. Poi mi sgridò, scelse parole gelide e rarefatte che il suo accento francese coprì di spine dolorose: le “r” intrappolate in gola e rivomitate fuori servivano da trampolino ai suoni mozzati, le vocali uscivano correndo su accenti gridati nel vuoto, repentini come lo schiaffo che mi aveva assestato. Non mi sgridò mai più così, né mi sfiorò mai. Per lungo tempo ho creduto di vedere nella sua reazione un grumo di vergogna e di legittima delusione. Lei che lavorava a volte anche la notte per regalare ai figli una vita sfacciatamente spensierata. Il tutto per poi ritrovarsi in casa una baby 28


borseggiatrice, e vigliacca peraltro. Invece - suppongo - aveva riconosciuto in me la propria attitudine al segreto, e l’abilità nell'ordire bugie solitarie. Dovetti restituire il Tama Gochi a Isotta, alla quale nel frattempo ne era stato regalato un altro (quello nuovo era rosa e aveva delle funzioni aggiornate). Fu una delle giornate più umilianti della mia vita. Per oltre due settimane mi mostrai amareggiata, pentita fino al pianto, sempre mesta sia a casa che a scuola. Nessuno seppe mai della gioia pura e scandalosa che avevo provato a custodire quel bottino proibito senza neanche utilizzarlo. Soltanto lo estraevo dalla calza e lo rimiravo sotto la lampadina dell’abat-jour. Lo giravo sotto al fascio di luce - era maledettamente seducente nel suo rivestimento di plastica verde producendo bagliori arcobaleno sul copri piumino, e mi crogiolavo in uno stato di colpevole euforia. Ho impugnato il calzante e ho spinto il piede - il mio non è né grande né piccolo - dentro lo stivaletto. Stavolta era fasciante al punto giusto, si stringeva sulla caviglia come un guanto. Mi sono alzata e ho mosso due passi incerti verso lo specchio: niente male. Sono indietreggiata di un paio di metri, ora con un’andatura più sensuale. «Sì, li prendo.» Dopo la decisione è arrivato il leggero spaesamento che segue un acquisto importante (il prezzo equivaleva a un quarto del mio stipendio). In questo stato di stordimento mi sono guardata intorno: la frenesia da saldi e le luci accecanti mi rendevano invisibile e la commessa era andata a cercarmi un paio chiuso in magazzino. Allora ho appoggiato il busto allo schienale di pelle marrone e ho rilassato le braccia abbandonandole ai lati del divanetto. In questa posizione il calzante era quasi a contatto con il mio indice sinistro. Mi sono allungata ancora e l’ho afferrato. Anche a pagamento concluso sono rimasta intrappolata nella logistica a ritroso: ho dovuto ripercorrere tutti i reparti scintillanti, sfilando verso l’uscita tra corridoi di borse da quattro zeri e respirando da capo gli odori svenevoli del piano cosmetici. Nulla, ero diventata immune. D’istinto ho toccato la borsa, dove il calzante aggiungeva il suo leggero peso specifico, e ho imboccato la porta a vetri •

Nessuno

seppe mai della gioia pura e

scandalosa che avevo provato

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L'Irre

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LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI FUNZIONARI PUBBLICI NELLE LETTERE DI REVISIONE DEGLI AUTOVEICOLI INFILATE NELLA CASSETTA DELLA POSTA DALLE OFFICINE (SENZA FRANCOBOLLO)

Giampiero Pomelli uando l’autobus scivolò via alle loro spalle, attraversarono la strada ed entrarono nel portone di legno lucido dell’enorme palazzo che molti anni prima aveva ospitato la Direzione Provinciale del Fascio, e che ora accoglieva gli uffici dell’Agenzia delle Entrate. Premurandosi di prendere l’ascensore per assecondare i vizi dell’età, salirono al secondo piano e attraversarono il lungo corridoio in cerca dell’ufficio “Notifiche cartelle esattoriali – Funzionario Dott. Mario Di Cecco”. Quando il signor Unoqualunque vide la targhetta di metallo appesa allo stipite di una porta, lanciò un sorriso di cortesia alla moglie e bussò. «Avanti!» – gridò il Funzionario. La coppia di anziani aprì educatamente la porta ed entrò nella stanza, lasciandosi cadere goffamente sulle due sedie di legno poste di fronte alla scrivania del Dott. Mario Di Cecco. «Buongiorno Dottore. Ho ricev…» – disse il signor Unoqualunque. «Lei chi è?» – replicò il Funzionario, infastidito. «Lei è mia moglie». «Non lei! Lei lei…». «Io?». 31


«Sì, lei». «Sono il signor Unoqualunque. Ho ricevut...». «Cosa vuole?» – disse il Funzionario, interrompendolo. «Chi?». «Lei». «Non lo so, ora glielo chiedo. “Tesoro, il signore mi chiede cosa vuoi”». «Niente, ringrazialo! Ho già fatto colazione» – rispose la moglie del Signor Unoqualunque. «Smettetela! Credete che io sia qui per perdere del tempo?». «Oh bella! Se non lo sa lei perché è qui, come posso saperlo io?! Per quel che mi riguarda sono venuto qui da lei perché, come dicevo, ho ricevuto questa lett…». «Continui con questo giochetto e giuro che vi sbatto fuori da quest’ufficio». «Oh bella! Credo le sia impossibile». «Impossibile cosa?». «Sbatterci fuori». «A sì? E sentiamo, perché sarebbe impossibile?» – domandò il Funzionario, con tono arrogante. «Non è forse l’Agenzia delle Entrate questa?» – s’informò il signor Unoqualunque. «Certo che è l’Agenzia delle Entrate!». «E allora qui si entra, mica si esce!». «Lei è venuto qui per rovinarmi la giornata?» – chiese il Funzionario, fissandolo negli occhi. «Per carità, non sia mai. Sono qui perché ho ricev…». «Lei si crede più furbo di me, non è così?». «Non si abbatta, Dottore. Ieri al telegiornale uno psichiatra ha parlato della perdita di autostima nei Dirigenti della Pubblica Amministrazione. Ha detto che se non si interviene subito, può accadere che…». «La smetta! O chiamo i Carabinieri!» – gridò il Dottor Mario Di Cecco, picchiando i pugni sulla scrivania. «Che c’entrano i Carabinieri?». «C’entrano, c’entrano… glielo dico io». «Oddio…» – esclamò dubbioso il signor Unoqualunque. «Oddio cosa?». «Non ne sarei così sicuro». «In che senso?». «Temo che tutti insieme non c’entrino da quella porta. È un po’ strettina. Dovrebbe chiamare un falegname per spostare

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gli infissi di qualche centimetro, e allora forse…». «Non la sopporto più, lo sa!?». «Chi?». «Lei… non la sopporto proprio più!». «Posso farle una confidenza Dottore?» – sussurrò il signor Unoqualunque allungando il suo corpo in avanti sulla scrivania verso l’uomo – «Neanch’io la sopporto più. Solo che siamo sposati da più di quarant’anni e ormai devo tenermela». «Non Lei!» – replicò infastidito il Dottor Mario Di Cecco. «Intendevo… oh, basta con questo supplizio! Mi dica, cosa vuole?». «Chi?». «Non ricominci!». «D’accordo. Come le dicevo ho ricevuto questa lettera». «Me la dia!» – disse il Funzionario, allungando una mano verso il signor Unoqualunque. «Prego» – rispose lui, consegnando la lettera. «Ma questa è un’intimazione a…». «Appunto. Come si permette!» – esclamò offeso il signor Unoqualunque. «Come si permette cosa?». «Di intimare! Io sono un galantuomo, lo sa?». «Io non intimo un bel niente!». «Lei forse no. Ma l’Agenzia delle Entrate sì, caro Dottore. Quelli intimano sempre. Non fanno che intimare, dalla mattina alla sera. E lei non lavora forse all’Agenzia delle Entrate?». «Certo che lavoro all’Agenzia delle Entrate. Ma questa è un’intimazione a provvedere alla revisione della sua auto entro la fine del mese! Cosa c’entr…». «Oh bella! E da quando l’Agenzia delle Entrate si occupa anche di meccanica?». «All’Agenzia delle Entrate non gliene frega proprio un bel niente della sua stramaledetta auto! Questa lettera gliel’ha inviata la sua carrozzeria!» – gridò il Funzionario. «Oh bella! E quindi che devo fare?». «Deve uscire immediatamente da quella porta e non farsi rivedere mai più!». «E se la incontro per strada?» – chiese il signor

E da

quando

l’Agenzia

delle Entrate si occupa anche di

meccanica?

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Unoqualunque. «Chi?». «Lei». «Sua moglie?». «No, lei. Lei lei! Che c’entra mia moglie!?». «Non lo so, guardi… abbia pietà! Non capisco più niente!». «Lo so Dottore. Ma tenga duro. Vedrà che un giorno le cose cambieranno e potrà aspirare a un impiego più consono al suo tenore intellettivo». «Lei dice?». «Dico, dico! Sa dove la vedrei bene Dottore?». «Dove?». «In una carrozzeria». Il signor Unoqualunque si congedò dal Dottor Mario Di Cecco, sollevando lievemente il cappello dal capo in segno di saluto. L’anziana coppia percorse in senso inverso il corridoio lungo il quale, molti anni prima, venivano trascinati i corpi dei partigiani verso il loro breve destino. Il Funzionario, ancora tremante, li vide in piedi alla fermata dell’autobus dalla finestra del suo ufficio. Prima di tornare alle sue mansioni, aprì il cassetto della scrivania e tirò fuori il cartellino con impresso il suo nome, infilzandolo orgogliosamente sul bavero della giacca. Dopo quella trasformazione, si sentì invincibile. Come accade ai supereroi

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IL MAÎTRE

L'Irre

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Stefano Scanu er ogni giro di pala l'orlo della tovaglia faceva un sussulto uguale e contrario. Come una pendola, la ventola sul soffitto fendeva l’aria umida scandendo gli istanti che precedevano l'inizio del servizio. Alle sette in punto C. si alzò da tavola, rimise le sedie al loro posto e sparecchiò. Lasciò solo due bicchieri e la bottiglia del vino. Il padrone e lo chef rimasero seduti ancora un po' a sorseggiare in silenzio e a pizzicare le briciole. Nello stanzino sul retro un paio di giovani camerieri si preparava velocemente. C. tirò fuori la divisa dallo stipetto e si vestì davanti allo specchio. Lo fece con precisione e una certa solennità, come un cavaliere. Si infilò prima i calzini di filo, slabbrati e lisi sul tallone, poi i pantaloni neri, la camicia bianca che abbottonò fino in cima e la fascia elastica dentro cui rimboccò la pancia. Indossò pure un cravattino con il gancio e la giacca che non riusciva più a chiudere del tutto, passò due mani veloci di lucido sui vecchi mocassini sformati e con l'indice pulì le sbavature. Penna, cavatappi, taccuino, e via in sala. Per un po' rimasero tutti e tre sotto il portico a fumare e ad aspettare studiando il traffico di maggio e i passanti. Più di una volta C. s'incantò a guardare le Nike del collega poi 35


soffiando fuori un po' di fumo gli chiese se fossero comode. Il ragazzo si voltò appena per rispondergli: «Tu che dici?» C. provò a ricordare. All'epoca sua se per caso ti presentavi al lavoro con le scarpe da ginnastica, come minimo ti sbattevano dietro il banco degli antipasti dove potevano vederti solo dal busto in su, guai a muoversi da lì, e se anche sopra non era tutto pulito e in ordine, per dire, una macchia sul bavero o un bottone scucito, allora ti rimandavano direttamente a casa, «che poi è dove dovresti tornartene tu con le tue scarpe. Certo sarebbe un po' severo ma giusto, niente da obiettare». Quell'ultima considerazione la tenne per sé ma guardò il ragazzo e sorrise come se quello lo potesse sentire. Il ronzio dei frigoriferi ammaliava tutti e tre, ognuno avvolto nel fumo e nei propri ragionamenti, almeno finché il rumore delle auto nel vialetto non li risvegliò, allora in un istante si misero sull'attenti ad accogliere i primi clienti e nel giro di mezz'ora la sala si riempì di voci e odori. I due ragazzi correvano dai tavoli alla cucina urlando le comande allo chef che a sua volta ribadiva al secondo e così via lungo una brevissima linea gerarchica che terminava in fondo al locale, dove un filippino annuiva nervosamente mentre squamava orate decongelate nell'acquaio. I loro ranghi erano i primi a riempirsi e gli ultimi a svuotarsi, rimpiazzavano gli stessi coperti più di una volta. Con entrambe le mani sparecchiavano tutto in un colpo solo, mance incluse, voraci come dei pokeristi, poi lanciavano in tavola tovaglioli e stoviglie, e avanti un altro. Dalla parte opposta la serata languiva, C. dava il benvenuto ai clienti che via via entravano ma quelli ricambiavano distrattamente e andavano oltre, così per non stare con le mani in mano passava in rassegna i propri tavoli, anche più di una volta o almeno finché non si decidevano a occuparli. Ogni posata al posto giusto, parallela al tovagliolo, e poi i calici, quello per il vino all’interno, appena sotto il bicchiere dell’acqua, con cura, mica come quegli altri due che li buttavano un po' come veniva. A fare le cose bene, in fondo, ci vuole poco, e anche se i clienti non lo notano, pensava, insomma se appena seduti disfano tutto senza farci troppo caso, non vuol dire che sia inutile. L'ordine, soprattutto se impercettibile, è un balsamo. Non è pure per questa ragione che si va al ristorante? Ma questo pensiero durò poco,

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spazzato via dalla smania e dalla confusione che il sabato sera riversava dentro il ristorante. Nonostante ciò, C. non cercava di sveltire il servizio e liquidare i clienti, non lavorava sulla quantità, al contrario, dedicava a ognuno la massima attenzione, li consigliava, li guidava nelle scelte cercando di condurli fuori dalle banalità del menù. Perché non cominciare con un bel cocktail di scampi e continuare con una battuta di tonno o una spigola sotto sale? Ne erano rimaste giusto un paio di quelle fresche, altro che allevamento, una carne magra e bianca come non l'avevano vista mai. Da accompagnare magari a un fiano ghiacciato, anzi meglio, a un vermentino di Gallura di una cantinetta sarda, sconosciuta ma eccezionale. Magnificava quelle prelibatezze senza cedere alla cantilena, nonostante le raccontasse da anni, da quando a capo di una piccola truppa di camerieri montava salsa rosa e porzionava uova di quaglia al tartufo per principi e commendatori in un elegante ristorantino del centro. Mentre questi altri, adesso, dopo averlo ascoltato senza mai alzare gli occhi dalla carta, ripiegavano comunque su una margherita e qualche birra. Così C., con la faccia di chi parla e dice niente, raccoglieva i menù, se li infilava sotto il braccio e tirava via i calici per il vino e i coltelli da pesce lasciando la tavola un po' più più nuda. La sera avanzava mentre i vetri delle finestre perdevano la loro trasparenza, ora sembravano schermi neri su cui si riflettevano le mille luci dei lampadari, e in quella costellazione abbacinante si intravedeva pure la sagoma di C. che fluttuava come un cosmonauta smarrito. Cominciò a correre come gli altri, o quantomeno ci provò, facendo la spola tra la cucina e la sala. Verso le dieci aveva già dissipato gran parte del proprio contegno: due grosse macchie di sudore s'erano fatte strada sotto le ascelle, le maniche della giacca erano unte di sugo e un paio di righe d'inchiostro nel taschino denunciavano le volte in cui non aveva trovato nemmeno il tempo di rimettere il cappuccio alla penna. Di due tavoli ancora liberi il penultimo venne occupato da una coppia di anziani magri e pallidi, mentre l'altro rimase lì vuoto per oltre un'ora ad aspettare un nome, Vico, Vico, e

L'ordine,

soprattutto se

impercettibile, è un balsamo

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ogni volta che a C. cadeva l'occhio sul bigliettino, gli suonava più familiare, qualcuno a cui cercava di associare un volto ricacciandolo fuori dalla memoria. A guardarli bene quei due vecchi, solo la donna sembrava viva, nervosa e loquace come una scimmia mentre il marito, impegnato a conservarsi il più possibile, si limitava ad annuire. Un minuto d'attesa le sembrò già troppo e dopo aver spinto tutto ciò che riteneva superfluo in un angolo del tavolo, chiamò C. agitando la mano ossuta. Quando quello arrivò col taccuino per raccontarle i piatti del giorno, lo disinnescò all'istante ordinando supplì, pizza e birra, per sé e per il marito. Un uomo lesse il nome sul bigliettino attraverso le lenti fumè e occupò l'ultimo tavolo rimasto, in quel momento ogni cosa trovò il proprio posto nei ricordi di C. Il principe Vico non era cambiato per niente: il fazzoletto di seta al collo, l'anello al mignolo, lo stesso vestito di sartoria, i capelli all'indietro, ormai bianchi e brillanti, e poi le basette lunghe, fuori moda, tutto esattamente come venticinque anni fa. Ci misero pochi istanti a riconoscersi. Come stava? Che ci faceva lì? Ne era passato di tempo. C. ricordava ogni singola abitudine di quell'uomo che aveva servito centinaia di volte nel suo vecchio ristorante. Gli portò subito due gambi di sedano e una tazza d'olio in cui intingerli, un bicchiere di chianti per aprire la cena e poi una bottiglia di bianco secco per pasteggiare. A seguire un riso all'inglese e un sorbetto di limone per favorire la tartare di manzo. Il principe mandava giù ogni boccone masticando lentamente e staccando appena la schiena dalla sedia, ogni tanto abbandonava le posate sul piatto, sollevava appena la mano dal tavolo e per oltre un minuto rimaneva in quella posizione, come se tenesse una sigaretta invisibile tra le dita, poi riprendeva a mangiare il suo riso freddo. La vecchia spezzava grissini spiando quello strano uomo che aveva catalizzato tutte le attenzioni del cameriere. Si lamentò per via delle pizze troppo cotte e del servizio. Che fine avevano fatto i suoi supplì? C. chiese scusa e andò in cucina a informarsi ma quando riemerse lo fece spingendo un carrello verso il tavolo del principe. Sopra c'era la sua battuta di carne e tutto ciò che

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serviva per condirla. Con una forchetta fece pressione al centro della polpetta cruda lasciandoci scivolare dentro due tuorli. Aggiunse senape, olio, salsa piccante, cipolla, sale, pepe e qualche goccia di limone. Mescolò senza mai fermarsi o almeno finché l'uovo non intrise ogni cosa. Ora tutti guardavano il maître: i due giovani camerieri, i clienti, la vecchia e suo marito. Il principe era ipnotizzato da quei gesti abili e conosciuti, eseguiti quasi a memoria. La spuma gialla e lucida che montava nella scodella ricordava quella che fa il fiume lungo gli argini. Incantava come le notti in cui C. tornando a casa dal lavoro andava a prendersi le zaffate di umido e acqua dolce sul lungotevere. Con la soddisfazione di aver fatto bene, le tasche piene di mance e di bellezza. Le signore nel salottino su una gamba sola che aspettavano il proprio tavolo, stregate dal prosecco, consumando lunghissime Merit, le perline nei bicchieri, la lacca nei capelli come pure i fermacravatta, i fermasoldi, i Dupont d'oro, il tartufo, flambè, creme brulèe e béchamel. Tutto impastato in quella tartare che ora si tirava dentro pure lui, il rumore, le pizze, la malinconia e i supplì di questo sabato sera. E così rimase finché non servì tutto nel piatto. Il principe annusò profondamente la carne e sorrise. C. piegò il tovagliolo sull'avambraccio, accennò un mezzo inchino e solo dopo sentì la sala risvegliarsi e i piedi fargli un po' male

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LEGGIMI

L'Irre

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Giulio Iovine o tra le braccia il mio primo romanzo, come un neonato. Quello, e una borsa a tracolla di cuoio che puzza ancora di capra, un regalo degli amici per l’inizio della carriera. Dentro ho molti altri fogli tenuti insieme da graffette lunghe come artigli. Ma il romanzo l’ho tirato fuori perché, guardando all’orizzonte, ho finalmente avvistato un Lettore. Non è facile prendere il Lettore di sorpresa. È una preda molto diffidente, se ci avvicinate con della carta scritta in mano scappa prima che possiate alzare un braccio. Anzi, occhio col braccio che se anche volevate solo salutare, il Lettore è notoriamente frettoloso a giudicare e vi avrà dato del fascista in un batter d’occhio. E allora ciao carriera. Chi vi leggerà più? Sono appostato in mezzo a questi alberi da anni. Ci vivo e naturalmente, ci scrivo. Esco per procurarmi da mangiare e sentire cosa si dicono i Lettori in giro per le pianure, altrimenti non saprei cos’altro scrivere. Poi torno nel mio angolo di sottobosco e scrivo (ancora). Una vita monotona, dite voi? Io sono sempre sull’orlo dell’infarto. Sono un tipo emotivo. Figuratevi quando ho finalmente avvistato un Lettore che si avvicinava al fiume per bere. Sempre pensato 41


che appostarsi vicino all’acqua avrebbe pagato alla fine. Ora nervi saldi e disinvoltura. Perché ho tirato fuori il romanzo, ora che ci penso? Pericoloso, non deve vederlo subito o sospetterà. Lo rimetto dentro la borsa, esco dal mio nascondiglio camminando e fischiettando, come se passassi di lì per caso. Il Lettore si volta di scatto. Lei è stonato. Mi fermo e faccio finta di notarlo solo ora. «In che senso?» «Sta fischiando proprio male, è tutto calante» «Mi scusi» Fa spallucce e torna a bere. Io fingo di avere un’illuminazione improvvisa: «Non me lo dica: lei è un Lettore». Si volta di nuovo, circospetto. «Sì, perché?» «Oh, sono così rari» «Non me lo dica. Una brutta storia» «Vero?» «Lei è un Lettore come me?» «Sì, ma non solo» «Un musicista? Spero di no». «No guardi, faccio lo Scrittore» Sarebbe più corretto dire che lo sono, non che lo faccio; lo sono dentro di me, con ogni mia fibra, ma nessuno mi ha mai pubblicato, dunque è una questione di essere e non di mestiere. Ma il Lettore raramente sta attento ai dettagli quando legge, figurati quando ascolta. Se ascolta. Ma in questo caso almeno il grosso del messaggio lo ha colto, perché si avvicina di mezzo metro al fiume, mettendo gli stivali nell’acqua, pronto insomma a tuffarsi e fuggire. «Congratulazioni. È un bellissimo mestiere», mi dice sottovoce, senza staccare lo sguardo da me, cercando di capire in che direzione mi muoverò. «Sì. Certo, lei è un Lettore, chi se non lei può capire» «Pochi ma buoni» «Certo O lo fermo adesso, o si tuffa. «Pensi che stavo andando dall’editore con il mio nuovo romanzo».

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Questo scarica la tensione: significa ‘non sto cercando te’. Il Lettore si rilassa un poco. «In bocca al lupo». «Crepi, grazie. Sono un po’ teso». «Ha già firmato?» «Macché, ancora si deve valutare», invento cercando di essere lucido. – «Sa cosa? mi sentirei più tranquillo se qualcuno ci desse un’occhiata prima. L’ha letto solo l’editore. Il romanzo, dico». «Potrebbe esserle utile, sì». Ok, provo a sganciare il missile: «Lei vorrebbe, magari…? Se ha tempo». «No». «Guardi, solo la prima pagina». «No». «Ma mica per altro, per avere un parere» «No». Il Lettore, si sa, ama tantissimo leggere. Ma per un curioso controsenso del suo carattere, legge solo se ha deciso lui prima di farlo. Chiedergli di leggere qualcosa, specialmente se l’hai scritto tu, è pericolosissimo perché novanta volte su cento questo fa sì che non ti leggerà mai, nemmeno se diventerai un autore vero e pubblicato. Quando hai quattordici anni e ti avvicini alla tua coetanea con il maglione arancione alla festa del liceo, e semplicemente vi presentate, lei è gentile e ti sorride, ma nel momento in cui le chiedi, rispettosamente e discretamente, anche solo di andarvi a fare una passeggiata vedrai nei suoi occhi che preferirebbe essere bruciata viva piuttosto che farsi toccare la punta del gomito. Magari poi se vi conoscete finite per sposarvi e fare tre figli, o banalmente vi state anche solo simpatici – ma mai proporsi, mai, mai, mai. Ti trasformi da una persona ad uno scarabeo Golia. Con il Lettore è la stessa cosa. E d’altronde, in fondo al cuore, ogni Lettore ha quattordici anni e le tette grosse. Lo sa, di essere desiderabile. Questo un po’ lo imbarazza. Non vuole sentirsi assediato. Cado in ginocchio. «Una sola pagina, caro Lettore. Le ho detto che sto andando

Lo sa,

di essere

desiderabile. Questo un po’ lo

imbarazza. Non vuole sentirsi

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dall’editore, non mi cambia niente, ma le mie insicurezze, sa come siamo noi che scriviamo, sa quanto siete importanti per noi voi che leggete. Sia gentile. Pensi a quanta serenità, quanta gioia le abbiamo regalato negli anni». Il Lettore non risponde subito, ma riemerge dal bagnasciuga, poggiando gli stivali sull’erba della riva. Più che le mie parole, l’atto di sottomissione lo ha tranquillizzato. «Vediamo questa pagina». Mi chino con le mani nel prato, come a venerarlo. «Grazie, grazie, grazie». «Sì, va bene, ma in fretta per favore. Penso che abbiamo entrambi molto da fare». «Ma sicuro, ma sicuro», rispondo tirando fuori le prime due o tre pagine del mio romanzo, e nel ringraziarlo ancora gliele porgo. Le prende come fossero infette. Sbuffa. Fa per cominciare a leggere, e poi alla seconda riga: «Oh! Ha sentito?» «Cosa?» «Il richiamo del cardellino. Com’è sonoro». «Sì, bellissimo. Legga, per pietà». «Sa che da ragazzino lo distinguevo da quello della cinciallegra?» «Non si distragga», sussurro (ma vorrei urlare). Continua a leggere. Finisce la prima pagina, passa alla seconda, ma qualcosa lo disturba. «Senta, non è scritto male. Però non mi sento coinvolto». «In che senso?» «Non c’è molto di personale, qui». «Direi proprio il contrario. L’ho scritto io, non saprei immaginarmi niente di più personale». «Ma qui non si parla di lei. Si parla di… cosa sono, alieni?» «Anche, ma se ci fa attenzione»«Io ho bisogno di commuovermi, quando leggo. Mi devo identificare». «Ma ci sono tante storie nel libro, tanti personaggi». «Non so. L’anno scorso ho letto un libro bellissimo dove uno parlava di suo figlio. Aveva il cancro. Quanto ho pianto. Lei non ha niente del genere nella borsa?» «Purtroppo non mi è ancora morto nessuno di cancro – ma se le interessa il genere, posso provare a inventare qualcosa».

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«Ah no. Così mica funziona. Deve averlo vissuto. Sennò come faccio a commuovermi?» «Provi a pensare, invece di commuoversi». Stringe le mie pagine nelle mani, quasi accartocciandole per la rabbia improvvisa, e mi fissa con l’occhio giallo, sbarrato. «Non sarà mica uno snob, lei?» «NO!» Mi inchino faccia a terra, facendo le fusa. Le fusa lo calmano. Riprende a leggere. Sento l’odore del fango dentro le narici. Lettore mio! Quanto mi costa un grammo della tua attenzione! «Non è scritto male», riprende – «ma è così pesante certe volte. Certe frasi non le capisco proprio». «Ma è semplicissimo», protesto sottovoce, le lacrime in gola. «Mi sono sforzato». «Eh, bisogna che si sforzi di più. La lettura è un piacere, bisogna che arrivi facile». «Guardi», rispondo con un groppo in gola – «che è questione di esercizio, di abitudine. Adesso lei pensa che sia difficile. Legga ancora, gli dia una possibilità, arrivi alla pagina successiva. Non importa quanti anni ha, nel cervello le nascono sempre nuovi neuroni, nuovi collegamenti tra i neuroni – e quello che ora le sembra difficile, fra pochi giorni di lettura le parrà già più semplice». «Ma a che scopo». «Imparare, caro Lettore! Migliorare sé stessi!» «Ma perché dovrei farlo leggendo». «Lettore, un piacere che non le costa alcuna fatica non vale niente. Mangi il cibo che ha cucinato, dorma nel letto che ha rifatto lei la mattina, e legga cose non ovvie – diventi più acuto, più esigente, più attento. Legga meglio, legga di più. La imploro. Non è solo perché voglio le sue attenzioni, io voglio anche che la sua vita diventi più stimolante – che i suoi orizzonti si espandano». Il Lettore smette di leggere e lascia cadere le pagine, inorridito. «Ho capito che tipo di Scrittore è lei. Lei vuole darmi un messaggio». «No, le giuro, io»

Non importa quanti anni ha, nel

cervello le nascono

sempre nuovi neuroni, nuovi

collegamenti tra i neuroni

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«Lei scrive a tesi» «No, non ha capito, non ho tesi specifiche, voglio solo che lei sviluppi »– «Ho già sviluppato tutto quello che dovevo e comunque sono cazzi miei come impiego il mio cervello, intellettuale da strapazzo. Tienti la tua cartaccia. Odioso snob. E magari sei anche laureato. È per colpa di gente come te che la sinistra non parla più con le masse». Fa per andarsene, risalendo la riva erbosa del fiume. È il momento in cui non guarda più me, perché ha lo sguardo oltre il bosco, verso la pianura – è in quel momento che scatto in piedi, gli vado addosso come una locomotiva, lo sfondo di calci, gli lego le mani dietro e lo abbatto al suolo con la pancia a terra, sedendomi sulla sua schiena. «Troppo in fretta, testa di cazzo», gli grido nell’orecchio. – «Te ne vai senza avere finito di leggere, come mi avevi promesso. Ti resta ancora una pagina. Te ne ho date tre». Il Lettore tenta di liberarsi, tappandomi le orecchie con terrificanti bestemmie. Può urlare quanto vuole, l’importante è che non si muova. Mi allungo verso le pagine che ha lasciato cadere, le raccolgo, le metto accanto a lui; gli afferro i capelli da dietro, e sollevo la sua testa come se l’avessi decapitato. «Forza. Finisci di leggere». «Non riefco. Il fangue mi cola fugli occhi», protesta lui, sputando con l’occasione un paio di denti. Gli pulisco il viso con un fazzoletto. «LEGGI». Legge. «Hai finito?» «Fì». «Riassumi». Mi riassume le prime tre pagine, tutto sommato bene, dimostrandomi che ha letto. «Bene. E sei sempre convinto che sia pesante?» «Oneftamente, fì». «Hai diritto alla tua opinione, come tutti. Ma io ho diritto a provare a farti cambiare idea, giusto?» «In queffa pofiffione, purtroppo fì». Tiro fuori dalla mia borsa il romanzo. Glielo pongo davanti alla faccia, sempre tenendogli la testa in alto per i capelli, come se l’avessi decapitato cinque minuti prima. «E allora prego, Lettore. Immergiti nel mio romanzo.

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Abbiamo tutto il tempo del mondo». In silenzio, comincia a leggere. Quando grugnisce, cambio pagina. A poco a poco smette di lamentarsi e bestemmiare, preso dalla lettura. Sento da qui lo scricchiolio dei nuovi neuroni che gli nascono. Quanto sta imparando. Che cambiamento gli sto regalando, quali nuove prospettive per la sua esistenza. C’è voluto un po’ di mano ferma all’inizio, ma è come il sesso – all’inizio tu vuoi e lei no, poi la costringi e a un certo punto lei si abitua. E alla fine riconosce – lo riconoscono sempre tutti – che era a fin di bene. Non si ha nient’altro in mente se non il vostro bene, cari Lettori

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IDENTITÀ URBANE

L'Irre

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Nicole Spallina ome d’abitudine, la Flâneuse si era alzata di buon’ora, aveva fatto colazione con un caffè nero e qualche biscotto, poi si era preparata con cura. La temperatura era abbastanza clemente da permetterle di indossare un paio di calze leggere color carne, cui aveva aggiunto una gonna nera a tubo e una camicia bianca a maniche lunghe. Si era presa tutto il tempo necessario per vestirsi, senza la minima fretta: non c’era nessuno ad aspettarla da qualche parte, a parte Parigi e le sue piccole meraviglie quotidiane. Trovava quella prospettiva elettrizzante e pregustava il piacere della mattinata che le si prospettava davanti. Aveva preso con sé la comoda borsa nera ormai segnata dall’uso giornaliero, in cui vi erano un libro da poco iniziato, il Navigò e qualche fazzoletto, successivamente aveva infilato le sue ballerine preferite e un cappotto. Era pronta per l’avventura. Quella mattina il vagabondaggio non prevedeva alcuna meta specifica, perciò la Flâneuse aveva lasciato ai suoi piedi il compito di guidarla autonomamente verso la fermata metro più vicino. Quest’ultima si trovava lungo la linea quattro, la sua preferita. Oltre ad attraversare la città da nord a sud, la quattro era caratterizzata da una registrazione dei nomi delle fermate per lei assolutamente adorabile: ogni stazione veniva 49


annunciata la prima volta con tono interrogativo, la seconda a mo’ di affermazione, e tutto ciò le provocava una gioia infantile, difficile da spiegare a parole. Era questa la ragione per cui sorrideva come una ragazzina all’annuncio dell’impostata voce maschile “Réaumur-Sébastopol? RéaumurSébastopol”. Per stabilire dove scendere, si basò su un aleatorio quanto efficace senso estetico: il grado di piacere che quel giorno le provocava all’orecchio il nome della fermata. La stazione prescelta fu Barbès-Rochechouart. Assieme a lei scese una vera e propria orda di avventori mattutini della metropolitana, i quali rischiarono di travolgerla a causa della loro fretta, completamente opposta alla tranquillità senza tempo di lei. Tutto ciò non la stupì, era abituata alla grande confusione di boulevard de Rochechouart: quando vi camminava, veniva sempre fermata per i motivi più disparati, tuttavia restava affascinata dalla grande varietà di nazionalità, colori e lingue che la investivano. Decise di non proseguire lungo il boulevard, bensì di tagliarlo verticalmente: non si sentì ispirata da boulevard Barbès a nord, perciò scelse di proseguire verso sud, lungo boulevard Magenta. Dopo qualche minuto di distratto passeggio, lo sguardo per aria verso le nuvole grigiastre, si rese conto che stava per incontrare orizzontalmente rue Lafayette, una delle strade a suo parere più affascinanti del nord della città. Non avrebbe saputo spiegare perché se ne sentiva così attratta, probabilmente dipendeva dal suo peculiare connubio di vitalità e sobrietà, ben diverso dal caos dei boulevard confinanti. La lunghezza di quasi tre chilometri era solo uno dei suoi tanti lati positivi: era un percorso perfetto per camminare in tutta serenità, respirare l’atmosfera di Parigi nord – che la Flâneuse distingueva perfettamente da quella di Parigi sud – e immergersi indisturbata nei suoi pensieri. La vita della Flâneuse poteva essere definita come assolutamente normale. Il suo lavoro era dei più comuni e ripetitivi, la sua famiglia era piuttosto semplice, il suo partner poteva tranquillamente passare inosservato. A guardarla da vicino, non era un’esistenza invidiabile o degna di menzione per chissà quale particolare elemento, tuttavia la Flâneuse l’amava esattamente così com’era per il solo fatto di essere così fortunata da trascorrerla lì dove voleva. Poteva sembrare una vita ordinaria, uguale a tante altre, ma era a Parigi. Nelle occasioni in cui si concedeva lunghe passeggiate senza scopo e

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senza meta, la Flâneuse rifioriva, usciva dal torpore quotidiano e splendeva di una luce tutta sua. Pur nella semplicità della sua esistenza, emanava così tanta energia da sembrare una creatura invincibile, superbamente magnifica. Arrivata all’incrocio con rue Lafayette, ella svoltò a destra. Trovandosi in zona, aveva deciso di fare una capatina in un luogo che apprezzava particolarmente. Aveva già percorso una distanza considerevole, tuttavia non si sentiva per niente stanca, era abituata a coprire lunghi percorsi a piedi. Le piaceva considerarlo un modo di contribuire al benessere del pianeta, il fatto di evitare mezzi privati e ridurre gli spostamenti con quelli pubblici. Ogni tanto le capitava di sentire alle sue spalle qualche apprezzamento maschile provocato dal suo passaggio, ma non vi badava mai, tranne quando veniva espressamente fermata da un qualche passante, desideroso di esprimere di persona ammirazione per il suo stile. Tali circostanze potevano anche divertire la Flâneuse, perché chiacchierava ben volentieri con chiunque il destino le ponesse davanti, però non evolvevano mai in niente di più di quel che erano: a lei interessava il contatto con la città, niente di diverso da questo. Una donna scalza le si parò improvvisamente davanti con un movimento rapido e aggraziato: era una delle tante SDF della città, una vagabonda per le strade. La Flâneuse non indietreggiò né fece finta di non vederla, si limitò a sorriderle. «Une pièce pour manger, madame, s’il Vous plaît.» «Mi dispiace, non ho denaro con me.» La Flâneuse in queste circostanze non portava mai denaro, non voleva rovinare il suo vagabondaggio con la tentazione di cedere al consumismo e comprare cose di cui non aveva veramente bisogno. «Io posso dirti quel che vuoi, sono un’indovina. Posso leggerti il futuro solo a guardarti negli occhi. Se non mi credi, te lo dimostro. Tu possiedi del denaro anche se non sai di averne con te. Cerca nei tuoi vestiti.» La Flâneuse scosse la testa e continuò per la sua strada. Le era già capitato d’incontrare delle gitane e sapeva quanto

Poteva

sembrare una vita

ordinaria, uguale a

tante altre, ma era a Parigi

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fossero abili nel mostrare di saper carpire segreti, erano brave a leggere i dettagli. Una volta aveva visitato Roma con il suo compagno: mentre si concedeva una passeggiata pomeridiana vicino ai Fori Imperiali, era stata fermata da una donna scalza, la quale senza nemmeno averla sentita parlare aveva sentenziato, in un francese piuttosto oscuro, che la Flâneuse era di Parigi. Quest’ultima ne era rimasta colpita, per quanto la magia nera non avesse sicuramente alcun legame con l’accaduto. Se c’era una cosa in cui credeva, di certo era l’incanto apparentemente originato da qualsiasi cosa incontrasse per il cammino. Era una forma di magia, quella? Una malia proveniente dal respiro stesso della città. Arrivata al semaforo, la Flâneuse attraversò e svoltò a sinistra lungo rue du Faubourg Poissonnière, per poi dirigersi in uno dei primi negozi alla sua destra. Non era forse un caso che la gitana di poco prima le avesse ricordato Roma: era appena entrata in uno dei negozi di libri in lingua italiana più belli della città, La libreria. Da fuori poteva sembrare un esercizio commerciale come un altro, piuttosto piccolo e dalla vetrina ben curata, dentro però vi era una vera e propria esplosione di volumi, da quelli perfettamente ordinati sugli scaffali a quelli ancora da sistemare, lasciati provvisoriamente in lunghe colonne traballanti al suolo. La Flâneuse aveva studiato italiano al liceo, leggeva con una certa facilità i libri in lingua originale. Le capitava di passare alla Libreria per scambiare quattro chiacchiere con la proprietaria o leggere qualche quotidiano della penisola; a volte veniva con la ferma intenzione di concedersi un romanzo, così da non perdere l’allenamento. A quell’ora il negozio era piuttosto tranquillo, perciò si dedicò a una lenta ricognizione degli scaffali e del tavolo centrale al piano inferiore, dove vi erano esposte decine e decine di volumi. La Flâneuse venne salutata gentilmente dalla proprietaria mentre si attardava su una mensola di libri di poesia. «Dia un’occhiata a questa raccolta, è di uno degli autori più interessanti del panorama italiano contemporaneo.» «Grazie.» La Flâneuse ne sfogliò distrattamente qualche pagina, affascinata dal titolo della raccolta e dalla brevità di alcuni dei suoi testi, che le fece venire in mente subito per opposizione i lunghi componimenti di Victor Hugo. Incuriosita, ne lesse

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qualcuno; lo stile impiegato era abbastanza semplice da far comprendere la bellezza delle immagini usate anche a una non madrelingua come lei. Si soffermò a lungo su una pagina quasi completamente bianca, dove dimorava umilmente una poesia lunga quanto un soffio: quattro versi, una semplice domanda. Io vengo dalla spina dorsale delle farfalle, e tu da dove vieni? ¹

Ragion per

Le piacque subito il suono delle parole, la loro chiarezza sembrava celare un incanto degno di quello suscitato dalla città. Dopo aver salutato la proprietaria, la Flâneuse riprese il suo vagabondaggio svoltando per rue de Montholon, che si ricongiungeva con rue Lafayette. I versi continuarono a risuonarle per la mente. Da dove veniva, lei? Sentendo il ritmo cadenzato del suo passo, reso rumore dal tacco consumato delle ballerine, ebbe l’impressione di condividere quell’origine così misteriosa legata alle farfalle. Questi eleganti insetti avevano come scopo nella vita il volare di fiore in fiore, allo stesso modo in cui lei si spostava di luogo in luogo per trarre piacere dalla sua. Stava di nuovo camminando lungo rue Lafayette quando venne fermata da una comitiva di turisti in vacanza per un’indicazione. Le capitava spesso di dover dare una mano a gente non del luogo: nella maggior parte dei casi sfruttava l’inglese, ma capitava che avesse occasione di servirsi delle sue conoscenze arrugginite d’italiano o spagnolo, sufficienti per farsi capire nel modo più elementare. Le piaceva anche quell’aspetto del suo vagare, il fatto di non sapere mai in che lingua dialogare con chi le capitava di ritrovarsi davanti. L’apparente mancanza di un mezzo di comunicazione, solo momentanea, la riportava in un ordine collettivo, condiviso, in cui per qualche istante tornava a essere parte del mondo. Se in generale era una spettatrice immersa nella meraviglia del flusso continuo delle cose, in tali circostanze diventava lei stessa vettore di quel movimento.

cui si limitava a vivere le sue

sensazioni

senza dare

loro un senso a parole

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Anche questo sarebbe stato difficile da spiegare, ragion per cui si limitava a vivere le sue sensazioni senza dare loro un senso a parole. Dieci minuti – e un chilometro – dopo, la Flâneuse cominciò a sentire una certa stanchezza, segno che il vagabondaggio era quasi giunto al suo termine. Diventava difficile godere appieno della bellezza intorno ai suoi occhi quando i piedi dolevano, perciò preferiva fermarsi sempre un attimo prima che fosse troppo tardi. Mentre attraversava la strada per raggiungere la fermata della linea sette Le Peletier, frugò nelle tasche del cappotto per cercare il Navigò – poiché, come al solito, aveva dimenticato di riporlo in borsa dopo averlo vidimato all’andata – tuttavia s’imbatté in qualcosa di piccolo e liscio. Le ci volle più di un minuto per estrarre l’oggetto a causa di un buco nella tasca. Era una moneta da due euro. Le venne da ridere ricordando le parole della vagabonda. Più che di magia, tuttavia, credeva si trattasse di una questione di sbadataggine. Decise di segnare quella piccola deviazione dalla norma facendosi un regalo. Giusto a qualche metro di distanza dalla stazione metro, al civico quarantacinque, vi era uno dei pochi Prêt à manger della città: la Flâneuse decise di entrarvi, pregustando già ciò che avrebbe ordinato. Cinque minuti dopo era seduta a uno dei tavoli vicino alla vetrata del piano terra, davanti a un roulé à la cannelle. Ne addentò un pezzo, incapace di mascherare il piacere che la invase: non avrebbe saputo dire se a provocarle quella sensazione fosse la croccante pasta sfoglia sotto i denti, il sapore inebriante del burro aromatizzato alla cannella oppure lo zucchero rosso. Nonostante tentasse di prolungare il delizioso pasto il più a lungo possibile, la viennoiserie terminò ben prima di quanto avrebbe desiderato, lasciandole qualche cristallo di zucchero sulle labbra, le mani appiccicose e il grembo coperto di briciole di pasta sfoglia. Conclusasi quella non pianificata parentesi dolciaria, la Flâneuse avrebbe potuto alzarsi e andarsene, non senza una breve sosta in bagno per rinfrescarsi, tuttavia volle restare seduta lì ancora per un po’, a contemplare fuori dalla vetrata la vita mentre scorreva davanti ai suoi occhi. Non aveva più nulla da mangiare né una scusa per attardarsi, se non il semplice desiderio di sentire il passare dei minuti sulla pelle, un tempo che correva via senza un senso e senza uno scopo. Erano quegli istanti lì, i suoi preferiti, poiché da lei non pretendevano

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nulla se non la sua completa devozione, rivolta al battito pulsante della città. Parigi aveva un cuore, due polmoni, vene, arterie e anima. Lei sentiva tutto. A volte avrebbe giurato che la città fosse più carne e sangue del corpo da lei stessa abitato, viveva solo quando sincronizzava il suo battito con quello intorno a lei. Poteva risultarle difficile entrare in sintonia con le singole persone, ma non accadeva mai con la città. Con quest’ultima ci poteva essere solo una comunione continua, rinnovata felicemente giorno dopo giorno, in qualunque luogo la Flâneuse si trovasse. Non era difficile dare una risposta alla domanda che i versi le avevano posto, pensò la Flâneuse mentre lasciava il ristorante per dirigersi alla fermata della metropolitana. Io vengo da Parigi. Io vivo a Parigi. Io sono Parigi

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¹ Versi tratti da Franco Arminio, Cedi la strada agli alberi. Poesie d’amore e di terra, Milano, Chiarelettere, 2017, p. 83 55



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PROMESSO

Piergiorgio Andreani luglio, ore 19.38 «Mamma, è successa una cosa.» Teresa, seduta nella poltrona su cui ormai passava le giornate, girò lentamente la testa verso sua figlia Francesca. Il suo sguardo era assente. «Mi ha chiamato Damiano, il figlio di Lorena. Lei… ha avuto un attacco di cuore poche ore fa. Non ce l’ha fatta.» La madre continuò a fissarla. L’Alzheimer in fase avanzata non le permetteva molto di più. «Passava a trovarti almeno una volta al mese. Non la riconoscevi più dall’estate scorsa, ma lei veniva comunque. Ti voleva così bene. Un’amicizia lunga una vita.» Nessuna apparente reazione negli occhi di Teresa. Francesca sospirò. Poi si alzò e si avviò verso la porta. «Beh... Faccio un salto al supermercato prima che chiuda. Torno in un lampo, così ceniamo.» «Promesso.» Francesca si fermò. Capitava sempre più di rado che la madre parlasse. «Come hai detto?» Teresa guardò verso la finestra. Non sembrava più assente, 57


ma preoccupata. «Promesso.» La figlia aggrottò le sopracciglia. «Ma sì, tranquilla, torno subito. Te lo prometto.» Ore 19.57 Quando Francesca rientrò, la poltrona era vuota. Guardò ovunque e scoprì con sgomento che la madre non era in casa. Le parve assurdo. Ormai Teresa non camminava quasi più ed era sicura di aver chiuso la porta a chiave. Chiamò i carabinieri, che mandarono una pattuglia in zona e le consigliarono, nel frattempo, di cercarla nei dintorni. Ore 23.11 In un paesino circondato da dirupi era imprudente andare in giro con poca luce, ma Francesca vagò per più di due ore dopo il tramonto, prima di tornare a casa distrutta e disperata. Telefonò a suo marito, fuori per un’escursione di due giorni col loro bambino in montagna, e gli raccontò tutto piangendo.

Promesso

6 luglio, ore 00.03 Damiano, ancora sveglio nella casa che condivideva con la madre fino a poche ore prima, sentì dei passi in giardino. Si alzò e, cercando di non fare rumore, uscì: Teresa sedeva nella veranda, con una vecchia scatola di metallo, sporca di terra, in grembo. Ore 00.05 Il telefono di Francesca squillò: lei rispose e Damiano le fece tirare il più ampio dei sospiri di sollievo. Come Teresa fosse riuscita a percorrere il chilometro di stradine scoscese che separavano le due abitazioni, per giunta senza essere vista, era un mistero. Avvertì i carabinieri e suo marito, e si precipitò laggiù.

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Ore 00.19 Francesca precedette la pattuglia di pochissimo. Ringraziò e congedò i carabinieri. Si avvicinò alla madre e le chiese cos’era successo. L’anziana non rispose, ma sorrideva come non faceva da tempo. Porse la scatola alla figlia. Lei la prese e la aprì. Dentro c’erano una bambola vecchissima e un biglietto di carta sgualcito, scritto in un bel corsivo. Lo lesse ad alta voce. «Oggi, 5 luglio 1952, io, Teresa Noto, compagna di banco e migliore amica di Lorena Costanzi, prometto che, se domani l’operazione andrà male e le accadrà qualcosa di brutto, verrò a prendere questa bambola e la farò seppellire con lei.» Damiano sorrise commosso. «Mia madre subì un intervento a otto anni. La cardiochirurgia era agli albori. Rischiò molto, ma andò tutto bene.» Poi aggiunse, rivolto all'anziana: «Teresa… grazie. Alla bambola ci penso io.» «Promesso.» rispose lei

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CAPRICCIO DEL MARE

Antonio Panico ’acqua del mare lambisce i bordi di un vecchio molo di cemento. Apostolos e Spyros sono seduti sul bagnasciuga di sassolini color argilla. Alle spalle soffia il vento che passa attraverso i pini e gli ulivi. Il clima è piacevole in quest’estate che sta finendo, il lido è chiuso e il vento, a ogni soffiata, fa stridere le amache pazientemente attorcigliate e attaccate agli alberi. Spyros e Apostolos fumano uno spinello e bevono un nescafé frappé con latte. Guardano l’acqua, le manovre delle onde che impattano sul molo, e si domandano qual è il futuro di quell’opera di cemento, adesso che non c’è nessun porto, nessuna imbarcazione da attraccare. Spyros dice che è un molo che esiste dai tempi di Pericle. Apostolos si fa uscire il fumo bianco dalle narici e ride forte: «È un porticciolo che costruirono a metà anni Settanta per le barchette dei pescatori.» I due ritornano in silenzio, l’acqua leviga il cemento a un ritmo lentissimo, mentre i molluschi sulla superficie creano, nel tempo, una decorazione anarchica e linda; un capriccio del mare. «A fare i tuffi, questo molo servirà a fare i tuffi.» Dice Spyros succhiando dalla cannuccia vuota, con la cannella che gli è

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arrivata fino ai baffi, appena accennati sulla pelle abbronzata. «Un giorno la superficie sarà troppo liscia!» lo interruppe Apostolos, «e non ci si potrà tuffare senza rischiare di rompersi la schiena.» L’acqua è trasparente, con il sole del tardo pomeriggio diventa verde smeraldo e il fondo marino sembra potersi vedere anche da lontano, dalla spiaggia dove sono seduti Spyros e Apostolos. C’è alta marea, adesso le onde si arrampicano aggressive sul vecchio molo di cemento. Il fluire e defluire del mare leviga la superficie ruvida e rapisce la fantasia dei due amici seduti sul bagnasciuga, intronati dall’hashish e dal sole che se ne scappa dietro la collina. «Se sale il livello del mare, nel giro di qualche decennio, il molo farà parte del fondale e addio tuffi, addio nottate a pescare.» Apostolos rise, ma questa volta un po’ preoccupato, come se fosse angosciato dalla sparizione di quella mostruosa opera di cemento nel bel mezzo della bellezza marina. Si tolse la maglietta e, senza dire nulla, andò a tuffarsi per poi riemergere più in là, oltre la linea immaginaria della fine del molo. Spyros ne approfittò per rubarsi un po’ di caffè, poi ritornò a guardare il vecchio molo, i maniglioni arrugginiti che resistono all’erosione, i gradoni ricoperti di gusci e alghe. «Se lo guardi bene sembra un materasso di cemento. Al centro è piegato.» Apostolos non disse nulla, si asciugò il viso con la maglietta e corrugò la fronte per verificare l’informazione. Pensò che avesse ragione. Il molo aveva una sorta di spaccatura al centro che produceva una piegatura, un incidente che non dovrebbe capitare a un’opera di cemento di tale consistenza. Poi accese ciò che restava di quella canna, non si dissero niente, ma entrambi trovarono nelle sinuosità dell’isola di Sifnos che si vedeva da lontano qualcosa di attraente, nell’odore di pino caliente qualcosa di eccitante. «E se volessimo aspettare che questo cemento ruvido diventi pietra liscia? Quanti anni credi che dovremmo restare qui?» «Buona domanda. Ma con quest’acqua così salata penso ce la caveremmo in una quarantina d’anni.» Rispose Spyros, che disse quaranta ma pensò fosse più realistico quattrocento: lo disse per non deludere il suo amico che ormai credeva nell’evenienza: all’idea di un molo inutile di pietra dolce e levigata. Adesso Apostolos osserva il moto perpetuo delle

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onde. Un’onda riporta Spyros sulla superficie. Se ne sta qualche minuto steso nella risacca e guarda il cielo che piano piano si annuvola, dice: «Le nuvole vanno più piano delle onde del mare.» «E non sono circolari.» Disse pronto Apostolos, che a fumare vicino al mare diventava più lucido e sensibile. «Io ci farei un chiosco, venderei caffè, cocktail e gelati a chi si butta dai panfili.» Incalzò Spyros mentre si scrollava le gocce d’acqua dai riccioloni induriti dal sole. «Io ci metterei una dinamite e vaffanculo molo.» Disse Apostolos raccogliendo un sasso che tirò sulla superficie di cemento, proprio nel punto in cui le onde si ritirano per ricadere nel mare. Iniziarono allora una gara che aveva come obiettivo quello di colpire con le pietre i maniglioni arrugginiti che, in un’altra epoca, erano serviti per attraccare le imbarcazioni. Nessuno dei due ci riuscì, ma fu grazie a questa gara che si accorsero di una crepa laterale nel cemento che creava quell’effetto materasso, una depressione al centro del molo che faceva intravedere un futuro di deterioramento per quell’opera. La marea era sempre alta ma le onde si erano ritirare di qualche metro. Non invadevano più il molo ma si scontravano su questo, con la spuma che dilagava sulla superficie fino a formare un laghetto all’altezza della depressione centrale. All’improvviso, nella quiete del tardo pomeriggio, si sentirono le risate di due ragazze che scendevano da un dirupo che portava alla baia. Una era mora, un’altra era bionda. Apostolos pensò che fossero figlie di qualche greco emigrato in Australia. Portavano entrambi un pantaloncino giallo e Spyros pensò che fossero piccole e sorelle, ma forse lo pensò per pigrizia o per la vergogna che provava dopo aver fumato hashish. Le tizie si tolsero i pantaloncini e si buttarono in acqua. Una aveva un costume due pezzi turchese, un’altra un pezzo unico nero che fece trasalire entrambi. Apostolos fu il primo a buttarsi in acqua. Spyros lo seguì ma senza grande convinzione; aveva la bocca secca ed era tentato di bersi l’acqua del mare. Le tizie nuotavano verso il molo, in

a fumare vicino al mare

diventava

più lucido e sensibile

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orizzontale, e ad ogni onda andavano sotto e poi risalivano ridendo. Loro due andarono invece in verticale, con la spina dorsale che usciva appena dall’acqua. Quando le raggiunsero le ragazze erano già sedute sulla punta del molo, più facile da raggiungere con l’alta marea. Le tizie muovevano le gambe come due bambine, guardavano esterrefatte il fondale e, a vedere quei due che arrivavano esausti dalla nuotata verticale risero ancora più forte: come per burlarsi degli sforzi che i maschi sono disposti a fare davanti a un paio di gambe. Le due avevano le facce delle greche ma, tra di loro, parlavano in inglese. Apostolos disse loro di buttarsi, quelle si guardarono e risero ancora di più. Poi quella di sinistra, quella che indossava il costume nero, fece loro segno di salire fino a che un’onda non urtò forte contro il molo e obbligò le tizie a mettersi in piedi. La forza dell’onda spinse indietro i due amici che si sentirono avviliti e optarono per raggiungere la riva, con una decina di bracciate veloci. Adesso le tipe stavano all’inizio del molo, in piedi, e sembravano meno divertite di prima. I cavalloni venivano giù potenti, si stendevano su tutta la superficie di cemento e impedivano alle ragazze di fare i due gradoni per arrivare alla riva. Dal bagnasciuga Apostolos urlò di tuffarsi, che non c’erano scogli, era solo un vecchio molo, ma quelle non si decidevano e, ad ogni onda che lambiva veemente il molo, sembravano poter perdere l’equilibrio. Anche Spyros disse loro che buttarsi sarebbe stato più prudente che scendere quei due gradoni, una sorta di pedana di cemento che, di notte, aiuta i pescatori a raggiungere la loro posizione. Le urla dei ragazzi e delle ragazze attirarono poi l’attenzione di un uomo sui cinquanta, con la testa rotonda e il fisico robusto. Il tizio scese da una fuoriserie nera e andò sulla spiaggia camminando a gambe larghe, come se non avesse mai deambulato in vita sua sulla sabbia. Era il padre delle tizie o di una delle due, questo Apostolos e Spyros non lo capirono. L’uomo andò verso la riva e, immergendosi con l’acqua fino alle ginocchia, allungò prima una mano a una e poi a un’altra. Una volta giù le tizie ripresero a ridere e, coprendosi la bocca, guardarono i ragazzi che nel frattempo si erano messi seduti, come quando speculavano sulla storia e il futuro di quel molo. «Chi sono quei due? Ricordatevi che i greci vogliono solo fare i Pascià.» Disse l’uomo che, a netto del suo aspetto virulento, continuava a camminare con le gambe larghe, come

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se avesse un palo in culo. Apostolos e Spyros si guardarono e senza dirsi niente camminarono verso la strada sterrata, dove avevano parcheggiato il motorino. Lungo il tragitto, a turno, esaltarono i corpi di quelle due ragazze, in una descrizione che rischiava di sconfinare nella fantasia o l’idealizzazione. Apostolos giurava di aver visto i peli neri del pube che si bagnavano sotto il costume della mora, mentre Spyros giurava che la biondina, quella con il costume d’un pezzo, avesse un culo di un marmo delicato, levigato durante anni dalle onde del mare. Risero, contenti ed eccitati diedero qualche colpo di clacson che, a quell’ora della sera, tagliò tutta la campagna. Da lontano Sifnos sembrava una donna dalla schiena dritta e i seni solidi, imperturbabile nella burrasca che soffiava sopra le Cicladi. Spyros e Apostolos avevano le facce rivolte verso il mare che si gonfiava, sulla cui superficie si vedevano le creste bianche delle onde scomparire qualche secondo dopo essere nate. Pensarono al movimento delle onde, a come la tempesta accelerasse quel moto di presenza e assenza. Poi una fuoriserie, forse la stessa dove viaggiavano le ragazze, sorpassò il motorino. Dai sedili posteriori videro quelle gambe bianche affusolate, i piedini appoggiati ai finestrini; dallo stereo suonava Mi mou xanafýgeis pia a massimo volume e loro dietro, attaccati al cofano che quasi sbattevano, a godersi i loro sogni levantini; le aspirazioni da Pascià che si alimentano davanti al mare

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VITE

L'Irre

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Grazia Palmisano Illustrato da Chiara Romagnoli ioveva. Piove sempre quando incontro qualcuno che mi rovinerà le giornate. Ma si rovinano in ogni caso, anche col sole. Tu sole non eri. Vite su vite e giri infiniti. Parlavamo, l’aldilà, l’al di qua, il presente, il futuro, spin rotazione atomo ione, sentivo l’ascensore poco lontano da noi, parlavamo, gli altri salivano e scendevano, noi fermi, io giravo. Uno pneumatico gira e ci annoda, ci fa scivolare sul lastricato tempio del bere in compagnia. Oggi ho solo il battistrada che mi sfinisce con l’impronta di un te che nemmeno so cosa sia, o dove sia, fra gocce di uva fermentata. Abbiamo provato a incontrarci, eri arrivato di corsa, quattro ruote, una carrozzeria, l’auto nuova di zecca. Io scendevo da un pullman. Un inizio di fiamma, una fine da freezer. Aria terra sole pietra, gira intorno il mio bel mondo. Mi frana la testa, mi si squamano i pensieri, si frantuma il decimo incanto del tramonto. Dieci giorni è durata. Anche tanto, non ci si crede. Di solito due ore mi bastano per dire fine, stop, grazie tante, arrivederci a mai più. Ma come si dice, tu eri tu, un velo di splendore. Che cazzo di romanticismo. Sai che cercavo in te? Niente, proprio niente, ma in me cerco e 67


non trovo e penso ogni volta che un altro, chissà, vedrà sentieri di me e me li indicherà. Finisce invariabilmente in passeggiate con la mia ombra, su catrame scrostato, fra buche e marciapiedi affollati. Così tanti mi sfilano accanto, affogo nel niente, non mi vedono, la mia pozione ha un’efficacia precisa, acuta, puntigliosa. Svanisco nei bus, nelle corsie dei supermercati, nelle code agli sportelli, mentre supero un cane più solo di me, bloccando un tornello con l’abbonamento che ha il microchip smagnetizzato. Non c’è niente di sbagliato in loro, in te, in quel battistrada, è solo che la mia vite gira senza fine, è difettosa all’origine. Non tiene insieme né il compensato né il ferro, è una vite di acciaio pressofuso ma lo stampo non serviva per quello. Scappai da lì e dove sia finita lo volevo sapere da te, dalle tue quattro ruote a velocità folle in autostrada, dalle tue mani sul volante e dalla musica paralizzante che ascoltavi. Io la subivo, mi scaraventava contro il sedile, mi sezionava sciogliendo i miei ghetti di sughero. Diventavo di latte, scappavo dal sedile, finivo sul tappetino. Tu frenavi, e vedevo l’autogrill. Prima di uscire ti spettinavi, spazzolavi i capelli per scompigliarli, non ti piacevano le cose ordinate, dicevi. Bevevo il caffè e diventavo un cappuccino, morbido e goloso, come piaceva a te. Alfredo, ti chiamavi così, e io quando ti conobbi subito pensai alla canzone di Vasco, colpa di Alfredo. Aveva ragione lui, è colpa tua, correvi troppo, non si guida in quel modo, troppo veloce per poterci davvero schiantare ed è finita che siamo arrivati al casello. Sani e salvi. E’ colpa tua se adesso la vite gira troppo, si è spanata, niente è più correttamente sbagliato come prima, adesso non capisco più gli errori, non riconosco più le falle, mi sono persa in un noi fessurato di ruggine liscia. Io e la vite, conosco, capisco. Ma noi non lo so, rumori, dolori, crepacci, bordi sfilacciati, suole deformate, gambe accavallate, denti otturati, noi, due cose diverse. Il problema è la guida, quel filetto un po’ storto, in obliquo, un’unica cosa da fare. Ora giro e ti vedo, non sei tu, ma ti vedo. Ritornello infinito di negata presenza, giocoso terrore seghettato sui bordi •

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L'Irre

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IL FIGLIO SBAGLIATO

Daniele Israelachvili ono da poco passate le otto quando la porta di casa si apre. Non fa in tempo a riprendere fiato che il figlio si sta già arrampicando sulla sua gamba. Dopo avergli messo il ginocchio in faccia si dà una spinta e oplà, eccolo sulle sue spalle. Hanno appena iniziato ad andare al galoppo, in giro per la casa, quando lei esce dal bagno. È completamente nuda, a parte un asciugamano che le avvolge i capelli. Prima di entrare in camera li guarda di sfuggita, giusto il tempo di dirgli di metterlo giù perché è in castigo. Anche dopo essersi abbassato per farlo scendere, dalla camera continua ad arrivare la voce di sua moglie, come un mugugno continuo, incomprensibile, ma lui sta già pensando ad altro. Ancora una volta lei ha in testa il suo asciugamano, anche se sa benissimo che lui non sopporta quando, dopo essersi asciugato le mani, quei lunghi capelli gli rimangono attorcigliati tra le dita. Forse un giorno si lasceranno per un motivo banale come questo, pensa. E sorride, come se si trattasse della vita di qualcun altro. Il figlio grida: Veni papà, veni giochi nani. Papà arriva, risponde lui dal salotto, mentre si toglie le scarpe. Alza la testa e se lo 71


ritrova accanto con sette nani di plastica, alti come un bicchiere, stretti tra le braccia. Lo sai che papà prima di venire a giocare deve togliersi i vestiti. Papà ciuff–ciuff! gli ribatte mentre corre avanti e indietro perdendosi per strada Gongolo. È convinto che il padre trascorra le giornate guidando il treno perché ogni mattina, prima di lasciare il figlio all’asilo, la moglie gli dà un passaggio in stazione e un po’ per gioco, un po’ perché lui odia fare il pendolare, gli ha lasciato credere che quello sia il suo lavoro. Così forse, quando non sono insieme, ogni volta che sente passare un treno, penserà a lui. È pronto! ordina la mamma dalla cucina. Smettono di giocare e il padre lo porta a lavarsi le mani. Una volta davanti al bidet vuole fare da solo, ma riesce soltanto a schizzarsi del sapone liquido sui pantaloni e a bagnarsi le maniche della maglia. Il papà allora lo sveste, passa i vestiti a terra per asciugare e lo accompagna in camera a cambiarsi. Mentre sono a tavola lo guarda, seduto nel seggiolone con il cucchiaio in mano, tutto concentrato sulla sua pastina e solo in quel momento gli torna in mente la bambina.

si era chiesto se Dio non avesse

Se dopo alcune fermate non si fosse andato a sedere, vedendo che si era liberato un posto, probabilmente non avrebbe neanche incrociato il suo sguardo. Occhi parcheggiati in doppia fila, in attesa che qualcuno torni a spostarli. Una specie di collare di metallo le teneva su la testa mentre le mani sembravano abbandonate, come naufraghi, su un vassoio trasparente fissato alla carrozzina. Mani che non avrebbero mai potuto sollevare un cucchiaio.

sbagliato a mandarci il figlio

Non riuscendo a sopportare quei due occhi fissi su di lui, si era girato per guardare fuori. Poi, pensando che fosse come ammettere che gli facesse pena, si era voltato nuovamente e le aveva sorriso. Nessuna reazione, solo un viso muto e la spiacevole sensazione di sentirsi un idiota, come chi si accorge dallo sguardo di un passante di parlare da solo. Così si era messo a osservare i genitori. Vestita di nero e con i capelli nascosti da un velo, la madre non la finiva di parlare, mentre il marito le sedeva accanto in silenzio, enorme e immobile come una grande pietra. Dopo un po’, come se un incantesimo l’avesse riportato in vita, si era animato e aveva allungato una mano per pulire la bocca della figlia.

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D’un tratto aveva sentito il bisogno di prendere aria. Così, mentre i genitori si preparavano a scendere, non aveva potuto a fare a meno di alzarsi e, nonostante mancassero ancora due fermate alla sua, si era ritrovato sulla banchina insieme a loro. Dopo avere incrociato lo sguardo del padre si era acceso una sigaretta, giusto per sembrare occupato. Poi tutti e quattro si erano avviati. Arrivati davanti a un portone, dopo aver messo una mano nella borsa, la madre aveva tirato fuori un mazzo di chiavi. Poi il padre aveva girato la carrozzina ed era entrato di spalle, lentamente, come se fosse sul ciglio di un burrone. L’ultima cosa che era riuscito a vedere, prima che il portone si richiudesse, era la donna che saliva le scale. Sarebbe voluto entrare ma non poteva, e poi a fare cosa, si era chiesto, e allora era rimasto lì, immobile, a domandarsi come avrebbe fatto il padre a portare su la figlia, se nel palazzo c’era un ascensore o se era costretto ogni volta a prenderla in braccio. Sapeva che doveva rientrare a casa, dove l’aspettavano per cena, ma non riusciva a separarsi da lei. Era come se avesse paura di dimenticarla, sotto il peso della quotidianità, come uno qualsiasi di quegli articoli di cronaca nera che gli toccava scrivere per vivere. Si era seduto a terra, appoggiandosi al fianco di una macchina, trascinato via da una catena di pensieri, fino a quando, alzando lo sguardo oltre le case nel punto da cui sembravano giungere quei rintocchi, si era chiesto se Dio non avesse sbagliato a mandarci il figlio, con le sue parabole e i miracoli, al posto di quella bambina. La figlia di Dio che non parla e ci osserva in silenzio. Lei sì, così simile al padre. Un mondo dove al posto delle croci e delle scritte in latino avremmo avuto milioni di bambine, sedute su una carrozzina, che ci fissano, con il loro viso muto e le mani senza vita, dai tetti delle chiese, dai muri delle scuole, mentre dondolano dagli specchietti delle macchine; bambine con un collare di metallo in attesa di una preghiera, al buio nelle tasche dei portafogli, o al freddo lungo i sentieri di montagna… Un rumore lo aveva fatto trasalire. Poco dopo era uscita dal portone del palazzo una signora, con un cagnolino in mano, che aveva fatto solo pochi passi per poi tornare indietro a domandargli se stesse bene. Lui si era alzato, aveva sollevato la borsa e, una volta sfilato il cellulare dalla tasca per vedere l’ora, aveva abbracciato con lo sguardo, per l’ultima volta, le finestre del palazzo, le case attorno e poi di nuovo su, fino al campanile della chiesa, prima di incamminarsi e, solo dopo aver girato l’angolo, si era messo a correre

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LETTERA

L'Irre

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Alessandra Cella

E se la lettera che ti ho scritto la bagnasse la pioggia e la pioggia fosse battente non sottile come le mie insinuazioni ma irriverente come le mie invettive tu non potresti mai cogliere il senso del mio dolore in una macchia indistinta di inchiostro che ti farà comodo interpretare a tuo piacimento.

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L'Irre

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DI NUOVO ADELE

Stefania Maruelli rrivata mi sono seduta all’ombra dell’olmo. Non riuscivo più a stare a casa, Anna Clara piangeva dalle quattro, lei si accorge anche nel sonno quando sono nervosa e piange, piange, piange. Non so come fare quando inizia e non vuole smettere, Cesare lo sa e l’ha presa, ha iniziato a cullarla, lui è così: accudente, paziente, doveva nascere madre, io non sono mai stata capace. Me ne sono accorta subito, dal primissimo istante, appena ho sentito il suo pianto, appena me l’hanno messa in braccio e mi hanno detto ecco questa è Anna Clara, che bella bambina. Subito ho provato una fitta di gelosia nelle ossa e quando si è attaccata ho sentito che mi stava succhiando via la giovinezza, la bellezza e ogni possibile felicità insieme a quel latte annacquato. Non avevo mai avuto seno e ne avevo orrore, ero diventata volgare, dozzinale, come le altre. Adesso Anna Clara me lo avrebbe svuotato quel seno, mi avrebbe svuotata dopo avermi riempita e finalmente sarei potuta tornare quella di prima, quanto tempo ci vorrà, sarei potuta tornare me, Adele. Cesare mi ha fatto cenno col braccio libero, quello con cui non la teneva, era quel movimento che voleva dire di andare a prendere aria, di farmi un giro, il suo sguardo era fermo per contrapporsi alla mia agitazione, rassegnato, a volerlo guardare 77


bene, ma io non volevo guardarlo, avrei voluto esserne capace, avrei voluto annuire che era passata, invece sono uscita dalla stanza, ho approfittato della sua indulgenza, e mentre lui camminava avanti e indietro per il corridoio mi sono infilata il cappotto sopra la camicia da notte, le scarpe, le prime che ho trovato, ma mentre uscivo mi sono fermata sulla soglia, la mano già alla maniglia, e sono tornata indietro, ho imboccato le scale che portano sopra e in camera sono andata alla toeletta, ho aperto la scatola e l’ho trovata, era come la ricordavo, l’ho messa in tasca, richiuso la scatola, la porta della camera e rifatto le scale di corsa. Cesare mi ha guardata appena, avrà pensato che avessi infilato un maglione o tentennato, cambiato idea e invece no, sono passata accanto a lui e Anna Clara che già aveva smesso di piangere e anziché fermarmi perché non piangeva più sono uscita, ho preso il vialetto di ghiaia e aperto il cancello. L’ho richiuso dietro di me con troppa irruenza, ma già stavo meglio, già riuscivo a respirare, ho aspettato di essere lungo il fiume e allora ho infilato la mano nella tasca del cappotto e l’ho toccata, era lì. Mi sono detta che sarebbe stato meglio comunque aspettare, era più prudente, e così ho fatto, ho camminato fino alla spiaggetta, qui mi sono tolta le scarpe, dovevo bagnarmi i piedi, è l’unica cosa, appena ho infilato i piedi in acqua sono stata meglio anche se ancora potevo sentire il pianto di Anna Clara e vedere la rassegnazione nello sguardo di Cesare. Allora ho tirato su un poco il cappotto, fino alle ginocchia, e ho camminato con l’acqua che mi arrivava ai polpacci e dopo molto camminare sia il pianto che lo sguardo erano del tutto spariti. Così mi sono fermata, ho frugato in tasca e ho preso la collana: alla luce dell’alba la giada aveva delle venature di ruggine che non avevo mai visto, l’ho messa. Uscita dall’acqua ho sfregato i piedi nella sabbia, ne ho presa una manciata e me la sono passata sulle gambe per farle asciugare, ho riso perché avevo gambe bianchissime adesso e chissà se i capelli erano ramati, non avevo niente con cui specchiarmi, ero uscita di casa così, senza borsetta, come una che esce un momento, solo che ho camminato prima fino al fiume e poi fino all’olmo. Qui ho aspettato, ma non avevo niente da aspettare perché lui non poteva sapere che ero lì, per saperlo avrebbe dovuto sentirmi, ma io avevo fatto piano, nessun rumore, o

Basta un

pensiero che vola nell’aria

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vedermi, ma l’olmo era almeno a venti metri, anzi di più, cinquanta, credo, dalla casa. Allora dovevo decidere se fare qualcosa per farmi sentire o vedere e alla fine mi sono detta di no, di non fare niente né per farmi sentire né per farmi vedere. Basta un pensiero che vola nell’aria. E così sono rimasta appoggiata all’olmo, la schiena contro la corteccia, aspettando immobile che lui capisse e arrivasse, chiedendomi come sarebbe stato rivedere quei suoi occhi grigi o trasparenti a seconda della luce e quella bocca di denti storti, sentire di nuovo quel suo odore di cane. Poi ho smesso di chiedermelo e anche di sperarlo per potermeli solo immaginare, quei suoi occhi e quella sua bocca di denti stortissimi, chissà da dove gli arrivano, da quale madre o padre o antenato, e sono rimasta lì a figurarmelo alla finestra, appena sveglio, a pochi metri da me, quanti non saprei dirlo alla fine, e la mia schiena era ormai corteccia e la mia mano sgranava la collana una pietra alla volta, e a ogni grano di quel mio rosario mi dicevo vieni, no non venire, corri subito qui, no, correre non sarebbe da te, capita, no, non capitare, arriva facendo qualcosa che già dovevi. Ma se fosse arrivato cosa mai avrei potuto dirgli, che stavo solo riposando, prendendo fiato, che ero stanca e così ho camminato prima fino al fiume e poi dentro l’acqua e poi fino a lui? No, c’era da sperare che non lo facesse, che non arrivasse, perché non c’era nessuna scusa plausibile, nessun pretesto valido, lo sapevo bene, e tuttavia continuavo a restare, ad aspettare di sentirlo arrivare, di sentire quel suo odore di cane. Mi sforzai di riprodurlo nella mia mente, ma non riuscivo, e allora infilai una mano nella terra, scavai con le unghie e le annusai, ma la terra non aveva il suo odore. Adele, come sei sciocca. Mi voltai e percorsi con lo sguardo il profilo della casa dei frati: una cascina senza poesia, costruita solo per stare in piedi, prima non me ne ero mai accorta. Sollevai una mano e mi accarezzai il collo, chissà se dalla finestra lui mi poteva vedere, il solo pensiero mi faceva sorridere. All’ombra dell’olmo era violenta e dolcissima la malinconia del suo non arrivare. Intanto il pianto di Anna Clara era sparito del tutto, lontanissimo ormai, restava un suono verde, di clorofilla, e io ero di nuovo Adele •

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INFERNO TRIP

L'Irre

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Isabella Ballarini Illustrato da Vera Taccani vviamente, per andare nella Tana della Bestia bisognava pagare. Salato. Mica ci si poteva presentare dalla Bestia come pezzenti, con le toppe sul culo e il cappello tra le mani, eh. Il Bosso non avrebbe mai permesso una cosa del genere. Lui liquidava gli spilorci in un attimo, sbattendoli fuori dalla sua grazia con la stessa tranquillità con cui si fumava un sigaro. Per essere accettati bastava poco. Un anello di quelli giusti con oro diamanti e tutto - valeva un biglietto immediato per il bus. Anche i contanti sfuggiti ai controlli della polizia andavano bene: pericolosi sì, ma non si sputa mai sul vile denaro. Un dente d'oro tenuto sul palmo della mano poi era perfetto: ci si presentava davanti al Bosso col molare in bella vista e lui annuiva subito. Imbarcarsi sull'autobus era facile. A patto di avere la grana. E Mister Miriam, modestamente, aveva messo da parte un bel gruzzolo. Risparmi che avrebbe dovuto usare per il futuro, per se stesso, per qualunque cosa, ma non per la Bestia. La Bestia doveva essere lasciata in pace, là, nel mondo perduto nel quale si trovava. Mister Miriam aveva scelto diversamente: era uscito di casa, era saltato sulla macchina, aveva abbandonato il paese in 81


rovina portando con sé tutti i soldi che gli erano entrati nelle tasche. E si era lanciato nel vuoto senza paracadute. Un matto, in pratica, com'erano matti tutti gli altri. Arrivò là con la borsa piena di contanti, un bagaglio talmente gonfio da dare nell'occhio in modo incredibile. Si presentò davanti agli uomini del Bosso, aprì a fatica il borsone. Questi sono i... Soldi, avrebbe voluto dire, ma non riuscì neanche a finire la frase: la borsa gli venne scippata all'istante e spalancata davanti a lui; gli uomini del Bosso guardarono dentro, tirarono fuori più denaro di quanto avessero preventivato in precedenza. «Va bene, merda. Puoi salire» dissero ributtandogli il borsone addosso. Mister Miriam mormorò un grazie, come se fosse felice di essere stato chiamato merda. Si diresse verso il bus barcollando, perché la strada in quel punto non era più nemmeno una strada: era uno sterrato fatto di polvere, sassi, buche che avrebbero fatto inciampare chiunque. «Non così in fretta, merda» gli gridarono dietro. Miriam si voltò. Non ebbe nemmeno il tempo di dire un semplice eh: gli uomini del Bosso lo accerchiarono, gli tapparono gli occhi con una benda, strinsero così tanto che Miriam barcollò, vinto dalle vertigini e dal nodo che premeva proprio sul cervelletto. Lo spinsero sul bus con una manata: Miriam andò dritto contro il tale che gli stava davanti. Trovò a tentoni un sedile, ci si sistemò sopra. Respirò a fondo, quando sentì il bus partire. Il mondo della Vera Guerra non era più quello che un tempo l'umanità aveva chiamato casa. Niente ricordi, né testimonianze di un passato che pareva non essere mai esistito sul serio. Era il tempo degli edifici che crollano, dei pazzi vestiti di stracci che vengono su dal deserto. Là, dove anche l'ultima memoria presto sarebbe andata perduta e tutto sarebbe stato barbarie. Il bus andò per strade che dovevano aver visto tempi migliori: percorsi pieni di curve, mulattiere, buche che facevano sobbalzare tutto, anche il fegato. Miriam veniva spinto di qua e di là come un pupazzo a molla. A ogni frenata faceva un salto in avanti contro il sedile di fronte. Scusate, diceva aggiustandosi la benda. Gli altri Ospiti dovevano essere messi anche peggio: si sentivano mugugni, qualche urlo strozzato. Devo andare in bagno, disse una voce.

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Il freno a mano venne tirato di colpo. Il bus fece un balzo così potente che più di un Ospite rotolò giù dalla sua sedia e finì sul pavimento. Miriam si sentì afferrare da mani possenti che lo costrinsero a rimettersi in piedi. Giù, disse una voce. Venne spinto dal bus con forza. Cascò per terra, la polvere gli entrò in gola. Lui cominciò a tossire. Una merda sta male, disse una voce. Tutti là intorno risero. Non era un bel mondo, sul serio. Ma era l'ultimo mondo rimasto e Miriam si rimise in piedi a fatica. La benda gli venne tolta di colpo: la luce lo costrinse a sbattere le palpebre più volte, per far ritornare la vista com'era prima. Là davanti c'era il palazzo: decorazioni, piastrelle, marmo, gradini pazzeschi all'entrata. Mister Miriam rimase fermo, la borsa coi contanti in mano, la gente accanto a lui con la bocca aperta perché quel posto lasciava sempre senza parole. Una delle ultime case intatte... disse una voce in mezzo alle altre. «Venite avanti, branco di stronzi!» gridò uno degli uomini con le scarpe a punta. Loro erano là, ai lati del palazzo, su per le gradinate, affacciati alle finestre. Vederli faceva sempre uno sporco effetto: i loro stivali erano rinforzati sul davanti e finivano dritti come uno stiletto, armi che se ti beccavano in culo allora sì che potevi dire addio alle chiappe. Scesero dalle loro postazioni con la rapidità di un animale, saltando giù dai davanzali, venendo fuori da ogni anfratto. Si piazzarono accanto alla folla, gli occhi fuori dalle orbite, l'aspetto feroce, le facce che parevano incazzate anche se sorridevano. Assunti dal Bosso per controllare che gli Ospiti, una volta entrati, non cambiassero idea e se la dessero a gambe come coglioni per tutto il palazzo. «Muovetevi, merde» disse l'uomo di prima. Tutti passarono sotto gli intarsi della volta, tra le statue che parevano d'oro, il marmo bianco, le colonne talmente alte che ancora un po' sfondavano il soffitto e andavano direttamente nello spazio. Entrarono in una grande stanza e Kaios si fece avanti a braccia spalancate. La sua giacca dorata brillava sotto i

Non era un

bel mondo, sul serio. Ma era l'ultimo

mondo rimasto

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lampadari di cristallo in modo persino fastidioso. Benvenuti, Ospiti, disse. Lui era il fedelissimo. Il diletto. Capelli neri, cicatrice sulla faccia, cravatta di seta e una spilla, Cielo, una spilla che a guardarla bene era tutta un unico diamante. Kaios: si diceva che il Bosso l'avesse raccattato dalla merda più totale, portato via da stracci, miseria, elemosina e ne avesse fatto il suo uomo migliore. Si dicevano tante cose e lui non smentiva né confermava nulla. «Siete pronti per la Bestia?» esclamò. Andarono giù per le scale. Kaios faceva strada e la discesa agli inferi era totale: buio e gradini giù, più in basso del basso, luci deboli e corridoi sempre più stretti. Mister Miriam andava avanti col borsone in mano, le labbra tirate sul volto e il sudore che gli colava lungo il collo. Arrivarono in un piazzale sotto il palazzo: cemento per terra, poche luci alle pareti. Era quella la Tana? Mister Miriam strinse le palpebre, perché i faretti là erano bassi, bassissimi, difficile vedere qualcosa. Il ring rettangolare era immerso nel buio, circondato da luci che non rischiaravano un bel niente. Le maglie della rete brillavano debolmente, colpite a tratti dal chiarore. «Com'è che ti chiami?» chiese Kaios. Mister Miriam si voltò di scatto: non si era accorto di avercelo accanto, l'uomo migliore del Bosso, in tutta la sua altezza e con tutta la sua brutta faccia. «Miriam.» «È un nome da donna.» «È il cognome. Il mio nome è Gi...» La sala s'illuminò di colpo. Mister Miriam si portò una mano sugli occhi per riparare lo sguardo. Una voce potente salì da un microfono e si sparse tutto intorno. Volete vedere la Bestia? gridò. Non si capiva chi stesse parlando: un presentatore, uno degli uomini con le scarpe a punta, oppure... Volete la Bestia? E la gente tutta a urlare, un unico boato che copriva ogni altro pensiero. Bestia, Bestia, Bestia, si sentiva dappertutto. Miriam si passò una mano tra i capelli biondi. La gente tirò fuori il denaro e Kaios intascò come un registratore di cassa. E non solo soldi: catene d'oro, fedi matrimoniali, maiali salvadanaio con dentro i risparmi, dentiere coi denti ancora attaccati... Mister Miriam tirò fuori i

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suoi contanti e li sventolò in aria. Se li sentì strappare via dalle mani in un attimo, non riuscì nemmeno a capire se a prenderli fosse stato Kaios o qualcun altro. Gli venne dato un biglietto con la scommessa. Su chi aveva puntato? Sulla Bestia, ovvio. Si puntava sulla Bestia a prescindere, se si aveva voglia di intascare qualcosa. «E adesso» gridò la voce «un applauso per i nostri Eroi!» Il ring si illuminò ancora di più: un bagliore forte, un'esplosione di luce. E là, in mezzo al chiaro, apparve lui. Immenso: una testa a palla, un corpo gigantesco che ondeggiava avanti e indietro, muscoli anche nelle orecchie, piedi che battevano a ogni passo e facevano saltare gli spettatori delle prime file. Mister Miriam si portò una mano sulle labbra per nascondere lo stupore. «Guarda che quello è lo sfidante» disse Kaios. Miriam spalancò gli occhi chiari, perché quella notizia gli era arrivata addosso come un pugno. «Non te lo aspettavi, eh?» ridacchiò Kaios. «Ecco. Quello è la Bestia.» E là, sopra il ring, tra le urla e le luci e tutto, c'era un uomo. Normale. Altezza media. Braccia come se ne vedevano tante. Gambe magre. Un nano, in confronto alla mostruosità di prima. Miriam aveva le labbra aperte sul serio, ora. Perché aveva scommesso su di lui, merda, e invece la Bestia, come lo chiamavano, era un mingherlino del cazzo. «Maracus lo Sterminatore!» gridò la voce dal ring, «Eroe della Vera Guerra. Figlio delle Ultime Metropoli. Centottantanove chili di muscoli, due metri e dieci di altezza. Un urlo per lui!» Grida, braccia alzate tutte insieme, occhi fuori dalle orbite. Solo Miriam se ne stava fermo in mezzo alla folla, gelido come una statua nella gloria. «Alla vostra destra, la Bestia! Un metro e settantasette centimetri, settanta chili. Nostro Eroe. Signore della lotta. Guerriero delle Terre Perdute. Urlate per lui!» E le grida e la follia e l'estasi. E c'era di tutto, là in mezzo: professionisti dell'azzardo con gli occhiali da sole anche di notte, principianti arrivati lì per lasciarsi alle spalle la vita, la famiglia, il cane, i ricordi, tutto, tutto, anche l'anima. E uomini finiti lì per curiosità, per caso, per denaro, perché il mondo mangiato dalla Vera Guerra si era lasciato dietro macerie e strascichi senza confini. Maracus lo Sterminatore alzò le braccia e poi le lasciò

Ecco.

Quello è la Bestia

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ricadere. Fece partire un urlo potente che attraversò l'aria e passò sopra alle grida della folla. Miriam era bianco in volto: aveva paura che i suoi soldi non sarebbero più tornati indietro. Si passò una mano sulle labbra. Lo Sterminatore si lanciò contro la Bestia con il pugno sollevato, come se fosse una bestia pure lui. Morte al nemico! gridò. Ma la Bestia era agile: piccolino sì, ma se decideva di scappare era una scheggia. Saltava intorno all'avversario, le mani senza guanti, i pugni nudi coperti da nastri di stoffa legati stretti. La sua faccia da pazzo pareva più cattiva ogni minuto che passava. Tirò un destro che beccò lo Sterminatore nello stomaco. Tutti sussultarono, perché il colosso sputò sangue. E Mister Miriam là, più bianco del bianco, col pugno stretto che imitava inconsapevolmente i colpi dati dalla Bestia. «E non hai ancora visto niente» disse Kaios. Lo Sterminatore alzò la faccia al cielo: le luci lo illuminarono come una visione mistica. Lanciò un grido in aria, da animale ferito. Mondo matto. Mondo perduto. Figli della Vera Guerra. E Mister Miriam cominciava a sentire nelle vene il sentimento pazzo che accomunava tutti. Scorreva là, nel sangue, sotto la pelle, prendeva le budella, strappava via il cuore, un senso di estasi, un ritorno all'animale che faceva a pezzi la civiltà e dava forza agli istinti più brutali. Lo Sterminatore tirò un pugno. Beccò la Bestia in faccia. E gli spaccò naso, labbra, tutto. Sangue ovunque: sul ring, sui muscoli che non c'erano, sulla gente in prima fila... La Bestia volò a terra e finì la sua corsa sul pavimento, due, tre, quattro giri a rotolare come una sfera sul ring. Là, rotto, accanto alla rete di protezione, davanti agli occhi esaltati della folla. «Sai perché lo chiamano Bestia, uomo col nome da donna?» chiese Kaios. Miriam non rispose. Guardava quel ragazzo a terra, quella Bestia che non doveva avere più di venti-venticinque anni, frutto perfetto delle Terre Perdute, e pensava una cosa soltanto: merda. «Perché è pazzo» concluse Kaios. La Bestia si aggrappò alle maglie della rete. Le sue dita persero la presa più volte, scivolando come se tutto fosse coperto di burro. Alzati, gridò qualcuno. La Bestia si rimise in piedi a fatica, tra urla e voci che gli intimavano di tirarsi su o di rimanere a terra a seconda della scommessa fatta. Barcollò per

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qualche istante nel tentativo di recuperare l'equilibrio. E rimase lì, con una mano appoggiata alla rete, a respirare con la bocca aperta, il sangue che gli correva dal naso e arrivava sul mento, sul collo, sul petto. Vai, Bestia! urlò Mister Miriam. «Quello lì ci fa fare un sacco di soldi» disse Kaios, «perché non si arrende. Guardalo: lo massacrano e lui è sempre in piedi. Ha una forza di volontà che rasenta la follia». La Bestia gridò. Anche l'avversario urlò. Si scagliarono l'uno contro l'altro, tutta la potenza protesa in avanti, nei pugni, nella foga, nella guerra. Miriam aveva i capelli appiccicati alla fronte e non riusciva a distogliere lo sguardo dal ring. La Bestia non sentiva i colpi. Li prendeva, gli facevano male, ma non li sentiva. Lui era altrove. Nella follia, nel passato che non c'era più, nel deserto. «Tutti gli uomini delle Terre Perdute agiscono per niente» disse Kaios. «Né ideali, né lotta, niente. E noi abbiamo trovato il modo di sfruttare quel niente. Finché dura.» Sfruttare il mondo. Spremerlo finché darà succo. Avevano un bel modo di vivacchiare alle spalle degli altri, il Bosso e i suoi seguaci. Uno dei tanti metodi saltati fuori dopo la fine del mondo, per sopravvivere tra le rovine. La Vera Guerra era stata la peggiore di tutte. Mai l'umanità si era trovata davanti a un abisso simile. Niente bombe dal cielo, né feriti sulle strade, né cippi per commemorare i morti. La Vera Guerra era arrivata in silenzio, uno spegnersi naturale senza spiegazioni. Si era posata sulle sorti del mondo senza lasciare cicatrici, in modo talmente discreto che molti l'avevano scambiata per semplice assestamento del progresso. Ci si accorse della Guerra tardi, quando il terrore che qualcosa fosse andato storto era ormai troppo grande per poter essere ignorato. Qualcuno osò chiedersi cosa succede? Qualcun altro rimase perplesso. Molti pensarono di essersi sbagliati, perché il mondo all'apice della propria civiltà non poteva andare a rotoli così. Eppure il futuro fosco, la ricerca ossessiva della libertà, della gioia, del piacere senza senso erano lì. Bastava aprire gli occhi e guardarli. La perdita della memoria, il divertimento infinito che si faceva regola, lo spirito sempre più lontano... La Vera Guerra mostrò da subito la sua faccia più nera.

Sfruttare il mondo.

Spremerlo

finché darà succo

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E il mondo andò avanti come se nulla stesse accadendo. Spaventato sì, ma pieno dell'illusione che prima o poi tutto sarebbe ritornato indietro, andando a posto da solo in un incastro perfetto. Il resto era stato ferocia pura. La distruzione si portò via tutto, tutto. I monumenti vennero giù, ridotti in polvere sulle strade. I grattacieli si spaccarono sotto il peso dell'incuria. Andarono perse le città, le periferie. Le Ultime Metropoli caddero, dimenticate da gente senza memoria. La polvere si posò sulle croci, sulle strade. Ricoprì le case, l'asfalto secco, rese arido ogni cammino. Senza più limiti né confini, gli uomini viaggiarono da soli tra palazzi distrutti, rovine vuote, antenne spezzate ai lati di strade deserte. Persi in un mondo che non riconoscevano più. Figli di una libertà senza scopo. «Non sappiamo chi abbia fatto tutto questo» disse Kaios. «Non sappiamo nemmeno perché sia successo. Sappiamo che c'è, però. E che ci è utile. Li vedi, tutti quanti? Non sanno niente, non ricordano niente. Si lasciano manovrare perché sono vuoti. E più sono vuoti, più diventano utili.» Mister Miriam non ascoltava più: fissava con insistenza il ring e la Bestia su cui aveva scommesso tutti i suoi risparmi. Maracus lo Sterminatore vacillava: la Bestia gli girava intorno e colpiva prima che l'altro riuscisse a capire da dove arrivassero i colpi. Uno nella schiena. Uno nello stomaco. La Bestia spiccò un salto e arrivò addosso all'avversario, lo afferrò per la testa tonda, gli tirò un pugno dritto nel cervello. E finalmente lo Sterminatore andò giù. Un enorme pioppo abbattuto contro ogni previsione. Per un attimo calò il silenzio. La gente rimase là, in attesa che accadesse qualcosa: un colpo di reni, la vittoria non ancora scritta. Ma Maracus lo Sterminatore non si rialzò. «Il vincitore!» gridò la voce sul ring. «Lui, Nostro Eroe delle Terre Perdute!» L'urlo della folla si levò potente. E la Bestia sul palco, il pugno alzato in segno di vittoria, il sangue che gli imbrattava il petto. Per un momento sembrò davvero un eroe, un guerriero e un esempio per tutti. Poi partì la corsa all'oro. Quelli che avevano scommesso su di lui andarono a incassare. E Kaios diceva uno alla volta e la gente non lo sentiva nemmeno e tutti con il foglio della scommessa in mano, sventolante in aria, voci che tentavano di prevalere su altre voci. Nessun mito a

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salvarli. Nessun Cielo a proteggerli. Mister Miriam era in mezzo, schiacciato nel tentativo di prendere il suo premio. Kaios lo vide mentre sgomitava a destra e a sinistra e si avvicinò a lui. Gli prese il biglietto dalle mani, lo passò all'uomo con le scarpe a punta che avrebbe pagato la vincita. «Non mi hai ancora detto come ti chiami, uomo col nome da donna» disse. «Io sono Gio...» Giorgio? Giovanni? Gionatan? Mister Miriam venne travolto dalla folla e per qualche istante scomparve: mani su di lui, piedi in faccia, corpi e soldi che volavano un po' ovunque. Miriam riemerse a stento, annaspando come se fosse in acqua. I soldi gli erano finalmente entrati nelle tasche: fece in tempo a contarli, metterli nella borsa e andarsene. E tornarsene là, sul bus, verso il paese morto dal quale proveniva. Non era più tempo di eroi. Per sacrificarsi bisogna conoscere. Rispettare. Guardare in alto, verso un altrove che nessuno vede più. Non era tempo di eroi. Era il tempo di conservare. E chiunque, là, in quel casino infernale, poteva permettersi di salvare qualcosa: buoni, cattivi, perduti, bestie, nemici, sfidanti, Miriam, chiunque avesse ancora un briciolo di anima da portare con sé

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L'Irrequieto

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Rivista Letteraria

Aprile­Luglio 2021


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