L'Irrequieto - Numero 35 - Agosto 2017

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rivista letteraria

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Agosto 2017



L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris

© Giacomo Braccialarghe

Agosto 2017 www.irrequieto.eu redazione@irrequieto.eu

In copertina

“Vita”

di Andrea Bondini


Direzione Alessandro Xenos, Donatello Cirone

Concezione grafica Antonella Restagno

Realizzazione grafica Donatello Cirone

Logo Giacomo Braccialarghe

Informazioni e collaborazione redazione@irrequieto.eu


In questo

numero

Stanza 193 “LETE”

di Giampaolo Giudice

“Photographer”

di Iaria Cerutti

Ferdinando Morabito

Onestà intellettuale

di Domenico Giovanni Della Rocca

“Fichi d’India” A una passante

di Eva Luna Mascolino

“Riflessi”

di Francesca Ligios

di Fabio Cardetta Il francese inesistente “Vita”

di Andrea Bondini

di Giada Tommei

Di madri e tigri (o di madri tigre)

di Filippo Menichetti “What remains #12”

di Ferruccio Mazzanti di Nicola Lonzi

di Donatello Cirone di Germana Stella

di Martina Pastori

Non andar via, non dire addio

“E adesso è ora che io vada”

Prima della notte un sorriso “Studies about myself #1”

Pesche amare

di Emiliano Cribari “Piccolo Sud #51”

Matteo Nicoli di Filippo Menichetti

Saremo liberi d’amarci “Nam-sai-kum #1”


Stanza 193 “LETE” di Giampaolo Giudice Non ricordo occhi. Vorrei ricordare di più. Un vestito a fiori, una gonna lunga, agosto di polvere nei campi. Non riesco a vedere molto da qui. Per questo vorrei almeno ricordare. Non riesco a vedere molto. Nella città in inverno, fuori dalla finestra. Aspettavo che tornassi. Non lo facevi mai. Nella città in inverno. Non c’è ombra se è bianco su bianco. Nessuno può notare un fantasma in piena luce. Non vedo bene da qui, faccio fatica a respirare, faccio fatica a comportarmi in modo logico quando sono agitato. Non passa giorno che non ti pensi, eppure non riesco a ricordarti.

“Photographer” di Ilaria Cerutti

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Non ricordo occhi, né odori, né le tue mani; vorrei ricordare di più. Non riesco a vedere molto da dove sono ora. Eppure ci sono state, ne sono certo, notti d’agosto e strade lunghe alla ricerca del punto esatto in cui cominciava la felicità; e spiagge, quelle sì, quelle le ricordo un po’ di più. Ma poi le stagioni si mischiano al vento nella sabbia e scoprono scheletri nella polvere. I resti asciutti di qualcosa che non riesco a focalizzare. E non sono più sicuro di quello che vedo. Perché è così faticoso ricordare? È nebbia in testa e bocca amara tutto quello che sento. Sapore di sangue ed aria stretta. Vista sfocata e paesaggi appannati. È passato così tanto da quando ho visto l’oceano. Tu non lo sai, ma in quelle notti nevose nel deserto ti pensavo forte forte. Ed ora fatico a ricordarmi come sei fatta in viso. Come ci sono finito qui? Non riesco nemmeno a guardare fuori dalla finestra? Non riesco a vedere bene nemmeno ad un metro da me. Vorrei ricordare qualcosa in più. Sentirti nello stomaco e guardarti dormire. Cose che ho fatto e che ora sembrano ad oceani di distanza dalla vita in cui ti sognavo. Un tempo indefinitamente lungo in cui marcisce, oggi, la speranza di tornare ad essere la vita che pensavo di voler essere allora. Sentirti nello stomaco e poi sentirti strappare via. Un pezzo di me strappato via dalla carne. Come, come… Com’era? Che volevo dire? Fatico sempre più a ricordare. Fatico a respirare. Vorrei ricordare almeno i tuoi occhi, non ci riesco. Perdonami. Forse se provassi a ricostruire una situazione particolare tornerebbero anche i dettagli. 7


Non riesco a vederti. Sono solo uno scemo. Uno scemo appeso. Patetico. Uno scemo appeso che non riesce nemmeno a ricordare. Che cosa, poi? Un momento inesistente? Un foglio colorato a colpi di fantasie? La realtà, il dato di fatto è che tu non ci sei più, nemmeno dietro ai miei occhi di fesso che non riesce a respirare, nemmeno nel mio stomaco ormai abitato solo dal tuo fantasma morente. Calci all’aria, solo di questo sono capace, ora che l’aria è un filo gelido che mi scende nella gola mentre gli occhi affogano nel mare che ci abita dentro, di cui siamo capaci solo quando siamo finalmente noi stessi. Mi viene da ridere. E rido nelle lacrime senza aria di un uomo morente. Chissà che cosa direbbero di me se sapessero che il mio ultimo pensiero è stato per qualcosa che nemmeno sono riuscito a ricordare. Ed il cielo solo sa quanto ci abbia provato davvero. I respiri si ammucchiano nella gola con schiocchi umidi, onde che si infrangono sugli scogli della realtà. Ho sempre avuto mani troppo pesanti per amare. Provassero ad indovinare l’ultima parola dell’impiccato.

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Onestà intellettuale - Seconda parte di Ferdinado Morabito “Dobbiamo liberarcene, ci stanno fottendo. Siamo due idioti, solo ammazzandolo possiamo davvero sparire senza lasciare tracce”, disse qualcuno poco distante. Un brivido percorse Eduard, che per la prima volta ebbe idea della gravità della situazione. In particolare, si rese conto di una verità lampante: era totalmente in balìa di chi lo aveva rapito. “Aspetta, aspetta, ragioniamo!”, disse un’altra voce in risposta a quella che sembrava una sentenza di morte espressa dal primo rapitore. Eduard restava in ascolto, in attesa di qualcosa che nemmeno lui sapeva definire con chiarezza. Dei passi risuonarono, secchi, decisi, nel corridoio. Comparvero due uomini incappucciati, entrambi con in mano una pistola. I due fissarono per qualche istante il loro prigioniero, respirando affannosamente; uno dei due poi scosse il capo e se ne andò da dove era venuto. Il rapitore rimasto al cospetto di Eduard distolse lo sguardo dal sequestrato, si grattò nervosamente il capo e sembrò immergersi immediatamente in un mare di pensieri. Il silenzio che li avvolgeva era gravido di incertezza. Quando questi parlò, Eduard riconobbe la voce di colui che aveva messo in discussione l’idea di ucciderlo. “È un bel casino, mio caro”, disse con accento preoccupato il rapitore. Eduard non sapeva cosa rispondere: tutto gli sembrava irreale. Il suo interlocutore però riprese, come se stesse 9


ragionando ad alta voce: “Non sembra esserci via d’uscita. Eppure, ci dovrà pur essere un’altra soluzione… peccato, hai aperto gli occhi quando non avresti dovuto…”, disse poi rimproverandolo. A quel punto, improvvisamente, Eduard si ricordò tutto: prima di perdere i sensi, aveva visto in faccia i due uomini che lo avevano portato via e li aveva riconosciuti. Erano due dei parcheggiatori del ristorante di suo zio, quel ristorante dove suo zio lo aveva nominato numero due della società. Ora si vergognò quasi di non aver riconosciuto subito la voce di Ermir, di colui che adesso gli stava davanti, incappucciato, senza quasi accorgersi dell’inutilità di quell’accorgimento. Quel ragazzo gli era sembrato subito simpatico, sin dal primo momento, nonostante lo zio definisse un pezzente che non ci penserebbe un attimo a vendere la madre per cento euro. Eduard però non dava peso alle esternazioni dello zio, da sempre crudele nei confronti di chi stava più in basso di lui. Ermir in realtà aveva imparato ad apprezzare la gentilezza e la genuinità naturale che Eduard aveva sempre dimostrato, ma non aveva avuto il coraggio di sottrarsi alla richiesta di sequestrare una persona e aveva capito che quella persona era Eduard solo quando ormai non poteva più tirarsi indietro. Il secondo sequestratore era un altro parcheggiatore, di nome George. Decisamente diverso da Ermir, sognava di abbandonare quel misero posto di lavoro da anni e aveva sempre detto che pur di raggiungere questo scopo avrebbe fatto qualsiasi cosa, anche uccidere un uomo. Di questo si ricordò, rabbrividendo, Eduard ora che Ermir gli parlava e lui non riusciva a raccogliere la necessaria 10


concentrazione per ascoltarlo. “Dannazione, riprenditi, ascoltami! Dobbiamo convincere George, ma prima ancora devi promettermi una cosa: se ti lasciamo andare dimentichi tutto e non dici una parola su di noi! E io lo so quanto vale una tua promessa! Moriresti piuttosto che mentire!�.

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“Fichi d’India” di Domenico Giovanni Della Rocca

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A una passante di Eva Luna Mascolino – Cameriere? Dell’altro rum, per favore. – Questo è il quarto bicchiere, signore. – E con questo? Sei pagato per servirmi, damerino, non fare tante storie. – Sissignore, subito signore. Bene, cominciamo ad esserci. Ma tu guarda, nemmeno un po’ di rispetto per l’ars poetica e per chi si sforza di farla sopravvivere lasciandosi ispirare dall’ebbrezza. Maledetta ignoranza! Dove arriveremo? Cosa ne sarà della cultura, quando anche noi verremo censurati, quando il Novecento spalancherà le porte al progresso, al positivismo, alla pura e fredda tecnologia, alienante nemica dell’arte? – Il vostro rum, signore. – Grazie, ragazzo. Il giovane in giacca e pantaloni bianchi fa per allontanarsi. – Ehi, tu! – Mi avete chiamato, signore? – Sì, mi chiedevo… Hai un pezzo di carta da portarmi al tavolo? – Un pezzo di carta? – Sì, carta. Quel materiale bianco e liscio che non serve solo per asciugarti il naso, ma anche per scriverci sopra qualcosa. – Sissignore, ma non abbiamo pezzi di carta, qui al bar. 13


– Non avete pezzi di carta? – Nossignore. – E tu dove prendi le ordinazioni, allora? – Io… Torno subito, signore. – Ecco, appunto. Il cameriere si allontana, sparisce dietro il cappello di piume di un’anziana signora e ritorna poco dopo, con aria trionfante. – Il vostro pezzo di carta, signore. – Finalmente! Devo pagare anche questo? – Nossignore, offre la casa. Un mezzo sorriso viene smorzato sul nascere da un’occhiata gelida del cliente – un uomo sui trent’anni, robusto ma raggrinzito, con le pupille scavate in viso, grandi labbra, capelli neri indomabili. Quel che colpisce, a una prima occhiata, è l’andatura dondolante e gli occhi spiritati. Chiunque lo senta parlare, rabbrividisce. Dicono sia incastrato in un processo, per via di una bestemmia. A giudicare dalle volte che sputa per terra, non risulta difficile crederci. Il galantuomo, comunque, torna a sorseggiare il proprio bicchiere di rum con aria assorta, giocherella con una stilografica e non sembra preoccuparsi delle occhiatacce di chi lo circonda – d’altra parte, è convinto che Montmartre sia, ormai, irrimediabilmente mal frequentata, a dispetto degli sforzi di pittori e poeti d’ogni sorta che vorrebbero elevarlo a cenacolo, luogo di raccolta, punto di riferimento per ogni circolo culturale che si rispetti. La stilografica, un rigo dopo l’altro, cancella l’abbozzo di un racconto (così sembrerebbe), il cui titolo recita: MEMORIE SEGRETE DI UN PARIGINO, OVVERO: VITA E CONFESSIONI DI C. B. 14


Il foglio di carta portato poco prima dal cameriere resta immacolato sul tavolino color avorio, che gode, davanti a sé, della spettacolare vista della Basilica del Sacro Cuore, distratta – e quasi inutile – scenografia per quello strano cliente seduto al Bar du Coin. Poco dopo, quest’ultimo afferra il foglio e inizia a scribacchiare qualcosa. Versi, si direbbe. – Da dove cominciare, perdiana? “La folla, frenetica, attorno a me s’ingarbuglia”. Troppo lungo, ridondante. Ci vorrebbe dell’altro rum, ma non vorrei vedermi riapparire qui davanti il ragazzetto di poco fa neanche per duecento franchi! Torniamo a noi. Ero per strada, in mezzo al suo ronzare... Troppo poco gentile, troppo poco vero! Sarà meglio fare due passi per schiarirmi le idee, seduti qui non si ragiona. L’inconfondibile frastuono di una sedia strisciante contro l’asfalto fa voltare l’intera clientela del Bar du Coin dalla parte dell’eccentrico galantuomo che ha da poco sgridato il cameriere più giovane. Egli inforca una pipa nera e dalla forma particolarmente ondulata, poi si dirige verso nord, come rapito da uno strano impeto psicofisico. Chi lo conosce – se mai qualcuno ha potuto affermare di conoscerlo – direbbe che sia nel pieno di una rivelazione mistica, ma la verità è che l’uomo è in profonda e seria riflessione. Un anacoluto mancato lo tormenta, non riesce a scrivere in maniera contorta come vorrebbe, e ciò lo gonfia di frustrazione. Proprio mentre il suo sguardo imprigiona nella retina la forma baroccheggiante di una nuvola sopra la bianca cupola della basilica, volta la testa di centottanta gradi. 15


Capelli fini, sembrano fili d’erba. Solo, neri come la pece. Gambe lunghissime, statuarie, da scultura greca. Proporzioni perfette fra le labbra semichiuse – oh, un sorriso! – e le scapole. Le dita delle mani sono affusolate, le orecchie piccole, la gonna troppo larga perché si possa intuire cosa essa stia celando. Al collo dell’apparizione sta un monile, deve essere argento… Ma no, ma no, è solo una conchiglia infilzata da un laccetto nero. Una conchiglia su una Venere di Botticelli. Ha lo sguardo lontano, perso, annegato chissà dove. Piange in silenzio, con l’anima a fettucce, il corpo inchiodato al terreno, un’aria inafferrabile – è cobalto la sfumatura degli occhi? È dolcezza la crudele bellezza di cui si circonda, mentre attraversa la strada? L’uomo la insegue. Sa di essere stato notato, è rimasto come un ebete a fissarla, socchiudendo la bocca a mo’ di carpa presa all’amo. Altro che poesia!, altro che Catullo! Una figura da manuale, degna di essere perpetuata di generazione in generazione fino all’anno millenovecento, ma che dico?, millenovecentocinquanta, anzi, ottanta, anzi, duemila!, voilà – maledette gambe, volete muovervi? – Posso… Posso offrirvi un… – …? – Buon pomeriggio, madame. – Mademoiselle, prego. – Mademoiselle, chiedo scusa. Avete per caso bisogno di… Io, cioè… Voi… Pausa. – Scusatemi, è che ho appena corso e… – Vi occorre qualcosa, monsieur? 16


– Come dite? Oh, nulla, figuratevi! Mi stavo solo domandando se voi… Da che parte siete diretta, di preciso? Un sorriso. – Io sono giusto arrivata. – Ah, ma che coincidenza! – Dite? – Sì, io… Sono arrivato anche io, sapete… – Dunque abitate anche voi qui? E ditemi: di chi siete ospite? Perché non vi ho mai visto prima, da queste parti. Dovrà certo ospitarvi la vedova Dupont, o forse siete il cugino di quel tale Chal… – No, io non… Non abito affatto qui, mademoiselle. Stavo solo… Sono di passaggio, io. – Di passaggio? – Proprio così, precisamente, stavo… Ero al Bar du Coin, vi ho vista attraversare in tutta fretta ed ho pensato che voi… Che io… - C’est-à-dire, voi mi capite… Un altro sorriso. – È tutto a posto, monsieur. Vi sono grata per la premura. – Per la premura, certo… Per la premura. – Però, vogliate scusarmi, io dovrei… – Ma prego, prego, fate pure! Non badate a me, io stavo solo… Ero di passaggio, l’ho già detto? Avevo in mente un’idea e mi ero allontanato, ma adesso ho perso l’idea e ho perso pure voi, e… – Come dite? – Chi? Io? – Ma sì, voi! Come avete detto, proprio adesso? – Non ricordo, ho detto di aver avuto un’idea, mi pare… 17


– E di averla persa. Di aver perso anche me, avete detto. – Diavolo! Ho detto proprio così? Non dovevo, voglio dire, non sapevo… – Basta così, ve ne prego. – Avete ragione: voi dovete andare e io vi ho fermata, ne sono addolorato. Un sorriso. È già il terzo. Ed è passato non più di qualche minuto. – Non agitatevi, suvvia. Avrete bevuto qualcosa, non è vero? Dall’odore si direbbe rum. – Rum, sì, proprio rum, mademoiselle. – Può capitare, non fatevene una colpa. Ci rivedremo quando sarete più sobrio, magari. – Più sobrio, sì… – D’accordo, allora. Io abito proprio qui, vedete? Se doveste alloggiare da queste parti, non dimenticatemi, je vous en prie. – Non dimenti… Non dimentichiamolo… – Buona giornata, monsieur. – Buongiorno, sì, buongiorno a voi! “Silenzio” non sarebbe il termine esatto. Sarebbe piuttosto riassuntivo, ma non del tutto esatto. “Costernazione” è la parola giusta. Smarrimento, devozione cieca, allucinazione, tempesta, fango e miele, folgore, fungo velenoso misto ad ambrosia. L’uomo ritorna barcollando verso il tavolino che aveva occupato. Non è ubriaco, no. È solo stordito, senza più fiato, con un guizzo negli occhi, un fremito orrido, simile alla possessione o all’illuminazione più alta. Con il pollice e l’indice afferra il bicchiere (ormai vuoto) e lo ca18


povolge. Ci poggia sopra la pipa e guarda la signora dal cappello di piume attraverso il riflesso stesso del bicchiere. Ha un ghigno, cerca a tentoni il foglio di carta bianca rimasto intatto, finalmente lo agguanta nel pugno sinistro e lo avvicina alla stilografica. Rintraccia il profilo della donna, ne fa uno schizzo abbastanza fedele, per un profano del disegno ornato e della ritrattistica. Gli si avvicina il cameriere. – Avete bisogno di qualcosa, signore? – Ancora tu? Si può sapere chi ti ha chiamato, somaro? – Nessuno, nessuno – farfuglia quello. – Vi ho visto tornare, così, all’improvviso, e ho creduto voleste bere dell’altro, o mangiare qualcosa. – Bere, mangiare? Tu farnetichi! Mettiti accanto a me, piuttosto! Ecco, da bravo, non farti pregare. – Signore… – Silence. Ascoltami. Tu hai mai visto passare angeli, da queste parti? – A… Angeli? – Proprio così, zuccone. Angeli. Ne hai mai visti? – Io non credo, signore. – Non dire sempre “signore”, non sono un tuo superiore! – Io lavoro qui, signore, è il mio mestiere. – Al diavolo il mestiere! Sai qual è il mio mestiere, belloccio? – Nossignore, no. – Scrivo. – Capisco, signore. – Invece continui a non capire nulla, credi non lo sappia? Io scrivo, faccio il poeta, la gente mi evita per questo. Mio padre è morto 19


tanti anni fa, non ricordo nemmeno come, so che mia madre è diventata la sgualdrina di un bastardo e io non sono più figlio di nessuno, in questo schifo di mondo, hai capito, adesso? Sta’ zitto, era una domanda retorica… Io scrivo per maledire tutti, i miei sono anatemi, condanne, c’est clair? Ma sono anche benedizioni, odi, sonetti d’amore! È raro, oh, se è raro!, ma capita di essere catturati in una rete invisibile, una rete triste e fittissima, come la cella di un innocente condannato all’ergastolo. Che ci fa un innocente in prigione per tutta la vita, eh?, me lo sai dire? Niente, ecco cosa! Non ci fa un bel niente: impazzisce! – Signore… – E quella donna, quell’angelo lì, mi ha proprio fatto impazzire. Così, da un momento all’altro! È passata e ha distrutto secoli di poesia, millenni di sculture, lustri e bilustri di musica polifonica… Ha fatto crollare le cattedrali, ha chiamato a raccolta i venti e i terremoti. I tifoni hanno assistito i suoi passi, il suo sguardo atterriva e graziava, lo vedi, il suo sguardo assassino e salvifico, lo vedi?, mi sta chiamando, mi allontana dalla Morte, mi porta con sé. Non so dove, ma lontano, lontano dal tuo rum e dal tuo misero stipendio, lontano da quel cappello di piume là dietro, lontano dalla civiltà, dagli uomini in frac, dai salotti dei borghesi, dai ritrovi degli impressionisti… Che orrore! Che miseria! Lei conosce l’Olimpo, è arrivata da chissà quali monti, da chissà quali Paradisi terrestri! È scesa così, in un pomeriggio qualsiasi, ha perfino attraversato la strada e ha permesso che io le rivolgessi il saluto, questo lo capisci? Io non sarò più solo, dovessi anche morire adesso – oh, ma non morirò, lei mi ha salvato, com’è vero che io mi chiamo Charles, lei mi ha salvato e io non morirò – questo lo capisci? Silenzio. 20


– Lascia perdere, sei un buono a nulla, tu e le tue ordinazioni maledette! – Signore, io… – E se non dovessi più trovarla? E se svanisse, se fosse già un’illusione della mente, uno scherzo dei sensi? Ah, benedetta poesia, devo immortalarla, devo raccontarla, con le sue dita e quei capelli, con le gambe, lo sguardo, la veste, in mezzo alla feccia di questa città, santo cielo, che apparizione! Io devo… Dov’è quel foglio? E dove diamine è il mio bicchiere? Ragazzo, altro rum e altra carta, sbrigati! Il cameriere scatta in piedi, richiamato finalmente all’ordine. Scivola fra i tavolini, non fa in tempo a sparire che è di nuovo a fianco del cliente di cui ha ascoltato ogni singola parola. Porta con sé il bicchiere vuoto su un vassoio, e lascia all’uomo un foglio ancora vergine, assieme al rum. – A voi, monsieur. – Grazie, grazie, finalmente. Finalmente, dov’ero rimasto? Ero per strada, in mezzo al suo ronzare… No, no, adesso ci sono!, ecco qui… Ero per strada, in mezzo al suo clamore. Esile e alta, in lutto, maestà di dolore, una donna è passata. Con un gesto sovrano l’orlo della sua veste sollevò con la mano. Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle d’una scultura antica. Ossesso, istupidito, 21


bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta la dolcezza che incanta e il piacere che uccide. Un lampo.. e poi il buio! – Bellezza fuggitiva che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte, non ti vedrò più dunque che al di là della vita, che altrove, là, lontano – e tardi, e forse mai? Tu ignori dove vado, io dove sei sparita; so che t’avrei amata, e so che tu lo sai! (A una passante – Charles Baudelaire)

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“Riflessi” di Francesca Ligios

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Feuilleton Il francese inesistente

Parte quarta

di Fabio Cardetta Timothy alla fin dei conti non ci aveva provato. Non aveva detto nemmeno granché riguardo al francese. Si era limitato a far accomodare il suo ospite in un salotto più borghese che mai, pervaso dall’odore di salse piccanti e tempestato di riproduzioni di Picasso, tappeti mostruosi, mobili antichi e ninnoli asiatici di qualsiasi genere. Aveva acceso la tv per mostrare all’ospite la replica del suo telegiornale per stranieri ‘News from Slovakia’, reperibile su un remoto canale digitale, che ogni giorno l’americano conduceva impostato, elencando il nulla. Aprendo una porta, aveva poi mostrato la bruttissima moglie con simili sopracciglia, stipata in cucina a preparare un pranzo a base di panini, crema di arachidi e insalata. La donna aveva risposto al saluto di Tub con un ‘Salve’ molto artificiale, quasi da clown. Poi Timothy aveva richiuso la porta, aveva fatto accomodare l’omone e s’era seduto, guardando con occhi dolci il suo ospite. Lì Timothy aveva servito il tè, mescendolo come un vecchio lord ottocentesco. E infine aveva detto: “Non ne so molto di più di quel tipo” “E allora che cazzo mi hai fatto salire a fare?” – aveva pensato Tub, leggermente infastidito. Poi, semplicemente, aveva risposto: 24


“Provi a ricordare. Anche il minimo dettaglio potrebbe essere importante.” Ormai era lì e doveva finire il tè, tanto valeva provare. “Ah, sì!… La sa una cosa strana?… Quel tipo un paio di volte si è intrattenuto con noi nel dopo serata. E sembrava quasi non volesse mai andare a dormire…” “In che senso?” – fece Tub. “Nel senso che noi dopo il meeting andavamo spesso a chiudere la serata in qualche altro locale. Si formava un gruppo di una decina di persone e andavamo a bere una cosa tutti insieme. Lui ci ha seguito un paio di volte e, entrambe le volte, è stato fra gli ultimi ad andarsene. Una volta rimanemmo solo io e lui. Proposi di accompagnarlo, ma lui non volle. Mi disse che amava aspettare l’alba per guardare il sorgere del sole. E comunque doveva vedersi con qualcuno.” Tub si fece pensieroso, poi liquidò: “Non mi sembra molto strano. Però se doveva vedersi con qualcuno, la cosa potrebbe essere interessante.” “Sì” – continuò Timothy – “O almeno così mi ha detto lui. Tutte e due le volte la stessa scena. Doveva aspettare l’alba, come i vampiri!” E Timothy sfoggiò il suo largo sorrisone che metteva ribrezzo a tutti i suoi interlocutori. Il sole calò, Tub si dileguò e la visita fu terminata. La visita al bar Groucho, invece, fu più delicata. 25


Timothy era un innocuo giornalista americano, animatore della scena Expat di Bratislava, aveva il suo piccolo telegiornale (sovvenzionato non si sa da chi) ed essenzialmente campava con i soldi della ricca moglie slovacca. Nonostante fosse un viscido, era una persona innocua con cui si poteva parlare con tranquillità. Ora, invece, al Bar Groucho era un’altra faccenda, si entrava nel regno di Bito. O almeno, una delle succursali del regno di Bito. Bito era uno dei boss mafiosi di Bratislava, diventato celebre per un paio di apparizioni tv e per il suo repentino cambiamento in rinomato imprenditore, dopo l’improvvisa stretta anti-mafia da parte dello Stato e della polizia. Ufficialmente gestiva una agenzia di modelle e una fabbrica di macchinari agricoli; ufficiosamente gestiva il traffico di prostituzione e delle armi in tutta l’area attorno alla capitale, da Banka Bystrica a Szob. Era in stretto contatto con i clan ungheresi e fido alleato di tutta la mafia che gestiva i traffici di prostitute e armi nella fascia mitteleuropea. Il lavoro sporco ormai lo faceva gestire direttamente dai suoi alleati nei villaggi di provincia. A Bratislava, invece, si limitava alla gestione dei grossi locali, al gioco d’azzardo e qualcosa nel campo della prostituzione. Tub conosceva molti dei seguaci di Bito, con alcuni addirittura c’era cresciuto insieme. E sebbene molto spesso si rifornisse da loro per soffiate e informazioni, ora sapeva benissimo che doveva andarci con i piedi di piombo. Qualcuno aveva sparato a uno straniero nel disco-pub di Bito. E il boss si era ritrovato orde di poliziotti in uno dei suoi locali migliori, a mettere il naso dove non avrebbero dovuto. 26


La situazione era ambigua e dai molti punti oscuri. Possibile che qualcuno vada a far saltare le cervella a uno sconosciuto proprio in quel locale? E se fosse stato proprio Bito a decidere di quell’esecuzione? No, stroppo strano!… Lo avrebbero potuto ammazzare da qualche altra parte, il francese, non a casa loro, attirandosi addosso poliziotti e giornalisti come mosche! E allora chi era stato? Qualcuno che probabilmente avrebbe voluto far ricadere la colpa sul clan? Oppure un incosciente, magari inconsapevole del fatto che quel locale appartenesse al più potente boss di Bratislava? La faccenda era fuori dal comune davvero. Bisognava sì indagare e capire. Ma ormai gli uomini del boss sarebbero stati sul chi va là, e difficilmente avrebbero detto qualcosa. Anzi, una volta visto Tub, avrebbero subito capito che anche Svetlan stava indagando su di loro, e allora le cose si sarebbero messe male. Si sarebbero innervositi ancora di più. E Tub avrebbe avuto problemi con i suoi informatori interni al clan, magari li avrebbe persi per sempre. O magari se li sarebbe trovati improvvisamente contro. E la cosa non gli piaceva affatto. Bisognava essere cauti. Entrò nel locale malsicuro guardando la grande insegna che recitava ‘Bar Groucho’. All’interno, scostò le tende, guardò l’orologio e si accorse che erano solamente le 17.15: il locale era deserto. O almeno la prima stanza dedicata all’aperitivo era deserta. Ma sapeva che anche le altre stanze lo erano. Era un mercoledì qualsiasi e il locale avrebbe cominciato a prendere vita verso le 20.00. Era sicuro che dietro il bancone della prima stanza avrebbe trovato Zdenko, suo amico di vecchia data e buon 27


informatore. Ma di solito Zdenko attaccava a lavorare verso le 19.00. Infatti, dietro il bancone, Tub ci trovò un ragazzino che non aveva mai visto, biondo, mingherlino, con un’espressione timida e stranita negli occhi. Tub lo squadrò per un po’. Poi una balzana idea lo trafisse, e di scatto si disse: “E se per caso…” Sperava davvero in un colpo di fortuna così? Decise di provarci subito, ma con calma. Ordinò una birra come se nulla fosse, come se fosse un normale cliente. E il ragazzino gentile si diede a spillare una pinta di Karlovà bionda e schiumante. “Lavori da molto qui?” – attaccò morbidamente Tub. Il ragazzino lo guardò perplesso, poi rispose: “Non molto, signore. Saranno sei mesi, più o meno.” Gli occhi di Tub brillarono come quelli di un ragazzino a cui il papà ha appena regalato un motorino. “Senti, sono un agente immobiliare. Sai per caso chi è il titolare del locale?… Vorrei parlarci per un affare.” “No, signore” – fece il ragazzino – “Non so chi sia il proprietario. Io parlo solo col signor Zdenko… è lui che mi paga.” 28


Gli occhi di Tub si fecero sempre più vitrei e un leggero sorriso gli si stampò sulla faccia. “Ah, certo, il signor Zdenko. Lo conosco di vista, brava persona!” “Sì, il signor Zdenko, è davvero una brava persona. Lo devo a lui se sono qui.” Tub ingranò la marcia: “Sono d’accordo. Senti, allora forse dovrei parlarne con lui di quella faccenda… Vedi, c’è un mio cliente che vorrebbe comprare il locale. Era molto interessato prima… Ma, sai… ora però è un po’ perplesso: dopo quello che è successo…” Tub vide la scena per un attimo fermarsi. Il ragazzino spalancò gli occhi, guardò il cliente, poi li abbassò sconsolato: “Non lo dica a me, signore. Mi hanno messo per un mese a riposo per quello, perché pensavano che fossi rimasto scioccato!… Per fortuna che il signor Zdenko è generoso e mi hanno pagato comunque!… Solo a dicembre ho potuto riprendere!” “Perché, scusa?… Non per farmi gli affari tuoi, ma vuoi dirmi che tu c’eri quella sera?” “Certo che sì, signore… Servivo al bancone vicino al bagno. Forse non dovrei parlarne… Ma, sa, che rimanga tra noi: secondo me la polizia non ha indagato bene…” Tub si sgranchì le dita. “Ah sì?… Perché dici ciò?” 29


“Perché io qualche idea ce l’avrei… Forse sono solo mie allucinazioni…Cioè sui giornali non hanno detto niente!” Tub non riusciva a stare fermo sulla sedia, barcollava. Prendeva un sorso di birra, poi poggiava il tutto e subito dopo attaccava un altro sorso. “Cioè ti è sembrato di vedere qualcuno che potesse essere…” Il ragazzino si protese sul bancone e, mettendo l’indice sulla bocca, come a dire ‘Rimanga tra te e me!’, sussurrò: “Io non ho visto niente. Ma se la cosa è successa alle 23.45 come dicono… Io verso quell’ora un tizio strano uscire dal bagno l’ho visto!” Tub offrì da bere al ragazzo. E offrì da bere anche a se stesso. Il ragazzo sarebbe rimasto muto. E Tub sarebbe rimasto muto. Il tizio descritto dal ragazzo combaciava con il probabile identikit del killer? Difficile dirlo. Non c’era un identikit del tizio. Ora però Tub poteva tornare da Svetlan con un paio di elementi che avrebbero –forse – portato a un restringimento del cerchio. Così aveva pensato Tub, ingenuo come un bambino. Non aveva preso in considerazione il fatto che – forse – il suo capo avrebbe potuto avere un’idea diversa su tutta quella faccenda, sul caso in questione… O – forse – sul futuro stesso della loro collaborazione. 30


“In the swamps #4” di Bartolomeo Pampaloni

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Di madri e tigri (o di madri tigre) di Giada Tommei Non è possibile, porca miseria! Che cosa? La vedi questa mano? Leggermente ossuta, con le dita un po’ torte dal troppo schioccarle? Ecco, a momenti mentre guido mi sembra di vedere la sua. Ma non è sua eh! E’la mia, di mano. Forse è solo una tua impressione.

“Vita” di Andrea Bondini

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Forse, ma l’altro giorno quando alle poste mi sono arrabbiata con quel signore che mi era passato avanti, mi sono gelata. Mi sembrava di essere lei e io piccola accanto che la guardavo, vergognandomi un po’ per la sua impudenza. Secondo me sei solo stanca. E quando cucino, poi! Nel caos della mia totale inettitudine, mentre pulisco il fornello a volte mi sembra di trasmigrare nel suo corpo. Beh, allora non ti dico quando cammini. Vista da dietro sei proprio…. Shhhh, zitto! Va bene, non ti arrabbiare anche con me però! Il fatto è che è una stronzata, capisci? Nonostante tutte le battaglie, alla fine crescendo ti ritrovi ad averla comunque dentro. Voluta o non voluta, ma ce l’hai : in alcune abitudini, alcuni gesti, in un modo improvviso di ridere o in un comico inciampare. Magari fai di tutto per allontanarla dalla tua vita e poi finisce che lei ti vive dentro. Stronza ed essenziale come solo lei sa essere. Lo sai meglio di me che avere solide radici non significa essere una radice. Lo so. In effetti bisogna solo accettare che, anche se l’albero svilup33


pa ogni volta qualche ramo diverso, la sua base nasce comunque da un determinato seme. Le radici pungono: i semi sono diversi. E tu lo senti, questo seme? Lo sento la sera, quando metto la borsa dell’acqua calda sotto il piumone. Qualsiasi cosa io faccia, quando metto l’acqua sul fuoco penso sempre a quel seme. Anche se solo per un momento. Un seme può essere tutto, sai? È bellissimo perché magari in un momento è un seme della discordia e poco dopo diventa un seme di amore. È bellissimo avere un seme da mettere sotto le coperte insieme all’acqua calda, è un bel regalo che ti fai ogni sera. I regali sono un premio e io non so se me lo merito. Questa è la cosa più triste e stupida che abbia mai sentito. Si, è vero. Io comunque non sono ancora così forte, ecco. Forse hai paura delle tigri. La tigre è cattiva, sfido chiunque a non temerla. La tigre attacca solo i deboli. Questa frase l’ho letta in un libro. Questa frase l’ho letta nei tuoi occhi E il treno sopraggiunse.

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Non andar via, non dire addio di Ferruccio Mazzanti Vecchi porti dissolti, spediti di getto che il mare non renderĂ indietro anche se tra i resti trovati nella baia, ricordi?, hai detto che erano come una stagione marcia e illuminata. Girovagando poi hai sentito i cani cantare mentre tremavo respirando e hai detto che nella brezza 35


tutto stava cambiando e nella notte, lo so, mi troveranno tutto solo con il colore che circonda la gola e le sirene in questa stagione

“E adesso è ora che io vadaâ€? di Nicola Lonzi

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Prima della notte un sorriso di Donatello Cirone Sale da un fondo scuro e si frange sul viso, è uno schianto. Una nuvola che si ferma, intrappolata su di una tela nascosta. Corre a gonfiare le labbra, a inumidirle, ad allargarle, gli occhi si appuntiscono come lance. Immobili. Restiamo immobili. Le dita, invece, corrono come ballerine russe nate senza voglie. Si agitano i suoi pensieri come cavalli pigri sotto le sferzate di fantini violenti. Tutto fuma e trasuda. L’eternità è lontana. Il corpo è appeso. Si allargano le labbra, si gonfiano, un nervo teso, un grande lago di vanità. Un infinito ultimo sorriso nel silenzio della notte, fuori, sotto una luna spenta, il silenzio d’un latrato lontano. Oltre il nero, oltre i ciuffi d’erba, oltre i fiumi in piena un sorriso nascosto all’ira del tempo. 37


“Studies about myself #1” di Germana Stella

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Pesche amare di Martina Pastori Ti ricordi quell’estate le tue guance un po’ salate e l’odore blu del mare quelle pesche troppo amare ti ricordi che nel buio tu mi sussurravi io muoio muoio se non posso averti muoio se non posso amarti

E quel letto troppo stretto il tuo orecchio sul mio petto la tua pelle d’oro e perle gli occhi muti delle stelle 39


Ti ricordi i gigli in fiore quel mio fare da pittore quando con l’amore in viso disegnavo il tuo sorriso io e te e un campo di grano mi ridevi nella mano mi dicevi spegni il sole tra i tuoi ricci, sale e viole

E quel letto ormai bollente quando mi dicevi assente sopra il canto delle onde questo amore è troppo grande questo amore non è per me

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Ti ricordi quel settembre la bufera e le sue ombre le valigie sulla soglia sulla spiaggia una bottiglia sul mio letto l’orma vuota di una storia mai vissuta di un amore non piÚ giusto di un amore morto presto

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“Piccolo Sud #51” di Emiliano Cribari

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Saremo liberi d’amarci di Matteo Nicoli I Saremo liberi d’amarci allora, Vòlti a noi soli quegli sguardi acerbi. E l’agognante spirto che divora I giorni miei ancora intatto serbi L’ardor dei mortali: onde lungi L’amor cortese che il cuor mi seduce. Invano m’affanno, come non giungi?

Infranta scala che a beltà conduce, Cercavo in te le parvenze beate Dei poeti della prima luce, Veggenti l’alme sante e le dannate; 43


Grava la Terra che Urano ebbe scossa Nel ventre e nella prole; caro monte Su te, per lei, l’anima s’è mossa.

II Dissi io «andiamo dunque all’orizzonte Ad inseguire il cielo, fede e onor Delle muse, scettro e cerula fonte». A me rispose «lascia che il candor Delle luci celesti splenda e tu, Guardami adesso e dimmi di me, Parla! Che d’ombra s’è fatto il cielo lassù»

Ma come volli restare a cercarla

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Nel cullar della notte, a me accanto La fingo, triste al pensiero d’amarla: Spiro e la cingo col cuore soltanto; Finché il quieto vegliar nel pianto infranga: Come s’arresta ciò che tanto ardeva, E come alle volte il tempo par pianga?

«Seguimi» allora distratta diceva, «Seguimi nella luce dei boschi, Tra i sentieri funesti ove cresceva I giorni andati l’allor dei Toschi; E giacciamo sulle foglie cadute Alla fioca luce del firmamento Che le lingue allaccia, restando mute»

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Su di te, su di me, sull’ombre imbelle Fioche, come il fato e le sue leggi.

Onde inerme al chiarore delle stelle Com’io le vidi riflesse, in brevi Scorci di cielo, sulla tua pelle Candida, beatamente sedevi Alla bonaccia, gli occhi nei miei. E ora s’adombra quella volta astrale: Vive incarnata nel corpo di lei!

III «Ah, come comprendo adesso quel male Che al vento d’amor l’Almagesto affligge,

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S’innalza in te, dolce essere mortale, Come le stelle al sole di merigge.» Prono io su di ella, stesa aspettando L’amor sbocciare dai miei versi: Una lacrima le scese, sognando!

«Orbato è il cuore dai cieli spersi L’eterna danza del divin accento, Ed i sogni miei, canuti e tersi Tra i cerchi morenti ed il fuoco spento; Ora che tutto è in te, tutta sarai, La sola che a me la speranza detta: L’amor che hai avuto, e quel che dai.

Addio! All’olimpia ombrosa vetta 47


Celata ai mortali sguardi vani, Su ella beata sta Afrodite eletta Orante di sé, per gli occhi lontani; Addio viti sull’anse di colli Che dal fiorir dell’estate son cinti, Non più pendenti tra le piogge molli.»

Arde l’amor che solo s’ama amando Nel pensier mio, che al pensarti geme, Nel tuo, che al mio vai pensando: Ambo per sé, eppure per sé assieme. Sebbene a noi ignota quella segreta Via, tracciamo in due in passi uguali Il cammin che la Sapienza decreta: Saremo eterni, giammai immortali. 48


“Nam-sai-kum #1� di Filippo Menichetti

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris 50


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