L'Irrequieto - Numero 50 - Febbraio 2019

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febbraio 2019 numero 50

L’Irrequieto rivista letteraria

Numero speciale dedicato a Se questo è un uomo di Primo Levi


“Si immagini ora un uomo a cui insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine “Campo di annientamento”, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.”


Š Giacomo Braccialarghe

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze-Paris @2010-2019 www. i r r e q u i e t o. e u


Direzione Donatello Cirone Alessandro Xenos

Concezione e realizzazione grafica Antonella Restagno

Redazione Sonia Aggio Donatello Cirone Emanuela Cocco Enrica Gatti Eva Luna Mascolino Alessandro Xenos

Informazioni e collaborazioni redazione@irrequieto.eu


SOMMARIO pag.6 Antonio Blunda Nell’invisibile (febbraio) pag.8 Beatrice Galluzzi Vivere sicuri pag.12 Christian di Furia Dalla sua stanza veniva sempre una musica pag.18 Federico Zagni Quando andammo per disegnar le svastiche pag.24 Marco Monteleone Compiti pag.30 Michela Valente Vous n’étes pas à la maison pag.36 Morena Pedriali Metilene

pag.42 Daniela Scimeca L’attimo decisivo pag.46 Sonia Aggio Maistràl pag.56 Eva Luna Mascolino Lo spartiacque pag.62 Riccardo Fabiani Ronzio pag.64 Raffaella del Litto Inabissarsi pag.66 Shaana de Santis Sans titre pag.68 Giusy Sciacca Pas en Libye (Mai più in Libia)


Nell’invisibile (febbraio) di Antonio Blunda

A Primo Levi

Mi son visto in febbraio come un cane ferito

Ben undici volte ho gridato in un campo assolato Poi molto se n’è andato di pioggia e nell’invisibile

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Primo Michele Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987)

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Vivere sicuri di Beatrice Galluzzi

Distesi i panni della bambina al sole. Il viaggio sarebbe stato troppo lungo per preoccuparmi che restassero puliti, ma avevo bisogno di vederli agitarsi, ancora intatti. Un sole molesto, rinvigorito dal freddo, filtrava tra la trama dei tessuti, e la camicia da notte di Aurora, disseminata di fragole, era animata dalle raffiche di vento. Il bucato dice molto sulle persone. Sollevando lo sguardo appena sopra il recinto che segnava i confini del giardino, c’era quello dei miei vicini, a mezz’aria tra il terrazzo e sottotetto, che era da sempre del grigio sbiadito dell’intonaco, come se vi si fosse accomodato in un presagio di sventura. – Sembrano i vestiti degli zingari,– aveva detto una volta mia suocera, passando da lì, – Se si vestissero di nero, non si vedrebbero le macchie. – E invece erano proprio le macchie a parlare. Del fatto che per i miei dirimpettai non fossero di alcun ingombro, che se le portassero addosso come qualcosa che dà colore e non lo leva, e che invece io fossi sopraffatta dal bisogno di raschiare via ogni prova, ogni singolo elemento che attestasse la mia via per la sopravvivenza. Quando rientrai in casa, venni aggredita dal calore della stufa, che mi irritò ancora di più del freddo. Ogni sollievo, in una giornata come quella, mi pareva aggravasse l’imminente distacco. Aurora era seduta sul divanetto verde, sformato sul lato dove una volta dormiva Arturo. Aveva in mano un coniglio di pezza, e gli stava raccontando una storia: – Perché i mostri non esistono, sono solo un’invenzione della testa. Stanno qui, vicino al cervello. – Nel dirlo, si picchiò l’indice sulla 8


tempia, appena al di sotto del punto dove una volta le cominciavano i capelli. Avrei voluto sedermi accanto a lei e spiegarle che la morte non è altro che un’assenza, che all’assenza ci si abitua. E che i mostri esistono eccome. Invece, rimasi sulla soglia, e senza l’intento di scrollarmi l’inverno da dentro le dissi: – Devi lavarti, che stasera si parte. – Lei continuò a rivolgersi al coniglio e quando feci per avvicinarmi, scattò di lato e si mise a correre. Mi sarei dovuta raccomandare di fare attenzione, evitando anche solo una scalfittura, un’emozione di troppo, un urto. Andai in bagno con il cappotto ancora addosso, e aprii l’acqua della vasca. Girai al massimo le manopole, il calore bollente cominciò ad appannare gli specchi. – Ti ci vuoi mettere, Aurora, nell’acqua con me? – Mi pentii di essermi permessa di provare appagamento, mentre lo chiedevo. Lei si affacciò sulla soglia, col coniglietto poggiato sul petto. – Facciamo il bagno anche a lui! – disse. Entrò in bagno saltellando e, senza mollare la presa del pupazzo, provò a sfilarsi i pantaloni del pigiama. – Vieni qui, che caschi. – Mi abbassai e l’aiutai a spogliarsi. – Sembri proprio una donnina. Hai le gambe lunghe, come me. – Era l’unica cosa di cui potevo parlare: le gambe. Il resto del corpo si era sottratto alla sua bellezza originaria. – Ora mi spoglio anch’io,– dissi. – Tu intanto senti se l’acqua è troppo calda o troppo fredda. Ma non ti buttare, infilaci solo la mano. Mentre lasciavo cadere i vestiti in terra, tracciavo linee immaginarie tra le mie viscere e le sue. Erano tanti cordoni ombelicali, mai recisi, che impedivano a entrambe di muoverci. – È calda giusta. – disse, e ci lanciò il coniglio, che rimase a galla, e poi cominciò a inzupparsi, affondando piano piano. La sollevai, stando attenta a non stringerla troppo, e la aiutai a entrare. Poi mi immersi anche io. Solo a quel punto, il rifiuto del sollievo se ne andò, e finalmente le sorrisi. – Dammi il sapone, mamma. Ma tanto, che fa le bolle. – Feci svuotare 9


il bagnoschiuma nella vasca e cominciai ad agitare l’acqua. – Hai mica paura di andare? – le chiesi – Perché non ne devi avere, non ce n’è motivo. In ospedale, accadono anche cose belle. Ci nascono i bambini. Ci sei nata tu, in ospedale. – Ma ci sono i dottori, e le punture. E le punture non mi piacciono, e i dottori mi stanno antipatici. – Ma lei ti è simpatica, giusto? Ti ha anche dato la medaglia del coraggio. Farai solo un pisolino, e quando ti sveglierai, sarò lì con te, con una grandissima sorpresa. Una sorpresa enorme, una sorpresa che non ti puoi immaginare! – Presi un batuffolo di schiuma e me la chiusi tra le mani, poi ci soffiai nel mezzo e le feci volare le bolle sul viso. Aurora scoppiò in un risolino. – Ma se muoio, divento anch’io una stella, come Arturo? Guardai i vestiti a terra, svuotati dei nostri corpi. I suoi erano piccoli e troppo poco usati. Mi sporsi dalla vasca e li afferrai, poi li immersi nella vasca. – Ma che fai, mamma? Il mio pigiama, io lo voglio mettere, il mio pigiama! Tirai su la maglia, e comincia a strofinarla. Poi la immersi di nuovo. – Prova anche tu, – le dissi, – ti farà sentire meglio. – Io mi sento bene, io mi voglio rimettere il pigiama! Mi alzai in piedi, e lei prese a fissarmi il pube nudo. Le faceva sempre una gran curiosità, e se ne vergognava. Quando vide che me n’ero accorta, immerse la testa nella schiuma. Scavalcai la vasca e afferrai gli accappatoi. La sua testolina calva riapparì. – Dove vai? – mi chiese. – A stendere il pigiama, così per stasera si asciuga. Vuoi venire? – Me li posso mettere gli stivali della nonna, quelli con la volpe rossa? La portai a in camera sua e la vestii con estrema lentezza, avvolgendola di strati, come se stessi incartando una brocca di cristallo. I cordoni tiravano, a ogni movimento, i cordoni facevano male. 10


Quando ci affacciammo nel giardino, i panni erano immobili. Mi avvicinai al filo, ne staccai uno e glielo diedi. – Chiudi gli occhi e respira. Ogni volta che sentirai questo profumo, saprai di essere al sicuro.

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Dalla sua stanza veniva sempre una musica di Christian di Furia

«Nome, cognome e data di nascita.» «Il mio nome è Rosetta Stame. Nata a Roma, il 15 dicembre 1937.» «Qual è il parente che lei ha perso in questa circostanza?» «Mio padre.» «Vuol dire il nome?» «Nicola Ugo Stame.» Respirava a fatica, parlava piano, con molte pause. Alla camicia mancavano due bottoni, la camicia era sporca, la camicia la teneva dentro i pantaloni. Croste violacee gli coagulavano la pelle del naso, quella sotto gli occhi, quella vicino al lobo dell’orecchio sinistro. Non riusciva a stare in piedi, non riusciva a stare sdraiato, non riusciva a stare seduto: mi parlava stando con il culo appoggiato al bordo del letto, il suo corpo l’ipotenusa di un triangolo che aveva per cateti il materasso e il muro, sul quale poggiava la testa. La radice quadrata della somma dei quadrati dei cateti dava come risultato un uomo che stava per morire lentamente. Mi chiese cosa ci facessi lì e io risposi furto; gli chiesi cosa ci facesse lì e lui rispose comunista. Anch’io, gli dissi. Lui allora mi guardò con tutto il disprezzo che può mostrare un uomo che mentre ti guarda respira, e mentre respira rantola: che non si fidasse di me, l’avevo capito; che per rassicurarlo gli feci la domanda sbagliata lo capii invece soltanto quando ormai le parole si erano fucinate 12


nel tanfo di umidità e di alito pesante e di tabacco stantio e di carne marcia: gli chiesi quale fosse il suo nome. E lui, con gli occhi chiusi, mi rispose: Calaf. «Perché e quando venne arrestato?» «Mio padre venne arrestato il 24 gennaio del 1944. Perché era un resistente. Era un partigiano, un comandante partigiano. Era un uomo che amava la libertà. La prima volta che è stato arrestato è stato nel ‘39, mentre era in teatro. Stava provando la Turandot. E poi mio padre è stato eliminato dall’attività di tutti i teatri regi, perché era un antifascista. Ma nonostante avesse ricevuto la proposta di un importante impresario di spettacolo americano, lui ha deciso di rimanere qui, in Italia, perché amava troppo questo Paese per pensare di andarsene via. Disse: Sarei un vigliacco se andassi via in questo momento.» Gli confessai che anche a me piaceva la musica, che da grande sarei diventato un cantante famoso, che avevo già composto delle canzoni d’amore. Ah, sì? Sì, gli dissi. Fammi sentire allora, disse lui. Ora? Ora, rispose. La stanza era un quadrato, sudicio e affamato, l’unica luce entrava e si righettava, prigioniera, tra le sbarre: non era così il palco che sognavo, tuttavia mi sistemai per bene sulla sedia. … Stasera insieme co’ la prima stella dar core Canzuncella sei rispuntata tu, cominciai a cantare piano, quasi senza saliva, quasi senza fiato, So’ rispuntate insieme alle viole da un sogno le parole che nun cantavi più – la mia voce sottile, femminea –, Lei parla cinguettando, ron13


dinella, scherzando tra le foglie de betulla, ma quella che sognava insieme a me non domandar dov’è; e feci una lunga pausa per riprendere il fiato, mi si strozzava in gola, prima del ritornello: Canzoncella, canzoncella appassionata, Canzoncella, la mia bella se n’è annata, l’eternità che porta un giuramento finisce nel capriccio d’un momento, perché puoi sospirar, la vita così fa, e lusingavi forse per cambiarla ma la storia è sempre quella, Canzoncella... A quel punto mi fermai: oltre le sbarre della stanza sentii dei tramestii, segmenti di passi, scarpe circospette in punta di piedi. L’uomo che disse di chiamarsi Calaf aveva chiusi gli occhi, sembrava dormisse. Perché ti sei fermato, invece mi chiese. Senza rispondere, sorpreso ripresi a cantare: della canzoncella mia d’amore. Dei suoi ricordi e delle sue lacrime. «Signora Stame, ricorda cosa è successo l’11 marzo del 1944?» «Come posso dimenticare... Era il compleanno di mia sorella, compiva cinque anni. Io ne avevo sei. Ero con mia madre, mia sorella e mia nonna, la madre di mio padre. Aspettavamo di vedere papà, che era chiuso in una celletta con delle inferriate... Quelle inferriate e quella cella ce l’ho davanti agli occhi, sempre. Mi perseguitano da tutta la vita. È sceso questo signore, per me sconosciuto. Irriconoscibile.» «Lei intende dire che era irriconoscibile fisicamente?» «Sì. E quel signore sconosciuto mi ha chiamato. Ha detto: “Rosetta”... Solo da lì ho capito... solo da lì ho capito che era papà: dalla voce.» Dalla sua stanza veniva sempre una musica. La sera, quando pure i militari se ne andavano a dormire, quando erano finiti gli interrogatori, quando erano finiti i pestaggi, finite le torture finiti gli urli, finite le bestemmie finite le minacce, al buio, quando Calaf poteva 14


lasciarsi stare nella sua cella, pure se respirava a fatica, pure se la voce gli si rompeva già nel petto, prima ancora di arrivare alla gola, prima ancora di stormire sulla lingua, che spesso non riusciva ad articolare parola, pure se doveva tenersi forte alle sbarre per non cadere, piegato dalle botte, l’uomo che mi disse di chiamarsi Calaf cantava le arie dell’opera italiana, e gli altri prigionieri dalle altre celle si avvicinavano alle loro sbarre per ascoltare meglio: per lasciare che la voce di quell’uomo menasse una musica che li cullasse prima di dormire: prima di pregare a occhi chiusi la Madonna, come facevano da piccoli quando avevano paura del buio e la mamma diceva loro di fare la preghierina. Quella sola notte in cui sono stato in cella con lui, Calaf non poteva cantare, il pomeriggio, durante l’interrogatorio, i militari gli avevano sfondato il torace, così dopo Canzoncella mi disse di continuare, mi disse di cantare tutte le canzoni che conoscevo, mi disse inventatene, quando dopo ore gli confidai che non ne conoscevo più: perché se nessuno ci fosse stato a intonare romanze, i suoi compagni prigionieri non avrebbero potuto dormire. Il canto sorvegliava il loro sonno. Dunque continuai, e dalle altre celle, nelle pause tra un respiro e l’altro, udivo bisbigli cedevoli. Madonna, Madonnina bella, proteggi la mia famiglia e il mio amore; e proteggi pure me, questa notte, e ti prego, Madonna Santa, ti prego: non mi far fare i sogni cattivi. «Le chiedo scusa fin da ora per le due prossime domande che doverosamente devo farle. È vero che dopo la riesumazione venne accertato che a suo padre, durante la detenzione, quindi prima che venisse fucilato, era stato sfondato il torace?» «Sì.» «Il signor Stame venne trovato tra le vittime, insieme ad altri prigionieri politici, ebrei e detenuti comuni. Signora Stame, in quale stato 15


venne trovato il corpo di suo padre?» «Decapitato. Da un colpo di pistola dritto alla nuca.» Ero in carcere per un piccolo furto, fui rilasciato pochi giorni dopo, me ne tornai a casa, abitavo a Trastevere, con mio padre, con mia madre, con i miei amici giravamo le strade del quartiere, a zonzo, si andava in chiesa, si andava a giocare, si correva al suono delle sirene, si brancolava nella polvere, in cerca sempre di qualcosa, in cerca del giorno dopo e di quello dopo ancora, io in cerca di una radio accesa, di una canzone, di un bel canto: quando in strada sentivo una musica scendere da una finestra aperta mi fermavo: immaginavo che a cantare fossi io, la voce fosse la mia. Era passato qualche mese da quei giorni in carcere, un mattino con gli amici eravamo in via Ardeatina, un gran trambusto, molta gente. Seguimmo le persone che camminavano, arrivammo alle cave, all’entrata un grosso cartello: c’era scritto “I partigiani di Bandiera rossa vi vendicheranno”. Seppi che lì dentro erano state uccise più di trecento persone. Quando nei giorni appresso le salme vennero identificate, non tutte, non tutte erano nella condizione di portare un volto riconoscibile, documenti, nomi e cognomi, nella lista delle vittime, in quel censimento di morte, lessi un nome: Nicola Ugo Stame – tenore, partigiano del Movimento Comunista d’Italia-Bandiera Rossa. Mai, giuro, mai mi resi conto, quell’unica notte, di essere in cella con Stame, che conoscevo di fama, che del suo nome avevo letto sui giornali, che già si era esibito al Teatro dell’Opera a Roma; mai, neanche quando lasciai la cella, il mattino successivo, e lo salutai, potendolo guardare bene in viso, l’uomo che mi disse di chiamarsi Calaf, e gli dissi arrivederci, e gli dissi che non mi aveva chiesto il mio nome, e che comunque era Claudio, Claudio Pica. Quando ho letto il nome di Nicola Ugo Stame tra le vittime delle Fos16


se Ardeatine mi sono fermato, come quando per strada, ancora adesso, sento giungere da una finestra una radio accesa, e una canzone, e un bel canto. E ho immaginato Stame prima che gli sparassero; l’ho immaginato cantare, per i suoi compagni prigionieri; l’ho immaginato Calaf, intonare, oltre ogni dolore, oltre ogni urlo, oltre ogni sparo: Dilegua, o notte! Tramontate, stelle! Tramontate, stelle! All’alba vincerò! Vincerò! Vincerò! E quell’alba, per lui e per i suoi compagni, ero certo sarebbe arrivata.

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Quando andammo per disegnar le svastiche di Federico Zagni

Quando andammo per disegnar le svastiche io e Filippo eravamo in due. Avremmo dovuto esserci in tre, perché anche il Gella aveva detto che ci sarebbe stato, ma alla fine eravamo in due. Erano le nove quando arrivò sotto casa, con la Pegeout scassata e sibilante di sua madre che non teneva mai la carica. Io scesi di corsa con un paio di Adidas bianche ed ero preoccupato perché non avevo messo gli anfibi neri e le scarpe bianche potevano risaltare troppo, ma erano nuove e ci tenevo a fare bella figura con Filippo. Il bomber però l’avevo, e mi ero rasato per bene la sera stessa. Salii con un salto sul sedile. — Andiamo, andiamo — gli dissi subito. L’icona verde sul cruscotto era piena a metà. Ma soldi e tempo per la ricarica non ce n’era. — Stiamo in zona, —mi disse infatti subito lui. Non volevo che mi guardasse bene in faccia perché avevo paura che vedesse un po’ della mia paura. Da quando avevo mollato il liceo era il primo con cui volevo essere veramente amico. Ma Filippo non mi guardò per nulla. Era raro che guardasse davvero qualcuno. Come prima cosa spinse dentro allo stereo un cd che sporgeva, come se aspettasse solo me. Partì un suono rullante con tante parole tedesche, che nessuno di noi due capiva ma che ci facevano sentire molto kameraden. Poi si accese una sigaretta, premette il bottone e partimmo. — Dove facciamo? —, chiesi 18


Filippo rispose chiedendo anche lui. — Andiamo a mangiare una cosa, prima, ti va? Ci fermammo al kebabbaro di via Solferino, quello col kebab migliore. Filippo sputò per terra prima di entrare, non so se per sfregio o sapore in bocca. Ordinammo e ci mettemmo a guardare quelli che arrivavano e se ne andavano. Per lo più marocchini, tunisini. Qualche indiano. Italiani, pochi. Fuori un ragazzo caramello che faceva le consegne fumava, e ci fissava. — Cazzo guardi, — gli disse Filippo. Il tono però non era cattivo. Era più come per ristabilire una gerarchia, l’ultima che ci fosse rimasta. E quello niente, abbassò lo sguardo. Poi lo chiamarono da dentro, un latrato con un sacco di scatarramenti strani nel suo nome. — Non se ne può più di questi, ormai nelle nostre città ci soffochiamo, con tutta sta merda, — ho fatto io, non appena il tunisino fu rientrato per prendere il borsone dei kebab. Filippo annuì, ma mi sembrò comunque stanco. Dopo poco fine ci rimettemmo in macchina, coi nostri kebab. Lui addentava il suo senza sporcarsi, guidando con una mano sola. I vetri erano tutti appannati ormai quindi abbassammo, anche se facevano due gradi. Giusto per finire di mangiare. Guardavamo con attenzione tutti i posti in cui passavamo, controllando che tag c’erano. Il vapore si alzava dai tombini a formare una nebbia giallastra, mezza fumo e mezza aria. Da lontano si vedeva la città vera, non questo schifo di periferia. Da noi si vedeva solo il turboreattore con la luce incandescente in lontananza. Una specie di prigione in cui eravamo costretti a vagare, insieme a qui morti di fame che erano sfuggiti all’acqua dei barconi, e alle mattanze dell’antimigra, e si trovavano imprigionati lì insieme a noi. Ma noi eravamo diversi. 19


— Lì, lì, — gli dissi sotto a un cavalcavia. Era una laterale della stazione, piena di spacciatori. Aspettammo che sfiorisse il sibilo elettrico di una poliscar, passata col suo lampeggiante blu, anche se per farli scendere in quel quartiere ci voleva ben altro che una scritta su un muro. Due neri a guardarci male ma nemmeno ci curammo di tirare su il collo della felpa. Scendemmo, lui aprì il bagagliaio e mi lanciò una bomboletta. La mia nera, la sua rossa. Le sassate della biglia nella latta risuonarono forte nel buio. Io feci la mia, di fretta. Quattro stecchi e altri quattro rametti a fare la mia prima svastica, un po’ storta. Per ricordarmi da che lato piegarla dovetti anche rifletterci, ma per fortuna non sbagliai. — Col tempo migliorerai, — mi disse lui. Mi piaceva disegnare le svastiche, ma non ne avevo mai fatte a bomboletta. Solo sul diario, sullo zaino. Mi piacciono le svastiche perché sono un simbolo di tutto quello che si potrebbe fare per sistemare il mondo. E poi mi piacciono perché dicono a tutti che sei forte. Sono così potenti che se te le metti addosso la gente capisce che hai il coraggio di mostrarti come sei, che non ti fermi davanti a nulla. È come buttarsi dal trampolino alto senza esitare, o avere una cicatrice in faccia. Tra qualche anno una vorrei anche tatuarmela, sulla schiena, o sull’avambraccio, devo ancora decidere. Poi lui si mise a fare la sua, e non avevo mai visto nessuno così bravo. Esattamente a quarantacinque gradi. Simmetrica, e spessa. Si prese il suo tempo per disegnarla per bene, una roba che non sarebbe stato facile cancellare, o coprire. Alla fine fece un passo indietro, inclinò la testa per scrutare il suo lavoro. — Può andare, — concluse. Io gli feci i complimenti, i due neri non si erano nemmeno curati di nulla. E anche se fosse, a noi non importava. 20


Poco prima di andarcene li affiancammo con l’auto, per vedere se avevano un po’ di bamba, o di metasinth. Ma niente. Solo fumo. — Che robe da froci, — commentò Filippo. Io ne avrei anche preso un po’, ma gli diedi ragione. Per passare la notte a fare svastiche sarebbero stati meglio gli shot. Però fui anche un po’ sollevato perché non l’avevo mai provata, e non volevo rischiare con lui. Passammo due ore a spruzzare vernice, due eroi al gelo, fianco a fianco. Salivamo in macchina, facevamo qualche vicolo, e disegnavamo. In silenzio, con il vapore che ci usciva dai cappucci calati. Ogni tanto passava qualche drone di sorveglianza e ci fiondavamo in macchina. Poi ci spostammo al bordo-reattore, e finimmo al quartiere con le mignotte cinesi. Loro ci guardavano senza alcun interesse, con quegli occhi sottili e quei vestiti strani. Tenevano le mani ben ficcate tra le cosce finché non passava qualche macchina, a noi vennero anche a chiedere una sigaretta, per attaccar bottone. Ma noi le ignorammo. — Ci vorrebbe un lager apposta, solo per le troie. Una cosa dove le metti, a lavorare, e ci possono andare tutti. — Anche gli ariani? — ho chiesto, perplesso. — Si capisce. Ma cosa credi, che i lager fossero prigioni? Erano piuttosto città, in cui ognuno poteva trovare il suo spazio. In cui a tutti veniva concesso di poter lavorare. Una volta avevo letto come si chiamavano davvero… Era… La fronte gli si contrasse nello sforzo di ricordare. — Ecco, falastirio. Erano dei falastiri. Sono stati poi i comunisti a inventarsi le cazzate. Gas e robe varie. Io ci rimasi di sasso. Quante cose sapeva Filippo. Anche un po’ sollevato a pensare di avere un nuovo argomento nelle discussioni. —Alla fine è come per noi nel quartiere allora, no? 21


Ma lui mi guardò esterrefatto. Io credevo di aver detto una cosa intelligente. — No, proprio per nulla. Intanto, continuavamo a fabbricare croci. Le mie pian piano migliorarono, le sue erano tutte perfette. Mi insegnò a mettere un tratto in fondo, per riconoscere le mie. — Ma lo sai che sei davvero dotato? — gli dissi. — Dovresti iscriverti a qualche scuola. — Ad esempio? — fece lui. — Mah non so, io non ne conosco. Sono sempre stato una sega a grafica. Ma tu hai quel tratto… così preciso, così pulito. — Ti ringrazio, — concluse Filippo. Ormai eravamo esausti. — Vieni a dormire da me? — chiese infine. Io fui tentato di acconsentire, ma c’era mia madre a casa, quella sera non lavorava, e non volevo poi che il giorno dopo mi attaccasse tassa. E così rifiutai. Mentre mi scaricava davanti a casa Filippo mi disse che se ne andava in un’altra città. — Mio padre si trasferisce. Colpa di tutti ‘sti immigrati di merda che si fottono il lavoro. Ci rimasi male. Da quella volta non sono più andato a disegnare svastiche con nessun altro. Un giorno me ne andrò anche io dal turboreattore. Ogni tanto vado ancora allo stadio con qualche amico del centro sociale, ma non è più la stessa cosa. E a casa a nessuno gliene frega nulla di niente di quello che faccio, e a volte mi metto a disegnare croci sui fogli solo per ricordarmi di quella sera lì. Ma quando passo sotto al cavalcavia ci sono le nostre due svastiche ancora lì, e mi sento bene.

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Compiti di Marco Monteleone Matteo sollevò la testa dal libro, il suo sguardo andò oltre. Oltre il filo di pancia con cui combatteva ogni giorno, oltre le gambe accavallate, oltre il calzino bucato, oltre la sedia piena di vestiti dismessi. Si fermò infine sulla scrivania e diede inizio alla sua ispezione. Al secondo tentativo lo vide. Anche se aveva cercato di nascondersi, di camuffarsi tra i vicini, non poteva sfuggire all’occhio indagatore di Matteo. Aveva tentato di mettersi al contrario, di mimetizzarsi tra gli altri suoi inutili compagni, ma come poteva anche solo pensare che la sua forma caratteristica sarebbe passata inosservata all’esterno? Il dizionario della lingua italiana si era intrufolato lì, circondato da un volume di diritto e uno di storia dell’arte, mentre l’ultimo numero di “Lanterna Verde” vigilava sui reietti di sotto. Matteo valutò le sue opzioni. Sei fortunato, disse con un sorriso, neanche oggi sarà il giorno che finirai tra le mie mani. Rimise gli occhi sul libro che teneva aperto. Contrasse i muscoli della fronte nel tentativo di apparire più concentrato agli occhi di un pubblico che neanche lui avrebbe saputo dove porre. “Gamella”. Non era la prima volta che incontrava quella parola. Aveva provato a fare suo il suggerimento che gli aveva dato il padre, quando non capisci una parola continua a leggere, gli aveva detto in prima (o era in seconda?) elementare, vedrai che il contesto ti aiuterà a capirne il significato. Matteo aveva continuato così a leggere. Quella parola si era presentata più e più volte, ma non si era rivelata nessuna epifania. Scartata l’ipotesi di alzarsi dal letto e di riesumare il dizionario dalla pila sulla scrivania decise che era arrivato il momento di crescere e di affidarsi alle sole sue 24


uniche forze. Avrebbe scavato nei ricordi e negli studi del passato, sei un ragazzo intelligente, puoi farcela. L’unica cosa che gli venne in mente era il nome del gatto dei Puffi, o era quello del padrone del gatto? * Man mano che procedeva nella lettura la frustrazione di Matteo cresceva; c’era smarrimento nei suoi pensieri unito a un sentimento di incredulità. Com’era possibile, si chiedeva di tanto in tanto, che stesse leggendo una storia vera? Com’era possibile che nessuno avesse mai alzato la voce? Che nessuno si fosse messo a capo di una ribellione? Non erano forse in maggioranza? Nei cosiddetti campi di concentramento non c’erano forse più prigionieri che aguzzini? Qualcosa non gli tornava. Presto la sua mente iniziò a vagare. Si vide a casa sua, sdraiato su quello stesso letto in cui si trovava anche adesso, vide degli agenti fare irruzione, prendere a sberle il padre, schiaffeggiare sua madre, e poi arrivare dritto da lui e impedirgli di lanciarsi dalla finestra. In cuor suo Matteo rideva. Sapeva che quella era solo una piccola parte di un piano più grande. Si vide in un vagone in mezzo ad altri estranei, impauriti, a differenza di lui non sapevano cosa aspettarsi, e voleva dir loro che non c’era bisogno di preoccuparsi ché ci avrebbe pensato lui. Si trattenne. Pur di non rivelare il suo piano si vide nudo in un hangar, mentre sopportava l’umiliazione di un tatuaggio forzato, si vide dormire in una brandina, i piedi di uno sconosciuto fin troppo vicini alla sua faccia, si vide correre per un pezzo di pane. Ma vide anche altro. Si vide a capo di una ribellione, una rivolta che lui stesso avrebbe messo in piedi dal nulla. Si vide convincere ogni singolo deportato che c’era un’unica soluzione e che quella soluzione doveva passare attraverso di lui e solo per lui, non ci avrebbe impie25


gato neanche molto. Matteo calcolava che, nell’arco di un paio di settimane, quella vergogna sarebbe terminata, con buona pace di quelli che sanno solo lamentarsi. Perché endere complicato qualcosa che era estremamente semplice? * Matteo guardò l’orologio al muro. Non mancava molto alla cena, il suo tempo stava finendo. Era combattuto tra la noia e la voglia di finire il prima possibile quella lettura. Aveva calcolato il suo piano da settimane. Un giorno, al massimo due, per leggere tutto il libro, un altro per scrivere la recensione che quella comunista che si ritrovava per profe voleva, un altro per rileggere. Non voleva dedicare a quel libro più del necessario, ma non aveva fatto i conti con il tedio di quella lettura. Ora, per esempio, il protagonista si era messo a fare conversazione con uno, un francese, e invece di discutere un piano di fuga con il magnarane stava cercando di ricordare i versetti della Divina Commedia. Pronto? Matteo non era così, era un uomo d’azione, lui, voleva vedere i fatti, non le belle paroline da intellettuali. Si girò su un fianco, avendo cura di non perdere il segno del libro con il pollice della mano. È questo quello che fai in carcere? Passi il tempo a pensare? E se passi il tempo a pensare, perché questi uomini non passano il tempo a riflettere sui loro errori? Non dovrebbero riflettere sul perché siano diventati prigionieri? Non sarebbe meglio preoccuparsi dei loro errori invece di occuparsi di letteratura? Matteo chiuse gli occhi. Mancava poco alla cena ma non così poco. Si sarebbe riposato prima di mangiare. Un giorno in più, un giorno in meno non avrebbe fatta molta differenza. Era un lusso che poteva prendersi.

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* Aveva ancora le mani unte dalle costine di maiale quando si era rimesso a leggere il libro. Una pagina al minuto, aveva calcolato, e in neanche un’ora avrebbe finito. Si sarebbe liberato di quell’incombenza il prima possibile. Si era imbattuto in altre parole di cui non conosceva il significato ma si era ripromesso che neanche una singola parola l’avrebbe fermato. Dopo i primi dieci minuti aveva già un metodo perfezionato. Leggeva le prime due righe del capitolo poi inseriva l’indice della mano destra nella pagina successiva, pronta a entrare in azione al momento giusto. Man mano che procedeva nella pagina il medio prendeva il posto dell’indice mentre quest’ultimo iniziava a ticchettare in maniera sempre più veloce. Accompagnava alla velocità della lettura un senso d’inquietudine che cessava solo quando voltava pagina e si dedicava alla facciata sulla sinistra, ma che non se ne andava mai via del tutto. Avrebbe svolto il suo incarico fino in fondo, anche se avrebbe significato non godere appieno di quel libro. E poco gli interessava, in fin dei conti, dei racconti di quell’uomo che non faceva nulla per suscitare in lui alcuna forma di simpatia. Era uno sconfitto ben prima di giungere al campo, ben prima di salire sul treno, ben prima dell’arresto. Aveva rinunciato all’amor proprio, si era dimenticato di essere un uomo e, prima ancora di cercarsi nella letteratura, aveva il dovere di liberarsi dalle catene, di prendere a schiaffoni i nazisti e di correre a liberare le persone che considerava i suoi cari. Erano in guerra, dopo tutto, motivo in più per non preoccuparsi delle regole e mettere da parte i buoni sentimenti. Mangia o sarai mangiato, non c’erano molte alternative per Matteo. E invece gli sembrava che quell’uomo avesse scelto una terza via, una soluzione più comoda, aveva lasciato che fossero gli altri a decidere per lui, si era limitato ad adeguarsi alla nuova realtà in cui si era trovato, senza 27


nemmeno combattere, e adesso cercava la complicità di Matteo, la sua simpatia, ma come si permetteva? Come poteva pretendere di suscitare una qualche forma di rispetto da parte di qualsiasi cittadino che avesse avuto la sventura di addentrarsi nella lettura del libretto di quello che non si considerava un uomo per sua stessa ammissione? Perché non aveva combattuto, perché non aveva mostrato i denti, perché non aveva impugnato un fucile? La morte sarebbe stata da preferire a quella ridicola vita. La lettura delle ultime dieci pagine si era dimostrata ancora più difficile. Possibile che, anche di fronte alla libertà, quell’uomo prendesse tempo? Possibile che, di nuovo, preferisse stare lì ad aspettare - cosa poi? l’arrivo della Fata Turchina? Era libero a quel punto, vattene per la tua strada, santa pazienza, invece no, continuava a rimanere nel campo come se non avesse niente di meglio da fare. Allora, vedi che fai di tutto per non ottenere la mia simpatia? * 8/9. Matteo fece una fotocopia della recensione con il voto a caratteri cubitali in alto, sulla destra, il migliore della sua carriera scolastica, e se l’appese in camera, vicino alla scrivania; ogni volta che qualcuno entrava in camera era la prima cosa ad attirare l’attenzione. Non aveva scritto nulla di quello che realmente pensava di quel libro, non era così ingenuo. Con quel voto era arrivata anche la più importante lezione della sua vita. Si era talmente convinto della cosa che aveva deciso che l’avrebbe fatta sua da quel momento in poi. Per ottenere degli ottimi risultati con il minimo dello sforzo bisogna dare alle persone quello che le persone si aspettano da te. Così aveva fatto lui, del resto. Aveva riempito quasi due fogli protocollo dando alla profe quello che la profe poteva aspettarsi da un sedicenne che aveva letto “Se questo è un uomo”. Aveva scelto con cura ogni singolo termine, voleva suscitare 28


nella sua lettrice sentimenti di compassione, di incredulità ma anche di sdegno e di rabbia per la vicenda di Levi, voleva che quelle pagine fossero un monito, un “mai più”. In altre parole, voleva colpire l’insegnante con la sua umanità, con la sua capacità di mettersi nei panni di un uomo che, quasi cinquant’anni prima, aveva vissuto ogni genere di privazione, voleva che le arrivasse il suo grido di giustizia sociale perché aveva capito che quello era il modo più veloce per ottenere i risultati che cercava. Era troppo facile ottenere il consenso dalle persone che la pensavano come lui, più era lontano dall’altro più la sua conquista lo attirava. E questa sarebbe stata la prima di una serie.

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Vous n’êtes pas à la maison di Michela Valente

“- Vous n’étes pas à la maison” - Ed è questo il ritornello che da tutti ci sentiamo ripetere: non siete più a casa, questo non è un sanatorio, di qui non si esce che per il Camino (Se questo è un uomo-P. Levi) L’avevano trovato senza vita ai piedi delle scale, sul granito freddo. La portinaia giurava di averlo incontrato poco prima per portargli la posta e l’aveva trovato bene, forse un po’ stanco, ma stava bene. Allora come si trovava lì? Nel giro di qualche ora cominciarono a rimbombare nel palazzo le più diverse speculazioni. C’era chi sosteneva la tesi del suicidio, altri dicevano che non c’era motivo per cui quell’uomo dovesse uccidersi, magari era affacciato sulle scale, un senso di vertigine, un capogiro e voilà! Uno si ritrova spiaccicato sul pavimento. A chi obiettava questa ricostruzione fin troppo inverosimile si rispondeva raccontando la morte di questo o quel parente di infinitesimo grado, caduto da una scala mentre aggiustava una lampadina o raccoglieva qualcosa, incidenti stupidi ma sufficienti per una strana quanto inevitabile dipartita. Archiviata la discussione sulla dinamica del suicidio o dell’incidente, che dir si voglia, si passò a delineare il profilo privato della vittima. Ai più sfuggiva l’esatto mestiere di quell’uomo, c’era chi lo aveva etichettato semplicemente come dottore e chi invece, più aggiornato sulle nuove tendenze lavorative, era riuscito ad essere più specifico e sapeva che faceva l’interprete. I più anziani condomini non sapevano cosa fosse un interprete, per loro erano ancora attuali i tempi in cui un vicino poteva 30


essere medico, notaio, avvocato o al massimo professore. Questo faceva l’interprete. E che lingua interpretava? Alzarono un po’ tutti le spalle e qualcuno, quasi sussurando, aggiunse che stava sempre con quelli là. Questo generico riferimento fu abbastanza per non approfondire ulteriormente la questione e far tornare tutti nelle proprie case. Aveva iniziato a lavorare in quella città diversi mesi prima. Non ricordava il giorno esatto in cui una chiamata gli proponeva un impiego a chilometri di distanza. Ricordava, però, che mentre era al telefono ascoltando dettagli sullo stipendio, le ore e i compiti fuori pioveva. Non era certo una novità, lì pioveva sempre e quando non c’era acqua c’era nebbia. – C’è il sole nella città in cui dovrei trasferirmi?- chiese all’interlocutore dall’altra parte del cellulare; questo rimase prima interdetto dalla domanda e solo dopo un po’ rispose- Sì, ce n’è fin troppo-. Fu sufficiente per organizzare un trasloco nel giro di qualche settimana, trovare una casa ad un affitto talmente basso da fargli dubitare di essere incappato in una truffa ed ora eccolo lì, in quella città che veniva considerata da anni tra le più invivibili del Paese. Anche il suo lavoro era più o meno simile a quello sempre fatto e poteva essere sintetizzato in due attività principali: ascoltare e tradurre. Tradurre ed ascoltare. Solo che questa volta ad ascoltarlo aveva dinanzi a sé decine di persone, di differenti età, di diverse nazionalità. Ogni volta che entrava in una stanza gli occhi sui volti scavati puntati su di lui, ne aveva paura, quegli sguardi lo trafiggevano, erano come spilli sulla sua carne, persino quelli dei bambini non gli sembravano dolci ed innocenti, anzi i bambini lo tormentavano più di tutti gli altri. Attraversando il sordido corridoio per andare in questa o quella camerata pensava a chi si sarebbe ritrovato davanti, se volti già conosciuti oppure nuovi. Preferiva sempre la prima situazione, sottoporsi 31


al bagno di occhiate di feroce sofferenza già sperimentata lo trovava più facile, quando c’erano persone nuove, invece, era come provare una nuova arma dal dolore sconosciuto ed imprevedibile. Ma dopotutto il suo lavoro- ascoltare e traduttore, tradurre ed ascoltare- era facile. Non c’era posto per le domande. Anche se lui spesso si chiedeva che fine facessero le persone che da un giorno all’altro sparivano e non si vedevano più. Una volta preso dalla curiosità aveva fatto delle ricerche. Molti nomi risultavano trasferiti altrove, altri invece contrassegnati da un punto interrogativo, inghiottiti dalla strada. – No, non dalla strada- gli disse un suo collega anticipando e dando una riposta ai suoi pensieri. – Qui la strada non esiste, c’è solo la campagna. Infiniti campi di pomodoro- Capì il senso di quella allusione solo tempo dopo, ascoltando il resoconto di una retata di polizia e di numerosi arresti avvenuti proprio a pochi passi da quel luogo, nell’aperta campagna. Aveva ormai imparato a sue spese che le risposte là dentro rimanevano quasi sempre a mezz’aria, mai esplicitate in frasi chiare e decise. E così anche lui aveva assunto questo atteggiamento taciturno. Parlava solo quando il suo lavoro di traduzione glielo imponeva e ignorava le domande che da sottofondo lo accompagnavano. Un coro di voci si alzava per inondarlo di questioni: Dove siamo? Quando rivedrò mio marito, mia moglie, i miei figli? Alcuni più informati chiedevano subito di poter vedere un avvocato, in modo da capire quale posto occupare nella classifica dei disperati. Ma il suo compito non era rispondere, non era nelle sue mansioni ed esorbitare da queste ultime significava finire in qualche guaio disciplinare se non addirittura legale. E così via, iniziava ad elencare in francese, la lingua che si era scoperta essere conosciuta ai più, le infinite regole sulla convivenza di quel luogo: gli orari dei pasti, le norme sull’igiene, la sicurezza; un groviglio intricato di commi ed articoli che una volta pronunciati 32


sembravano prendere vita per assumere la forma di una gigantesca ragnatela in cui tutti venivano intrappolati. Ad ogni direttiva corrispondeva una domanda di un uomo, una donna, talvolta persino di un bambino. E dire che le risposte le conosceva tutte, dal luogo in cui si trovavano, alla consapevolezza che non si sarebbero ricongiunti mai con nessuno, ma il suo compito era soltanto ascoltare e tradurre. Tradurre, ascoltare ed ignorare. Solo una volta aveva varcato i limiti di questo paradigma, lo aveva fatto dinanzi ad una domanda diversa, spicciola, quasi offensiva. Un adolescente con un tono di voce talmente alto da sovrastare persino la disperazione chiese se gli avrebbero dato almeno uno spazzolino da denti. – Vous n’êtes pas à la maison- gli disse di getto, una risposta che uscì come un conato di vomito e lui infatti, dopo averla pronunciata, si sentì in bocca un sapore disgustoso come se davvero avesse rimesso. Questo ragazzino dall’aspetto malato non chiedeva di una madre, di un padre o di un fratello, ma di uno spazzolino da denti. ‘Vous n’ètese pas à la maison’ questa frase continuava a rimbombargli nella testa. ‘ E da qui non uscirete che per andare negli infiniti campi di pomodoro’, avrebbe voluto aggiungere, ma questa volta riuscì a trattenersi e uscì lasciandosi alle spalle, per la prima volta, il silenzio. Che non fossero più a casa loro lo avevano capito tutti là dentro. Sapevano anche che, a casa loro, difficilmente ci sarebbero tornati, nonostante ormai le esortazioni a farlo provenissero da più parti: urlate per strada, scritte sui muri e persino enunciate alla televisione. Prima d’ora però non era mai capitato che qualcuno lo dicesse in una lingua diversa dall’italiano e quindi comprensibile ai più. Quell’uomo lo aveva fatto e nell’esatto momento in cui aveva pronunciato quella breve frase tutti sentirono all’unisono come un dolore, la conferma 33


definitiva di una sensazione sempre percepita e che adesso diveniva, così esplicitata, reale. Di quell’esperto conoscitore di regole non avevano saputo più nulla, né l’avevano rivisto. Diverse settimane dopo qualcuno, tra i pochissimi a conoscere la lingua del posto, riuscì a procurarsi un giornale sgualcito e vecchio di giorni che riportava sul fondo la notizia di un uomo trovato morto nella tromba delle scale del proprio condominio. Nell’articolo si riportavano le testimonianze di diversi condòmini, alcuni affermavano che quell’uomo non si era mai abituato a vivere in una città così diversa dalle altre a lui conosciute, nonostante amasse il sole così frequente; altri invece si dicevano convinti della natura incidentale dell’episodio, a conferma di ciò, da esperti periti ed investigatori, raccontavano che il cadavere stringeva in una mano uno spazzolino da denti. Dinanzi alla traduzione di quest’ultima frase non ci fu bisogno di continuare a leggere oltre, perché tutti là dentro capirono. Ed alla tristezza per aver appreso di quella morte si aggiunse anche un crudele sollievo, forse generato dalla certezza che qualcuno fosse ancora in grado di provare vergogna.

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Metilene di Morena Pedriali

Non me l’hanno detto, sai. Non me l’hanno detto che l’uomo è un cranio inaridito, una linea di fumo che scardina i nervi. Non me l’hanno detto che è schiuma nera nel principio di ogni cosa, che aggrappare le costole agli angoli del cielo sia poi una colpa, un morso d’infamia marchiato nel tuo sangue. Vivevo in case che non erano case, kampine, le chiamavamo. Avevano quattro ruote di legno e le pareti dipinte con l’oro e i petali dei fiori. Dev’essere stato per questo che hanno scritto il nostro nome nella lista delle razze indegne. Per questo, o per la mia pelle di pesco, per i miei capelli di ebano e per le mie labbra d’ibisco. Avevo dodici anni o poco più, ma non importa: contare gli anni è cosa da gagé, da non rom, i giorni passano comunque, come grani di un rosario tra le dita, e noi con loro sulla Terra. Avevo dodici anni ed ero una principessa scalza, con un amuleto al collo di fame e meraviglie. Tutto apparteneva al vento, anche la mia gonna quando ballavo, anche le dita di mio padre che afferravano l’archetto e poi tiravano il violino fino al cielo. Mio padre. Aveva mani belle e gli occhi sempre tristi, tagliati male, all’ingiù. Aveva una scatola dove teneva una perla falsa e una camicia di seta, per i giorni di festa. Aveva un labirinto intorno agli occhi, un abisso malconcio di smeraldo nelle iridi. Dev’essere per questo che sono venuti nel buio, mentre ancora vagavamo e hanno incendiato le kampine. 36


Dev’essere per questo che ci hanno sbattuti su un treno merci, stipati nel sudore e nelle lacrime delle altre razze indegne. Mia madre aveva una voce da soprano, e bagnava i capelli con acqua di rose, per allontanare gli spiriti maligni. Forse non erano rose vere. Dev’essere per questo che, nel viaggio, mio padre ha chiuso gli occhi. Sperava di sognare che era tutta una bugia e che ci facevano scendere, che non gli avevano davvero bruciato il violino, che non avevano sputato sopra i cadaveri dei nostri bambini, fucilati tutti prima di partire, tranne due. Tranne i gemelli. Ha detto solo: “Vi aspetto” e si è lasciato cadere nel vuoto, prima ancora che il vuoto ci si aprisse sotto i piedi. Li ha tenuti chiusi per giorni e giorni e io ho capito che forse sognare era davvero troppo, che non era bastato. Mia madre, che gli stava aggrappata al petto, si è toccata il cuore e ha detto: “Vasu mule”, una preghiera che noi cantiamo per i morti. Non abbiamo più parlato. Di tanto in tanto guardavo mio padre perché non credevo che fosse morto. Credevo che i segni rossi sul suo viso, i resti dei calci che gli avevano dato quando aveva provato a nascondermi, fossero soltanto fiori, dipinti dal sole che in quel vagone non entrava, dipinti dai suoi sogni. A mia madre un ragno nero di nebbia ha scavato un buco sopra il cuore. Non me l’hanno mai detto che, se nasci rom, la vita ha un prezzo. Che il prezzo da pagare sale quando la ragione si decompone. Che quello era il mio prezzo, il mio dazio di sale per aver cantato, per aver ballato, per aver vissuto ogni vita del mondo. Non me l’hanno mai detto, eppure io l’ho saputo fin da subito, fin da quando i cancelli del campo si sono chiusi alle mie spalle. L’ho saputo che il fumo sopra la mia testa era il resto di una vita e sono stata zitta.

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Noi rom abbiamo due regole, due regole soltanto: non voltarti mai e non parlare mai dei morti. La prima è per chi rimane, per chi corre a piedi nudi tra la sabbia bianca e le conchiglie rosse, è per i vivi. Per chi, dopo la guerra, ha ripreso i violini dal luogo in cui li avevamo sepolti e ha suonato i canti degli uomini liberi. Dicono che anche la seconda sia per i vivi, ma non ho mai saputo se si viva anche da morti. Per questo, quando hanno chiesto il mio nome, non ho potuto rispondere. Poco male, hanno detto, e mi hanno bastonata. Sono stata zitta. Hanno chiesto :”Quanti anni hai?” Ho mentito. Ho detto quindici. Stavolta non mi hanno bastonata, mi hanno marchiato la pelle. Non ho avuto nemmeno il tempo di perdermi in quei numeri azzurrini, di chiedermi perché, a che servisse, dove ci portavano. Dopo è toccato a mia madre. Mia madre, curva sopra un bastone perché aveva quel ragno di nebbia sul cuore che le incrinava le parole. Perché aveva un bambino nella pancia e poco prima di partire l’avevano sterilizzata, insieme a tutte le altre donne. Ha detto che il bambino ora balla con mio padre ma io non ci ho creduto. Hanno riso di lei, stretti nelle divise nuove, la bocca aperta e queii denti perfetti, dritti come soldati alla parata. Le hanno detto: “Di là” e lei mi ha baciato gli occhi con il fondo della pupilla. Non l’ho più rivista. Vorrei dire che poi ci si abitua. Che non ho avuto paura quando il dottore, quel dottore, prendendo i gemelli, ha visto i miei occhi, uno nero, come un lago d’abisso, e uno verde come i fianchi delle onde nel mare. Che è la fame a divorarti le ossa, a infilzarti le vene nel sonno. Che dura soltanto una notte, che la luna non ha spine tra le labbra senza osare più guardare giù. Sono venuti a prendermi la notte stessa e ho visto per la prima volta 38


due cose, poi non ho più visto niente. Ho visto un uomo o forse era soltanto un’ombra, aggrappato al filo spinato. La sua pelle era raggrinzita, buia, le sue dita piccole, troppo piccole per stare a decomporsi nella neve. Lo avevano lasciato lì, credo, per spaventarci, oppure perché lo trovavano bello, un cadavere a forma di ebreo. Mi sono chiesta che differenza ci fosse tra la sua stella gialla e il mio triangolo marrone, entrambi cuciti sulla tasca di quel pigiama a righe che ci avevano buttato addosso mentre aspettavamo il nostro turno all’entrata. Cuciti sopra il petto, nel punto in cui doveva battere il cuore. In cui ero sicura che non battesse più. Non ho voluto rispondermi. Ho visto una baracca con la porta aperta a metà e dentro una montagna di capelli. Ho spalancato gli occhi e mi hanno spinta via. Non ho avuto tempo di piangere, né di pregare, tantomeno di scommettere che era tutta una follia. Non l’ho guardato in faccia. Non volevo ricordarlo. Mi ha sorriso, mentre mi legava al tavolo con quelle stringhe di cuoio, credo lo facesse ancora quando mi ha iniettato il metilene nelle pupille. Mi ha detto qualcosa, ma non ho voluto sentirlo. Non so cos’ho provato, non me lo avevano detto che l’inchiostro blu diventa un angolo di fumo e ti cresce nei capillari dentro gli occhi, come un fiore marcio, come un usignolo che non canta. Forse non ho sentito la mia voce, non so che cos’ho urlato, credo solo: “Mea devla”, mio Dio, nella mia lingua. Forse Dio non la capiva, la mia lingua. Non so quant’è durato, so che quando è finito, vedevo solo nero, solo la mia colpa implicita, il marchio dei miei avi, vedevo milioni di topi azzannarmi la carne e urlare: “Zingara, zingara, zingara!” Non bastava. Mi hanno riportata alla baracca, numero 13. Mi hanno 39


detto: “Sta’ zitta” e me l’hanno detto forte, con il calcio del fucile. Sono stata zitta. Credevano che sarei sopravvissuta alla notte, hanno detto che il dottore non dormiva mai. Io lo so che non dormiva, perché sentivo le urla dei due gemelli e perché poi non ho sentito niente. Volevo scappare, ma non mi bastava il tempo. Non ho chiesto perdono, non ho pianto. Credevo che fosse simile alla notte, che mi sarei addormentata come mio padre, che bastava sperare davvero forte di non svegliarsi più. Qualcuno mi ha coperto gli occhi con un pezzo di stoffa. Ho urlato, fino a rompermi le corde vocali e allora l’ha tolto e ha detto qualcosa che sembrava una preghiera profana, un augurio di buon viaggio. All’alba sono venuti e hanno visto che non respiravo. Mi hanno buttato su una pila di altri corpi, in una fossa comune. Avessi potuto vedere le stelle, avrei sorriso anch’io, mentre morivo. Non potendo farlo, ho cantato una canzone, dentro la mia testa, in quello che diventava un turbine opaco di ciò ch’era stato, dei giorni di sole e delle monete di ottone dentro la mia treccia, della mia gonna morsa dal vento e dei cavalli bianchi di mio padre. Ma una canzone non può bastare a un ultimo respiro e così, alla mattina, forse l’hanno vista tagliare la neve, forse qualcuno l’ha scritta sopra i nostri corpi. Non so se sia vero, dicono che ad Auschwitz la sentano ancora, e che faccia più o meno così: Non guardare ho legato i mostri alle porte della notte, ho cucito rose sopra le tue guance rosse, non voltarti le tue pupille sono amare sono la fine di un tempio di sale 40


Chiudi gli occhi, chiudili piano, c’è un canto di spine dentro il palmo della mia mano ora l’usignolo muore, ora sei un involucro di petali e di piume, ora sei niente, sei un triangolo marrone, una prigione diafana per una rosa rossa ora sei ora sei il cielo che ti cresce tra le ossa.

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L’attimo decisivo di Daniela Scimeca Hans aveva urlato per l’ennesima volta, incollerito, rosso in viso nonostante il freddo mattutino. Ma il cane di obbedire non ne voleva sapere. Se ne stava fermo, quasi a fargli dispetto e Hans come un camaleonte cambiava il colore delle sue guance dal rosso al verde bile. Era la prima volta nella sua carriera che non riusciva nell’intento. Quel pastore tedesco sembrava divergere da tutte le altre bestie che aveva addestrato. Se avesse avuto innanzi un soldato disubbidiente gli avrebbe sparato senza pensarci, ma davanti a quel bell’esemplare era diverso e addestrarlo era diventata una questione di principio. Anche perché, quasi sempre, proprio quando Hans stava per raggiungere l’apice della sua rabbia, Foster col suo splendido manto caffellatte obbediva all’istante. Cosa succedesse nella mente primitiva e istintuale dell’animale rimaneva un mistero per Hans, ma la soddisfazione gli si leggeva in viso i cui tratti finalmente si rilassavano. Anche quel giorno fu così, Foster ubbidì. Il sospetto che Foster alla fine ubbidisse per avere la razione di cibo era plausibile, ma Hans preferiva ignorarlo e godersi la soddisfazione. Gli altri cani in sei mesi erano operativi, ma con Foster i tempi si erano rivelati più lunghi, la sua operatività era tutta un’incognita e l’aggressività che cercava di incitare tardava a venir fuori. Non poteva permettersi di mandare in missione un cane poco aggressivo o peggio un cane che non obbediva ai comandi. Ci andava di mezzo la sua carriera. Quelli erano giorni concitati. Nelle le caserme c’era un via vai di nazifascisti impegnati in rappresaglie sparse per l’Italia settentrionale. Squadre scelte partivano per missioni espletate nel giro di poche ore. Dalla Gestapo arrivò finalmente l’ordine atteso per l’operazione romana. Il 42


commando doveva essere costituito in tempi brevi e sarebbe partito e ritornato a Milano in non più di 72 ore. Servivano 15 cani addestrati e Hans poteva contare ciecamente su 14 esemplari addestrati alla perfezione. Foster era l’enigma, l’anello debole, ma non aveva scelta: dovevano essere 15. Quel che era peggio era che non avrebbe dovuto obbedire a lui, ma ad altri. I cani mangiarono e vennero caricati su un camion a sera inoltrata. All’alba occorreva essere a Roma. Li accolse un cielo grigio e plumbeo che sembrava presagire qualcosa di terribile. Il commando si divise e iniziò l’operazione con la chiusura delle strade che portavano al ghetto, o per uscirne. I cani furono incitati a ringhiare e abbaiare. I rumori bestiali svegliarono la gente e non era certo un buon segno. La piazzetta antistante il portico d’Ottavia divenne la scenografia inconsapevole del rastrellamento. Gli ebrei vennero fatti uscire dalle case, picchiati, ammassati e caricati nei camion. L’aggressività delle bestie contribuiva ad acuire la paura, la tragedia che si stata consumando. Uomini, donne, bambini, vecchi venivano annusati e stanati senza pietà. Era in atto un’inversione tra bestie e uomini, dove i secondi soccombevano ai primi senza alcuna pietà. Foster si adeguò, cominciò a ringhiare, fiutare, scovare con l’istinto che lo caratterizzava. Trovò Matteo rannicchiato in un sottoscala di una cadente abitazione spalancata. In lunghi attimi di silenzio, i quattro occhi si rifletterono reciprocamente e contro ogni pronostico, ogni ragione si creò un contatto inatteso. In pochi attimi Matteo piccolo e solo si ritrovò a seguire Foster in un labirinto di vicoli e strade maleodoranti. Andarono avanti così per un po’ e il quartiere, i punti di riferimento noti scomparvero. Ma Matteo era troppo spaventato per farci caso. Seguiva quel cane come se fosse l’unica azione possibile, gli correva dietro stanco, affannato ma ancora vivo e libero. Si fermò solo quando le gambe cedettero e crollò a terra. Si guardò 43


attorno, in uno spazio aperto mai visto con un acquitrino pieno di zanzare ronzanti. Poche costruzioni si intravedevano lontane. Il giorno era ormai inoltrato e quel luogo aperto non era certo un buon nascondiglio. Matteo ancora incredulo si aggrappò a Foster che lo trascinò a fatica un po’ più in là, dove pochi alberi e qualche rudere offrirono un riparo più sicuro. Matteo si sdraiò e si addormentò abbracciando il cane che gli aveva salvato la vita.

Ho avuto la sfortuna di essere nato ebreo in un tempo in cui ciò era considerato un errore della natura da abolire, ma ho avuto anche il privilegio e la fortuna di essere stato salvato da una bestia la cui sensibilità forse superò di gran lunga quella umana. Avevo sette anni ed è tutto abbastanza confuso, ma io sopravvissi grazie a quel cane che guidò nella fuga, mi nutrì raccattando resti di cibo e mi riscaldò col suo pelo. Quando Foster morì molti anni dopo fu come se la parte più profonda di me di avesse abbandonato, fu come ritornare indietro nel tempo e morire in quel fatidico giorno in cui invece fui salvato. Non mai amato un altro essere umano come ho amato lui e ho sempre pensato che in quel nostro legame ci fosse sempre stato e ci sarà sempre un fattore divino.

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Maistràl di Sonia Aggio

Meditai la bestemmia insensata Che il mondo era uno sbaglio di Dio, Io uno sbaglio del mondo. E quando, davanti alla morte, Ho gridato di no da ogni fibra, Che non avevo ancora finito, Che troppo ancora dovevo fare [Primo Levi, 11 febbraio 1946] Il freddo le morde i polpacci, l’erba ghiacciata scrocchia sotto le scarpe. Ottavia tocca la tessera annonaria attraverso la tasca, si china a grattarsi la caviglia. Quando si rialza, guarda in avanti e vede una sagoma nella nebbia. Un uomo viene nella sua direzione. Ottavia riprende a camminare. Batte le palpebre più volte, le ciglia umide. L’uomo si avvicina. Lei si sposta un po’ a sinistra. Si incrociano: le loro spalle si sfiorano, i cappotti frusciano. Il braccio dell’uomo ondeggia, la sua mano urta quella di Ottavia, si insinua tra le dita semiaperte. Lui chiede scusa, lei allunga il passo, chiude il pugno facendo gemere la pelle del guanto. La nebbia si sfrangia, in alto appare il disco bianco del sole. Ottavia stringe le palpebre, solleva la mano destra per schermarsi gli occhi; il foglietto si srotola e penzola tra le dita. Lei lo fissa per un attimo, poi abbassa le mani, le unisce, le strofina. 46


Abbandona la mano sinistra lungo il fianco, lascia piovere i resti del biglietto, i frammenti si confondono con la brina. Il sole continua ad affiorare, splende pallido e lucido sulla campagna. I fienili sono tappezzati di manifesti. L’umidità sta sciogliendo l’inchiostro, dalle parole colano lacrime nere. Il paese sembra chiuso e ostile, le case trattengono il fiato. Ottavia rallenta, si ferma. Tutto d’un tratto trema, si sente fradicia di sudore o di nebbia, il cuore enorme le ostruisce la gola, la soffoca. Il rumore di una porta che si apre. “Vieni qui” sussurra una voce femminile. Ottavia si volta, vede una donna. La segue in un cortile. Due ragazze si affacciano da una finestra e rientrano in fretta, una gallina si avvicina arruffando le piume. “Cosa fai qui?” sussurra la donna, torcendo il grembiule con le mani. “Non sai che ci sono i fascisti in giro?” “Sto soltanto andando in chiesa” ribatte Ottavia. La gallina la fissa con gli occhietti gialli. “Ah, lo immagino” dice la donna. “Ma hanno arrestato don Carlo stamattina, dopo la messa. Ci sarà una rappresaglia, lo sai, moriranno trenta persone – e solo Dio sa se saranno partigiani o gente qualunque.” Ottavia resta in silenzio. “Io so chi sei, mio figlio fa parte del gruppo del Moro. Ti ho visto un giorno che gli ho portato da mangiare, quei capelli rossi non si dimenticano facilmente. Per questo ti ho chiamato dentro: devi andartene, hai idea di cosa fanno alle donne arrestate?” “Lo so. Mi hanno avvisato stamattina, ma non so se gli altri… dimmi il nome di tuo figlio, così lo convinco ad andarsene. In dieci minuti posso essere da lui, so correre veloce.” 47


La donna scuote la testa. “Non hai capito. C’è stata una retata, hanno preso tutti. Anche il mio…” la sua bocca assume una piega amara. Ottavia tentenna per un attimo, gli occhi sbarrati, poi comincia a indietreggiare. “Devi scusarmi, io… suppongo che ci siano cose che devo sistemare prima che… capisci bene, dei documenti…” Camminando all’indietro riattraversa l’arco scuro dell’ingresso. Il sole è scomparso, la nebbia ora è azzurra e densa, come un blocco di ghiaccio posato sulla strada. Ottavia distoglie lo sguardo dalla donna, si volta e comincia a camminare. Si tasta i fianchi, cerca la pistola. Si sente disperatamente nuda. Apre la porta con le dita intirizzite, entra e compie tre giri di chiave. Lungo la strada è riuscita a mantenere il controllo e non si è mai voltata, ora sente le spalle piene di nodi, una rigidità che urla colpevole. Si massaggia le braccia, sale le scale. Chiude a chiave la porta del corridoio, quella della camera da letto. Si inginocchia davanti alla stufa, accende il fuoco. Resta china sullo sportello aperto finché il calore non le fa tremare le ciglia e le secca gli occhi, poi attraversa la stanza, si dirige verso l’armadio. La scatola è nascosta sul fondo, incassata nel legno. Ottavia la tira fuori e la preme sullo stomaco, torna davanti alla stufa e si siede sul pavimento, le gambe distese. Resta immobile per ore, aspettando da un momento all’altro le urla, i colpi sulla porta. Quando verranno, lancerà la scatola nel fuoco: i fascisti perderanno tempo a sfondare le porte, i messaggi cifrati, le mappe e le fotografie bruceranno. Perché? Il pensiero ha una voce tanto estranea da farla sussultare. Perché dovresti bruciare tutto? Non ti hanno ancora trovato, esci e porta questo materiale alla squadra di Tempesta. È notte, non ti vedranno. 48


Ottavia scoperchia la scatola. I foglietti sono di una carta impalpabile, tremano al suo respiro. Quando ha concluso, la scatoletta è piena di sigarette sottili. Ottavia la richiude, prende una scatola di fiammiferi, infila tutto nel taschino della camicia. Sopra indossa un paio di pantaloni di suo fratello – troppo larghi, le fanno pizzicare le gambe – e un maglione. Infila un giaccone, lega i capelli in una coda di cavallo, li nasconde sotto un berretto. Apre la porta della camera, attraversa il corridoio. Esce dal retro, attraversa il giardino nero, si arrampica sul muro di fondo. Per un attimo resta a cavalcioni, le mani già fredde, e guarda la luce cupa che viene dalla sua stanza. Ascolta i rumori della campagna, poi si lascia scivolare giù. “Santo Cielo, cosa fai qui?” Il viso della donna sembra dilatarsi per il terrore. Assomiglia a una luna piena. Ottavia si avvicina al fuoco. “Sono uscita di nascosto. Giuro che me andrò presto” mormora strofinandosi le mani. “Oh, santo Cielo… sei stata una stupida a uscire stanotte, ci sono pattuglie ovunque. Come hai fatto a non vederle?” “Sono passata per i campi. So essere silenziosa, quando voglio.” “Incredibile. Be’, stanotte resti qua, ho un posto per te. Domattina andrai dove vuoi.” “Di giorno non incontrerò nessuno, devo aspettare il buio per incontrare gli uomini di Tempesta.” La donna si blocca, si aggrappa allo schienale di una sedia e si abbassa. “Vai da loro? Non ti è bastata l’esperienza con il Moro? Li ammazzano domani… anche il mio bambino” balbetta. Ottavia infila la mano sotto il maglione, mostra la scatola. “Ci sono delle informazioni importanti qui” mormora, chinandosi 49


sulla donna. Lei si copre il volto con la mano, poi torna a guardarla. “Come vuoi. Ti mostro il posto per te” dice raddrizzandosi. Prende una candela, le fa strada fino alla mansarda. Spalanca una botola: tra i cumuli di fieno c’è uno spazio libero. Ottavia si arrampica e si accuccia lì. Dice: “Grazie”, ma la donna se ne è già andata. * Si sveglia sentendo un urlo. Scende di corsa, la mano premuta sul petto per tener ferma la scatola, e trova la casa deserta. Esce in cortile con le ginocchia che tremano e sbattono l’una contro l’altra. Mi hanno tradito? pensa con il batticuore. Sta arrivando la polizia? Va verso la strada e all’improvviso si rende conto di non poter eliminare la scatola, nel caso la fermassero. Vorrebbe tornare indietro, invece continua a camminare sotto la nebbia che si attorciglia e pesa come una nuvola scura. Oltrepassa la chiesa e il canaletto, e si ferma. Il plotone ha preso posto sulla piazza, sei uomini in piedi e sei inginocchiati. Hanno i moschetti puntati. I condannati sono allineati contro il muro della scuola. La frase PRIMO ESEMPIO! cola vernice rossa sulle loro teste. Due hanno una sigaretta fra le labbra, un ragazzino piange scrollando le spalle, un uomo tiene la testa dritta. Ottavia lo conosce: è il Moro. Il plotone spara. Gli uomini si contorcono in modo strano, quasi offeso, prima di cadere. Le pallottole fanno scoppiare l’intonaco sul muro. Il comandante si fa avanti con il braccio teso, la pistola nel pugno, e spara altri due colpi. Ottavia si volta, lo stomaco in subbuglio, e torna nel suo rifugio. La sua ospite rientra poco più tardi, un po’ barcollante. Ottavia si fa 50


avanti, la prende per un braccio, la fa sedere accanto al fuoco. Lei resta in silenzio, la testa bassa, le mani abbandonate in grembo, poi bisbiglia: “Tu hai conosciuto mio figlio?” Ottavia si accovaccia davanti a lei. “Forse sì. Qual era il suo nome di battaglia?” “Fulvio.” Rivede un ragazzo alto, con i capelli neri e le spalle strette, le mani insicure intorno al mitra. “Sì, l’ho conosciuto” risponde piano. La donna annuisce. “Prima di andarsene mi ha guardato. Non ha versato neanche una lacrima.” “È stato coraggioso.” “Devi avere ancora un fucile qua” dice alla sera, fermandosi davanti alla donna. Lei corruga la fronte. “Cosa te ne fai? Non sei una staffetta?” replica. Ottavia non batte ciglio. “Lo sono stata, anche se non era ciò che volevo fare.” “E cosa volevi fare? Ammazzare gente? Hai mai visto com’è?” “Sì, stamattina.” Un silenzio gelido scende tra loro. La donna esce dalla stanza. “Ecco qua.” Ottavia si volta: la donna le porge un fucile e una cintura di munizioni. Lei allunga la mano e lo afferra per la canna. Il ferro freddo la fa quasi rabbrividire. Mette l’arma a tracolla e prende le munizioni; la cintura le cade storta attorno ai fianchi. “Ora posso andare” commenta. Si dirige verso la porta, la donna la segue. “Aspetta un attimo. Presentiamoci, prima che tu te ne vada. Io mi chiamo Carla, e tu?” 51


“La squadra del Moro mi chiamava Airone perché ho gli occhi grigi, ma non credo che sia il nome adatto a me. Voglio il nome di un vento, magari Libeccio o Grecale…” “Maistràl” sussurra Carla. “In dialetto.” Ottavia si illumina. “Maistràl. Sentirai ancora parlare di me” promette, toccandosi il berretto con due dita. Accenna un saluto, poi apre la porta e scivola via. Incontra la vedetta di Tempesta su un ponticello di mattoni. Intravede la sagoma dell’uomo contro il cielo stellato, sente il tintinnio della tracolla mentre le punta addosso il fucile. Ottavia solleva lentamente le mani e si toglie il berretto. La coda si srotola e le ricade sulla schiena. L’uomo si avvicina. “Airone?” Maistràl. “Sono sorpreso. Pensavamo che la squadra del Moro fosse stata… be’…” “Sono sfuggita alla retata. Dov’è Tempesta? Devo consegnargli il materiale.” La sentinella si gratta la testa. “Sta andando verso la caserma Sereni, hai presente? Un sopralluogo per farla bombardare. Non torneranno prima dell’alba, credo.” L’uomo inclina il polso, cerca di leggere l’ora alla luce delle stelle. Ottavia si guarda attorno, scuote la testa. Il pensiero di passare altre ore con quelle informazioni arrotolate sul petto la agghiaccia. Deve raggiungere Tempesta e lasciare la scatoletta a lui. “Credo che li raggiungerò sul posto” decide. La vedetta si stringe nelle spalle. “Come vuoi, ma cerca di non fare casino.” 52


Ottavia fa un passo indietro e un sorriso minuscolo. Raddrizza le spalle, inspira a fondo: sente già una morsa nello stomaco, il cuore che accelera. Le gambe si induriscono, i muscoli tremano. Fa un saltello, e comincia a correre. Tempesta e i suoi sono distesi in un avvallamento. Ottavia li prende alle spalle, correndo sulle punte, un’eccitazione azzurra la riempie fino alla punta delle dita. “Sono Airone” dice fermandosi. Gli uomini rotolano sulla schiena e la fissano, i mitra puntati su di lei. Ottavia si abbassa, cerca di scacciare l’idea della sua pancia bucherellata dai proiettili. Tempesta le fa spazio. “Felice di vederti. Pensavo che la squadra del Moro-” “Lo so. Non so chi altro sia rimasto. Sono qui per darti i documenti della vecchia squadra.” Estrae la scatoletta e la scatola di fiammiferi, si accuccia in fondo alla fossa e ne accende uno. Con gli altri che fanno schermo, passa i messaggi a Tempesta. Lui li srotola, li legge: la sua faccia si fa sempre più pallida, gli occhi si accendono. “Merda! Perché questo biglietto ce l’avevate voi? Sono due settimane che cerchiamo di accordarci con gli inglesi! Quegli infami della Sereni continuano a spostarsi tra tre complessi, bisogna bombardare a colpo sicuro! Merda!” “Sì, ma che dice il biglietto?” chiede un uomo. Tempesta risponde sventolandoglielo in faccia. “Che stasera sorvolano l’area, se gli facciamo capire dove devono andare bene, sennò cambiano bersaglio! E noi continuiamo a morire come cani! Con il sangue dei partigiani ci laverem le mani, eh? Il Moro” sbotta rivolgendosi a Ottavia “non ti ha detto di portarlo a noi?” Lei scuote la testa. “Mi ha detto soltanto di nasconderlo.” “Comunisti del cazzo.” 53


Ottavia osserva la caserma, un blocco nero. “Non accendono le luci” commenta. Tempesta grugnisce. “Non sono mica stupidi. Sanno che se Pippo li vede è la fine.” Lei annuisce e appoggia il viso a terra. Sanno che se Pippo li vede… se Pippo li vede… non accendono le luci… Le parole si rincorrono e lei si sente attraversata dal brontolio di un tuono. Punta i gomiti e le ginocchia nel terreno, si mette carponi. All’inizio aveva freddo, ora brucia. Con un dito allarga il maglione, con la manica si asciuga la fronte. Si volta verso Tempesta, con le labbra intorpidite sussurra: “Tempesta, io credo…” quando da sud si alza il ronzio dell’aereo. Ottavia afferra un mitra e salta in piedi. “Airone, ma che fai?” Si volta. “Non chiamatemi Airone, io sono Maistràl, sono il vento, sono veloce come il vento.” * “Noi non mettevamo in dubbio il coraggio delle ragazze, sia chiaro, ma per fare la staffetta, non per combattere come noi e meglio di noi. Invece nella mia squadra c’era una donna, che con il nome di Airone faceva la staffetta per il Moro, e che era scampata alla strage di V. Con noi invece si chiamava Maistràl, maestrale. Correva più veloce di Pippo, l’aereo, aveva due gambe lunghe che la portavano via in un attimo. […] Quella prima notte io non capii cosa stesse facendo finché non sentii le scariche di mitra: stava colpendo i muri, le finestre… per scatenare un incendio, forse. Fatto sta che alla fine qualcuno accese una luce – evidentemente non ne poteva più di quei colpi – e Pippo piombò lì. Mi ricordo ancora le fiamme che vidi quella notte! L’esplosione più bella 54


di tutta la guerra! Ci avvicinammo e Maistràl se ne stava lì, davanti all’incendio, con il viso che era tutta un’ombra. La chiamai e lei si voltò di scatto, i capelli rossi sembravano una fiamma nell’aria, e ci guardava con due occhi d’acciaio…” [Testimonianza di Vittorino Zanella, detto “Tempesta”, in occasione del 50° anniversario della strage di V.]

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Lo spartiacque di Eva Luna Mascolino

Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Mio papà, quando parla, dice sempre Mi sono permesso di… per annunciare che ha fatto qualcosa. Per esempio, dopo che ha bussato alla porta della mia classe lo vediamo entrare e dire: Mi sono permesso di passare a salutarla, signor maestro. Oppure a casa, dopo che è tornato dalle compere, mormora alla mamma: Mi sono permesso di comprare due uova in più per stasera. Lo dice per educazione, ovviamente. Ora, però, questo permesso gliel’hanno tolto per davvero. Ci sono parecchie cose che da qualche giorno mio papà non può fare più. Non può portarmi a scuola, né tornare dal solito macellaio. Non può parlare con il maestro e soprattutto non può rivolgere la parola ai soldati. In verità non sono sicuro che siano dei veri soldati, perché non fanno la guerra contro nessuno e sono semplicemente in giro per la città. Forse sono dei poliziotti speciali, ecco, e solo i cittadini più bravi hanno il diritto di salutarli. In realtà credevo che anche il mio papà fosse una brava persona. Un mese fa, per il decimo compleanno mio e di Sveva, ha invitato tutti i vicini, è andato a ritirare una torta al cioccolato a due strati dal pasticcere e ha anche dato un bacio sulla bocca alla mamma alla fine della festa. Sembrava che piacesse a tutti, il mio papà. Qualcosa, però, deve avere pur combinato, perché ora la gente lo guarda con occhi diversi. I permessi che gli hanno tolto sono uguali pure per noi della famiglia, per cui ora è un problema anche per me, che fra 56


due giorni dovrei ripetere al maestro la lezione di geografia. Mi consolo un po’ perché so che alcuni compagni sono nella nostra stessa situazione. Me l’ha confidato stamattina la mamma, spiegandomi che anche Carletto e Giovanni non si presenteranno all’interrogazione. Sveva ha chiesto se Miriam e Betta ci sarebbero state, ma la mamma non ne era sicura e ha scrollato le spalle con un sospiro. – Se ci comportiamo meglio ci faranno tornare in classe? – ho incalzato. – Non dipende da voi. – Io devo ancora recuperare la verifica di matematica, mamma. – Per ora non preoccupartene. Tanto, neppure il maestro sarà a scuola per un po’. – Anche il suo papà si è cacciato nei guai? – No, non c’entra il suo papà… – Allora di chi è la colpa? – Di nessuno, in realtà. Il maestro era innamorato di un altro maestro e ora nessuno dei due può tornare al lavoro. – Ai maestri è vietato innamorarsi di altri maestri? – Fino ad ora non era vietato, però adesso le cose stanno cambiando. È da stamattina che ci rimugino, ma solo quando ho scritto questo episodio nel mio diario mi è venuta un’idea nuova. Ho raggiunto la mamma in cucina, dove stava preparando il pranzo, e ho sentito Sveva seguirmi zitta zitta con il suo fumetto ancora in mano. – Mamma – ho detto piano – la colpa non è di papà, vero? – La colpa di cosa? – Di tutti i permessi che ci hanno tolto. – Certo che no, tesoro! – Sono i poliziotti speciali a essere cattivi, ci scommetto. – Poliziotti speciali? 57


– Quelli che camminano con il fucile sulla schiena. – Ah, quelli… – È per colpa loro che non si può tornare a scuola? – Diciamo di sì, Guido. – E quando se ne vanno questi poliziotti? – Vorrei proprio saperlo. – Ce l’hanno con noi perché siamo nati gemelli? – No, Sveva. – E allora? Si sono arrabbiati anche con qualcun altro della nostra sezione, però non con tutti… – Sì, il fatto è che hanno preso di mira solo gli ebrei. – Che vuol dire ebrei, mamma? – Io di sicuro non sono ebrea. Sono già una bambina grande. La mamma per poco non si è bruciata la lingua assaggiando la pasta e sentendo la frase di Sveva. – Facciamo così – ci ha proposto. – Ne parliamo meglio quando siamo a tavola insieme a papà, va bene? – A proposito, dov’è papà? – Stamattina ho sentito che gli era arrivata una lettera da un gruppo di fascisti. – Fascisti è una parola che non esiste! Avrai capito male, Sveva – l’ho canzonata. – Invece ha detto proprio così: un gruppo di fascisti. Sono dei dottori, mamma? – No, tesoro. Ve lo spiega meglio papà appena rientra, va bene? È andato dal signor Mario a informarsi su quella lettera lì. Qualcuno vorrebbe farlo cacciare dall’azienda e lui sta cercando di difendersi. Io e Sveva ci siamo guardati. – Significa che sarà licenziato? – Non lo so, Guido. È una situazione complicata. 58


Ho smesso di parlare e mi sono seduto sulla poltroncina con la testa rivolta verso la finestra. Se papà avesse perso il lavoro, di sicuro la domenica non ci avrebbe più accompagnati a giocare con Tommaso e Caterina in Piazza Unità. Non avremmo più preso il gelato prima del tramonto e non saremmo andati a salutare la nonna prima di rincasare, perché lui sarebbe stato sempre triste e avrebbe smesso di volerci bene come prima. Forse avremmo anche dovuto cambiare casa, andare in una più piccola e più lontana dalla scuola. Sarebbe cambiato il maestro, sarebbero arrivati altri bambini al posto di quelli vecchi che ora i poliziotti speciali non volevano più. Magari pure Sveva e io saremmo stati buttati fuori e avremmo dovuto fare gli esami in un altro istituto. In quel momento Sveva è corsa verso l’ingresso: era arrivato papà. Ha preso in braccio mia sorella ed è entrato a grandi passi in cucina. – Com’è andata? – si è subito informata la mamma. – Devo discuterne meglio con l’avvocato, domani. Nel frattempo Mario mi ha fissato un appuntamento da quel sindacalista, Tozzi, hai presente? – E l’ingegnere? – Mi riceve oggi pomeriggio alle quattro. – Speriamo bene… Papà ha fatto scendere Sveva e ha tirato fuori dalla tasca un pacchetto. – È un regalo per noi? – ho quasi gridato. – Il regalo per voi arriverà stasera, questo è per la mamma. La mamma ha aperto la bocca e ha preso il pacchetto fra le mani. – Non dovevi, Nuccio… Che cos’è? Io e Sveva ci siamo stretti intorno a lei, cercando di capire se si trattasse di una scatola di biscotti, o magari di caramelle. Invece no, era un libro. Umberto Saba, Trieste e una donna. Chissà se avremmo dovuto impararlo a memoria e recitarlo davanti a Gesù bambino per Natale. 59


L’ultima volta che avevo chiesto informazioni su un libro era successo sul serio, perciò non ho appositamente aperto bocca. – Nuccio… – ha mormorato la mamma con gli occhi lucidi. – Dobbiamo resistere, Teresa. È così che si combatte contro questa gente. – Contro che gente, papà? – si è intromessa Sveva. Papà non ha fatto in tempo a rispondere. Hanno suonato forte alla porta e qualcuno ha urlato qualcosa con un tono cattivo. La mamma per lo spavento ha fatto cadere il libro per terra e papà è corso al campanello, mentre io e Sveva aprivamo di nascosto la busta col pane per mangiarne una fettina finché era ancora caldo.

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Ronzio di Riccardo Fabiani Poggiò di fretta il cappotto, e si lasciò sedurre dalla sedia bisunta. Aveva smesso da tempo di cercare il senso del lavoro che andava facendo lì, e neppure sapeva se tutto quel ronzio giovasse al suo udito, ma era certo di una cosa: preferiva stare lì, che fuori sotto la neve. Cominciò a sfogliare una delle liste che imbiancavano il suo tavolo. Due vuote finestre screpolate, stipate di nomi che ormai riconosceva; era divenuto abile, e per ingannare il tempo, cercava le radici comuni dei cognomi, raggruppandoli tra loro: forse sarebbero stati felici Moishe e Moishela di trovarsi lì insieme, o forse no. Ricopiava nomi, e sebbene non trovasse piacevole passare tutto il suo tempo alla scrivania, sentiva di essere un eletto, un moderno Mosè. Accidenti, Mosè era ebreo. Beh, poco importava ora. Alzava lo sguardo, lanciandosi oltre le betulle, immaginando la città, e le strade, e il ronzio. L’aveva avvertito la prima volta un paio di anni prima, ricordava quando, e quel maledetto pasticcere non voleva lasciarci andare via, Stern, si chiamava, e voleva farci pagare, noi avevamo i soldi, ma lui ne aveva sicuramente di più, ebreo: abbiamo rotto una vetrina, e lui ha cercato di fermarci, ma eravamo già lontani. E arrivò il ronzio: sembrava provenire dal cielo, e dalla terra, anche, e investiva le strade, i palazzi, la luce, e la gente, ah, la gente non sembrava più la stessa, dopo, era diversa, non tutti, ma tanti, e noi pure, e poi sapevi chi sentiva il ronzio, ti bastava guardar loro negli occhi, perché chi non sentiva aveva paura. 62


Non l’aveva più abbandonato da allora, e quando usciva dai cancelli, lo sentiva nelle facce dei colleghi, ai ricevimenti lo ascoltava nelle divise. Non si era mai chiesto se quel ronzio fosse giusto, o sbagliato, ma gli permetteva di lavorare, e di avere una bella macchina, e di portare Sylvia a cena con tutta quella gente importante; certo, sapeva che qualcosa non andava, ma spingersi troppo oltre poteva essere pericoloso, tanto più che lui era seduto al caldo, e invece tanti suoi compagni… uomini che rincorrevano cani che rincorrevano uomini. Uomini? Nomi, nomi... riprese a scrivere: Schmidt, Schmel, STERN, pasticcere. Sorrise compiaciuto, mentre il ronzio si trastullava con la sua coscienza.

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Inabissarsi di Raffaella del Litto Parlami di questo posto In cui ogni cosa ha un senso Di questo rigore che leggo nei tuo occhi Mentre sistemi abilmente parole come scatole cinesi Spiegami come hai costruito questa fortezza E quanti “no” hai dovuto ingoiare misti a una buona dose di amarezza E dimmi, è in questo spazio presidiato dalla tua sofferenza, che conservi la chiave per rinchiudermi nel tuo tormento? Sarai lì ad aspettarmi con sembianze d’uomo? mi inviterai a salire o at-tenderai il mio scalciare forte, questo senso di impotenza che mi preclu-de l’arrivo in questa nuova partenza? Chissà se un senso comune prima o poi ci aiuterà a tirare su quella rete d’indifferenza prima che lo faccia per noi la sorte, che buona o cattiva produrrà ancora morte. Intanto potrai guardarmi aggrappata a quella ripida parete che hai eretto nei giorni in cui eravamo in quiete o fermarti a pensare, nei tuoi na-scondigli di vergogna, di aver scovato un luogo dove un piacere c’è a farmi la guerra o dove un abbraccio troppo forte avrebbe potuto far ca-dere anche te nei miei abissi e invece sulla riva sono approdato solo, morto a me stesso e a quella vita di cui hai ritenuto che non fossi degno, quella terra promessa senza testimoni, in cui a parlare erano i tuoi stessi demoni… qui fuori forse mi avrai tenuto anche a distanza, lì dentro, le tue catene ti hanno mescolato a me senza alcuna creanza.

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Sans titre di Shaana de Santis

Eco lontana Di doloroso fiato. In ginocchio, Ci prostriamo. Succubi e piangenti. Per vergogna Congenita. Generazione di perdenti, Memori della colpa, Desolati nella voce. Ingenui?

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Pas en Libye (Mai più in Libia) di Giusy Sciacca Sono una donna, sono viva. Miracolo e condanna, tortura e speranza. Maltrattata e indegna ninfa fuggo dalle umide braccia dell’oblio e invano cerco la pace oltre l’infinito. Pas en Libye, pas en Libye… Mai più in Libia… Respiro. Ho occhi. Stralunati, spalancati per ingoiare l’inferno del mio passato e l’ignoto del mio futuro; nei miei occhi affonda la ferocia della violenza, il livore dell’ignoranza, il deserto delle coscienze. Nei miei occhi si inabissano, disattesi e urlanti i sogni dei fratelli puntando il sole fino all’ultima falange. Naufragio di sorrisi bianchi e innocenti. Io sono lo sguardo della pietà e del dubbio che bussa ai fondi delle cantine esistenziali. Pas en Libye, pas en Libye… Mai più in Libia… 68


Sussurro. Sono viva e mai abbastanza, ventre incompiuto e umiliato lungo il mio solitario viaggio di martire senza croce né chiodi. Non abbastanza fradicia, impaurita, tremante, rattrappita. Viva. Sono una donna e sono viva, poco o troppo, non importa già più. Pas en Libye, pas en Libye… Mai più in Libia… Imploro. Ho un volto. Ho un nome. Josefa.

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris



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